Suárez “italiano”, che truffa: “Non spiccica una parola”

Il “pistolero” del Barça, Luis Suárez, era a un passo dalla Juventus, ma non parlava una parola di italiano. Eppure in meno di dieci giorni era quasi riuscito a ottenere la cittadinanza, condizione necessaria per essere tesserato da comunitario (il solo modo per ingaggiarlo in questo momento) grazie a un esame di lingua farsa. Solo l’intervento del Var, impersonato dai pm della Procura di Perugia Paolo Abbritti e Gianpaolo Mocetti, è riuscito a scoprire il bluff. Un esame organizzato a tavolino dal rettore dell’Università per stranieri Giuliana Grego Bolli, dal dg Simone Olivieri, dalla docente Stefania Spina, dal responsabile del centro di valutazione linguistica Lorenzo Rocca e dall’impiegata Cinzia Camagna. Tutti indagati di rivelazione di segreto e falso ideologico, mentre Suárez e la Juventus (che secondo i giornali della scorsa settimana avrebbe “organizzato tutto”) risultano estranei all’inchiesta. Secondo l’accusa, avrebbero informato in anticipo il giocatore dei contenuti della prova, organizzando una “seduta di esame ad hoc”, in modo da “blindare l’esito favorevole” per il del certificato di lingua italiana di livello B1.

Un’inchiesta della Gdf era quando ci si è imbattuti nelle conversazione che parlano di Suarez. Per trasferirsi alla Juve ha bisogno della cittadinanza, il club non può più tesserare extracomunitari. Pur essendo sposato con l’uruguaiana Sofia Baldi, cittadina italiana da parte dei nonni, Suarez non ha il passaporto italiano, né quello spagnolo. Per ottenerlo, come prevede la legge Salvini, deve superare la prova di lingua.

A preparare il candidato è la dottoressa Spina, tifosa bianconera, come si evince dal suo profilo Twitter.

Il 12 settembre, Spina (intercettata) spiega che Suarez deve essere promosso. “Hai una grande responsabilità, perché se lo bocciate ci fanno gli attentati terroristici”, le dice il suo interlocutore. “Ma te pare che lo bocciamo”, risponde la docente che aggiunge: “Per dirtela tutta, oggi ho chiamato Lorenzo Rocca che gli ha fatto la simulazione dell’esame e abbiamo praticamente concordato quello che gli farà l’esame! Quindi, guarda, fagli scegliere ’ste due immagini”.

Qualche dubbio sorge prima dell’esame. “Oggi c’ho l’ultima lezione e me la devo preparare perché non spiccica ’na parola” dice la Spina. “Oddio” replica l’uomo al telefono. “E far passare due ore di lezioni con uno così non è facile”, risponde la docente. “E che livello dovrebbe passare questo ragazzo, B1?”, domanda l’uomo. “Non dovrebbe, deve, passerà, perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare perché non ha il B1”, dice la Spina. Poi aggiunge: “Considera che è un A1, è un A1 pieno proprio, non coniuga i verbi, non coniuga i verbi”. Dall’altra parte della cornetta, il suo interlocutore se la ride: “Non c’è speranza”. “Parla all’infinito – spiega la Spina –, vabbè comunque queste sono cose che è chiaro che fai, glielo fermi per il B1 cittadinanza? Cioè, voglio di’, fa ridere no?”

Sulla prova si confrontano l’esaminatore Rocca e la Grego Bolli. “Allora lui si sta un po’ memorizzando le varie parti dell’esame”, spiega Rocca. “Ma infatti è questo. Deve essere un binario, ecco!”, risponde la rettrice.

“Esatto, l’abbiamo stradato bene – aggiunge Rocca –, su quel binario lì. Il discorso è che comunque, sul verbale non ho problemi a metterci la firma perché in commissione ci sono io e mi assumerà la responsabilità. Il mio timore qual è, che poi tirando tirando, esce, i giornalisti fanno due domande, in italiano e la persona va in crisi. Quindi un po’ di preoccupazione ce l’ho perché è una gatta da pelare, come si fa, si fa male”.

Il buon esito viene raccontato da Rocca all’Ansa: “Si è visto che il candidato si è impegnato. A livello d’ascolto non ha avuto alcun tipo di difficoltà. Comprende bene la nostra lingua e nel parlato comunica, si fa capire ed è chiaro”.

Persino il voto era stato stabilito. L’impiegata Camagna parla chiaro: “Io lo faccio già preparare, ma io devo attendere l’anagrafica, quando una volta che si è inserito, io posso già metterci il voto. Mi dici tu che voto ci do e via”. “Brava – risponde Rocca – Mettici il minimo”. “Tre” risponde la Camagna. “Brava, perfetto”, sentenzia Rocca.

Sicilia, oltre 10 milioni per gli ospedali Covid ma i nuovi posti letto sono ancora a zero

Mentre settembre porta a Palermo un allarmante rilancio del coronavirus, con quattro morti in sole 24 ore, la sanità siciliana sembra soffrire di un altro virus, l’“annuncite”: dei 40 posti letto in terapia intensiva previsti “sulla carta” all’Ismett, l’Istituto mediterraneo dei trapianti, non è certo che saranno attivati neanche i 10 annunciati dall’assessore regionale, Ruggero Razza, per i quali, nonostante i 9 milioni di euro già incassati per l’acquisto di attrezzature per l’emergenza Covid, l’ospedale avrebbe chiesto alla regione ben 20mila euro al giorno. Non solo. Anche l’Imi, l’ospedale che fa capo al Policlinico riconvertito per l’emergenza Covid, a dispetto degli annunci non riaprirà i battenti, nonostante un milione e mezzo di euro già spesi in restauri e attrezzature: “Non è adatto”, ha sostenuto il manager in una conferenza stampa.

È la denuncia, dai profili borderline con il codice penale, del sindacato dei Medici ospedalieri Cimo che mette in guardia dai rischi di una nuova improvvisazione delle strutture sanitarie di fronte alla potenziale ripresa del lockdown: “Nell’assenza totale di programmazione – dice Angelo Collodoro, vicesegretario del Cimo – con la scomparsa del Comitato tecnico scientifico assistiamo a nuove pagine del libro dei sogni dei posti letto, simbolo di una risposta politica segnata da demagogia. Dal lockdown precedente non abbiamo imparato nulla, e oggi ci chiediamo: chi ha autorizzato, fin dal giugno scorso, la spesa di questi fondi che di fatto non sono serviti a nulla?”. È l’indizio, per il sindacato dei medici, che negli uffici dell’assessorato di piazza Ziino, si navighi a vista nella gestione della prossima, potenziale, emergenza: “Se 30 posti letto di Medicina, 20 di pneumologia, e 20 di malattie infettive all’ospedale Civico si stanno convertendo per fare posto al pazienti Covid, dove andranno i malati con altre patologie?”, chiede Collodoro, che segnala un’identica emergenza sempre al Civico, costretto, con una delle due terapie intensive destinata alle patologie Covid, a dirottare altrove i malati critici: “Forse a Villa Sofia – si chiede Collodoro – già super ingolfata?’’. In un contesto in cui l’altro ospedale del comprensorio, il Cervello, perde il pronto soccorso pediatrico per una chiusura temporanea per lavori di manutenzione: medici e infermieri, denuncia il Cimo, con una decisione “assai discutibile, di sospetta illegalità” sono stati dirottati dall’assessore Razza all’ospedale privato San Raffaele Giglio di Cefalù, dove, nonostante i contratti offerti, non si è riusciti a trovare nessuno disposto a lavorare nel reparto di neonatologia.

Conte difende le sue scelte sui Servizi

Fine delle polemiche. Anche se la destra al Copasir lo aspettava con il fucile spianato. Per contestargli la modifica della legge sulle nomine dei servizi segreti che gli consente di rinnovare più di una volta i vertici degli 007 italiani entro la durata del loro mandato. Elio Vito (Forza Italia) ha sollevato perplessità sulle modalità dell’interventismo del presidente del Consiglio Giuseppe Conte che prima ha usato lo strumento del dpcm (finito sotto la lente di ingrandimento delle Corte dei Conti) per allungare di un anno l’incarico di Mario Parente all’Aisi e poi ha infilato una apposita norma sulle nomine nel decreto che proroga lo stato di emergenza Covid. Ma a rinfocolare la polemica è stato il vicepresidente del Copasir, Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), che al premier ha contestato la volontà di tenere sotto scacco attraverso lo strumento delle mini-rinnovi i capi dell’intelligence così privandoli della necessaria tranquillità. Con l’orecchio attento alle osservazioni dei commissari ma anche alle code polemiche del fuoco amico pentastellato (alla Camera 50 deputati del M5S avevano chiesto di cancellare la norma) Conte ha difeso il suo operato spiegando che la novità legislativa serve per dare continuità ai servizi chiunque sia l’inquilino a Palazzo Chigi: nessun secondo fine. Semmai per fugare ogni polemica “intervenga il Parlamento per fissare la durata minima delle proroghe dei vertici dell’intelligence”. Richiesta di cui si trova traccia anche nel comunicato di fine audizione del Copasir che auspica proprio l’intervento delle Camere “in uno dei prossimi provvedimenti, in uno spirito di collaborazione che non può e non deve mancare in un ambito così rilevante e significativo per il Paese, quale la sicurezza della Repubblica”. I commissari chiedono anche di aggiornare la legge sugli 007, superando logiche emergenziali o contingenti, per “adeguarla all’evoluzione del quadro istituzionale e alle nuove minacce per la sicurezza”.

Calci all’arrestato a Milano: agenti sotto inchiesta

Un tentato furto nella notte in una gioielleria, l’inseguimento per le vie di Milano, l’arresto di due pregiudicati italiani di 44 e 46 anni e ora un’inchiesta della Procura sul comportamento dei poliziotti intervenuti. Almeno uno di loro, infatti, avrebbe agito con violenza ingiustificata secondo le immagini pubblicate da Fanpage.it. È stata la stessa polizia a consegnare il video dopo la denuncia della madre di uno degli arrestati.

Nel filmato si vedono i due bloccati a terra dagli agenti, intenti a metter loro le manette. Da una volante scende un poliziotto che si avvicina a uno dei fermati e, dopo avergli detto qualcosa, gli sferra quattro calci all’altezza della testa, protetta dal casco integrale. Poi l’agente viene allontanato da un collega. Dopo l’ammanettamento un secondo poliziotto si avvicina al medesimo fermato e, dopo essersi complimentato con un agente che lo tiene fermo a terra, tira un paio di schiaffi al presunto delinquente che non ha più alcuna possibilità di nuocere.

Secondo la Questura i due erano stati sorpresi alle 4,13 della notte da una volante, uno in moto e l’altro intento “a forzare la saracinesca di una gioielleria ubicata al civico 14 di via Marghera”. Dopo un lungo e inseguimento contromano, i due sarebbero caduti “impattando contro un marciapiede” e “hanno tentato – scrive la polizia – di sottrarsi all’arresto dimenandosi con calci e pugni, sferrati nei confronti dei poliziotti”. Un agente “ha riportato ‘frattura piatto tibiale laterale ginocchio destro e trauma distorsivo tibio-tarsica’ con prognosi di 30 giorni ed un secondo agente ‘contusione mano destra’ con 10 giorni di prognosi”. Per gli arrestati “‘contusioni multiple’ con prognosi di 5 giorni”.

Gli arresti sono stati convalidati. Davanti al giudice uno ha taciuto, l’altro ha negato la reazione: “Mi sono venuti addosso e mi ha colpito con calci e pugni. Non è vero che ho reagito”. La Questura promette che “saranno valutati con rigore i profili disciplinari”.

Il boss Pasquale Zagaria torna in carcere: fine dei “domiciliari Covid” della discordia

Per il Tribunale del Riesame di Sassari doveva stare ai domiciliari. Per il Riesame di Brescia, Pasquale Zagaria, boss del clan dei Casalesi, può ricevere le doverose cure in un penitenziario. E così, ieri, è tornato in carcere, di nuovo al 41-bis, firmato dal ministro Bonafede su richiesta della Dda di Napoli e della Dna. Si trova a Opera, Milano, il carcere indicato dal Dap. Da aprile era a casa su concessione del Riesame sardo che, per evitargli il rischio Covid, lo aveva mandato dalla moglie, nel Bresciano, in piena zona rossa. A giugno, in seguito al decreto anti-scarcerazioni, i giudici hanno dovuto rivalutare la decisione: hanno lasciato a casa Zagaria e spedito il decreto Bonafede alla Corte costituzionale. Nel frattempo, il fascicolo è stato trasmesso a Brescia per competenza. Secondo il giudice lombardo, Zagaria non poteva restare ai domiciliari perché “il profilo medico sanitario appare, in tutta evidenza, tranquillizzante. Le condizioni cliniche sono compatibili non solo con la carcerazione, ma soprattutto con il rispetto del diritto alla salute del detenuto”.

Tutti in ospedale: solo pochi rinforzi a chi gestisce i test

“Quando ci sarà un caso positivo non lasceremo mai soli insegnanti, presidi, personale scolastico”, diceva Roberto Speranza il 9 settembre a Palazzo Chigi parlando della riapertura delle scuole. L’obiettivo del ministro: “Ricostruire una relazione organica tra il Servizio Sanitario Nazionale e il sistema scolastico”. Ora gli istituti hanno aperto i battenti da oltre una settimana con il loro altissimo potenziale di diffusione del virus. Cos’hanno fatto le Regioni, cui è affidata la gestione della sanità, per evitare di ripiombare nell’incubo dell’emergenza Covid-19? Non molto: quelle più colpite nella Fase 1 hanno continuato a potenziare gli ospedali, specie al Nord, investiti dall’ondata peggiore, e non le strutture territoriali che quella piena avrebbero potuto arginare attraverso il contact tracing e l’isolamento tempestivo dei positivi.

Con il piano varato a marzo il governo aveva promesso 23 mila assunzioni nel Servizio sanitario nazionale. Secondo i dati forniti dal ministero della Salute aggiornati all’11 settembre, ne sono state fatte 31.763 tra medici, infermieri, operatori socio-sanitari, tecnici di laboratorio e altre categorie vitali per combattere il SarsCov2. La Regione che ha preso più rinforzi è la Lombardia con 5.026 nuovi ingressi, ma solo 340 sono stati indirizzati sulle Ats, le agenzie di tutela della salute a cui fa capo la medicina territoriale. Gli altri 4.560 sono stati destinati alle Asst, a cui fanno riferimento le strutture ospedaliere. Emblematico il caso di Milano. Nell’Ats della città metropolitana (il solo capoluogo conta 1, 4milioni di abitanti) i rinforzi sono appena nove: sei infermieri, due medici specialisti e uno specializzando. In Piemonte l’integrazione è stata di 2.501 unità. “Queste persone sono andate principalmente negli ospedali, che erano sotto pressione e andavano rinforzati – spiega Carlo Picco, direttore del Dipartimento interaziendale malattie ed emergenze infettive della Regione – poi alcune sono state dirottate sull’area territoriale. Ora abbiamo detto a tutte le Asl di riportare quanti più risorse possibili nelle strutture diffuse, proprio in vista della ripartenza della scuola”. Ovviamente non basta: “Stiamo facendo un bando per rinforzare gli organici sul territorio: 450 posti tra medici, infermieri e amministrativi, 61 destinati alla città di Torino”. Il problema è che non sempre si riescono a coprire le posizioni: “C’è una carenza di professionisti sul mercato – prosegue Picco – a causa dei blocchi delle assunzioni e della scarsa programmazione del passato. Anche le Rsa stanno assumendo molto”. Ma è anche una questione economica: “Si tratta di posti a tempo determinato, quindi per natura poco attrattivi”.

Anche in Liguria si denunciano carenze. Nella Asl della provincia di La Spezia, colpita con più forza dalla seconda ondata, “sono stati assunti 9 infermieri su almeno 35 posti scoperti”, denuncia Assunta Chiocca, segretaria locale del Nursind. La penuria di personale manda poi in crisi le cosiddette “GSat”, le squadre che eseguono i tamponi, che non riescono a coprire il fabbisogno. Anche la loro analisi va a rilento: “La macchina che abbiamo potrebbe farne 500 al giorno, ma il personale basta per lavorarne 200 scarsi”.

La storia non cambia neanche nelle Regioni risparmiate dalla prima emergenza. Nel Lazio da marzo sono arrivate 2.995 persone di cui 752 medici e 1.341 infermieri. Di questi, solo 316 sono finiti nelle Unità Speciali di Continuità Assistenziale, le postazioni mobili che raggiungono i focolai e gestiscono i casi a domicilio. Così “il 3 settembre la Regione ha pubblicato un bando per le scuole per altri 500 posti – spiega il coordinatore Pier Luigi Bartoletti – e a breve avremo altre 1.200 unità, 400 medici e 800 infermieri che si sono resi disponibili su base volontaria. Quando saranno operativi?: “Appena saranno stati addestrati e avremo i guanti e le mascherine per lavorare in sicurezza. Spero entro metà di ottobre”.

Diversa la scelta dell’Emilia-Romagna, che inserito quasi 5mila nuove unità cercando di potenziare il territorio. Nell’azienda sanitaria di Piacenza, una delle aree più colpite, ne sono arrivate 377, ed è previsto un ulteriore incremento (fino a 100 infermieri) per la rete territoriale. Oltre 1.400 le assunzioni in Romagna (tra cui 108 medici e 820 infermieri): al laboratorio di microbiologia di Pievesestina (Cesena) sono già stati destinati 24 camici bianchi in più.

In Calabria, che non ha conosciuto ondate, la Regione ha innestato 552 professionisti, tra cui 100 dottori e 271 infermieri. Quanti nelle Usca? Solo 17 medici.

Scuole: 315 casi, 50 chiusure e tanti ritardi

Una notiziola al giorno, magari in un giornale locale, non troppo urlata perché sotto controllo: è la fenomenologia dei contagi nelle scuole a una settimana dalla prima campanella. Nei ministeri non si contano i casi o non si rendono pubblici i dati. Eppure ci sono: in almeno 315 scuole si è registrato un caso di positività al Covid-19, con una media di circa 20 nuovi casi al giorno per i primi tre giorni e poi oltre 55 nei tre successivi. “E lunedì, nonostante molte scuole facessero da seggio elettorale, ne abbiamo trovati circa 60”, spiega Lorenzo Ruffino, studente di Economics a Torino che, insieme a Vittorio Nicoletta, dottorando in sistemi decisionali in Québec, ha avviato il monitoraggio che non c’è. Hanno raccolto in un database tutti i casi di cronaca (raccontati dai media) di positività nelle scuole e li hanno elaborati a livello statistico. “C’è una tendenza in aumento. Gli studenti” si contagiano “nel 76% dei casi”, i prof nel 13%. I restanti riguardano o altro personale oppure soggetti non ancora identificati (bisognerebbe tornare a verificare l’aggiornamento, operazione in corso in queste ore). La scuola primaria è la più esposta, con il 27% dei casi. Seguono le superiori con il 25%, la scuola dell’infanzia con il 23% e le medie nel 16%. “In diverse occasioni, circa 50 casi, la scuola coinvolta è stata chiusa del tutto per alcuni giorni – spiega Ruffino –. In circa 200 eventi no, ma nella maggior parte dei casi si è proceduto a mettere in quarantena classe e docenti”.

Le notizie arrivano soprattutto da Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Piemonte e Veneto ma, spiegano i due ricercatori, il fatto che le fonti siano non “ufficiali” fa sì che possano esserci molti casi nascosti, soprattutto nelle città. Senza contare che al sud la scuola non è ancora iniziata. “La stampa locale è molto più attenta – spiegano – mentre su territori più vasti è più difficile. Anche perché ufficialmente dai presidi sanitari non arriva nessuna informazione”. Oscure anche ai giornali, invece, le modalità con cui si procede. Le indicazioni dell’Istituto superiore di Sanità prevedono che lo studente venga isolato in una stanza con un adulto e che parta la segnalazione alle autorità sanitarie e ai genitori. Poi scattano contact tracing, quarantena e tamponi. Invece, spiega Ruffino, “tra Regioni si fanno cose diverse, ma anche tra le stesse Aziende sanitarie locali”.

All’istituto superiore Savoia Benincasa di Ancona hanno identificato uno studente asintomatico ma positivo prima che entrasse in aula. “Sono stata immediatamente contattata da una dottoressa del dipartimento di prevenzione che me lo ha notificato. Ho attivato il flusso di comunicazioni, ovvero l’invio di una intervista per sviluppare l’indagine epidemiologica per i contatti stretti sia a scuola che fuori”, spiega la dirigente Alessanda Rucci. A scuola, le Marche individuano i compagni di classe o i docenti che sono venuti in contatto col caso fino alle 48 ore precedenti la scoperta della positività e si procede. “Avevamo gli elenchi di tutti gli studenti con anagrafici, cellulare, posta elettronica e genitori. Sono stati contattati via cellulare, poi abbiamo notificato via mail lo stato di isolamento domiciliare”. tutto nel giro di poche ore. La scuola non è stata chiusa ma sono stati isolati la classe e cinque docenti.

Non sempre, invece, le aziende sanitarie danno risposte rapide, almeno per quanto riguarda il tampone. “Se io e mio marito avessimo atteso l’Ats forse saremmo ancora in isolamento”, racconta Tiziana Piras, di Milano, madre di due bambine di 8 e 2 anni e mezzo. “La più piccola, che va all’asilo, la sera del 16 settembre aveva la febbre – racconta–. Il mattino dopo ho chiamato il pediatra, che ha fatto la segnalazione all’azienda sanitaria. Li ho sentiti solo lunedì , cioè 4 giorni dopo, quando mi hanno telefonato per prendere un appuntamento”. Nel frattempo la signora aveva già fatto il tampone all’ospedale San Carlo. “Per l’esito ho dovuto attendere comunque 5 giorni – prosegue –. È stata un’odissea, durante la quale siamo stati costretti tutti a rimanere chiusi in casa”.

Uno dei problemi principali è il tempo necessario a processare i test. I 28 tamponi a bambini e personale del nido “Raggio di Sole” a Sanremo – dove venerdì si è scoperto positivo un bidello – sono sono stati eseguiti solo lunedì, con il risultato atteso per oggi. Stesso quadro a Ventimiglia, dove i contagiati sono due: una maestra elementare (scoperta mercoledì 16) e una studentessa delle medie (giovedì 17). Tra le due classi sono 31 gli studenti in isolamento. Il sindaco Gaetano Scullino assicura che a tutti è stato fatto il test, ma a quasi una settimana dal primo caso non c’è traccia del risultato.

E tra la paura dei contagi e le risposte delle analisi che tardano ad arrivare basta poco per scatenare il panico. Agli insegnanti di un istituto comprensivo di Roma nord i risultati dello screening sierologico eseguito sono arrivati dopo 16 giorni: i prof avevano già iniziato le lezioni, poi due di loro sono risultati positivi e solo ieri negativi al tampone. “Colpa di un mancato allineamento informatico che ha complicato le procedure per alcuni istituti”, spiegano dalla Asl Roma 1. Ma tra i presidi della Capitale la tensione è palpabile. Nelle discussioni interne c’è chi lamenta di avere un’alunna che ha fatto il tampone e di avere tutta la classe mandata a casa prima di saperne l’esito. C’è chi ribatte che non si può continuare così: “Da me la classe è rimasta a scuola fino alla conoscenza dell’esito”. Ci si lamenta con le Asl che al telefono dicono cose a caso generando panico. “Sarà un anno terribile” il commento sconsolato di una preside.

Il leghista beffato: “Ci rifaremo grazie alle liste civetta”

L’altra faccia triste del Papeete è a Lesina, Puglia, provincia di Foggia e vista sul mare del Gargano. Qui c’è la grande tenuta di Massimo Casanova, patron papetiano, amico fraterno di Salvini e depositario delle fortune della Lega pugliese. Un collaboratore di Casanova era il candidato unico – unico! – alla carica di sindaco della città, ma non è riuscito lo stesso a vincere le elezioni: serviva il quorum del 50%+1 dei votanti, sono mancate una cinquantina di preferenze. Lui si chiama Primiano Di Mauro, malgrado la disavventura conserva il buonumore: “Non è che fossi convinto di vincere, diciamo che ero cautamente ottimista”.

Signor Primiano, la Lega non ci ha fatto un figurone. Salvini diceva: “Abbiamo già eletto un sindaco”.

Ma sì… secondo me era più un auspicio.

Un auspicio benevolo.

Questo ci differenzia dagli altri partiti, la Lega è come una famiglia. Salvini viene sempre a darci una mano.

Com’è possibile che a Lesina, oltre a lei, non si sia presentato nessuno?

Hanno fallito. Io avevo fatto una grande operazione con gli amici del centrodestra, un bel listone con dentro tutti… Forza Italia, Fratelli d’Italia… avrei potuto anche fare una lista solo della Lega e avremmo eletto 12 consiglieri, senza opposizione.

Un listone unico come ai tempi del Duce.

Eheheh. A oggi, grazie a Dio, credo che tutti possano presentare una lista entro le scadenze elettorali.

Lei era collaboratore stretto di Massimo Casanova?

Ci lega un semplice rapporto di amicizia.

Però gli faceva quasi da portaborse durante la campagna per le elezioni europee…

Ero il suo mandatario in campagna elettorale, diciamo.

Una sola lista, di Casanova… non è che siete diventati un feudo, il “Papeete di Puglia”?

Eheheh, lo dicono molti. Ma non creda. In lista avevamo personalità importanti, come l’avvocato Biscotti di Forza Italia, l’ingegnere Pezzicoli di FdI…

Nomi pesanti.

Poi è chiaro che Casanova è un valore aggiunto per le sue capacità imprenditoriali. È un grande amico di Salvini. Ha un’azienda agricola e delle proprietà sul nostro territorio.

Sono state visitate anche della Guardia di finanza…

Le posso dire serenamente che c’è stata una verifica, ma si è risolta in una completa assoluzione, nessun abuso edilizio.

Ora che succede a Lesina? Quando riuscirete a darle finalmente un sindaco?

Ci riproviamo a maggio. Ci sono tanti giovani coinvolti in questo progetto, lunedì hanno versato qualche lacrimuccia.

Correrete ancora senza avversari?

Mi auguro di no. Perché a questo punto per noi sarà semplice presentare una lista satellite.

Ah! Una lista civetta!

Stavolta nessuno ci potrà accusare di fare un gioco sporco.

E finalmente sarà sindaco. Prima cosa faceva?

Sono sceso in campo direttamente con Salvini, dopo aver fatto un corso di formazione a Milano, alla scuola di Armando Siri. Per il resto sono un geometra libero professionista, un imprenditore di discreto successo nell’ambito dell’edilizia.

È così che ha conosciuto Casanova?

Ma no, l’ho conosciuto a Lesina. Con una passeggiata nel bosco.

Il bivio delle Comunali 2021: spartizione ed effetto-Liguria

Scampato il pericolo e chiusa con l’insperato pareggio la partita delle Regionali, è tutto un ripetere che non si faranno più gli stessi errori, che la prossima volta si arriverà più preparati all’appuntamento, che nulla sarà come prima. Ma un po’ come per tutte le promesse che cominciano “da lunedì”, anche sui buoni propositi dei giallorosa arriverà presto il verdetto della realtà. Qualche mese, non di più: tempo che arrivi la primavera 2021 e con lei le elezioni nelle principali città italiane. Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna: cinque sfide che valgono quanto le Regionali appena concluse. Città che al momento, Napoli esclusa, sono tutte amministrate dalla maggioranza di governo e su cui i giallorosa – per primo Luigi Di Maio – promettono intese e alleanze che scongiurino il rischio di regalarle al centrodestra.

Per ora siamo ancora alle chiacchiere. Anzi, se possibile anche meno: basti pensare a quello che sta avvenendo nella Capitale, dove la sindaca uscente, Virginia Raggi, si è candidata al secondo mandato, non proprio per la gioia di tutti i Cinque Stelle. O meglio, i cosiddetti big le hanno dato il via libera, il voto su Rousseau pure, ma in Campidoglio sono all’ordine del giorno le riunioni dei consiglieri contrari al bis, così come quelle per intavolare una trattativa con il Pd per “dare ordine al percorso”, come dicono al Nazareno. Lì, Zingaretti e i suoi considerano Raggi “un macigno” da rimuovere. E chiedono all’area di governo di “fare un ragionamento in cui ognuno ridimensioni le proprie ambizioni”. Ragionamento, va detto, che include anche le autocandidature dem, a cominciare da quella di Monica Cirinnà.

Ma quella di Roma è una partita che non viaggia sola. E ovunque il bivio è lo stesso: spartire i posti (per dire, Milano al Pd, Torino ai 5Stelle e così via) oppure trovare nomi terzi? Anche la risposta è identica dappertutto: la spartizione è complicata, ma il rischio di ripetere quello che è successo in Liguria è ancora più alto (il candidato unitario Ferruccio Sansa sconfitto dal centrodestra di Giovanni Toti, ndr). Per questo, in particolare nel Pd, non escludono la necessità “di candidare qualcuno che abbia il marchio Pd o quello Cinque Stelle”. Il problema è che il marchio 5 Stelle al momento ce l’hanno la Raggi (che i dem non vogliono) e Chiara Appendino che aveva già annunciato di non volersi candidare e ora è anche fresca di condanna a sei mesi per falso ideologico. Lo stesso vale per l’ipotetica candidatura di Max Bugani a Bologna (“è inviso alla base e il Pd non mollerà mai quella città”, dicono tranchant dal Movimento). Figuriamoci a Milano dove i Cinque Stelle non hanno particolari figure di riferimento e dove ancora non è sciolta l’incognita sulla ricandidatura di Beppe Sala. Di lui si sa che è stanco e che vorrebbe fare altro (il Fatto ha raccontato del suo colloquio con Beppe Grillo per la guida della società pubblica che si occuperà di fibra, ndr). Ma non è nemmeno escluso che, in assenza di alternative valide, il Pd possa pregare il sindaco uscente di restare al timone. Quanto al Movimento, che in Lombardia soffre parecchio il romanocentrismo, già arriva l’appello a “non soffocare la voce della base in nome di trattative di governo – spiega il consigliere regionale Dario Violi –, qualsiasi scelta deve partire dai territori: i partiti seri fanno così”.

Ma il voto di domenica e lunedì stringe anche su Napoli un nodo molto intricato da sciogliere: perché qui ci sono gli appelli e le aperture del ministro Luigi Di Maio, che in Campania è di casa, così come ci sono gli annunci del segretario del Pd locale Marco Sarracino su un’intesa che sarebbe già in lavorazione: dall’altro ieri il Pd è tornato primo partito con il 17 per cento dei voti ed è pronto a riconquistare un ruolo nelle trattative. Ma la straripante vittoria di De Luca alle Regionali preannuncia che il governatore vorrà far pesare sul tavolo i numeri delle sue liste civiche, la cui somma raggiunge le cifre dei dem. Ci sarà più di un candidato? Il segretario dem Marco Sarracino già esclude l’ipotesi di passare per le primarie. “Non le sappiamo fare, come insegna quel che è successo nel 2011 e nel 2016, chi le vuole inquinare le inquina, e poi una classe dirigente deve recuperare il coraggio di saper scegliere, senza delegare ad altri”. Ecco, sarà qui che si vedrà se le promesse “da lunedì” reggeranno alla prova dei fatti.

CampaniaI al test a Pomigliano: “governo” avanti al primo turno

Ci sono tutti gli elementi per studiare il caso Caivano e vedere se è ripetibile altrove in futuro: in questa grande e problematica città della provincia di Napoli di quasi 40mila abitanti, l’unico comune in tutto il paese dove Pd, M5s e Italia Viva si sono alleati, e persino con il simbolo, il loro candidato sindaco Vincenzo Falco ha infatti vinto al primo turno sfiorando il 52%.

Impresa che non è riuscita al papirologo Gianluca Del Mastro a Pomigliano d’Arco, la città del ministro Luigi Di Maio, che ha puntato su di lui per scalzare il centrodestra berlusconiano uscente. Il professore Del Mastro, sostenuto da dem e pentastellati, ma con Italia Viva schierata (senza simbolo) in appoggio alla rivale azzurra Elvira Romano, si è fermato al 42%. Si prospetta un ballottaggio all’ultimo respiro, con Di Maio impegnato in prima persona sul suo territorio per piantarci la bandierina del MoVimento. Dalla cerchia dell’ex capo politico dei 5S circolano rumors – smentiti da fonti di Italia Viva – sull’intenzione dei renziani di cambiare cavallo tra due settimane, e votare Del Mastro. In assenza del simbolo di Iv sulla scheda, una eventuale ‘alleanza’ al secondo turno non avrà bisogno di essere certificata da un apparentamento ufficiale.

Torniamo a Caivano, dove la lettura della scheda elettorale fotografa un centrosinistra allargato al M5s molto più ampio dell’alleanza che regge il governo Conte. A sostenere Falco, infatti, c’erano sette liste tra le quali – oltre ai dem, ai pentastellati e ai renziani – comparivano i simboli di Articolo 1, dei Verdi e persino del Campanile di Clemente Mastella sotto le spoglie del simbolo ‘Noi Campani’, lo stesso utilizzato sulla scheda delle elezioni regionali per appoggiare Vincenzo De Luca. “Sono contento che in tutti i Comuni dove ci sono le coalizioni andiamo al ballottaggio – sottolinea comunque Di Maio in conferenza stampa da Pomigliano – è un segnale per il futuro. Abbiamo unito e condiviso le forze e siamo al ballottaggio. Ci sono Comuni, come Caivano, dove abbiamo vinto al primo turno. Adesso lavoriamo per farci sostenere al secondo turno”.