Nessuno supera il 50% Crolla Falcomatà a reggio

Nessuno dei candidati ha superato il 50% dei voti e in Calabria, nei due capoluoghi di provincia, si andrà al secondo turno. Sarà ballottaggio, infatti, sia a Crotone che a Reggio. Le procedure di spoglio vanno a rilento e in tarda serata ancora manca il dato ufficiale. Tuttavia non c’è dubbio sul fatto che si tornerà alle urne tra due settimane. Nella città di Pitagora, dove il Pd non ha presentato la lista, si prospetta uno scontro tra il centrodestra che ha sostenuto la candidatura di Antonio Manica (41,78% dei voti) e il candidato civico Vincenzo Voce (36,18%). Il centrosinistra, orfano dei simboli dei partiti nazionali, si è fermato invece a poco più del 17%.

Con ancora una sessantina di sezioni da scrutinare, l’unica cosa certa a Reggio Calabria è il ballottaggio tra il centrosinistra, che al Comune ha riproposto l’uscente Giuseppe Falcomatà del Pd, e il centrodestra che ha candidato l’ex dirigente generale della città metropolitana Antonino Minicuci, scelto dalla Lega.

Rispetto al 61% del 2014, Falcomatà ha perso 25 punti percentuali ma con il 36,16% dei voti è comunque primo. Con le urne ancora aperte, Minicuci si è fermato al 34,14% dei voti. Terza e fuori dai giochi con il 13,57% è arrivata l’ex assessore comunale Angela Marcianò. Le liste che l’hanno sostenuta hanno preso la metà dei suoi voti e questo sembra far pensare che l’ex componente della direzione nazionale del Pd (nominata da Renzi ma oggi appoggiata dalla Fiamma Tricolore) abbia goduto del voto disgiunto. Soprattutto di quello proveniente dal centrodestra che ha mal digerito l’imposizione di Minicuci da parte di Salvini. Più staccati, invece, gli altri sette candidati compreso quello Movimento cinque stelle, Fabio Foti, fermo al 2,41% che rischia di restare fuori dal Consiglio comunale.

“Mi pare del tutto evidente che si arriverà a un ballottaggio. Queste erano le indicazioni dei sondaggi”. È stato il commento di Falcomatà secondo cui “nei prossimi 15 giorni, città dovrà scegliere Reggio Calabria oppure la Lega nord. Questa è la partita. Noi siamo aperti a tutti. Non ci sono più le coalizioni, ma c’è la città”.

 

Brugnaro rivince e rivendica: “Sono come Zaia”

Luigi Brugnaro, riconfermato sindaco di Venezia, si paragona a Luca Zaia. Non a caso, durante la campagna elettorale, pur non essendo leghista, ma esponente di una lista civica color fucsia di centrodestra, si era fatto fotografare assieme al popolare governatore del Veneto, lanciando agli elettori un messaggio di continuità. Quando lo spoglio si stava concludendo e la vittoria dell’imprenditore era ormai confermata, è arrivata la sua dichiarazione: “Ha vinto il popolo veneziano – ha detto – con la grande alleanza con il presidente Zaia, che saluto perché abbiamo una grande affinità da molti anni. Credo che qui a Venezia si sta riproponendo una situazione analoga: vince il partito del fare, il partito della concretezza”. Gli exit poll davano già lunedì pomeriggio Brugnaro lanciato verso la conferma al primo turno. Infatti, ha raggiunto il 54 per cento dei consensi, lasciando al 29 per cento lo sfidante di centrosinistra, il sottosegretario Pier Paolo Baretta. Cinque anni fa la rimonta di Brugnaro sull’ex magistrato Felice Casson era sembrata uno strappo della storia, visto che Venezia è sempre stata appannaggio dei democratici. In cinque anni l’imprenditore che abita a Mogliano Veneto, è titolare del gruppo Humana e presidente della Reyer, la squadra di basket che nel 2019 ha conquistato il suo quarto scudetto, ha consolidato una vasta rete di potere. La rielezione non è mai stata in dubbio. “Si conferma una strada a guida civica di centrodestra, ho sempre detto di non avere nessuna tessera politica di nessun tipo. La mia vicinanza è ai corpi intermedi e sindacali che vogliono discutere nel merito”. La lista fucsia ha vinto su tutto il territorio del Comune, aggiudicandosi anche tutte le presidenze nelle Municipalità. Ma nel centro storico Brugnaro è ancora considerato un corpo estraneo. Infatti, i sestieri di Venezia sono le uniche zone dove prevale la macchia rossa del centrosinistra. Ha invece vinto a Marghera e alla Giudecca, zone storicamente di sinistra. Gli sfidanti minori hanno raggiunto il 3-4 per cento appena, compreso il Movimento 5 Stelle che nel 2015 era arrivato al 12 per cento.

Amministrative, prove d’intesa Due sindaci vanno ai giallorosa

Il primo test nei Comuni dà una spinta all’alleanza Pd-M5S anche a livello locale. A fine giornata i quattro comuni su sei dove i giallorosa correvano insieme (le siciliane Termini Imerese e Barcellona Pozzo di Gotto andranno alle urne il 4-5 ottobre) portano in dote un successo: al primo turno vengono eletti Massimo Isola a Faenza (Ravenna) e Vincenzo Falco a Caivano (Napoli). Al ballottaggio andranno i candidati giallorosa a Giugliano con Nicola Pirozzi che parte in svantaggio rispetto ad Antonio Poziello di Italia Viva (34-38,5%) e a Pomigliano d’Arco, città natale di Luigi Di Maio: qui il candidato del ministro degli Esteri Gianluca del Mastro è in vantaggio di due punti sul Elvira Romano del centrodestra (41,9-39,5%). Va detto però che in questi comuni la coalizione è guidata dal Pd, primo partito da Faenza (33,9% contro il 4,5% del M5S) a Caivano (13,2% contro 4,5%). Solo a Pomigliano d’Arco il M5S è il primo partito con il 10,1% rispetto al 9% dei dem. Quanto basta per far esultare i due principali artefici dell’accordo. Luigi Di Maio spinge per gli accordi locali (“I cittadini italiani votando hanno dato un segnale premiando chi ha provato ad aggregarsi”) mentre il segretario dem Nicola Zingaretti esulta per la “forza decisiva del Pd”.

Allargando ai 18 capoluoghi di provincia in cui si è andati al voto, invece, tra centrosinistra e centrodestra è sostanziale pareggio: sui cinque sindaci eletti al primo turno, il centrosinistra conferma Amedeo Bottaro a Trani, Mattia Palazzi a Mantova mentre a Trento Andrea Ianeselli prende il posto dell’uscente Alessandro Andreatta. Il centrodestra invece conferma il sindaco Luigi Brugnaro a Venezia con il 54,1% contro Pierpaolo Baretta (29,1%) e conquista Macerata con Sandro Pancaroli dopo 20 anni di centrosinistra. Dei restanti capoluoghi che andranno al ballottaggio, il centrodestra è avanti in cinque comuni: a Chieti, Crotone, Lecco e Arezzo i candidati Fabrizio Di Stefano, Antonio Manica, Giuseppe Ciresa e Antonio Ghinelli sono in netto vantaggio sui propri sfidanti. A Matera invece Rocco Luigi Sassone è insidiato dal grillino Domenico Bennardi (30,3-27%): al ballottaggio potrebbe essere decisivo il voto degli elettori di centrosinistra che al primo turno avevano sostenuto Giovanni Schiuma fermatosi al 20,2%. Il candidati del centrosinistra partono in vantaggio invece a Reggio Calabria, Bolzano e Andria. Nel capoluogo calabrese, il sindaco uscente Giuseppe Falcomatà è leggermente in vantaggio su Antonio Minicuci (36,6-33,9%) mentre la partita si giocherà all’ultimo voto a Bolzano dove Renzo Caramaschi (sostenuto dal Pd, Italia Viva e Verdi) è avanti con il 34% contro il 33,1% di Roberto Zanin. Ad Andria invece tra due settimane si terrà l’inedità sfida tra la candidata del centrosinistra Giovanna Bruno (38,3%) e Michele Coratella del M5S (21,2%). A Fermo vince al primo turno il civico Paolo Calcinaro .

Tra i risultati degni di nota delle amministrative c’è Imola che, dopo due anni di governo del M5S, torna al centrosinistra con Marco Panieri eletto al primo turno mentre a Cascina, comune nel pisano governato da Susanna Ceccardi fino al 2019, si va al ballottaggio con il candidato di centrosinistra Michelangelo Betti avanti.

Nobili, l’ultimo stadio del renzismo

La maschera più efficace del renzismo devastato, annichilito, ridicolizzato da una serie clamorosa di errori e sconfitte, è il sorriso tondo di Luciano Nobili. La quintessenza della rimozione della realtà e della sopravvalutazione di sé: un trattato vivente sull’opportunismo e la hybris di un gruppo di politici che si sono arrampicati sul tetto del Paese senza nemmeno sapere come, e poi sono caduti all’improvviso, con la violenza di un temporale estivo.

L’altro giorno, mentre prendeva forma la definitiva umiliazione di Italia Viva, Big Luciano continuava stancamente a twittare la versione del capo: “Decisivi in #Toscana per la vittoria di @EugenioGiani: anche stavolta #Salvini lo abbiamo fermato noi”. Un’interpretazione surreale. Il partito di Renzi è irrilevante persino nel suo ex feudo: 4,5% è una cifra che lascia raggelati. Per fortuna c’è Ivan Scalfarotto in Puglia, 30mila voti in una regione da 4 milioni di abitanti: Iv prende l’1,1%. Un’impresa. Ma nulla turba Renzi e Nobili. Luciano è politico di razza, non ha mai fatto altro. È un grande incassatore: prende cazzotti a ogni elezione, ma si rialza senza colpo ferire.

Inizia da giovane rutelliano: nel 2008 è l’ideatore della “Lista civica under 30” per aiutare l’ex sindaco contro Alemanno. Rutelli perde. La lista di Nobili raccoglie un incoraggiante 0,7%. Altro giro, altra corsa: il giovane margheritino aderisce con entusiasmo al Pd. Diventa un dipendente del partito, regolarmente stipendiato. E continua a essere pagato dal Pd anche quando molla i dem per seguire “papà” Rutelli in Api. Ricordate l’Alleanza per l’Italia con Tabacci? Probabilmente no: esperienza non indimenticabile. Api fallisce presto, il giovane Nobili rientra fischiettando nel partito che continuava a pagargli lo stipendio.

Poi irrompe Renzi: per Nobili è un’epifania. Nel 2012 si mette dietro al toscano e scala le gerarchie. Prima è uno dei sicari che tagliano la testa a Ignazio Marino (2015, ultimo sindaco del Pd a Roma), poi è il brillante coordinatore della campagna elettorale di Roberto Giachetti contro Virginia Raggi (2016). Tanto per cambiare, una sconfitta clamorosa.

La sua fedeltà però è sempre ricompensata: nel 2018 Renzi lo infila in posizione blindata in un listino Pd del Lazio, Nobili viene catapultato alla Camera senza aver mai vinto un’elezione in vita sua.

Da allora si dedica soprattutto a Twitter. Lo fa con spessore. È esperto di necrologi: nel giorno della morte di Ennio Morricone lo omaggia con un video in cui il maestro è una comparsa e il protagonista è Matteo Renzi. Quando si tratta del povero Willy Monteiro, con innegabile buongusto, Nobili strumentalizza la tragedia per fare polemica contro il Reddito di cittadinanza.

Luciano è così: ha un ego grande come un pianeta, composto della stessa materia di Italia Viva. Nulla. Chissà se proverà a tornare di nuovo nel Pd: pure stavolta aveva continuato a prendere lo stipendio per mesi. Poi l’hanno licenziato.

Renzi esulta, ma fa flop pure nella sua Toscana

Con un po’ di fantasia ognuno può interpretare i numeri come vuole. Un 6 per cento a Firenze diventa “un dato straordinariamente positivo”, una percentuale da prefisso telefonico viene comunque ricondotta a “una battaglia di testimonianza generosa e bella”.

Di certo c’è che basta rileggere le dichiarazioni degli ultimi mesi di Matteo Renzi per capire che l’esordio di Italia Viva aveva tutt’altre premesse. E invece l’urna piange un po’ ovunque: in Toscana Iv prende il 4,5 per cento (spartito coi compagni di lista di +Europa e Azione), in Puglia l’1,1 per cento di Ivan Scalfarotto non mette in crisi neanche da lontano Michele Emiliano e in Veneto, Daniela Sbrollini finisce settima su nove, dietro persino al partito No Vax.

Eppure a sentire Renzi sembra un trionfo: “Essendo un partito appena nato, il giudizio è straordinariamente positivo. Trovatemi un altro partito che si candida per la prima volta a livello locale e ottiene i nostri stessi risultati”.

Sarà, ma pure spulciando risultati delle singole province emergono dati preoccupanti. In Toscana, dove Italia Viva gioca in casa, le cose non vanno bene neanche a Firenze, città dove fu sindaco Renzi. Qui il dato supera di poco il 6 per cento nella provincia e per trovare Iv in doppia cifra bisogna andare a Rignano, il paese di Matteo. Neanche Arezzo, centro del fu Giglio Magico, regala soddisfazioni, consegnando al partito un misero 3,64 per cento proprio mentre la città votava anche per il sindaco, senza però trovare sulla lista il simbolo di Italia Viva (che ha preferito non presentarsi).

Una realtà ben lontana da quanto Renzi annunciava all’inizio della campagna elettorale: “In Toscana puntiamo al 10 per cento”. Previsione già rivista al ribasso col passare dei mesi, quando l’obiettivo non dichiarato era prendere un punto in più dei 5Stelle (arrivati invece al 6 per cento) e poi, nelle ultimissime settimane, esser decisivi per la vittoria di Giani.

Niente di tutto questo: il candidato dem ha staccato Susanna Ceccardi di otto punti, nonostante già coi primi exit poll i renziani Francesco Bonifazi ed Ettore Rosato parlassero di “Italia Viva determinante” nello scarto tra i due candidati.

Dichiarazioni cui i dem hanno reagito con imbarazzo, tanto è vero che Simona Bonafè si è affrettata a sottolineare come il Pd abbia superato il 30 per cento “nonostante le scissioni di Azione e Italia Viva”, mentre oggi un big del partito regionale maligna: “Prima Renzi ci ha imposto il suo candidato, poi ha iniziato a martellare noi e il governo. Tutto questo nonostante avessimo rinunciato alle alleanze con M5S e sinistra per andare con lui”.

Ora la partita sarà quella della giunta, perché il dominio dem contribuirà a rinnovare ancor più il partito e la Regione mettendo ai margini la vecchia classe dirigente renziana, con la sola Stefania Saccardi a rappresentare i Iv negli assessorati.

Regge poco anche l’entusiasmo per la Valle d’Aosta, dove Renzi sbandiera un 8 per cento. Qui i rapporti di forza sono infatti molto condizionati dai partiti locali, spesso preferiti a quelli nazionali. Italia Viva ha sì ottenuto l’8 per cento, ma accodandosi in lista alla Stella Alpina, un partito di centro che è sempre stato in doppia cifra e che semmai quest’anno ha registrato il suo peggior risultato dal 2003.

Detto di Daniela Sbrollini, battuta dal partito No Vax del Veneto e inchiodata allo 0,6 percento, non può dirsi riuscita neanche la campagna pugliese. Qui Scalfarotto, in barba a tutti gli equilibri di governo, poteva mettere in crisi Emiliano regalando la vittoria alla destra di Raffaele Fitto. Uno scenario plausibile se Italia Viva avesse ottenuto un risultato anche solo sufficiente, ben migliore dell’1 per cento finale. Invece Scalfarotto resterà fuori dal Consiglio regionale al pari di Aristide Massardo, il candidato scelto in Liguria, dove più che una campagna contro il governatore Giovanni Toti Italia Viva si è impegnata a ostacolare Ferruccio Sansa, il nome unitario di Pd e 5 Stelle.

L’unica consolazione arriva dalla Campania, dove il boom di Vincenzo De Luca garantisce un 7 per cento anche ai renziani. Un risultato normale o persino negativo, ma visto il contesto c’è di che brindare.

“Ora servono le preferenze, accordo con le opposizioni”

“Adesso sulla legge elettorale dobbiamo dare ai cittadini la possibilità di scegliere…”. Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari costituzionali del M5S, è il padrino politico della legge elettorale sul modello tedesco approvata l’11 settembre e dopo il trionfo del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari, vuole dare una scossa alla maggioranza giallorosa anche sul sistema di voto. La nuova legge elettorale è uno dei motivi che hanno portato molti costituzionalisti, a partire da Lorenza Carlassare, a sostenere la riduzione degli eletti e adesso l’obiettivo del M5S è chiaro: “Approvare una legge con le preferenze”, dice sicuro Brescia.

Onorevole Brescia, a che punto siete con l’iter sulla legge elettorale?

Prima della chiusura delle Camere nella settimana finale della campagna elettorale per le Regionali e per il referendum, in Commissione ci siamo lasciati con l’intesa che avremmo trovato un accordo politico dopo il voto. E adesso, dopo l’esito molto positivo sulla riduzione dei seggi, bisogna accelerare, sia con la maggioranza sia con un accordo più ampio con l’opposizione.

L’accordo su cosa deve essere trovato?

L’impianto della legge elettorale va bene sia al M5S sia al Pd mentre LeU è contraria alla soglia del 5% perché vorrebbe abbassarla, mentre Italia Viva dice no al diritto di tribuna. Ma alla fine sono fiducioso che un accordo nella maggioranza si troverà: un punto di caduta potrebbe essere abbassare la soglia al 4%. Poi c’è il tema dell’abolizione delle pluricandidature e infine la legge elettorale deve dare la possibilità di scegliere i cittadini.

In che modo?

In primo luogo abolendo le liste bloccate e poi inserendo le preferenze. Come Movimento 5 Stelle ci stiamo battendo affinché i cittadini possano tornare a scegliere i propri rappresentanti per eliminare i nominati.

Ma il Pd è contrario, come farete?

Dovremo fare un lungo lavoro di ricamo e trovare un punto di caduta, allargando anche alle opposizioni: Fratelli d’Italia, per esempio, ha detto che è d’accordo con noi e che farà una battaglia per le preferenze. Anche Lega e Forza Italia dovrebbero essere a favore. Se lavoriamo bene, l’accordo può essere trovato.

E sulle altre riforme a che punto siete?

La riforma sul voto ai 18enni al Senato si può approvare abbastanza velocemente, entro l’anno, poi ci sono i correttivi Fornaro e infine la modifica dei regolamenti parlamentari, che però è in capo alla Giunta per il regolamento. Adesso è il momento di accelerare sulle riforme.

L’agenda Pd-5S per le riforme: correttivi e legge elettorale

Il giorno dopo il Sì al referendum, i giallorosa rilanciano su riforme e legge elettorale. “Il Parlamento vada avanti sulle riforme istituzionali – dice dritto Luigi Di Maio – ci vuole una legge elettorale che ci permetta di eleggere i nostri rappresentanti e che ci eviti i paracadutati nei collegi”. A stretto giro gli va dietro il segretario del Pd Nicola Zingaretti che propone un “patto per le riforme” per superare il bicameralismo perfetto, ma soprattutto approvare al più presto una nuova legge elettorale. Allo stato dell’arte, la madre di tutte le battaglie è proprio quella del sistema di voto: dopo l’approvazione in commissione del testo base del “Brescellum” – un proporzionale puro con soglia di sbarramento al 5% ma ancora le liste bloccate – la prossima mossa sarà quella di trovare un accordo politico all’interno della maggioranza. LeU e Italia Viva infatti si sono astenute in commissione perché contrarie, rispettivamente, alla soglia di sbarramento al 5% e all’impianto proporzionale ma una quadra su questi punti si dovrebbe trovare. Già ieri Matteo Renzi ha aperto al dialogo: “Non vediamo la proporzionale come la soluzione migliore, ma se la maggioranza la propone siamo disponibili a discutere, magari quella tedesca, con sfiducia costruttiva”, ha detto alla Camera. “Se vogliamo fare un proporzionale va bene ma facciamolo bene” gli fa eco Ettore Rosato.

Il vero accordo politico che rischia di spaccare la maggioranza riguarda proprio le preferenze: il M5S le vuole mentre il Pd per adesso nicchia. Il testo base sarebbe dovuto arrivare in aula a Montecitorio lunedì prossimo, il 28, ma slitterà in attesa dell’accordo di maggioranza. Magari cercando una sponda con le opposizioni, a partire da Fratelli d’Italia che si è detta favorevole nonostante la contrarietà a una legge proporzionale (“È una norma salva-inciucio” l’ha chiamata ieri Giorgia Meloni).

Parallelamente il Parlamento andrà avanti anche su correttivi e altre riforme costituzionali già in cantiere. Il calendario era stato già stilato ma sarà aggiornato dopo il voto referendario. Il primo vero correttivo in agenda è una conseguenza del voto: una volta che il presidente della Repubblica avrà promulgato la legge costituzionale, entro 60 giorni il governo dovrà approvare un decreto legislativo per ridisegnare i collegi elettorali. Poi dovrebbe essere il momento dell’equiparazione tra l’elettorato attivo delle due Camere. Dopo la prima lettura, l’aula di Montecitorio potrebbe approvare il testo senza modifiche per poi tornare a Palazzo Madama a dicembre ed entrare in vigore entro l’anno: è presumibile, infatti, che sul voto ai 18enni anche al Senato in seconda lettura la maggioranza dei due terzi ci sarà e non si dovrà tenere il referendum. Infine alla Camera arriveranno i due correttivi di Federico Fornaro: il superamento della base regionale del Senato e il riequilibrio dei delegati per eleggere il capo dello Stato. Oggi il presidente della Affari costituzionali Brescia stabilirà quanti degli 800 emendamenti delle opposizioni – molti dei quali ostruzionistici – sono ammissibili. Poi il Pd depositerà una proposta per superare il bicameralismo perfetto: “Le Camere in seduta comune potranno votare la sfiducia costruttiva e il bilancio”, spiega il dem Stefano Ceccanti (nella foto sopra).

Renzi spinge Zinga come vicepremier Ma lui prende tempo

Il rimpallo tra i due “vincitori” delle elezioni, Nicola Zingaretti e Giuseppe Conte, va avanti, a distanza, per tutto il giorno. Un gioco di sponda, per ora, il cui tasso dialettico è destinato a crescere. Il pallino ce l’ha in mano Zingaretti. Cosa esattamente intenda farne non è ancora del tutto chiaro. Un solo dato è certo: proseguirà lentamente, senza andare all’incasso. Tradotto: senza chiedere immediatamente un rimpasto di governo. Il suo interlocutore, Conte, d’altronde, per ora appare fermamente contrario. E anche se il fotogramma del momento, con un Pd che celebra la vittoria con l’ennesima conferenza stampa al Nazareno (e nota la sconfitta “clamorosa” della Lega) e un premier che appare rafforzato, mentre passeggia per le vie di Roma, assaggiando il proprio consenso, sembra immortalare la stabilizzazione del quadro, gli ostacoli sono dietro l’angolo. “Il problema è la tenuta dei Cinque Stelle”, ripetono esponenti del Pd di ogni ordine e grado. Ma anche in casa Dem le tensioni sono solo più sotto traccia.

Dopo l’election day, dice il segretario, bisogna “aprire l’agenda del fare con tre grandi cantieri”. Ovvero, “un patto per le riforme”, una “nuova agenda di governo” a partire dai decreti Sicurezza, il Recovery Fund e la sanità con il Mes e il “cantiere partito”.

La sua tempistica prevede che si parta dalla modifica dei decreti Sicurezza già nel prossimo Cdm. Almeno per questo primo passo, non ci dovrebbero essere problemi. Poi, è centrale la questione del Mes. Dice Zingaretti: “Speranza presenti un piano per la nuova Sanità italiana. Per avere la migliore sanità del mondo, che non è un sogno, si utilizzi il Mes”. Poco dopo, Conte, parlando con la stampa, utilizza lo stesso genere di argomentazioni. Che i due ne abbiano parlato nella telefonata di lunedì sera? “Le risorse finanziarie sono un problema successivo. Prima bisogna elaborare un piano per rafforzare la sanità, dopodiché andremo a vedere quanto costa questo piano. Sì Mes e no Mes è una questione pregiudiziale su cui non mi pronuncio. Se e quando si porrà il problema lo risolveremo in Parlamento”. Il premier resta sul “ni”, ma legare il piano sanità al Mes significa evidentemente un passo in avanti verso la richiesta dei 34 miliardi previsti dal Fondo. Anche perché il ministero della Salute un piano di massima l’ha presentato a Palazzo Chigi già il 13 agosto e Speranza sta lavorando per completarlo. Prevede spese per una sessantina di miliardi: difficile pensare che il governo possa dire no.

Non secondaria la tranquillità ostentata da Goffredo Bettini: “Convinceremo M5S”. E poi Conte qualcosa ai Dem deve cedere. Anche se il Pd sull’eventuale entrata di Zingaretti al governo è diviso. Non a caso, le quotazioni di tale ingresso immediato scendono dopo una riunione dei big dem. Si racconta che il segretario (che pur ribadisce “non rivendico un posto al governo”) sia fortemente tentato dal ministero delle Infrastrutture, più che dal Viminale, e dal ruolo di vice premier. Cosa che non piace a Dario Franceschini: il suo declassamento sarebbe evidente. A meno di non diventare presidente della Camera, sua antica ambizione, anche in vista di una candidatura al Colle.

Lo schema prevederebbe Roberto Fico candidato sindaco di Napoli. Un’ipotesi tutta da verificare. E allora al Nazareno hanno cominciato a dire che è meglio se “Nicola” non va al governo, che se lo facesse dovrebbe lasciare non solo la Regione Lazio, ma pure la segreteria. E mentre Matteo Renzi che ormai deve ricoprire il ruolo dell’alleato fedele si intesta l’apertura (“Se vuole, Zingaretti faccia il vicepremier”), l’interessato prende tempo. Con l’idea che forse il governo può condizionarlo più da fuori. Il mantra resta quello degli ultimi mesi: “Il governo va avanti se fa”. Intanto, i Dem proveranno a contare sul Recovery Plan, a stabilire una propria agenda di priorità per spendere i 209 miliardi. E poi una proposta per superare il bicameralismo perfetto sarà presentata nei prossimi giorni. Per quel che riguarda la legge elettorale, ufficialmente il Pd continua a lavorare per il proporzionale.

Ma a sentire Zingaretti qualche spia si accende: “Dopo le Regionali, le forze del governo sono al 48,7% e quelle del centrodestra al 46,5%”. Nei Palazzi si fa strada l’idea che un maggioritario premierebbe il ruolo di capofila del Pd. Zingaretti lancia pure un patto per il Quirinale. E lavora a rafforzarsi sul territorio: l’iniziativa di Piazza Grande è prevista entro la fine dell’anno. Da lì può partire un nuovo gioco. Una battuta di Conte fa alzare qualche antenna: “Non sono inamovibile”. Nel Pd la tentazione di provare a sostituirlo, comunque, si fa strada.

Zaia: un milione di voti per processare Salvini

C’è un episodio che fa capire molto del carattere di Luca Zaia. “Mi ha chiamato il ministro Francesco Boccia. Era per farmi i complimenti. Invece io gli ho detto: pensavo volessi darmi notizie sull’autonomia…”, ha raccontato lui stesso.

Questo per dire che il governatore veneto è uno che non molla mai, continua a battere sul tema che più gli sta a cuore: l’autonomia, appunto. Che, insieme al gradimento acquisito durante l’emergenza Covid, gli ha consentito non solo di essere rieletto col 76,8%, ma di arrivare con la sua lista al 45%, ovvero 915 mila voti, con la Lega che in tutte le 6 regioni ne ha ottenuti 1 milione e 237 mila. “Vinco perché governo e non vado per comizi”, le sue prime parole, suonate come una stoccata a Matteo Salvini. Che infatti non ha gradito.

I due non si sono nemmeno sentiti al telefono: congratulazioni via messaggio e stop. E se in superficie tutto viene edulcorato da frasi di circostanza come “la leadership del partito non m’interessa” (Zaia), sotto i coltelli volano come nei film orientali. Intendiamoci, per ora il “governador” non sfiderà il Capitano: gli basterà stare fermo e contemplare i suoi errori per accrescere consensi. Ma domani chissà. Potrebbero essere gli stessi leghisti a chiederglielo. “Al momento la leadership di Salvini non è in discussione. Ma c’è un dibattito interno e discutere fa sempre bene”, afferma Eduardo Rixi. Parole impensabili fino a qualche tempo fa, segno che qualche crepa nel monolite leghista si sta aprendo. “Nel partito si discute sul perché in Toscana si è andati così al di sotto delle aspettative…”, racconta una fonte del Carroccio. La sconfitta di Susanna Ceccardi brucia. “Questo è il risultato quando sul territorio hai gente senza appeal e senza voti”, fa notare il dissidente Gianluca Pini. Critico anche l’ex ministro Roberto Castelli. “Vero che la Lega è il primo partito, ma ha perso il 10% rispetto alle Europee…”. E nel mirino finisce pure il deputato Daniele Belotti, che da Bergamo è stato paracadutato a fare il commissario in Toscana.

Ma il Capitano è sotto attacco anche dall’esterno. Ieri, infatti, sono volati stracci tra Lega e FdI, con accuse reciproche. Secondo i meloniani, anche alla luce del voto in Emilia, in Toscana “bisognava scegliere una candidatura più inclusiva, in grado di intercettare quel malcontento che a sinistra era forte”. Insomma, Giani era battibile, ma non con la Ceccardi, magari con un nome della società civile, “un Guazzaloca della situazione”. Al contempo i leghisti si scagliano contro la scelta di Raffaele Fitto in Puglia. “Bisognava mettere in campo qualcosa di nuovo”, osserva Massimiliano Fedriga. Salvini lo sapeva, dato che nei suoi (pochi) comizi pugliesi non ha mai pronunciato il nome del candidato. “Emiliano è forte perché prende voti anche a destra e ha sfruttato l’emergenza Covid”, la replica di Fdi.

Fitto, però, nonostante la sconfitta porta a casa 8 consiglieri sui 9 eletti di FdI. Con molti maldipancia da parte dei meloniani pugliesi, rimasti quasi a bocca asciutta, nonostante i voti più che raddoppiati. E a far innervosire Giorgia Meloni ieri ci ha pensato pure Marine Le Pen, che ha fatto i complimenti a Salvini “per aver conquistato le Marche, bastione storico della sinistra”.

5S, Pd e “disgiunto”: gli elettori grillini si alleano nelle urne

Una tendenza al bipolarismo, dovuta in larga parte al sistema elettorale uninominale che vige per l’elezione dei presidenti di Regione. Un ricompattamento dello schieramento di centrosinistra contrapposto al centrodestra con sostanziale bilanciamento. E soprattutto, un forte impatto del voto disgiunto che, in realtà, si è trasformato in un voto diretto da parte del M5S verso i candidati del centrosinistra (con alcune sorprese e anche qualche deviazione verso la destra).

Questa la sintesi dei flussi elettorali registrati dall’Istituto Cattaneo, che ha offerto anche una prima lettura del voto referendario. In questo caso alla grande affidabilità del voto 5Stelle, all’80% favorevole al Sì, si accompagna una maggiore difficoltà del Pd che vota Sì (ma vedremo anche altre stime), una fuga di Forza Italia e una sostanziale conferma del voto leghista (con qualche eccezione importante).

L’analisi del voto alle Regionali è stata condotta in 8 città (Venezia e Padova in Veneto, Genova in Liguria, Firenze e Livorno in Toscana, Brindisi in Puglia, Napoli e Salerno in Campania) e analizza il comportamento dell’elettorato dei vari partiti dalle elezioni europee del 2019 alle Regionali: dove sono andati i voti di Pd, M5S, Lega, ecc.?

Le risposte sono diverse da regione a regione. Ma un punto fermo appare unitario: sono andati innanzitutto ai candidati presidenti più forti, la vera sorpresa di queste elezioni. Luca Zaia, in Veneto, attrae voti da tutte le forze politiche, anche il 18% dei voti del Pd a Venezia mentre dal M5S arriva addirittura il 72% dei voti di Padova (e infatti i 5Stelle non entrano in Consiglio regionale). Ancora più marcato il caso campano: il 70% degli elettori 5Stelle si trasferisce su Vincenzo De Luca a Napoli e la percentuale sale all’82% a Salerno. De Luca riesce ad attrarre anche il 63% dei voti leghisti a Napoli e il 72% a Salerno.

In Toscana i 5Stelle premiano più Giani che la loro candidata, Galletti: il 45% dei loro voti di Firenze va al centrosinistra contro il 33% alla Galletti mentre a Livorno la divisione è più equilibrata, 33 a 39. L’alleanza che i dirigenti M5S non hanno voluto fare nei territori è stata fatta dai loro elettori.

È successo in misura minore in Puglia dove il 20% dei voti 5Stelle converge su Emiliano e solo il 50% su Laricchia (mentre un 13% va a Fitto, che invece è votato solo dal 54% dei leghisti del 2019).

Nella regione dell’alleanza tra Pd e M5S, la Liguria, la fedeltà degli elettori non è stata compatta: a Genova ha votato Sansa il 75% dell’elettorato Pd mentre il 14% si è spostato su Toti e solo il 56% dei 5Stelle lo ha scelto contro il 38% che gli ha preferito il candidato del centrodestra.

Visto complessivamente, il voto restituisce una nuova contesa tra centrosinistra e centrodestra sostanzialmente in equilibrio: 41,2% per il centrosinistra e un 42% per il centrodestra con il 7,2% al M5S e il 3,4% ad “altri” (l’analisi si riferisce ai voti di lista). Nel 2019 questa comparazione dava il centrosinistra al 29,3%, il M5S al 19,5 e il centrodestra al 48,1. Il Pd con il 18,7% è il primo partito seguito dalla Lega al 13,1, da Fratelli d’Italia al 10 e dal M5S, quarto, con il 7,2%. Ultima Forza Italia al 5,1. Il trend di tutti i partiti è comunque in calo, solo Fratelli d’Italia schizza verso l’alto.

Ma come si concilia questo voto apparentemente più moderato, che premia candidati distintisi nell’emergenza Covid e candidati del centrosinistra? In realtà non si concilia con definizione frettolose. Sempre secondo l’analisi dell’Istituto Cattaneo, l’elettorato più fedele al Sì è stato quello del M5S e il più fedele al No quello di Forza Italia. Il Pd avrebbe votato Sì al 50% e il resto si è diviso tra il No e l’astensione. Secondo i dati di Opinio, però, il Sì del Pd si collocherebbe al 63%. Segno di una sofferenza, ma che non autorizza a bollare il sostegno al taglio dei parlamentari semplicemente come voto populista. Non corrisponde a quanto accaduto alle Regionali e nemmeno, ad esempio, al voto veneto che ha molto di populista, ma dove il No, con il 37,5%, è stato tra i più alti.