M5S, la crisi diventa guerra a tre: in lizza Di Maio, Fico e Di Battista

Aspettando Godot, cioè il congresso, il M5S esplode. Gli Stati generali non hanno ancora data e forma, però i 5Stelle vincitori del referendum ma anche sprofondati nelle urne locali sono già un campo di battaglia. Quello dei tre big, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Roberto Fico, che scendono in campo proprio per il congresso e quasi si rincorrono, con accuse, proposte e verità diverse. “Da stasera sarò sui territori per sostenere i nostri candidati ai ballottaggi delle Comunali” scandisce in diretta Facebook Di Maio, ex capo per modo di dire. E i suoi che diffondono un’agenzia: “Avanza il modello di coalizione con il Pd lanciato da Di Maio”. Un modello che pare mozione. Mentre il ministro se ne va nella sua Pomigliano, ma prima precisa: “Gli Stati generali prima si fanno meglio è”. Passa qualche minuto, e su Facebook ecco Di Battista. “Le Regionali sono state la più grave sconfitta del M5S” afferma in un video, con l’aria imbronciata di chi non voleva il voto disgiunto o utile del popolo 5Stelle. “Abbiamo perso voti e identità, da soli e in alleanza” sostiene. Insiste sui dati della Campania, perché ce l’ha con Di Maio e un po’ pure con Fico: “In Regione siamo passati dal 17 al 10 per cento, due anni fa alle Politiche abbiamo sfiorato il 50 per cento. È campano il ministro degli Esteri, lo è il presidente della Camera, il ministro dell’Ambiente, il ministro dello Sport (Spadafora, ndr) eppure abbiamo preso il 10”. E ancora: “Una leadership forte l’abbiamo avuta (sempre Di Maio, ndr) ma alle Europee abbiamo dimezzato i voti”. Il congresso? “Gli Stati generali vanno fatti il prima possibile, ben partecipati, con un’agenda per uscire dal buio”.

L’ex deputato non fa in tempo a finire che a Montecitorio si manifesta Fico, il presidente della Camera. E parla soprattutto di Movimento: “Il M5S ha perso le Regionali, ma la sua crisi di identità non va collegata al voto, viene da molto prima”. Ora “non è tempo di guerra per bande, non vanno date colpe”, e neppure di un congresso veloce: “Niente eventi spot, servono Stati generali permanenti”. Elenca errori, “temi identitari che non sono stati portati avanti”, cioè la legge sull’acqua pubblica, quella sul conflitto di interessi, la riforma della Rai. Sembrano punti dell’agenda di un capo politico, di un coordinatore, e Fico mica si sottrae: “Se entrerei in una segreteria? Io ci sono sempre per dare una mano al Movimento, e sono per un organo collegiale”.

Le carte sono sul tavolo, ognuno è pronto a giocare. Di Maio da leader di fatto che vuole cementare gli accordi con il Pd ed essere stabilizzatore di governo. Di Battista che rivendica l’identità perduta nei Palazzi e indica un’altra strada per un M5S terzo. Fico, come Di Maio per un’intesa stabile con i dem ma critico sui temi, che vuole fare il pacificatore. E rilancia: “Eravamo post-ideologici, ma il mondo cambia e forse ora dobbiamo essere ideologici”. Tutti gli altri ragionano di truppe, mentre Vito Crimi, nel ruolo improbo di capo politico reggente, attende l’assemblea congiunta di domani sugli Stati generali per decidere tempi e modi.

Ha capito che farli online è impossibile. Per molti sarebbe un favore a Davide Casaleggio e alla sua piattaforma web Rousseau. Non è un caso che Paola Taverna, da cui tutti dovranno passare per reggere il Movimento, invochi riunioni sui territori per coinvolgere gli attivisti nell’organizzazione del congresso. Vuole impedire che ci siano “delegati calati dall’alto”, toccando un nodo centrale. Ma anche rafforzare il carattere “fisico” degli Stati generali, così da ingabbiare il signore del web, Casaleggio, inviso a big ed eletti (ma non a Di Battista). In questo quadro Crimi, infilzato da Di Maio (“le Regionali le avrei organizzate diversamente”) cerca una via. Tutti dicono di volere una segreteria, ma sul come è buio. Circola uno schema con dieci membri. Ma quando vararla? Di Maio la vorrebbe prestissimo, Di Battista pretende prima gli Stati generali, e di nomine non ha urgenza neppure Fico.

Fuori, occhi preoccupati. “Il territorio non ci percepisce e sceglie altro, vengono prima le idee e l’organizzazione poi le facce” sostiene Carlo Sibilia. Ma le facce già si agitano.

Rosicate, gente, rosicate

Finora non ci avevano capito niente. Ma ora, compulsati i dati elettorali, i professionisti della politica e dell’informazione han capito tutto. E l’hanno presa bene.

Italia Morta. “Il dato di Italia Viva è straordinario: Iv c’è ed è ancora più attraente nel Paese e in Parlamento”. Lo dice l’ex Innominabile, ora Invotabile, dall’alto del trionfale 4,5% scarso nella sua Toscana (inutile perché Giani ha vinto di 8 punti, però “siamo stati determinanti non numericamente, ma politicamente per l’enorme mobilitazione”: quella contro se stesso), del prorompente 3,75 della Boschi a Laterina, del sontuoso 1,6 di Scalfarotto in Puglia (lì si univano alle esequie Calenda e Bonino per far perdere meglio Emiliano, che infatti ha vinto), del 2,4 in Liguria e dello 0,6% in Veneto (settimo posto su nove, dietro la lista No Vax). Non male per quello che doveva “svuotare il Pd come Macron coi socialisti francesi”. Nel 2016 aveva promesso di lasciare la politica dopo il referendum, ma non aveva precisato quale: era questo.

Brindisi a Sambuca. Maurizio Sambuca Molinari, direttore di Repubblica ma soprattutto ideologo e trascinatore del No, è tutto contento del 70% del Sì perché “cala il vento del populismo” e si “disegna un cambiamento di umore degli italiani nei confronti dei sovranisti e dei populisti”, nonché la disfatta di Lega e M5S. Strano: solo tre giorni fa Rep definiva il referendum “Un voto sui 5Stelle”: quindi il 70% è tutto loro? A noi però affascina vieppiù la questione del “populismo”, che è come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Al Sud vince Emiliano e stravince De Luca, molto più populisti dell’azzimato Di Maio: in che senso cala il vento? E il taglio dei parlamentari non era la quintessenza dell’“antipolitica populista”? Ora se ne dovrebbe dedurre che il 70% degl’italiani sono populisti, dunque il vento cresce. Però molti grillini con una mano (quella populista) han votato Sì e con l’altra (quella antipopulista) han votato Emiliano e Giani contro i populisti. E lo stesso han fatto la gran parte dei pidini. Quindi milioni di italiani sono contemporaneamente populisti e antipopulisti. È il famoso elettore disgiunto.

Il trionfo del No. Stefano Folli e Sebastiano Messina regalano altre soddisfazioni. Folli si consola: “Il plebiscito sognato da Di Maio non c’è stato” perché, pensate: “Cosa sarebbe successo se alcuni partiti storici, invece di affidarsi a un Sì opportunistico, avessero fatto campagna per il No? Si può immaginare che l’esito sarebbe stato diverso”. Se poi il 70% degli italiani, anziché votare Sì, avesse votato No, si può immaginare senza tema di smentita che il No avrebbe vinto col 100%.

E pazienza, è andata così. Anche Messina è tutto giulivo perché “non è il trionfo cantato da Di Maio” , anzi il 70 a 30 è un tripudio del No. Segue un acuto parallelo coi Sì negli altri referendum: purtroppo cita quelli abrogativi, mentre questo era costituzionale, il quarto dopo il Titolo V del 2001 (35% di votanti, Sì al 64%), la Devolution del 2006 (52% di votanti, Sì al 38%) e il ddl Renzi-Boschi del 2016 (65% di votanti, Sì al 40%). Dunque il taglio dei parlamentari (54% di votanti, Sì al 70%) è la riforma costituzionale più votata della storia repubblicana. Cioè il trionfo cantato da Di Maio. A proposito: neanche Zaia, col suo misero 77%, ha avuto un plebiscito: ben il 23 dei veneti gli han votato contro.

Voce del verbo violare. Anche Luciano Violante, alfiere del No, è tutto giulivo perché col Sì “ha prevalso un argomento serio e democratico, la necessità di fare altre riforme”. Ed è “merito della campagna del No”. Lui, potendo scegliere, partirebbe da un “nuovo bicameralismo”, molto simile a quello renziano bocciato dal 60% degl’italiani, quindi i sinceri democratici devono riprovarci: gli elettori vanno puniti.

I poveri, pussa via. “Nelle periferie il taglio del numero dei parlamentari diventa un mezzo plebiscito, nel sofisticato e colto (e ricco) centro storico non passa”. L’illuminata analisi la si deve al Corriere della Sera: i poveri delle periferie sono burini e ignoranti, mentre i ricchi sono colti e sofisticati. Ecco: il 70% del Sì vale meno: diciamo il 35. Ergo ha quasi perso.

I tre Feltri. Vittorio, su Libero, chiede a Mattarella di “sciogliere le Camere, non più costituzionali”: hic! Stefano, sul Domani, titola su “Il declino dei populisti. Vincono il referendum ma perdono il Paese”: vedi Sambuca. Mattia, sull’Huffington Post, vede uno straripante “popolo del No che nessuno sa rappresentare” (a parte tutti i giornali, tranne uno). E ricorda Woody Allen in Provaci ancora, Sam, che rincasa tutto pesto da una rissa e racconta: “Ho dato una lezione a dei tipi che davano noia a Julie: a uno ho dato una botta col mento sul pugno, a quell’altro una nasata sul ginocchio”.

Di Battutista. Dibba comincia a capire e critica la linea 5Stelle di correre da soli. Peccato che fosse la sua. Si sarà accorto che le alleanze servono (vedi le Comunali, molto meglio delle Regionali) e comunque, se non le fanno i vertici, le fanno gli elettori contro i vertici. Avvertire Laricchia, Lezzi&C.

Le Sordine. Più comico dell’Invotabile c’è solo Mattia Santori. Sorvola sulla tranvata referendaria e dice che il Pd ha vinto grazie a lui: “Il Pd festeggia le vittorie in Toscana e Puglia, ma lo spumante nei calici viene dalla cantina delle Sardine”. Le sardine in carpione.

Quel paese là

Anche stavolta, come nel 2016 quando descrisse un intero Paese in festa per la grande riforma Renzi-Verdini, l’intera stampa italiana ha azzeccato le previsioni su un intero Paese schifato o indifferente sul taglio dei parlamentari voluto dai putribondi grillini (e dagli altri partiti che se lo sono rimangiato). Il Paese dei giornaloni è sempre lo stesso: solo che non è l’Italia.

Disastro. “Il Pd e il pasticcio del referendum… Disastro incombente” (Stefano Folli, Repubblica, 4.8). Come no.

Traballa. “Il fronte del No fa traballare Conte” (Claudia Fusani, Riformista, 7.8). Brrr che paura.

Trionfo. “Chi lo dice che vince il Sì? Nelle Regioni al voto può trionfare il No” (Rif, 13.8). Sicuro.

La voglia matta. “C’è una strana voglia di No nell’aria” (Francesco Damato, Dubbio, 22.8). Ma proprio da arraparsi.

Tentazione. “Nasce la tentazione del No che può distruggere i grillini” (Giornale, 22.8). Sarà fatto.

Solo soletto. “Di Maio in tour per votare Sì. Ma è una traversata solitaria” (Stampa, 24.8). Da solo col 70%.

Galassia. “Il fronte del No a sinistra dà il via alla mobilitazione. Un’ampia galassia lavora a una mascherina con il logo” (Rep, 24.8). Per nascondersi meglio.

Tiresia. “Vincerà il Sì ma senza grande distacco. Bassa affluenza” (Roberto D’Alimonte, Stampa, 28.8). Ammazza che genio.

Onda lunga. “Nel Paese cresce il fronte del No. L’onda lunga del No. Costituzionalisti. Nomi storici della sinistra. Intellettuali. Amministratori locali. Così cresce l’opposizione contro il taglio” (Espresso, 30.8). Fuochisti, macchinisti, frenatori, uomini di fatica!

Il mini-indovino. “Brunetta: ‘La sconfitta a settembre manderà a casa il governo’” (Giorn, 31.8). Mo’ me lo segno.

Kamikaze. “Di Maio kamikaze per il Sì” (Giorn, 31.8). Se diceva No faceva un figurone.

Flop. “Paura contagio ai seggi, affluenza in caduta libera. Referendum verso il flop. Partecipazione stimata al 30% ma solo per le Amministrative” (Messaggero, 31.8). Ovvio.

Inferno. “Prevedo l’autunno più infernale di sempre. Sento aria di elezioni” (Paolo Mieli, Verità, 31.8). Pure io.

Incubo. “L’incubo al Nazareno: il replay del 2009, quando Veltroni si dimise dopo la sconfitta in Sardegna” (manifesto, 2.9). Te credo.

Paura. “Il fronte del No fa paura. Da Malan a Orfini, da Giachetti ai dissidenti grillini: ‘La gente ha capito’” (Rif, 2.9). Già, l’ha capito.

Corpo. “Come evidenzia il sondaggio Demos per Repubblica, il fronte del No prende corpo” (Rep, 2.9). E anima.

Via subito. “Berlusconi archivia già Conte: dimettiti prima delle Regionali” (Gior, 2.9). Così anticipi.

Pari e patta. “Il pasticcio referendum senza vinti né vincitori” (Carlo Nordio, Mess, 7.9). Ti piacerebbe.

L’oracolo di Delfi. “Il prof D’Alimonte prevede un vantaggio del No in Toscana del 52% contro 48. E descrive una crescente rimonta del No nazionale” (Folli, Rep, 8.9). Mejo de Nostradamus.

Choc. “Referendum: sondaggio choc, rimonta del No”. “D’Alimonte: impennata dei contrari. Anche Mannheimer registra il trend: ‘Partita aperta’. Ghisleri: recuperati 10 punti in 1 mese” (Gior, 8.9). È solo l’inizio.

Rimonta. “Cosa significa la rimonta del No” (Folli, Rep, 9.9). Che è una cazzata?

Stato d’animo. “Colpisce la costante ripresa del No, testimoniata da autorevoli sondaggisti e soprattutto da uno stato d’animo indefinibile che si coglie in giro per il Paese” (Folli, ibidem). Colpisce alla testa.

Contagio. “Il Pd rischia l’isolamento”. “Sembra che il No sia contagiosissimo” (Ellekappa, Rep, 10.9). Una strage.

Calvario. “…quale calvario attende la maggioranza nel caso, un po’ meno probabile dopo la rimonta del No, di approvazione del taglio” (Sorgi, Stam, 11.9). Ah saperlo.

Saviano scuote. “Saviano scuote il Pd. Dubbi anche tra gli elettori del Sì. La rimonta del No c’è ed è palpabile, viaggia nelle parole degli analisti più che sui numeri” (Rep, 11.9). Palpa, palpa.

Il fenomeno. “Referendum, nel No un Paese che cambia… La differenza fra la vivacità del fronte del No e la staticità del partito del Sì: è la cartina al tornasole di un’Italia politica che sta cambiando perché il populismo è in calo… È questo cambiamento di umore e sentimento nel Paese la significativa novità con cui tutti i leader e partiti dovranno fare i conti” (Maurizio Molinari, Rep, 13.9). Ecco, bravo, fai i conti.

Fuori mercato. “Doveva passare come un plebiscito… Invece contro il taglio dei parlamentari è cresciuta la mobilitazione nella società. Antipolitica fuori mercato. Dove il M5S trionfò vince una rabbiosa indifferenza. Più della metà delle persone non sa neppure che si voterà” (Espr, 13.9). Invece ha votato con rabbiosa indifferenza per i giornali del No.

Spallata. “Il No tenta il centrodestra. Dai militanti l’invito a dare la spallata al governo” (Francesco Verderami, Corr, 15.9). È fatta.

La sensitiva. “Colgo segnali di risveglio in chi è contrario al taglio dei parlamentari. Il risultato sarà molto più sorprendente di quanto si poteva attendere” (Emma Bonino, Stam,18.9). Cucù! Sorpresona!

Meno parlamentari: adesso via a correttivi e stipendi da tagliare

Dopo la vittoria del Sì al referendum, il Parlamento italiano dalla prossima legislatura avrà meno seggi passando da 945 a 600: la Camera da 630 a 400 deputati e il Senato da 315 a 200. Con l’approvazione della riforma si risparmieranno 100 milioni l’anno sul costo del Parlamento (pari a mezzo miliardo a legislatura) e l’Italia si allinea alle altre democrazie europee passando da 1,6 a 1 eletto ogni 100.000 abitanti (restando comunque prima rispetto allo 0,9 di Germania e Francia e l’ 0,8 della Spagnia). Adesso le Camere dovranno approvare nuovi regolamenti parlamentari per modificare i lavori delle commissioni e le soglie di voto in aula.

Dopo il Sì la maggioranza giallorosa potrebbe accelerare su ulteriori riforme tra correttivi costituzionali e la legge elettorale. La prima sarà quella sul voto ai 18enni anche per il Senato già passata in prima lettura e, che potrà entrare in vigore entro l’anno. Poi alla Camera arriveranno i due correttivi del deputato di LeU Federico Fornaro: il superamento della base regionale del Senato e il riequilibrio dei delegati per votare il Presidente della Repubblica. Ma la riforma più importante sarà la legge elettorale “Brescellum” approvata in Commissione alla Camera due settimane fa : un proporzionale puro con soglia di sbarramento al 5%. Da domani Il Fatto Quotidiano si batterà per avere una legge che faccia scegliere gli elettori (magari con le preferenze) e per tagliare gli stipendi dei parlamentari.

“Lo schema tripolare non funziona, ma ora il governo è più forte”

Era innanzitutto la sua partita, giocata in prima persona. E ora rivendica di aver accettato i rischi: “Sono orgoglioso di aver fatto la campagna per il Sì, esponendomi molto. Ho ricevuto molti attacchi, l’avevano trasformato in un referendum sul Movimento e su di me”. Cioè su Luigi Di Maio, ex capo politico del M5S.

Cosa rappresenta l’esito del referendum per il Movimento? La chiusura di una lunga fase?

Io lo vedo piuttosto come la porta verso un nuovo inizio. Ora può iniziare una stagione riformatrice che segnerà i prossimi tre anni del governo. E non penso solo alla legge elettorale e alla necessità di evitare che gli eletti siano paracadutati dai partiti. Parlo anche della riduzione degli stipendi dei parlamentari, magari legandoli all’effettiva presenza, e di norme per scoraggiare i cambi di casacca, intervenendo sui regolamenti parlamentari.

Le urne hanno blindato il governo?

L’esecutivo è più forte. L’assalto delle opposizioni alla diligenza del Recovery Fund è fallito. E ci sono dati che colpiscono: per esempio Luca Zaia in Veneto con la sua lista prende molto più della Lega.

Governo più forte, ma per le Regionali non potete certo prendervi il merito. L’unica alleanza che avete accettato è stata in Liguria, ed è andata male.

Ho già detto che avrei organizzato diversamente queste elezioni. E proprio per evitare errori di questo tipo in futuro ho già proposto al Pd un tavolo per le Comunali del 2021.

Nell’attesa gli elettori del M5S sono stati più lungimiranti dei dirigenti, scegliendo il voto disgiunto in Puglia e Toscana Ossia ciò che non avete avuto il coraggio di chiedere direttamente, no?

Per giudicare voglio attendere i dati esatti e i flussi. Ora le valutazioni sono premature.

Va bene: ma i vostri elettori hanno fatto una chiara scelta. Significa che vi vogliono in coalizione, anche per blindare Conte e il governo?

Di certo c’è stata una forte polarizzazione del voto. Lo schema a tre non ha funzionato. Dobbiamo tenere conto del fatto che dove siamo in coalizione spesso andiamo meglio nelle urne. E questo deve farci valutare anche intese con liste civiche.

Secondo Alessandro Di Battista “scegliere il meno peggio porta inevitabilmente alla distruzione”. Il tema dell’identità esiste, nonostante tutto?

Io non voglio certo polemizzare con Alessandro, se ho qualcosa da dirgli lo chiamo. Dopodiché grazie a un compromesso di governo siamo arrivati a scegliere come premier Giuseppe Conte, e non mi pare affatto il meno peggio.

Resta il fatto che nel voto locale il Movimento è andato male. Deludente al Sud, disastroso al Nord.

Il M5S resta comunque determinante, lo è stato anche in questa tornata elettorale.

Il Pd vince con i suoi candidati, e ora potrebbe chiedervi con più forza il Mes.

Le posizioni rimarranno le stesse, ci sono delle differenze tra noi. Ma con il Pd lavoro bene e lavoro benissimo con Nicola Zingaretti. Gli hanno rivolto attacchi ingiusti.

Però c’è pure il tema rimpasto. Per il ministro del Sud, il dem Provenzano, “starà a Conte decidere”.

Abbiamo sempre detto tutti che le Regionali non avrebbero influito sul governo, e così deve essere. Non credo che il Pd chiederà il rimpasto.

Quando ci saranno gli Stati generali del M5S (ieri Vito Crimi ha annunciato l’avvio del percorso, ndr)?

Non sarò io a organizzarli, spetta al capo politico Crimi. Spero però prima che si facciano prima possibile: non se ne può più di questa attesa (sorride, ndr).

Vanno fatti online o con un’assemblea in carne e ossa?

Direi proprio con le persone fisicamente presenti.

Resta dell’idea che serva una segreteria collegiale?

Assolutamente sì, abbiamo tanti problemi da risolvere e tanti temi da definire, quindi serve la massima collegialità.

Lei ne farà parte?

Per ora sono concentrato sul mio lavoro da ministro degli Esteri.

Di certo non ne potrà far parte la sindaca di Torino, Chiara Appendino, condannata per falso ideologico.

Chiara si è subito autosospesa, e non è da tutti. Lei ha a cuore il M5S e la stimo per come sta governando Torino.

Non dovrebbe dimettersi?

È una condanna di pochi mesi, e la legge le consente di portare Torino a nuove elezioni. Spero vivamente che in appello la decisione possa cambiare.

Taglio seggi: il Sì trionfa col 70%. Regionali, il Pd salva i giallorosa

Il trionfo del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari e il 3-3 alle elezioni regionali. L’election day di domenica e lunedì porta in dote risultati molto positivi, e quasi insperati, per la maggioranza giallorosa che sostiene il governo Conte: rispetto alle previsioni scure che nelle ultime settimane parlavano di 4-2 o addirittura di 5-1 per il centrodestra, il centrosinistra tiene la Toscana con Eugenio Giani, la Puglia con Michele Emiliano e la Campania con Vincenzo De Luca mentre la coalizione formata da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia conquista le Marche con il meloniano Francesco Acquaroli e riconferma Luca Zaia in Veneto e Giovanni Toti in Liguria. Alla Lega va anche la Valle d’Aosta: il Carroccio è il primo partito tra il 20 e il 24%.

Ma partiamo dal referendum. Dopo quarant’anni di tentativi andati a vuoto, gli italiani hanno votato in massa per ridurre il numero di deputati e senatori allineandoci agli altri Paesi d’Europa: il prossimo Parlamento avrà 345 eletti in meno, passando da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. Nessuna “rimonta” del No, quindi, come paventato nelle scorse settimane da quasi tutti i giornali: alla fine il Sì ha stravinto 70 a 30%. Alta anche la partecipazione al voto: l’affluenza finale del 53,8% è la stessa di quella della riforma del 2006 e più bassa rispetto alla Renzi-Boschi del 2016 dove però il referendum si era caricato di un forte significato politico, ovvero il futuro del governo Renzi. Il Sì prevale in tutte le regioni del sud con punte vicine all’80% in Molise, Campania (78%), Calabria (76%) e Sicilia (75%) mentre va peggio in Friuli (60%), Lazio (66%) e Toscana (66%). Ora il presidente della Repubblica Sergio Mattarella promulgherà la nuova legge che non potrà essere applicata prima di 60 giorni: il taglio dei parlamentari entrerà in vigore a partire dalla prossima legislatura.

“È un risultato storico, torniamo ad avere un Parlamento normale – ha detto Luigi Di Maio – la politica dà un segnale ai cittadini. Adesso ci batteremo per il taglio dello stipendio dei parlamentari”. Esulta anche il segretario Pd Nicola Zingaretti: “Con la vittoria del Sì si apre una nuova stagione di riforme: ma il Pd si farà garante delle posizioni del No”. Mentre Giorgia Meloni chiede che si sciolgano le Camere per avere un “Parlamento legittimato”.

Le Regionali invece sorridono al centrosinistra: il governatore della Puglia Michele Emiliano vince contro Raffaele Fitto 46 a 39% delude la candidata del M5S Antonella Laricchia (11%) e il candidato di Italia Viva, Ivan Scalfarotto (2%). Anche la rossa Toscana respinge i “barbari” alle porte con il candidato Eugenio Giani che supera la salviniana Susanna Ceccardi 48 a 41% mentre il 6% di Irene Galletti (M5S) il 2% di Tommaso Fattori (sinistra) fanno pensare a un possibile voto disgiunto per il candidato dem. Il centrosinistra tiene anche in Campania dove Vincenzo De Luca trionfa con il 67% dei consensi contro il 19% di Stefano Caldoro. La soddisfazione del centrodestra arriva dalle Marche dove il candidato di FdI Francesco Acquaroli vince dopo 25 anni di governi di centrosinistra: 51 a 36% contro Maurizio Mangialardi. In Veneto Luca Zaia a valanga su Arturo Lorenzoni (76 a 16%) e in Liguria Giovanni Toti batte il giallorosa Ferruccio Sansa 56 a 38%.

Marche conquistate dalla destra, in Liguria il bis sovranista di Toti

Dopo 25 anni di governo di centrosinistra, le Marche voltano a destra. Francesco Acquaroli (FdI, nella foto sotto) è il nuovo presidente col 48,5 e surclassa di oltre dieci punti il candidato di centrosinistra, Maurizio Mangialardi, arenato al 37,4%. Gian Mario Mercorelli (Movimento 5 Stelle) si ferma al 9%. La semplice matematica avrebbe portato gli sfidanti dei due blocchi principali a giocarsela, ma forse non sarebbe bastato: “Fossimo andati insieme probabilmente saremmo qui a commentare un altro scenario, purtroppo ha prevalso il narcisismo dei pentastellati” è stato il commento a caldo di Mangialardi all’arrivo al Grand Hotel Passetto, suo quartier generale. “Il patto elettorale è saltato per colpa del Pd – replica Mercorelli –, quando a dicembre ci fu il contatto io parlavo di proposte e di programmi, loro pensavano al candidato presidente”. Tra i due litiganti, il terzo gode. Francesco Acquaroli ringrazia Giorgia Meloni, scesa ad Ancona per celebrare il suo candidato: “Da domani lavorerò su sanità, terremoto, occupazione e il dramma dei giovani che fuggono dall’Italia”.

In Liguria, invece, l’alleanza non è bastata a fare il miracolo: il candidato giallorosa Ferruccio Sansa si ferma sotto al 40%, a 16 punti dal governatore Giovanni Toti (56%). Ma la vera notizia sono i voti di lista: quella del presidente uscente sfiora un clamoroso 23%, staccando di sei punti la Lega, ferma al 17 (cinque anni fa prese oltre il 20). Qui Salvini aveva detto: “Saremo il primo partito”. A conti fatti è arrivato terzo: davanti c’è anche il Pd, che ottiene un ottimo 20,2% (i sondaggi lo davano tra il 16 e il 17). Ne fa le spese, tra gli altri, il Movimento 5 Stelle ridimensionato all’8,1%, 12 punti in meno rispetto alle scorse regionali.

Al circolo dei portuali di via Albertazzi, storico ritrovo della sinistra genovese, lo sconfitto arriva sorridente. La sua lista civica ha raggiunto un 7% che gli consentirà di eleggere almeno due consiglieri. “La battaglia era difficile, quasi proibitiva per il poco tempo a disposizione, in pieno agosto – esordisce –, ma è stata un’esperienza straordinaria, e abbiamo ridotto il distacco che avevamo in partenza”. Sansa parla già da capo dell’opposizione: “C’è da ricostruire un popolo e una classe dirigente, vogliamo portare sulla scena politica proposte coraggiose: una sanità davvero pubblica, zero consumo di suolo, incentivi all’industria verde”. Il patto tra Pd e 5Stelle che lo ha sostenuto è “linfa, carica e sangue all’esperienza di governo. In quest’alleanza credevo prima, ci credo di più oggi”.

Paradossalmente, anche il vincitore sceglie di spendere buona parte del suo discorso sui temi nazionali: “Questo voto è il segno che agli elettori liguri non sono piaciute le scelte di questo governo. Mi auguro faccia scattare un campanello d’allarme e Conte capisca di essere in zona Cesarini”. L’unico collegio in cui Toti non sfonda è quello di La Spezia, epicentro dei nuovi casi di Covid, dove il distacco con Sansa si riduce a 7 punti e la sua lista è ferma al 12%. Nel capoluogo i due sfidanti sono ancora più vicini (49 Toti, 45 Sansa). Genova, che alla scorsa tornata aveva premiato il M5S, stavolta sceglie il centrodestra (51 a 43), mentre a Savona, unico tra i capoluoghi, Sansa vince 48 a 45.

“Sentivo il peso per Zinga e Conte Dialogo con i 5S”

Eugenio Giani, lei ha detto che questo è uno dei giorni più belli della sua vita. C’è anche un sentimento di sollievo per come è arrivato il risultato?

È stata una campagna elettorale molto particolare, siamo partiti il 20 gennaio, otto mesi fa. Poi è arrivato il Covid e ci siamo resi conto che parlare di politica non era opportuno e di conseguenza c’è stato un lockdown anche per tutti noi. Poi negli ultimi 20 giorni si sono mischiate le logiche nazionali, anche se io ho sempre preferito che questo restasse un voto dei toscani per la Toscana. Ma dal centrodestra ci si è calati qui con tutti i big nazionali, con cui hanno pure voluto chiudere la campagna elettorale. Anche io sono stato felice di accogliere Zingaretti, Renzi, Gualtieri e tutti gli altri, ma cercando sempre di parlare di programmi per la Toscana.

Sentiva il peso di un voto ormai diventato di rilevanza nazionale?

Sì, ne sentivo la responsabilità ed era una responsabilità che mi dava fastidio perché io con Zingaretti ho un rapporto di grande stima. Io non lo avevo votato al congresso, ma lui con me è stato sempre molto corretto e volevo restituire questo senso di apprezzamento. E lo stesso vale per il presidente Conte, di cui ho grande stima: ha fatto un lavoro egregio durante l’emergenza e il fatto che un governo molto valido fosse messo in discussione attraverso il voto in Toscana mi infastidiva parecchio.

Temeva i sondaggi?

No, il mio sondaggio più importante era il patto di San Gimignano, quell’intesa tra i sindaci della Toscana per sostenermi: 186 sindaci su 273, quasi i due terzi in Toscana. Mi dicevo: se così tanti ci mettono la faccia, è un bel segnale di fiducia.

La sua vittoria è simile a quella di Bonaccini in Emilia?

Le nostre sono Regioni sorelle. Il 26 di gennaio andai da Bonaccini per festeggiare la sua vittoria in Emilia, perché sentivamo tutti quella partita. E oggi lui era qui con me perché c’è un rapporto di grande amicizia. Abbiamo vissuto una situazione simile, coi big della destra che venivano qui portando questo sentiment della conquista della Regione per dare un segnale nazionale. Con due differenze: io non ero governatore uscente, dunque ho dovuto farmi conoscere di più ed essere in grado di trasmettere le mia capacità. E poi devo dire che la Ceccardi a un certo punto ha dimostrato una sua personalità, per cui le riconosco l’onore delle armi.

Questa intesa con Bonaccini fa pensare a mire diverse, magari nel partito o a livello nazionale.

Questo lo nego. Non sono interessato a logiche nazionali, per cinque anni farò il presidente della Toscana, non userò minimamente la Toscana per altri obiettivi. Rispetterò il mio ruolo da presidente.

Si è parlato a lungo del voto utile o del disgiunto. Sente di esserne stato favorito?

Io non lo chiamo né disgiunto né utile, ma soltanto voto libero. Un voto che a un certo punto fa perno sulla coscienza profonda dell’elettore nel capire che c’è una posta in gioco che va oltre il suo senso di identità politica verso un partito, ovvero quello di un superiore interesse per la Regione. Ringrazio anche pubblicamente il Fatto e il suo direttore Marco Travaglio per aver fatto capire con tempestività ed efficacia quale fosse la posta in gioco.

Non basta però attrarre i voti di 5Stelle e sinistra, li si deve anche rappresentare.

Io mi sento orgoglioso e compiaciuto se da oggi sarò sotto osservazione da parte loro, ed è giusto che sia valutato nei fatti e nella capacità di dialogo.

È soddisfatto dell’esito del referendum?

Sì, ho sempre detto che le assemblee legislative funzionano quando hanno un numero giusto di persone. Ho visto la nostra Regione fare ottime leggi con 41 consiglieri. Un taglio dei parlamentari, che diminuisse anche il costo della politica, era una scelta di buon senso.

Ha sentito Conte in queste settimane?

No, ma voglio andarlo a trovare, anche perché lui è legato a Firenze come professore universitario. E poi ho bisogno di lui per governare bene la Toscana, per esempio su temi importanti come il Recovery Fund.

“Ero sicurissimo di perdere: i pugliesi mi han perdonato, imparerò dai miei errori”

inviato a Bari

Iro li trasformo.

Li trasforma come?

Li porto da lì a qui, dal centrodestra al centrosinistra. Li svesto, gli tolgo ogni abito di destra, ogni stile.

Abbiamo appena iniziato a intervistare Michele Emiliano, zuppo di sudore e di felicità per una vittoria che, dice, “ricorderò tutta la vita”. Seduti in un piccolo spaccio di toast, quando accade l’imprevisto.

Cameriere: più di cinque persone non possono stare qui.

Emiliano:giusto.

Cameriere: Quindi mi dispiace.

Emiliano: Dobbiamo andare via?

Cameriere: L’ordinanza è a sua firma.

Emiliano: Giusto.

Presidente, ci hanno appena cacciati.

Hanno fatto bene.

E meno male che è il vincitore.

A gennaio ero certo che avremmo perso. Tutti i sondaggisti mi davano giù, anche se la mia gente mi teneva su.

Lei credeva ai sondaggisti, non alla sua gente.

Quando tutti sono unanimi, e quando qualche errore, anche pesante, l’hai compiuto, e quando la tua coalizione assume con goduria atteggiamenti tafazziani, cosa vuoi che uno pensi? Qui perdo, e la fifa sale.

Fifa blu.

A gennaio avevo perso.

Invece sa che si dice? Che ha vinto grazie al fatto che il suo sfidante fosse Raffaele Fitto. Un déjà vu.

Fitto era il migliore candidato che il centrodestra avesse nel paniere.

Comunque le accuse – anche dalle sue parti – restano intatte: sceriffo, populista di sinistra, trasformista e anche clientelare. Era proprio necessario firmare le assunzioni negli ospedali nel pieno della campagna elettorale?

Era una festa, le assunzioni erano definite e io sono l’assessore alla sanità. Dovevo scappare da un mio preciso dovere?

Ha costruito un falansterio di liste. Tutti imbarcati con lei. Troppi.

La mia maggioranza è larga, utilmente allargata oltre i confini di un singolo partito. Ho dato dignità e nuova forma a questa coalizione.

Chi l’ha aiutata davvero?

Tantissimi. Tra i tantissimi, certamente Nichi Vendola. Malgrado avesse nei miei confronti delle riserve si è speso per me. Un atto di generosità imprevedibile, che saluto col cuore.

Un pensiero anche per Matteo, non solo per Nichi.

Due pensieri, perché i Matteo sono due e oggi si festeggia il loro onomastico. Il mio biglietto d’auguri per Renzi e per Salvini è sentito come non mai.

Ora li sfotte. Ma grazie al voto utile lei ha guadagnato voti anche dai suoi oppositori, persino dai grillini. O no?

Non sono ancora in grado di approfondire la questione, ma certo la vittoria è sonante, piena, densa, non confrontabile con altre del mio passato.

Avrà il dente avvelenato anche con Di Battista, che è venuto a Bari con l’intenzione di darle una legnata.

E invece ha visto com’è straordinaria la realtà?

Oggi è il primo giorno d’autunno.

Oggi invece inizia la nuova primavera. Con me, con la Puglia che ha rialzato la testa, ce l’ha fatta e ce la fa. E si farà sentire.

Litigherà subito con il Pd?

E perché mai? Rispetto e ringrazio. Come sa non sono più iscritto al partito ma so quanto sia importante e quanto rilevante sia divenuta la figura di Zingaretti.

Vuol bene anche a Conte?

È il mio presidente.

Michele Emiliano, il transformer.

Accusarmi di allargare il campo del centrosinistra significa non avere senso di ciò che significa governare. Ascoltare, coinvolgere, aprire le porte, convincere.

Lei aveva una fifa blu di perdere.

Esattissimo.

E ha commesso anche parecchi errori.

L’ho ammesso, è così. Faremo tesoro di quel che non è andato bene. Il popolo pugliese ci ha perdonati offrendoci questa fiducia, questo tributo per certi aspetti strabiliante. Ha perdonato gli errori commessi e dai quali – voglio ripeterlo – dobbiamo ripartire. Dobbiamo correggerli subito.

Nessuno credeva nella sua vittoria.

Visto?

Nemmeno lei.

Nemmeno io. ’Sti cavoli di sondaggi!

Il “capitano” Può ritirarsi in Val d’Aosta

Matteo Salvini voleva conquistare la Toscana cacciando la sinistra, ma la Toscana è rimasta saldamente alla sinistra. Esattamente come quando Matteo Salvini voleva surclassare la sinistra in Emilia-Romagna, e sappiamo come è andata a finire. Matteo Salvini voleva conquistare la Puglia, ma la Puglia è rimasta saldamente con Michele Emiliano. Con queste elezioni Matteo Salvini voleva dare una spallata al governo Conte, ma il governo Conte esce da queste elezioni più saldo di prima. Matteo Salvini sperava che le sconfitte in Toscana e Puglia avrebbero messo in crisi nel Pd la segreteria di Nicola Zingaretti, ma le vittorie in Toscana e in Puglia hanno rinsaldato Nicola Zingaretti. Matteo Salvini che aveva detto Sì al taglio dei parlamentari aveva lasciato che il suo (ex?) braccio destro, Giancarlo Giorgetti, dicesse No nella speranza che si portasse dietro abbastanza leghisti per indebolire il Sì di Luigi Di Maio e dei 5stelle. Ma oggi Luigi Di Maio e i 5stelle possono esultare per una vittoria che ritengono essere, prima di tutto, la loro. Matteo Salvini rivendica il boom di Luca Zaia nel Veneto, ma la lista personale di Luca Zaia ha ottenuto da sola il 47% dei voti mentre quella ufficiale della Lega di Matteo Salvini non arriva al 15%. Matteo Salvini si gloria per l’affermazione nella Marche del candidato della destra Francesco Acquaroli che tuttavia non è un leghista ma del partito di Giorgia Meloni. Matteo Salvini esulta per il successo di Giovanni Toti in Liguria, ma Giovanni Toti viene da Forza Italia. Matteo Salvini si dice soddisfatto perché la Lega in Val d’Aosta è il primo partito. In questo caso è giusto che sia contento. Un giorno non lontano quando i leghisti apriranno gli occhi prenderanno da una parte Matteo Salvini e gli diranno qualcosa del genere. Scusa Matteo Salvini, poco più di un anno fa avevi nelle tue mani il Viminale e un ruolo dominante nel governo gialloverde dove ti permettevi di dare ordini al premier Giuseppe Conte. Poi hai bevuto un mojito di troppo e poco più di un anno dopo, il premier Giuseppe Conte non prende più ordini da te anche perché dicono i sondaggi che sia il più popolare tra i politici italiani. E se apriranno gli occhi i leghisti diranno a Matteo Salvini anche questo: caro Matteo Salvini, come se non bastasse, in poco più di un anno hai dilapidato circa dieci punti nei sondaggi, tanto che rischiamo il sorpasso da parte di Giorgia Meloni che ne ha guadagnati altrettanti, a nostre spese. E ora caro Matteo Salvini, tu vieni a dirci che però hai vinto in Val d’Aosta (a questo punto è possibile che aggiungano qualcosa tipo l’invito ad andarsene in Val d’Aosta a fare ciò che tutti immaginiamo).