Il Sì va meglio al Sud, il No nei centri di Roma e Milano

Un referendum che alla fine si svolge liscio come l’olio. La tanto sbandierata (da giornali e opinionisti vari) rimonta del No non c’è stata. Il risultato è secco, 70 a 30, e mai in un referendum si è avuto una fotografia tanto nitida del volere del popolo.

E non ha nemmeno pagato aver cercato di forzare il No come un voto contro “il populismo” e quindi segnato da una vena politicista che forse ha attecchito in alcuni quartieri delle grandi città (come vedremo, i centri storici di Milano e Roma sembra che abbiano premiato il No), ma non riflette il sentimento diffuso. Che è certamente di diffidenza e ostilità alla politica istituzionale e partitica, ma allo stesso tempo chiede alle stesse istituzioni un sussulto, una capacità di innovazione.

E così, ancora una volta, gli italiani scelgono di smentire le previsioni circa la bassa affluenza al voto.

L’accorpamento del referendum con le regionali ha beneficiato la consultazione sul quesito costituzionale come sottolinea il professor Roberto D’Alimonte. L’affluenza al referendum, infatti, si è fermata al 48% dove non si è votato alle Regionali ma è schizzata al 63% dove si è votato anche alle Regionali. E dove si è votato anche per le Comunali la differenza è stata di 20 punti (52% vs 72%).

“Ma non si è avuto nessun effetto sul Sì-No” assicura D’Alimonte a conferma che gli allarmi sull’indebito accorpamento erano ingiustificati. Anzi, la scelta dell’election day ha favorito la partecipazione, se si considera anche il contesto del tutto eccezionale di un voto a settembre e dopo un lungo periodo di lockdown dovuto all’emergenza da Coronavirus.

D’Alimonte sottolinea anche che l’affluenza è piuttosto in linea “con i pattern geografici di decenni di partecipazione politica”. E quindi più consistente al Nord e al Centro “dove è storicamente più alto l’attivismo civico”.

Diversa situazione per quanto riguarda il risultato. Il Sì è molto più alto al Sud con punte vicine all’80% mentre scende un po’ nel centro-nord con il 65% della Toscana e addirittura il 62% e il 59% rispettivamente di Veneto e Friuli-Venezia Giulia, regioni decisamente leghiste (mentre la Lombardia ritorna sulla media nazionale).

Più complesso analizzare la qualità del voto. Alcuni dati diffusi da Tecnèitalia, e tutti da verificare, dicono che la maggioranza del Pd, il 55%, avrebbe votato No e solo il 45% avrebbe seguito le indicazioni di Nicola Zingaretti. Il Sì del M5S invece ha visto il consenso del 92% del proprio elettorato seguito dal 78% della Lega, 76% di Forza Italia e 75% di Fratelli d’Italia.

A sinistra, invece, prevale il No in Italia viva (77%) e anche, sia pure in modo più articolato, nella sinistra alternativa (con il 58% per il No e il 42% al Sì). Questi dati vanno però verificati meglio e in questo caso il rapporto tra il voto alle Regionali e quello referendario potrebbe avere un certo significato.

Un primo riscontro in realtà sembra venire dai dati diffusi da Youtrend sui voti scrutinati, il No avrebbe vinto in alcuni centri storici: nel collegio di Milano centro, in quello di Torino Crocette e nei municipi 1 e 2 di Roma, esattamente in quelle zone composte da ceti medio-alti dove il Partito democratico conserva alcune roccaforti elettorali. Il dato sembra riscontrabile a Firenze dove, nel Comune, il Sì vince solo con il 55%.

Se così fosse, davvero il voto avrebbe qualche ripercussione nel Partito democratico, visto che il risultato istituzionale ormai certo – i parlamentari saranno ridotti a partire dalla prossima legislatura – pone il problema di quale tipo di riforme saranno fatte di qui alle prossime elezioni. Se quel No corrisponde a un elettorato diffidente verso la cosiddetta antipolitica, se la sentirà il Pd di seguire Luigi Di Maio, che già annuncia riduzioni degli stipendi dei parlamentari e norme per evitare i “cambi di casacca” e quindi limitare il mandato parlamentare?

Disfatta Salvini: Meloni e Zaia lo surclassano

Anche nel giorno delle elezioni, i tempi delle dichiarazioni contano. Ebbene, fin quasi alle 8 della sera, i leader del centrodestra sembrano scomparsi, mentre gli altri sono già apparsi più volte davanti alle telecamere. Solo passate le 20 Matteo Salvini decide di scendere nella sala stampa di Via Bellerio e vedere il bicchiere mezzo pieno. “In Toscana era difficile, ma è un buon punto da cui ripartire… E sul referendum siamo sempre stati per il Sì…”, afferma il leader leghista. Che però è il vero sconfitto di queste elezioni.

La débâcle in Toscana brucia moltissimo, perché arriva dopo quella in Emilia-Romagna e dopo giorni di sondaggi testa a testa. Susanna Ceccardi aveva più chance di Lucia Borgonzoni e il leader si era speso in una campagna elettorale tostissima ma più soft, senza scivolate da bullo tipo citofonare a improbabili spacciatori. E invece è andata male, malissimo, con la Ceccardi sconfitta da un candidato, Eugenio Giani, tutt’altro che invincibile.

Il Capitano sembra non azzeccarne più una giusta. Se prima tutto ciò che toccava si trasformava in voti, ora annaspa, boccheggia, fatica a star dietro ai suoi principali competitor, Giorgia Meloni e Luca Zaia. La prima, nonostante la sconfitta in Puglia di Raffaele Fitto (e qui sì che il candidato si è dimostrato sbagliato) ad opera di Michele Emiliano, porta a casa un largo successo nelle Marche e aumenta i voti per FdI. “Siamo l’unico partito che cresce ovunque”, ha detto arrivando ad Ancona per godersi la vittoria del “suo” Francesco Acquaroli. E il secondo si conferma il governatore più amato d’Italia, la faccia seria della Lega, quello che fa funzionare le cose rispetto alle chiacchiere del leader. Con la sua lista che quasi triplica quella del Carroccio. E infatti Salvini tiene a precisare che “nell’uno e nell’altro caso sono tutti candidati leghisti”. Resta molto indietro, quasi sparita, Forza Italia, con Stefano Caldoro inchiodato al 20% in Campania, asfaltato da Vincenzo De Luca.

Ma è soprattutto il referendum la misura della sconfitta del centrodestra. Un errore tattico micidiale, visto che soprattutto Lega e Fdi in Parlamento hanno sostenuto la riforma. E invece nelle ultime settimane era arrivato un mezzo dietrofront: la Lega lasciando libertà di voto e FdI sfilandosi di fatto dalla campagna per il Sì. Un bel regalo di Natale in anticipo a Luigi Di Maio. “Potevamo intestarci pure noi la vittoria e invece… Un errore incomprensibile”, dice sconsolato un deputato di FdI. Ma pure nella Lega lasciare agli altri il trionfo è stato oggetto di un’infuocata riunione del vertice del partito in via Bellerio. “Davvero qualcuno poteva pensare che avrebbe vinto il No? Ma non scherziamo! Abbiamo sbagliato su tutta la linea”, è stato il ragionamento di alcuni parlamentari. Ma non è solo la scelta sul referendum è a essere contestata. “Dobbiamo aprire una riflessione sul Sud: perché lì ancora non sfondiamo?”, fa notare l’ex ministro Lorenzo Fontana. Salvini, invece, rivendica il risultato referendario. “Abbiamo sempre sostenuto il taglio. E adesso questo Parlamento non rappresenta più gli italiani”, osserva il Capitano, evocando le elezioni.

La voce della verità, sul referendum, arriva dall’ex ministro Gianmarco Centinaio: “Inutile girarci intorno: abbiamo perso. Tanti di noi erano per il No…”.

Conte e il governo fanno festa Tentazione Viminale per Zinga

“Io sono ancora qua”. Nelle chat dei parlamentari Dem gira un video di Nicola Zingaretti che prende in prestito le parole di Vasco Rossi. Però, è un dato di fatto: il segretario del Pd, con il suo stile poco conflittuale, non solo è saldamente alla guida del partito, ma è uno dei vincitori di questa tornata elettorale. L’altro, Giuseppe Conte, sta a Palazzo Chigi, dove passa la giornata ostentando distacco, mentre i fotografi ufficiali del governo scattano istantanee che lo vedono al lavoro. Non si era voluto impegnare direttamente in una scivolosissima campagna elettorale, e a pericolo scampato tiene alla forma: “Prima la parola ai partiti”. Solo pochi commenti sulla regolarità del voto, pur in tempi di Covid e sulla buona prova della democrazia.

Il premier ha chiamato il segretario del Pd per complimentarsi. “L’ho salutato e ringraziato”, dice a sua volta Zingaretti. Conte ha sentito anche l’ex capo e leader di fatto del Movimento, Luigi Di Maio, esprimendogli la sua soddisfazione. Ma gli equilibri nella maggioranza di governo sono cambiati, con un Pd che esce più forte e i big del M5S che pensano a una segreteria collegiale (ampia, almeno 10 persone) per riorganizzarsi e isolare l’avversario, Alessandro Di Battista: indebolito dalla battaglia contro il voto disgiunto. Conte, che si è esposto poco, ma in una direzione chiara (sì al referendum e alle alleanze), dovrà vestire sempre più i panni del mediatore. “Rimpasto? Non lo so, dipende dal Presidente del Consiglio”, dice in serata il segretario del Pd, con una battuta anodina. Né lui, né nessuno dei big dem lo escludono più. Né Dario Franceschini, in rappresentanza della maggioranza, né Lorenzo Guerini, da leader di Base Riformista. E nel M5S che queste siano le intenzioni del Pd è più che un sospetto. “Ma noi abbiamo vinto il referendum quasi da soli, e poi Conte non vuole toccare nulla” dicono i grillini. Al Nazareno invece la parola d’ordine è: “Aspettiamo. La palla è al premier”. E sembra una strategia per arrivarci senza strappi.

Intanto la voglia è quella di godersi una vittoria che comincia a concretizzarsi quando arrivano i dati reali della Puglia. Zingaretti esce alle 17 per parlare con la stampa al Nazareno e rivendica un Sì che “apre a una stagione di riforme”. Mentre sulle Regionali dice: “Se gli alleati fossero stati uniti avremmo vinto quasi ovunque”. D’altronde, si è impegnato per un’intesa organica fin dal primo giorno del governo giallorosso. Gli spifferi delle ultime settimane – sempre più insistenti – lo vogliono desideroso di entrare al governo. Magari come vice premier. Forse al Viminale. Il suo staff finora ha sempre negato. Ma da ieri sera lo scenario è cambiato. E poi, in agenda ci sono il Mes e la modifica dei decreti sicurezza. Certo, il segretario non la mette giù dura: “No a ultimatum, ma bisogna passare dalle parole ai fatti”. E insiste: “La priorità è il Recovery Fund, bisogna spendere al meglio i fondi europei”. Non è nel suo stile affondare il coltello nella piaga. Ma la sfida di rendere il Pd la vera forza traino del governo è ineludibile.Invece il congresso dem si allontana: né Giorgio Gori, né Stefano Bonaccini sono più nelle condizioni di chiederlo.

L’unica leadership che avanza è quella di Vincenzo De Luca, trionfatore in Campania. Un ruolo nazionale per lui è un’ambizione. Se e quando diventerà un progetto è tutto da vedere. Invece nel M5S affiorano voci critiche per i numeri delle urne, pessimi sopra Roma. “Le scelte sul Nord sono state un fallimento, ci sono tante cose da rivedere” sibila il lombardo Stefano Buffagni, viceministro al Mise. Mentre l’eurodeputato Piernicola Pedicini parla di “Movimento che muore”. Giovedì dovrebbe esserci un’assemblea congiunta dei parlamentari. Temi, la rotta e il rapporto con la piattaforma Rousseau e Davide Casaleggio: il nemico, per quasi tutti.

De Luca Trionfa grazie al Covid E FI non c’è più

Napoli

C’è un paradosso che avvolge la riconferma del dem Vincenzo De Luca a governatore della Campania con proiezioni che superano il 67%, una vittoria che umilia i rivali Stefano Caldoro (Forza Italia) e Valeria Ciarambino (M5S), inchiodati al 19% e intorno al 10%. Il paradosso emerge dall’incrocio delle ragioni della sua ricandidatura con i numeri del bollettino dell’unità di crisi della protezione civile campana. Come sanno anche i sassi, De Luca è rimasto in sella, nonostante un Pd riottoso che lo avrebbe volentieri sacrificato in nome dell’alleanza di governo con M5s, grazie all’audace gestione mediatica e social – tutta monologhi senza contraddittorio – dell’emergenza Covid: i carabinieri da mandare alle feste di laurea col lanciafiamme, gli anatemi contro gli assembramenti delle comunità religiose, ordinanze persino più aspre dei Dpcm di Conte, ospedali modulari costruiti in fretta e furia durante il lockdown con appalti assegnati a tempo di record e tra sospetti dei pm che indagano.

Così De Luca è riuscito a far passare il messaggio di essere l’uomo migliore per la lotta alla pandemia. Lo sceriffo dell’antivirus. E la sua ricandidatura, quasi impossibile a gennaio, non è stata più messa in discussione. Ma la vittoria – ed è qui il paradosso – matura nel giorno in cui il bollettino segnala 243 positivi al Covid-19. Numeri che ieri hanno reso la Campania la Regione più contagiata d’Italia. Da settimane la Campania di De Luca macina statistiche preoccupanti, di ricoveri in crescita e reparti Covid di nuovo pieni. Inoltre, mentre in quasi tutta Italia la scuola è ripartita pur tra mille difficoltà, la Campania è ferma al palo: qui si ricomincia il 24 settembre. Forse. Diversi sindaci hanno firmato ordinanze per posporre chi al 28 settembre, chi addirittura a ottobre. Insomma, De Luca vince grazie a una bolla che sta scoppiando. Quindici liste a lui collegate hanno aiutato ad ampliare il divario con Caldoro – sostenuto da sei liste – e con Ciarambino e la sua monolista M5s, prima dell’emergenza furono annunciate alleanze con liste civiche mai concretizzate. Al momento di andare in stampa non ci sono notizie sulla qualità della maggioranza del consiglio regionale che sosterrà il secondo mandato del presidente. Occhi puntati sulle liste civiche De Luca presidente e Campania Libera. Se dovessero raccogliere più consensi del Pd, il segnale politico sarebbe dirompente.

Che poi, Pd, civiche, sinistra e destra sono categorie superate. Nella coalizione bazar di De Luca c’era posto per tutti ed è lui il primo ad ammetterlo. “Credo che sia onestà intellettuale chiarire che questo risultato non è di destra o di sinistra: la mia candidatura è stata sostenuta dalle forze progressiste ma anche dalle forze di destra moderata che si sono riconosciute nel lavoro fatto”, una delle prime dichiarazioni a caldo del governatore riconfermato. Mentre Caldoro recrimina contro il Covid “che ha cambiato completamente la narrazione e non solo in Campania” e contro “la straordinaria macchina da guerra delle liste opposte dal centro sinistra, una macchina costruita sul consenso, una grande macchina clientelare”. Era una battaglia persa in partenza e lo sapeva.

ZaiaIl listone del governatore umilia la Lega

Venezia

Tutti al K3, storica tana leghista di Treviso. Ma per esaltare il trionfo dello zar Zaia III, destinato a governare il Veneto come un satrapo orientale per i prossimi 5 anni, o per celebrare il funerale laico di Matteo Salvini, segretario di un partito che è stato umiliato in casa propria? “Siamo tutti leghisti” dicono i fan arrivati anche da lontano, convinti ed entusiasti. A loro interessa solo la festa di un successo senza precedenti, anche se ampiamente annunciato. Lasciano agli osservatori l’analisi del mal di pancia indotto ai piani alti di via Bellerio. Hanno preparato il palco, con un grande schermo, le poltroncine distanziate per giornalisti e pubblico. Il presidente del Veneto è riuscito nel miracolo di far approvare nel lontano 2012 una legge che limitava a due i mandati consecutivi e di riuscire a farsi eleggere nuovamente, per la terza volta. Impresa non molto diversa da quella di trasformare il dramma nazionale dell’emergenza Covid nel più formidabile trampolino di lancio per la rielezione.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Zaia (con il centrodestra) ha ottenuto il 75% dei consensi, ridicolizzando il centrosinistra del professore Arturo Lorenzoni, ex vicesindaco di Padova, che si ferma intorno al 15%, ben lontano dal 23% di Alessandra Moretti, nel 2015, che fu il peggiore risultato di sempre. Come non bastasse, Forza Italia scompare, e Fratelli d’Italia non arrivano allo sperato 10%, riducendosi a ruota di scorta di una maggioranza leghista. Nel duello stracittadino, con il 47% abbondante ottenuto dalla lista Zaia Presidente, il governatore ha triplicato il suo stesso partito, con il marchio Salvini, che si è fermato al 14%. Un bel cuneo introdotto nel cuore della Lega, dove il voto del Veneto conferma l’esistenza di due anime: da una parte l’autonomia fortissimamente voluta da Zaia, ma inutilmente inseguita da tre anni, dall’altra la vocazione neo nazional-sovranista di Salvini. Non a caso, il sottosegretario all’Interno Achille Variati, del centrosinistra, sottolinea: “Adesso cambia lo scenario politico. Fino a ieri Salvini era il capo indiscusso, qui ha raccolto un risultato modesto. E ora Zaia si candida ad essere un nuovo leader del centrodestra. Se poi aggiungiamo che Salvini ha perso in Puglia e Toscana, per lui il quadro si complica”.

Si sforza il commissario veneto Lorenzo Fontana a respingere le turbolenze: “Sono tutti leghisti, avevamo l’obiettivo di raggiungere il 50% dei seggi in consiglio regionale. Non ci sono problemi di dualismo”. E il sindaco di Treviso, Mario Conte: “Celebriamo la vittoria di Zaia e della Lega, lui penserà al Veneto, Salvini all’Italia”. Gianpaolo Gobbo, ex segretario regionale: “È un premio alla dimostrazione che ci sappiamo fare”. Però Raffaella Beraldo, consigliere comunale a Montebelluna, ammette: “In effetti c’è sbilanciamento fra le liste di Zaia e Salvini, ci aspettavamo un rapporto di 1 a 2, invece… Vorrà dire che il progetto dell’autonomia si rafforza”. Camilla Franco, candidata degli autonomisti: “Va bene così, Zaia è il più amato di tutti”. Raffaella Gobbi, candidata veneziana per Salvini: “Il segreto di Zaia? È attento ai cittadini”. L’avvocato Alberto Ferri, candidato di Martellago: “A differenziarlo è lo stile, parla in modo diverso dagli altri politici, la sua forza è la capacità di amministrare”. Dulcis in fundo, Edoardo, 14 anni, incarna il dualismo. Perché sei venuto? “Per fare un selfie con Salvini”. Ma Salvini non c’è… “Allora lo faccio con Zaia”.

Appendino, sbarrata la segreteria 5Stelle

Torino

Poteva andare peggio, certo. Ma anche molto meglio. La sindaca di Torino, Chiara Appendino, è stata condannata in primo grado a sei mesi per falso ideologico in atto pubblico: per far quadrare i conti avrebbe nascosto nel bilancio comunale 2016 un debito da 5 milioni contratto dopo la trattativa sull’area ex Westinghouse, per cui la società Ream, partecipata della fondazione Crt, aveva versato nel 2012 una caparra da 5 milioni per la prelazione sulla zona in cui sarebbe dovuto sorgere un centro congressi. Alla fine del 2013 (sindaco Fassino) il Comune assegna però il progetto alla Amteco-Maiora, per 19,7 milioni di euro. Secondo i pm Gabetta e Gianoglio la città avrebbe dovuto restituire la caparra alla fine del 2016. Ma il debito non venne messo a bilancio. Condannati a sei mesi l’ex assessore al bilancio Sergio Rolando e a otto mesi l’ex capo di Gabinetto Paolo Giordana.

Poteva andare peggio, si diceva, perché Appendino era accusata anche di abuso d’ufficio, imputazione da cui è stata assolta. In caso contrario sarebbe scattata la legge Severino con conseguente obbligo di abbandonare la carica di sindaca. Ma poteva andare meglio. La condanna – seppur lieve da un punto di vista penale – è un macigno politico: Appendino, in ottemperanza al codice etico dei 5S, si è autosospesa dal Movimento e quindi non si potrà ricandidare per un secondo mandato (perlomeno non con il M5S).

Infine non potrà entrare nella “segreteria collegiale” del Movimento né ricoprire la carica di ministro in caso di eventuale rimpasto di governo, due opzioni per cui le azioni di Appendino – molto meno aliena dall’establishment subalpino di quanto non sia stata la collega Raggi a Roma – erano assai quotate. Insomma, nessuna carica apicale nel M5S. E nel Movimento c’è chi evoca possibili conseguenze su future alleanza, dal momento che il processo nacque da un esposto del Pd.

“Porterò a termine il mio mandato da sindaca – ha detto Appendino–. Continuerò a essere sindaco di Torino. Se mi ricandiderò? Non è il momento di parlarne”.

Macché spallata: la tranvata a Lega, Cdb, Fca, Dibba&C.

L Ci sono alcuni dei politici condannati in Cassazione nell’ambito dell’inchiesta “Mondo di Mezzo” e poi Piero Amara – avvocato al centro di diverse vicende giudiziarie – finito in carcere a 24 ore dalla decisione della Consulta sulla “Spazzacorrotti”. Tutti lasceranno il carcere dove erano finiti dopo l’approvazione di questa stessa legge nel gennaio del 2019. E poi c’è anche il caso dell’ex governatore della Regione Lombardia Roberto Formigoni che, ai domiciliari, potrà tirare un sospiro di sollievo perché il ricorso della Procura generale di Milano contro questa misura detentiva potrebbe decadere. onsulta di ieri ha conseguenze immediate su coloro che, condannati in via definitiva per reati contro la Pubblica amministrazione e con un residuo di pena da scontare inferiore a quattro anni, sono finiti in cella perché quella stessa legge è stata applicata in modo retroattivo. Ieri, infatti, la Corte costituzionale ha bocciato l’interpretazione della “Spazzacorrotti” che esclude le pene alternative per questo tipo di reati commessi prima che fosse varata. Ora chi tornerà libero, quando ci sarà un provvedimento della Procura generale, potrà presentare richiesta di misure alternativeasdasdasdasdasdasdas.Pendisse feugiat vestibulum eros, et vehicula eros luctus sit amet. Donec eleifend condimentum odio eu pretium iaculis venenatis sodaleasdasdasdasds.

1. Titoletto testo base
corrumpeasdasdret

Nullam rhoncus snque il carcere, tra gli altri, anche l’ex presidente del Municipio di Ostia, Andrea Tassone, l’ex presidente Pd dell’assemblea capitolina Mirko Coratti e l’ex consiglieminati, e di Salvatore Buzzi, affermando l’esistenza di due associazioni a delinquere semplici. I politici non erano accusati di mafia, ma di corruzione. Tredicine, per esempio, era stato condannato in Appello a due anni e sei mesi, aveva un pena residua da scontare a un anno e nove mesi.nluca Tognozzi, anche segretario della Camera penale di Roma, commenta: “Chiunque poteva accorgersi che la ‘Spazzacorrotti’ era una norma incostituzionale, ma solo noi penalisti lo abbiamo sostenuto e ribadito in più sedi. Quando si scrivono norme in questo modo è chiaro che ci sono decisioni come quelle della Consulta. Spero serva da monito per la riforma sulla prescrizione. Domani (oggi per chi legge, ndr) ci saranno gli ordini di esecuzione e Tredicine uscirà dal carcere e come lui tutti coloro che devono scontare per quei reati pene residue inferiori a quattro anni”.

C’è poi il caso dell’avvocato Piero Amara: è finito in carcere il giorno prima della decisione della Consulta, arrestato per un cumulo di pena di 3 anni e 8 mesi di carcere. L’arresto è scattato dopo la sentenza della Cassazione del 4 febbraio che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Amara, il quale aveva patteggiato undiritto”. C’è poi il caso dell’avvocato Piero Amara: è finito in carcere il giorno prima della decisione della Consulta, arrestato per un cumulo di pena di 3 anni e 8 mesi di carcere. L’arresto è scattato dopo la sentenza della Cassazione del 4 febbraio che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Amara, il quale aveva patteggiato una condanna davanti al Gup di Messina a un anno e due mesi per l’inchiesta sul cosiddetto “Sistema Siracusa”. “Abbiamo già presentato istanza di revoca dell’ordine di carcerazione – spiega il suo legale, l’avvocato Salvino Mondello – e appena tornerà libero faremo un’istanza formale in cui chiederemo l’affidamento in prova ai servizi sociali. La retroattività della norma, così come interpretato prima della decisione di ieri della Consulta, viola qualsiasi principio di diritas apsdasdasdasdto”.

Diverso il caso dell’ex governatore Roberto Formigoni. Finito in carcere nel febbraio 2019 dopo la condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione per il caso Maugeri-San Raffaele, a luglio dello stesso anno gli vengono concessi i domiciliari. Ed è qui che resterà. Ma almeno non vivrà più con la spada di Damocle del ricorso presentato dalla Procura generale contro la decisione dei giudici di luasdsdsdglio.

L’arresto è scattato dopo la sentenza della Cassazione del 4 febbraio che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Amara, il quale aveva patteggiato una condanna davanti al Gup di Messina a un anno e due mesi per l’inchiesta sul cosiddetto “Sistema Siracusa”. “Abbiamo già presentato istanza di revoca dell’ordine di carcerazione – spiega il suo legale, l’avvocato Salvino Mondello – e appena tornerà libero faremo un’istanza formale in cui chiederemo l’affidamento in prova ai servizi sociali. La retroattività della norma, così come interpret.

Dahlan: il dopo Abu Mazen. Così gli Usa isolano l’Olp

“Hai mai visto un movimento rivoluzionario guidato da un’ottantaquattrenne?”, mi chiese non molto tempo fa Hanan Ashrawi, una delle donne simbolo di Fatah, deputato, già ministro della Cultura, fine linguista insignita di prestigiosi riconoscimenti nel mondo, dalla Legion d’Onore francese al premio Olof Palme e undici lauree honoris causa negli Stati Uniti. La domanda è legittima perché anche nella “vecchia guardia” di Fatah si è fatta strada la convinzione che per la causa palestinese bisogna cambiare marcia – che gli eventi stanno sopravanzando e che la leadership di Ramallah abbia fatto il suo tempo. Dopo la firma con i nuovi alleati arabi, del Golfo ora la mossa di Stati Uniti e Israele è quella di isolare l’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas.

Abu Mazen, venne eletto nel 2004 e il suo mandato scadeva nel 2009, poi si è andati avanti di proroga in proroga, citando l’impossibilità di tenere elezioni anche nella Striscia di Gaza che nel frattempo col governo di Hamas si era “staccata” dalla Cisgiordania.

I tempi sembrano oggi maturi per Abu Mazen, che peraltro ha anche qualche problema di salute e la fronda contro il presidente imbarca nuovi sostenitori ogni giorno. È un fiume carsico, perché nonostante quella sua aria da nonno buono, Abu Mazen è spietato con i suoi oppositori, liquidati spesso con l’accusa di tradimento o di tramare contro l’Anp.

Sono almeno una decina gli uomini di Fatah che ambiscono a sedersi al suo posto nella Muqata di Ramallah. Giovani Leoni e Vecchia Guardia. In pista ci sono nomi di peso della galassia palestinese. Nasser Al Kidwa, nipote di Yasser Arafat ed ex ministro e ex ambasciatore dell’Anp all’Onu. Jibril Rajoub, attuale presidente del Comitato Olimpico palestinese ed ex capo dei servizi segreti in Cisgiordania. Il generale Majdj al Faraj, già capo della Preventive Security palestinese.

E naturalmente Mohammed Dahlan, il sessantenne potente ex delfino di Arafat ed ex capo della Preventive Security nella Striscia di Gaza, ora rifugiato nel Golfo Persico, sostenuto anche da Egitto e Arabia Saudita. Ed è su di lui che si stanno puntando le attenzioni degli Stati Uniti di Donald Trump come possibile futuro leader palestinese.

“Ci stiamo pensando, ma non abbiamo alcun desiderio di costruire la leadership palestinese”, ha detto David Friedman, inviato americano in Israele, in un’intervista a Usa Today. Ma non è un segreto che ci sono elementi all’interno dell’Amministrazione statunitense che sostengono Dahlan per accelerare l’uscita di scena di rovesciare Abbas come presidente della Palestina. Negli anni in cui comandava la sicurezza a Gaza, Dahlan ha avuto modo di avere stretti rapporti di collaborazione con gli Usa, è amico personale dei Clinton e di un paio di ex direttori della Cia. Parla anche un ebraico fluente, appreso durante i suoi 11 soggiorni in gioventù nelle carceri israeliane.

La scure di Abu Mazen si è abbattuta su di lui con l’espulsione da Fatah e la denuncia di tradimento nel 2015 e per evitare l’arresto l’ex delfino di Arafat si è rifugiato negli Emirati, dove ha avviato una fiorente attività imprenditoriale ed è tra i consiglieri più ascoltati di Mohammed Bin Zayed al Nayan, l’erede al trono dell’Emirato.

Il gossip sostiene che sarebbe stato proprio lui uno dei mediatori della recente intesa diplomatica fra gli Emirati e Israele. Dahlan è un uomo d’affari e di relazioni, il suo seguito è ancora forte specie negli apparati di sicurezza palestinesi. Oggi gli uomini del “blocco di riforma democratica”, il movimento da lui ispirato, non riconoscono più in Abbas il loro presidente.

Dahlan è anche sotto il tiro della Turchia – che ha messo su di lui una taglia da 5 milioni di dollari – per un suo presunto coinvolgimento nel golpe che nel 2016 voleva rovesciare il presidente Erdogan. Nonostante sia assente sulla scena da diversi anni Mohammed Dahlan gode della fiducia indiscussa degli uomini che hanno lavorato con lui in passato e anche nella Gaza amministrata da Hamas non c’è foglia che si muova a Khan Younis – il più grande campo profughi della Striscia – che lui non voglia. Come un raìs, o quasi.

“Anche Centemero aggiustò i conti su 450 mila dei 49 mln”

Rendiconti aggiustati alla presenza del tesoriere della Lega salviniana, Giulio Centemero, soldi che escono e rientrano nel conto Unicredit del Carroccio cambiando causale, documenti originali raddoppiati, firme riconosciute a metà, dichiarazioni contraddittorie, fatture sospette. In mezzo il ruolo dell’associazione Maroni Presidente, nata nel gennaio 2013, tra i cui fondatori c’è il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli (non indagato) e politici vicini a Matteo Salvini. Tutto emerge dall’inchiesta della Procura di Genova sui 49 milioni di rimborsi pubblici spariti dalle casse della Lega. Lo si legge in una nota di otto pagine firmata dal procuratore aggiunto Francesco Pinto e dal pm Paola Calleri inviata a marzo alla Camera. In quella data i deputati dovevano decidere se autorizzare le perquisizioni negli uffici del parlamentare leghista Fabio Boniardi (non indagato), titolare di una tipografia a Milano citata nell’indagine genovese per fatture sospette all’associazione.

Il documento ripercorre i passaggi con i quali si è arrivati a indagare per il riciclaggio di parte dei 49 milioni l’attuale assessore regionale lombardo alla Cultura, Stefano Bruno Galli, in quanto presidente dell’associazione Maroni Presidente. La vicenda nasce da un esposto di Marco Tizzoni, ex capogruppo della Lista Maroni Presidente. Tizzoni vuole capire che fine abbiano fatto i soldi asseritamente utilizzati per la campagna elettorale del 2013 e dove siano le fatture. L’esposto, depositato alla Procura di Milano e qui archiviato, ha aperto un filone a Genova sfociato, nell’autunno 2019, in diverse perquisizioni nelle sedi dell’associazione e in quelle di due tipografie, la Nembo e la Boniardi grafiche, questa riferibile al parlamentare della Lega.

Al centro della vicenda 450 mila euro che dalla Lega arrivano all’Associazione e poi tornano indietro. Un dare e avere inizialmente annotato nel rendiconto 2013 come “erogazione liberale” e poi cambiato a posteriori nel 2015, alla presenza anche del tesoriere della nuova Lega di Salvini, in “prestito” e “restituzione prestito”. Prestito che, stando al presidente Galli, serviva alla campagna elettorale 2013, ma che, spiega la Procura, arrivò a campagna elettorale quasi terminata.

I soldi dalla Lega arrivano tra il 10 e il 18 gennaio 2013 dal conto dell’agenzia Unicredit di Milano, lo stesso dove, secondo la Procura di Genova, sono stati appoggiati i 49 milioni inizialmente transitati presso la Banca Aletti di Genova. La Lega così fa tre bonifici da 150 mila euro sul conto di banca Credem e su un altro della Popolare di Sondrio con causale “contributo ad associazione”. Tutti annotati nel rendiconto 2013 dell’associazione come “erogazione liberale”. Tra il 5 e il 21 maggio 2014, la Maroni Presidente fa 5 bonifici sul conto Unicredit della Lega per 400 mila euro. Il passaggio di denaro viene annotato a marzo 2014 nel rendiconto della Maroni presidente sotto la voce “erogazione liberale”. Scrive Pinto: “Nella riunione del 21 dicembre 2015 del Consiglio direttivo dell’Associazione (…), a cui partecipava anche il tesoriere della Lega Centemero l’erogazione liberale” ricevuta nel 2013 dalla Lega “veniva riclassificata come un prestito/finanziamento infruttifero che l’associazione si impegnava a restituire”. Da qui, alla presenza del tesoriere del partito, veniva “redatta una nuova versione” dei rendiconti 2013 e 2014. Sentita a verbale, l’ex tesoriere dell’associazione Federica Moro, rivela che fu Galli a spiegarle i motivi. L’assessore le dice, riassume Pinto, che “per errore o superficialità tale dazione era stata contabilizzata come erogazione liberale e che l’associazione aveva annotato in modo errato anche la dazione dei 400 mila euro alla Lega, qualificandola come erogazione liberale”.

Perché questo cambio repentino? La risposta arriva da Luca Lepore, primo tesoriere dell’associazione, che nel 2013 dopo il primo rendiconto, darà le dimissioni. Nel 2016 in un incontro con Galli e Moro gli verrà chiesto di firmare il nuovo rendiconto 2013. Cosa che Lepore, mette a verbale, si rifiuta di fare, “perché i bonifici della Lega recavano la causale contributo ad associazione e non gli risultava nessun impegno di restituzione da parte dell’associazione”. Lepore aggiungerà “che nel 2013 l’associazione non poteva ricevere un prestito perché non era in grado di fornire alcuna garanzia”. Durante le perquisizioni del 2019, la Finanza acquisisce due “originali” del rendiconto 2013. Il primo firmato da Federica Moro. E un secondo con la firma di Lepore. Firma che Lepore pare riconoscere. Spiega, però, di “non aver mai firmato il rendiconto” ma un documento contabile che “non conteneva riferimento ai rapporti dare-avere tra la Lega e l’associazione”. Non vi è dubbio che la casuale originaria fosse “erogazione liberale”. La dicitura, spiega Pinto, viene ritrovata nel documento depositato nell’aprile 2013 presso la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti. Il documento porta la firma di Galli e dell’allora segretario amministrativo della Lega, Stefano Stefani. Entrambi alla Camera dichiararono che “le libere sovvenzioni versate all’Associazione Maroni Presidente nel 2013 sono state di 450mila euro”. Conclude Pinto: “Ciò conferma che l’originaria causale era quella di una erogazione liberale”. È questo, cioè, il primo passaggio del dare-avere sotto la voce erogazione liberale poi corretto in prestito, a individuare l’accusa di riciclaggio contestata all’assessore Galli.

Mail Box

 

Toscana, la Lega cercava il voto “dell’aldilà”

Ieri ho trovato nella buca delle lettere una serie di volantini elettorali, tra questi una lettera ha attratto la mia attenzione, era intestata a mio padre. L’ho aperta e con stupore vi ho trovato il sorriso smagliante della Ceccardi. Ringrazio la candidata alla presidenza Toscana per aver sperato nel voto di Silvio, ma la volevo informare che mio padre è venuto meno il 29 marzo di quest’anno all’età di 81 anni e soprattutto non avrebbe mai votato la destra né tantomeno la Lega Nord/Salvini. E nel caso la Ceccardi avesse la presunzione di riuscire nel far votare dall’aldilà, sicuramente mio padre non la voterebbe manco glielo dicesse il Padreterno.

Flavio

 

Basta annunci inutili, è necessaria la memoria

Vorrei cercare di capire come possa far presa il continuo sciacallaggio mediatico a cui capipartito come Salvini sottopongono quotidianamente il governo per ciò che fa. L’esempio concreto è quello sulla scuola, dove lungi dallo spiegare cosa avrebbero fatto concretamente lorsignori, continua a sparare a palle incatenate verso quello che è percepito come l’anello debole, e cioè la Azzolina. Tutto ciò, trascurando serenamente la politica di 20 anni di “tagli lineari” dei governi Berlusconi, ministri Tremonti e Gelmini, che hanno reso la scuola pubblica italiana ciò che è: una scuola con un corpo insegnante tra i piu’ vecchi d’Europa, con stipendi da fame che certo non fanno temere sul livello delle pensioni future dato che i redditi arrivano in nero da lezioni di ripetizione extra-currriculari in edifici fatiscenti. E nonostante tutto questo il livello delle scuole superiori e dei licei italiani ha resistito grazie al corpo docenti, ai genitori e ai ragazzi. Una storia molto simile è a quella della sanità. Dato che tutte queste misure discendono da 20 anni di governi berlusconiani, con la Lega, con che coraggio questa stessa parte politica si fa la bocca larga criticando chi sta provando a fare qualcosa in tempi straordinari e a far ripartire il nostro Paese? Certo che la memoria politica di alcuni è quella di un pesce rosso.

Marco

 

I giovani rispettino le regole contro il virus

Gli sforzi del ministero dell’Istruzione, dei presidi, di tutti i docenti, del personale Ata e amministrativo che lavora nelle scuole, saranno probabilmente vanificato da alcuni adolescenti. È assolutamente inutile controllare a scuola che i ragazzi tengano i distanziamenti e le mascherine quando si parlano e ridono a distanza ravvicinata, se prima di entrare a scuola o quando escono fanno nei piazzali antistanti gli edifici scolastici l’esatto contrario. Gli adolescenti non sono tutti uguali come non lo sono gli adulti: vi sono i più responsabili, i meno responsabili, dipende anche dalle famiglie di appartenenza. Questo sarà il motivo che porterà presto alla quarantena di classi e all’aumento dei casi di Covid. Gli adolescenti, quando necessario, vanno rimproverati e costretti al rispetto degli altri.

Barbara Cinel

 

Pensiamo a un reddito universale per tutti

Caro direttore, l’idea propositiva di Grillo di un reddito universale slegato dal lavoro dovrebbe essere approfondita dai politici nostrani. Le parole del fondatore del M5S non sono da sottovalutare: “Serve un reddito universale”. È indubbio che, in questa asfittica società globale, che lascia innumerevoli vittime sul terreno, molti siano senza lavoro e senza una remunerazione economica minima per poter vivere con dignità. Il concetto di reddito universale, però, inevitabilmente scontenta molti: da Forza Italia a Italia Viva, come Mara Carfagna e Luciano Nobili. Loro sì fanno parte dei superprotetti e supergarantiti.

Marcello Buttazzo

 

Saviano e la sua logica che “va in picchiata”

Travaglio in un articolo dei giorni scorsi ha evidenziato le contraddizioni interne ai “ragionamenti” dei supponenti Mieli e di Saviano rispetto all’attuale momento politico. Un articolo denso in cui il direttore del Fatto ha sottolineato la confusa posizione di Saviano. Una “provocazione” mal riuscita dello scrittore, che ha contribuito ad aumentare la confusione che regna sovrana in questa pandemia. Un Saviano scatenato contro il governo 5Stelle-Pd senza il controllo delle conseguenze logiche delle proprie opinioni. Mi ha ricordato un articolo di Magris di diversi anni fa “Se la logica va in picchiata” nel quale lo scrittore sosteneva che “violare la logica è una violenza non solo contro i concetti ma anche contro la vita e i sentimenti perché significa ingarbugliare le carte e confondere le parti”.

Salvatore Giannetti

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri nella recensione del libro di Piero Nissim, scritta da Furio Colombo, abbiamo riportato erroneamente il costo del libro. Il testo è acquistabile non a 10 euro, ma a 13 euro.

Nell’articolo pubblicato a pagina 12 nel nostro quotidiano di domenica scorsa dal titolo “La Cassazione annulla (con rinvio) i 30 anni a Troilo per l’omicidio della giovane Jennifer” è saltata la firma dell’autore Maurizio Di Fazio. Ce ne scusiamo con il diretto interessato e con i lettori.