Covid “Sono tornato in Sardegna e ho dovuto pagarmi il tampone”

 

Caro Presidente Solinas io e la mia famiglia, composta da mia moglie e da due figlie di cui una diversamente abile al 100% e in carrozzina, abbiamo deciso di farci una vacanza tra Roma e Firenze, con rientro da Genova. Siamo partiti il 4 settembre e sbarcati a Porto Torres il 14 Settembre, giorno in cui entrava in vigore la tua bellissima ordinanza. All’arrivo, io e mia moglie ci siamo detti: “Appena scesi dalla nave, anche se restiamo molte ore in porto, ci facciamo i tamponi così risolviamo il problema”. Ma lì non c’era nessuna postazione per fare il test. Allora ho chiesto a un finanziere e quello mi ha risposto che non c’era nulla. Ho chiamato il 112 e da Sassari mi hanno detto che anche loro non sapevano niente, quindi ci siamo messi in viaggio per rientrare a Sinnai, il nostro paese di residenza. A casa ho guardato sul sito della tua Regione e ho trovato un numero verde: mi hanno detto di scrivere alla ATS Sardegna specificando i nostri nomi e quello che avevamo fatto, e che sarebbero stati loro a contattarci. Prima della scadenza delle 48 mi hanno risposto scrivendomi e ripetendomi l’ordinanza che hai fatto tu, carissimo Presidente. Nel frattempo abbiamo fatto le analisi a pagamento: spesa totale euro 172,40. Mi dici se riuscirò a recuperare questi soldi? E perché l’ordinanza non l’hai fatta prima sapendo che la maggior parte dei turisti sarebbero arrivati tra luglio e agosto?

Mauro Cocco

 

Caro mauro, l’ordinanza 43 dell’11 settembre non dice che in ogni porto di sbarco è stata o sarà montata una postazione gestita dalla sanità regionale dove eseguire un test, ma si limita a prevedere la possibilità di farlo “presso le postazioni eventualmente allestite nei porti e negli aeroporti di arrivo”. La specifica “eventualmente” indica che la loro presenza non è affatto certa, anzi. La stessa prevede che “il costo sostenuto per l’effettuazione dei test sarà rimborsato dalla Regione dietro presentazione di regolare ricevuta” e aggiunge che per sapere come fare occorre consultare il sito della Regione. Il provvedimento resta tuttavia sub iudice: giovedì il Tar ha accolto il ricorso presentato dal governo e sospeso l’efficacia degli articoli 10, 11 e 12 del testo (che prevedono l’obbligo di sottoporsi ad analisi prima di arrivare sull’isola o di farlo nelle sue strutture accreditate) fino all’udienza di merito del 7 ottobre.

Marco Pasciuti

Renzi e Ceccardi, le due “cassandre” attaccate a whatsapp

In tempi di social, il silenzio elettorale è una chimera. In questo senso, tra sabato e ieri, alcuni “leader” politici hanno inviato messaggi “privati” meravigliosi, che riletti adesso fanno molto ridere. Il primo a varcare i confini della leggenda è stato ovviamente Matteo Renzi, che sabato pomeriggio alle 18 ha mandato ad alcuni elettori liguri – tramite un numero che si firmava genericamente “Italia Viva! – il seguente messaggio: “M5S e Pd appoggiano un giustizialista che viene dal Fatto Quotidiano. ITALIA VIVA non ci sta! Vota la competenza, non il populismo: vota MASSARDO. Matteo Renzi”. Notate bene: per Renzi in Liguria (e non solo lì) il nemico non era Toti e dunque la destra, ma 1) i “giustizialisti”, 2) Il Fatto Quotidiano, 3) gli alleati di governo Pd e M5S. Quel che si dice la correttezza. E quel che si dice la lungimiranza, perché poi tal Massardo ha preso percentuali risibili da Tabacci. Ma Renzi vive nel suo mondo, e infatti ha poi pure avuto il coraggio di esultare per la Toscana, quando in realtà (avendo imposto un candidato debolissimo come Giani) era stato proprio lui a rendere contendibile una regione storicamente rossa. E dall’altra parte c’era la Ceccardi, non Churchill! Renzi ha cioè fatto partire ad handicap il centrosinistra, che nonostante questo ha comunque finito col vincere in Toscana. Grazie anzitutto al voto utile/disgiunto e, più ancora, alla paura di consegnare una regione alla destra peggiore.

Ma torniamo alla Ceccardi. Domenica e ieri, la candidata iper-salviniana si è mostrata scatenata su whatsapp. Era convintissima di vincere. Domenica, alle 9.41, ha scritto alla sua rubrica toscana (di cui evidentemente faccio parte, perché li ho ricevuti anch’io) il seguente messaggio: “Carissimi, se oggi (fino alle 23) e domani (dalle 7 alle 15) ci mobilitiamo tutti la vittoria in Toscana questa volta è davvero a portata di mano. Sulla scheda *doppia croce*: una su Susanna Ceccardi e una su uno dei simboli delle liste della coalizione. È un’occasione storica, non sprechiamola: invia questo whatsapp a tutti i tuoi contatti. Grazie!”. Ieri, di prima mattina alle 7.25, è parsa addirittura più ottimista: “Buongiorno! Pareva impossibile ma… sembra che siamo vicini all’obiettivo. Ma attenzione. Anche SOLO un voto può fare la differenza: *alle 15 di oggi* i seggi chiudono, se non ti mobiliti adesso poi non servirà più. Qualche telefonata e whatsapp a cugini, nonni, zie, vicini di casa, colleghi di lavoro, ex compagni di scuola possono DAVVERO fare la differenza, non è la solita frase scontata. Aiutami, sarà bellissimo condividere con te questa sera la vittoria, perché un pezzo sarà anche tuo. Grazie per quello che hai già fatto e per quello che farai stamattina. Un abbraccio, non molliamo! Susanna”.

Ceccardi è stata come sempre molto lucida. Soprattutto quando ha scritto con impeto meravigliosamente cassandrico: “Sarà bellissimo condividere con te questa sera la vittoria”. A suo modo, e lo dico da toscano che se avesse vinto lei avrebbe ponderato l’ipotesi di trasferirsi alle Isole Tonga, ha avuto ragione lei: è stato bellissimo ieri sera condividere la vittoria. Ma per fortuna non la sua. E neanche di Salvini. E neanche di Giorgia Meloni, che venerdì sera, sbraitando (come sempre) durante il comizio di fine campagna elettorale a Firenze, ha avuto il coraggio di dire: “Votate la Ceccardi, una donna capace, perché noi siamo democratici e Fratelli d’Italia non v’ha (sic) tradito mai”. Oltre ogni comica. Sarà per un’altra volta, sovranisti & camerati.

 

Bentivogli, da sindacalista a “pasdar” di Confindustria

Nel suo recente passaggio da sindacalista a editorialista, Marco Bentivogli trova nuovi ammiratori e non smette di sorprenderci. Sarei curioso di sapere cosa ne pensano i metalmeccanici della Fim Cisl che lo hanno avuto come segretario generale dal 2014 fino al giugno scorso. Da poco è entrato a far parte del comitato scientifico de Il riformista in economia, inserto diretto da Renato Brunetta, che esce come supplemento del lunedì per il giornale di Piero Sansonetti. Ma è sulla pagina dei commenti di Repubblica che Bentivogli ha portato ieri il suo affondo contro il decreto Dignità, varato per disincentivare la proliferazione dei contratti a termine, ovvero la piaga tutta italiana del precariato. A onor del vero, contrariamente a quanto avviene di solito, il quotidiano di Maurizio Molinari ha ritenuto di attenuare, nel titolo, il contenuto: Perché non serve il decreto dignità. Ma basta leggerlo per scoprire che Bentivogli aveva deciso di andar giù molto più duro. Esaminati i dati negativi dell’occupazione – senza neppure richiamare il colpo inferto dalla pandemia al sistema economico – giunge subito a offrire il suo rimedio. Testuale. “Esiste un solo vaccino: l’abolizione del decreto Dignità”. Con toni più misurati e con argomenti discutibili, ma certamente meno sbrigativi, diverse firme economiche si erano già espresse criticamente: da Dario Di Vico a Tito Boeri, solo per citarne due fra i più autorevoli. Evidentemente Bentivogli non ne condivide la moderazione e ha deciso di strafare. Non gli mancherà l’apprezzamento del presidente di Confindustria e forse anche del nuovo azionista di Repubblica, ma temo lasci di stucco il mondo sindacale. Quello, per intenderci, che ha avuto nell’indimenticabile Pierre Carniti uno dei più abili, creativi e integerrimi dirigenti del dopoguerra. Vero è che negli anni passati l’idea di lasciare briglia sciolta ai rapporti di lavoro, nell’illusione che una maggior flessibilità concessa agli imprenditori avrebbe favorito la crescita dell’occupazione, fu sposata dai principali esponenti del centrosinistra. Non a caso fu Giuliano Poletti, ministro del Lavoro nel governo Renzi, a varare nel 2014 il decreto che estendeva a 36 mesi la durata dei contratti a tempo determinato, consentiva ben cinque proroghe, ed eliminava l’obbligo di fornire la motivazione per cui l’azienda ricorre a tale strumento. Ma i risultati si erano ben visti: un vero e proprio far west, il trionfo della fantasia dei commercialisti che consigliavano alle imprese spin off, creazione di società di comodo, assunzioni e licenziamenti a fisarmonica. Senza che tale bengodi giovasse almeno a un incremento dei posti di lavoro, sia pure precari. Il decreto Dignità fu varato dal governo M5S-Lega che ebbe buon gioco a denunciare il precedente cedimento senza contropartite del centrosinistra alle convenienze degli imprenditori. Ora evidentemente Bentivogli, anziché riconoscere un errore pagato caro, non solo col dilagare del precariato ma anche spingendo quei lavoratori a sentirsi traditi dalle forze politiche di sinistra, non trova di meglio che propinarci un “vaccino” letale. Il suo estremismo non promette niente di buono. Poco interessa fare supposizioni sui futuri incarichi, più o meno mascherati come “tecnici”, cui l’ex sindacalista possa aspirare. Il suo intervento a gamba tesa prefigura, ciò che più conta, come certi ambienti padronali si preparano ad affrontare il passaggio cruciale di fine anno, quando avrà termine il blocco dei licenziamenti e dovranno essere riformati gli ammortizzatori sociali. Sognano un ritorno al passato. Sosterranno che per fronteggiare la crisi non ci sia altra via da ripercorrere se non quella dell’abbattimento delle tutele del lavoro dipendente. In passato Bentivogli tentò di presentarsi mediaticamente come possibile alternativa a Landini. Oggi direi che la Cisl l’ha scampata bella.

 

Pochi, ma di buon giudizio. Il referendum di Cavour

Il referendum costituzionale, nel quale sette italiani su dieci hanno approvato la riduzione dei membri delle Camere, ha risposto sola alla prima di tre domande chiave, strettamente connesse. Quanti dovrebbero essere, quali caratteristiche avere e con quale metodo essere eletti i rappresentanti dei cittadini? Non sono domande nuove, tanto che se le pose Cavour proprio nei giorni in cui Carlo Alberto si apprestava a firmare lo Statuto Albertino e con esso a introdurre la democrazia rappresentativa nel Regno di Sardegna. Le sue risposte sono contenute in due articoli pubblicati sul Risorgimento il 19 e 22 febbraio 1848. L’8 febbraio il re aveva annunciato le linee generali dello Statuto, il quale sarà promulgato il 4 marzo.

Sulla dimensione della Camera Cavour aveva idee molto chiare: “Per molte ragioni è da desiderarsi che, entro certi limiti, le assemblee deliberative uscite dall’elezione popolare siano al possibile numerose”. Un precursore illustre dei sostenitori del No alla riduzione, di cui gli stessi non si sono accorti? In realtà bisogna leggere la sua risposta alla luce della seconda: “La Camera dei deputati deve accogliere nel suo seno un buon numero d’uomini speciali, atti a trattare sufficientemente le molte e varie materie che debbono essere sottoposte alle sue deliberazioni. Deve annoverare magistrati, giurisperiti, agricoltori, commercianti, industriali, economisti, ingegneri e varie altre categorie di persone distinte per una qualche specialità… Se il numero dei deputati è ristretto, la Camera sarà di necessità quasi esclusivamente composta d’uomini politici, e non vi sarà posto per quegli altri, più operosi che eloquenti, più profondi che brillanti i quali così efficacemente contribuiscono al buon governo del paese ed alla confezione di savie leggi”. La numerosità delle nostre Camere dagli anni 60 a oggi ha favorito queste competenze? I politici di professione ne hanno approfittato per circondarsi di persone di valore per le quali non vi sarebbe stato posto in assemblee più piccole? Oppure hanno più spesso preferito nani e ballerine o comunque figure totalmente obbedienti e dipendenti? Una persona di valore obbedisce al proprio giudizio e non è certo disponibile a farsi eterodirigere mentre chi è disponibile o non è di valore oppure non vi crede neppure lui.

Già Cavour non era certo sprovveduto: “A costituire sulle migliori basi possibili un’assemblea deliberativa il numero non basta, conviene altresì por mente al merito degli individui di cui sarà composta… A fare un buon deputato si richiedono varie condizioni che non molti riuniscono. Perciò vediamo anche nei paesi più avanzati nella carriera delle libere istituzioni il numero dei candidati alla deputazione essere sempre assai ristretto e ciò nondimeno si vedono giungere alle Camere persone poco atte a compiere il loro mandato e che non molto conferiscono al lustro dell’assemblea di cui sono chiamati a far parte”. Sembrano frasi scritte in questi giorni.

Per Cavour l’esigenza della qualità è prevalente se la numerosità delle assemblee non serve a portare dentro un maggior numero di figure di alto livello. E nel nostro paese non serve dato che, grazie a sistemi elettorali con liste bloccate sono i leader di partito a decidere gli eletti, garantendo in questo modo che gli eletti rappresenteranno supinamente loro e non certo i milioni di impotenti elettori.

Anche sul sistema elettorale Cavour aveva idee chiave: “Nel sistema dell’elezione diretta, le circoscrizioni elettorali possono venir regolate da due principi diversi. Gli elettori possono dividersi in altrettanti collegi quanti sono i deputati da nominare oppure, raccogliendo in una sola assemblea tutti gli elettori di una provincia o di una divisione amministrativa, si può procedere alla nomina collettiva di tutti i deputati…Molti e importanti sono i vantaggi di questo sistema (del collegio uninominale). Col ravvicinare il candidato all’elettore questi potrà assai meglio determinare la sua scelta secondo il proprio giudizio che se fosse costretto a pronunciarsi fra due individui che non conosce. Conseguenza diretta è che il merito individuale, le qualità personali dei candidati dovranno esercitare una maggior influenza, dovranno aver un peso maggiore… Un tal argomento basterebbe a dare la preferenza ai piccoli circondari. Giacché se è desiderabile che l’opinione dei deputati corrisponda a quella degli elettori è più desiderabile ancora che la scelta di questi cada su persone di conosciuta moralità, di provata devozione al bene del pubblico e reputiamo di molto preferibile che la Camera annoveri alcuni uomini politici di meno ma la sua maggioranza sia composta di persone sul carattere delle quali gli elettori possano facilmente portare un sicuro giudizio”. Era una dichiarazione di voto, con 172 anni di anticipo.

 

Il dubbio sulla scuola in realtà è capire quanto sono contagiosi i bidelli

Quanto sono contagiosi i bidelli? Raramente sviluppano sintomi, ma c’è il sospetto che siano contagiosi come tutti: questo potrebbe complicare le riaperture delle scuole, che dopo due mesi di chiusura per pandemia, con decine di milioni di alunni, insegnanti e personale scolastico a casa, sono state riaperte in 12 regioni, con regole nuove per permettere il distanziamento fisico; regole che, nel caso dei bidelli, molti dei quali arrotondano spacciando brioche e pizzette, potrebbe essere difficile far rispettare. Da mesi numerosi gruppi di ricerca sono al lavoro per chiarire quale sia il livello di contagiosità dei bidelli infetti, e appurare quale ruolo abbiano avuto e possano avere nella diffusione della pandemia. Un gruppo di ricercatori in Germania (gli stessi che qualche anno fa scoprirono che l’uso prolungato dello smartphone dà il cancro ai criceti) (ricordo che dissi subito al mio criceto: “Mettilo giù!”) ha notato che, nel caso in cui risultino positivi ai test, i bidelli non sviluppano sintomi rilevanti: non si sa però se in questa condizione siano contagiosi a sufficienza da costituire un rischio per il prossimo, non tanto per i bambini, che sono di gomma, ma per i professori più anziani, che invece possono sviluppare sintomi seri, quali il ricovero in terapia intensiva, o – Dio non voglia! il trasferimento fuori sede. Non tutti reggono al trasferimento fuori sede: l’anno scorso, un vicepreside si suicidò sgattaiolando nottetempo in palestra per impiccarsi agli anelli da ginnastica. Il giorno dopo, il prof di ginnastica lo trovò morto, appeso agli anelli, e gli diede un punteggio di 4.5. Lo studio tedesco è stato coordinato da Christian Drosten, un virologo molto apprezzato, che però passa il tempo in giardino a carbonizzare formiche con la sua lente d’ingrandimento, quindi va preso in considerazione con qualche cautela. Il gruppo di Drosten ha studiato l’infezione da coronavirus in 100 bidelli di età compresa tra 30 e 65 anni. Dalle analisi è emerso che 10 di loro erano morti, uno faceva finta, e il resto non mostrava particolari sintomi riconducibili alla Covid-19, ma la loro contagiosità aumentava con l’aumentare delle pizzette vendute. Un altro studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale ha invece valutato l’andamento del contagio fra i bidelli cinesi nella città di Wuhan, la metropoli dove è stato creato il virus. Come raccontano nel loro lavoro, pubblicato sulla rivista scientifica Il bidello, gli autori hanno ricostruito i contatti di circa 600 bidelli nella città, tenendo traccia di ogni persona che era stata esposta al rischio di incontrare un bidello. Hanno poi calcolato quante persone vengono in media contagiate da un bidello infetto, e hanno concluso che la chiusura delle scuole può ridurre il numero di contagi dello 0,7%. Il comitato tecnico scientifico italiano, che fornisce le consulenze al governo, ha dunque proposto che il numero dei bidelli venga aumentato parecchio, in modo che ciascuno di loro debba badare a un numero ristretto di bambini. La mia ammirazione va ai genitori: non deve essere facile, andare tutti i giorni a recuperare i propri figli all’uscita. Mi piacerebbe avere un figlio? Sì, ma non so che genitore sarei. Forse un padre. Quanto costerà, una camicia di forza per bambini? (Dovrebbe fornirle gratis Conte col Recovery Fund. Mi stupisco, anzi, che la Azzolina non ci abbia ancora pensato: secondo i cinesi, riducono i contagi del 98,5%.)

 

Palamara, il gip trascrive tutte le intercettazioni del caso Csm

Saranno trascritte, in vista del processo, le intercettazioni telefoniche realizzate con il trojan, di Luca Palamara, imputato di corruzione, inclusi i colloqui con i deputati (non indagati) Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (Iv). La decisione è stata presa dal gip di Perugia che le ha ritenute “legittime” anche perché non era “prevedibile” la loro presenza agli incontri con Palamara. Tra queste, anche l’intercettazione dei dialoghi avvenuti nell’hotel Champagne di Roma, la notte tra l’8 e il 9 maggio 2019, tra Palamara, cinque componenti togati del Csm, Lotti e Ferri. È la notte in cui si discute della nomina del futuro procuratore capo di Roma (e non solo) e del procuratore generale di Firenze Marcello Viola (estraneo all’indagine) che, pochi giorni dopo, otterrà la maggioranza nella Quinta commissione del Csm per la guida della procura capitolina. Alle 19.13 dell’8 maggio Ferri, rispondendo per telefono a Palamara, dice: “Sto finendo di votare, Luca andava ad allenarsi, bisogna farla dopo cena”. E Palamara: “ma Luca viene alle 23:30 o no…”. Frasi evidentemente insufficienti – gli investigatori della Gdf hanno sostenuto di non aver ascoltato gli audio in diretta – a prevedere la presenza di Ferri e Lotti all’incontro. Palamara è imputato di corruzione per i viaggi pagati dall’imprenditore Fabrizio Centofanti (anch’egli indagato) al quale, in cambio, avrebbe messo a disposizione le sue funzioni di magistrato (ma non è di questo che si parla nelle intercettazioni con i parlamentari). Il reato nel maggio scorso è stato derubricato in corruzione per l’esercizio della funzione poiché non è emerso alcun atto concreto in cambio della presunta corruzione. La difesa di Palamara ha sostenuto che queste conversazioni fossero inutilizzabili, ma il gip ha accolto la tesi della Procura guidata da Raffaele Cantone (l’inchiesta è stata condotta dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano). Tre giorni fa Palamara, che è anche sotto processo disciplinare, è stato espulso dall’Anm.

“Arcelor spegne l’ex Ilva e anche la sicurezza”

L’ex Ilva di Taranto gestita da Arcelor Mittal è una “fabbrica insicura” e gli operai tornano a bloccare le strade del capoluogo ionico per chiedere al governo un intervento deciso. Non sono le imponenti manifestazione del 2012 quando 8mila tute blu scesero per strada, su spinta dell’azienda guidata allora dai Riva, per contrastare l’azione della magistratura che sequestrò l’area a caldo. Oggi è l’incertezza a generare la reazione dei lavoratori. Otto anni fa la paura di perdere il lavoro aveva infiammato la protesta contro giudici e ambientalisti, ma stavolta sono i nuovi padroni, che stanno fermando gli impianti un pezzo alla volta, a scatenare l’esasperazione.

Nei giorni scorsi l’impresa guidata da Lucia Morselli ha annunciato il fermo di altri impianti per mancanza di ordini: ai circa 4mila lavoratori diretti già in cassa integrazione, se ne aggiungeranno altri mille. Meno personale al lavoro significa maggiori rischi soprattutto in alcuni reparti: non possono essere garantite la manutenzione e le ordinarie operazioni di produzione dell’acciaio diventano pericolose. Da tempo Fim, Fiom, Uilm e Usb denunciano lo stato di abbandono degli impianti e i rischi per chi ci lavora: solo a settembre sono crollati due carri siluro nel reparto di “Acciaieria 2” e un nastro trasportatore nel reparto “Agglomerato”.

“La condizione di abbandono e insicurezza degli impianti e dei lavoratori – hanno scritto i metalmeccanici in una nota – sono tali da non poter permettere ulteriori considerazioni di circostanza sulla profonda lacerazione di un sistema che, ad ogni ora che trascorre, fa tremare e mette a serio rischio l’incolumità delle persone”. I sindacati hanno attivato un presidio alla portineria “C” dello stabilimento per bloccare l’uscita dei prodotti venduti, proclamato lo sciopero, per il 24 settembre giorno in cui i lavoratori saranno a Roma sotto Palazzo Chigi a chiedere una parola chiara. Una volta per tutte.

Addio Caldarola, un pezzo del giornalismo di sinistra

È morto Peppino Caldarola. Aveva 74 anni, con lui se ne va un altro pezzo di quel giornalismo italiano nato e cresciuto nel vasto mondo della sinistra. Barese, iniziò la sua carriera nella casa editrice Laterza. Ma erano gli anni 70 del secolo scorso, l’Italia fremeva di idee e la politica richiedeva scelte di vita radicali. Per alcuni anni fu segretario del Pci a Bari, ma ben presto la voglia di scrivere lo portò a Roma. Vicedirettore di Rinascita, il settimanale del partito, poi direttore di Italia Radio, radio di parole e di trasmissioni innovative. Ma è a L’Unità che Caldarola vive i suoi anni migliori. Prima inviato, poi redattore capo, fino alle due direzioni dal 1996 al 1998 e dal ’99 al 2000. Anno di una chiusura drammatica, che Peppino affrontò condividendo il destino della redazione, cassa integrazione compresa. Chi scrive, in quegli anni era un giornalista de L’Unità e con Peppino ebbe anche discussioni interminabili. Quando un gruppo di noi (quelli che si occupavano di mafie) scoprì che il nostro direttore era amico di Tommaso Buscetta e con lui faceva cene e passava serate, saltammo dalle sedie. Il giorno della morte del “boss dei due mondi” ci spiegò il perché in un editoriale dal titolo “Il mio caro ex nemico”. “Ho perso un amico. L’ho conosciuto tardi. Non gli ho mai fatto un’intervista”. E tanto discutemmo, e ci dividemmo in redazione, per un titolo, “Scusaci principessa”, sulla morte di Lady Diana. “Il senso era chiaro – ricorderà Peppino qualche anno dopo – Lady D. era stata vittima di un assedio mediatico. Successe un casino”. Parlamentare dell’Ulivo nel 2001, riconfermato nel 2006, era un raffinato analista, ultimamente aveva annunciato al sito Strisciarossa di non voler più scrivere di politica, perché “la politica di oggi è fatta da energumeni. Bisogna scrivere usando il loro stesso linguaggio. Non sono capace”.

Petrucci, professione eterno presidente (e pazienza se il basket se la passa male)

Presidente Petrucci. Suona bene, soprattutto al diretto interessato, che lo è praticamente da sempre: prima della Federbasket, poi del Coni, ora di nuovo della pallacanestro italiana, dove comanda dal 2013 e resterà per altri 4 anni: ha da poco annunciato la ricandidatura e non ci sarà nessuno a sfidarlo, come sempre. L’esempio, ma sono tanti, il volto se ce n’è uno della “casta” che governa lo sport italiano. Il 13 novembre, salvo clamorosi colpi di scena, Gianni Petrucci sarà riconfermato per la quinta volta a capo della Federazione Italiana Pallacanestro. La prima fu nel lontano 1992, arrivava dal calcio, sua vera passione che però non gli ha dato da vivere. Da allora la sua carriera non si è mai interrotta e lo ha portato fino alla guida del Coni, dove è entrato per la prima volta da funzionario addirittura nel ’67 e di cui poi è diventato presidente, per quattro mandati, grazie alla riforma Pescante (suo predecessore, rivale ma pure testimone di nozze) che nel 2004 ne azzerò il conto. Quando è finita la sua era, e il “delfino” Pagnozzi fu sconfitto da Giovanni Malagò, lui aveva già fatto a tempo a riparare nell’amata Federbasket.

Per un democristiano doc, cresciuto nel mito di Andreotti e sotto l’ala di Franco Marini (senza dimenticare Gianni Letta), un posto si trova sempre. Tifoso sfegatato della Lazio ma per qualche mese vicepresidente della Roma, una parentesi da sindaco di San Felice Circeo. Campione non di sport ma di equilibrismi politici, Petrucci resta saldamento al comando nonostante il basket italiano non se la passi benissimo. Il campionato, dopo i fasti Anni 90, ha imboccato una crisi forse irreversibile. La nazionale pure: la miglior generazione di sempre, quella di Belinelli &C., nel 2016 ha fallito pure la qualificazione olimpica, nonostante i milioni pubblici spesi per giocare in casa (a Torino) lo spareggio decisivo. Le partite le perdono i giocatori, al massimo gli allenatori. Ma il presidente ne risponde: Tavecchio per una cosa del genere si è dimesso. Petrucci è sempre lì.

Nelle scorse settimane sembrava che stavolta potesse avere almeno uno sfidante: sarebbe stato un fastidio, perché la legge per l’ennesima riconferma prevede la soglia del 55% dei voti. Non andrà così: l’ex consigliere federale Crotti ha preferito non correre, dopo che praticamente tutti i capibastone regionali avevano manifestato. Il sistema non permette cambiamenti, e non solo nel basket, la situazione è simile a quella di tante Federazioni, su cui nemmeno Spadafora è riuscito a intervenire: il ministro voleva mandare a casa i vecchi presidenti, ponendo un limite retroattivo ai mandati (massimo tre). Loro sono stati più furbi e si son fatti rieleggere prima che la riforma entrasse in vigore.

Rider contro il “contratto pirata” dell’Ugl, irruzione nella sede bolognese del sindacato

Nessuno si è fatto male, ma quanto successo ieri a Bologna dà l’idea del clima creato sul contratto dei rider: una decina di fattorini hanno fatto irruzione nella sede dell’Ugl, attaccando striscioni e imbrattando i muri con scritte del tipo “servi dei padroni” e “crumiri”. Il sindacato autonomo Rider Union Bologna, associazione convocata al tavolo ministeriale che si terrà dopodomani, ha rivendicato l’azione dicendo di aver voluto “sanzionare” l’Ugl. Il sindacato di destra ha firmato con l’Assodelivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat e Uber Eats) un accordo collettivo che mantiene le retribuzioni a cottimo in base al numero di consegne e non riconosce diritti come salario orario e ferie. Un testo che accetta il modello imposto finora delle piattaforme e contraddice la legge approvata a novembre 2019 dal governo giallorosa. “Ci hanno minacciato – spiega il segretario Ugl Paolo Capone – e spaventato l’operatore che era negli uffici, che tra l’altro è un dipendente, non un dirigente sindacale”. Cgil, Cisl e Uil si sono dissociate dall’episodio, condannando gli autori.