Quale sarà l’impatto economico del Recovery fund, o meglio Next Generation Eu (NgEU)? Una prima risposta l’avremo all’inizio della prossima settimana, quando il governo approverà la Nota di aggiornamento al Def di aprile. Le prime stime sono promettenti, ma sono subordinate a una serie di condizioni che possono vanificarne l’effetto, da quelle imposte dai regolamenti europei (a non dire delle pastoie burocratiche e procedurali) per finire alla procedura di approvazione definitiva, che vedrà il coinvolgimento del Consiglio europeo e dei 27 parlamenti nazionali dell’Unione, di cui non si conoscono i tempi.
Il cuore di NgEu è la Recovery and Resilience facility: 672,5 miliardi, di cui 312,5 di sovvenzioni e 360 di prestiti (che impattano sul debito). All’Italia spettano 63 miliardi delle prime (più circa 17 miliardi da altri strumenti) e 127 miliardi dei secondi. Un totale di circa 200 miliardi entro il 2024, la cui parte rilevante sono i sussidi. Nei giorni scorsi su Voxeu, Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro, e Giancarlo Corsetti dell’Università di Cambridge hanno stimato che, se anche tutte le risorse venissero spese per metà in modo inefficace (cioè senza aumentare lo stock di capitale) NgEu avrebbe un impatto limitato nel 2021 (quando, se va bene, si otterrà un anticipo del 10% delle somme) ma poi quasi triplicherà il tasso di crescita potenziale dell’Italia, portandolo dallo 0,8% (scenario base) al 2,8% nel 2022-2024, sopra il 2% nel 2025.
Uno scenario che i due economisti considerano “conservativo”, a due condizioni: la prima è che le risorse vengano utilizzate per “spese aggiuntive”, cosa che nelle linee guida del Recovery Plan del governo italiano vale soprattutto per le sovvenzioni (i prestiti andranno invece a finanziare programmi già esistenti); la seconda è che la Bce si ritiri molto lentamente dal suo forte stimolo monetario (il programma di acquisto di titoli di Stato Pepp, che mantiene basso il costo del debito dei Paesi).
Altre due condizioni implicite, poi, vanno considerate implicite. La prima è che le risorse arrivino e siano spese tutte, la seconda è che non venga ripristinato l’armamentario di norme Ue che impongono misure di austerità ai Paesi ad alto debito, ad esempio il Patto di Stabilità e i regolamenti successivi. Il Patto è stato sospeso per la pandemia, a oggi pare difficile che venga ripristinato così com’è e comunque non prima che il Pil Ue abbia recuperato il livello pre-Covid (nel 2023). Ma i paesi del Nord premono per accelerare.
Nei giorni scorsi l’ex ministro degli Esteri e degli Affari Ue, Enzo Moavero Milanesi, ha scritto sul CorSera che il rischio di non riuscire ad avere le risorse c’è. Oltre alle linee guida, la Commissione – in attesa dell’accordo tra i governi – ha redatto molti documenti di lavoro e alcuni hanno contenuti “pericolosi”. In documento redatto dal Segretariato generale del Consiglio Ue, per dire, Bruxelles scrive che i fondi di NgEu dovrebbero avere una “condizionalità macroeconomica: in pratica il Consiglio può sospendere (su proposta della Commissione) i pagamenti quando uno Stato si trova in disavanzo eccessivo e non adotta misure efficaci per correggerlo”. Sono le temute procedure per deficit previste dall’armamentario di cui sopra, che possono tornare se il Patto di Stabilità viene ripristinato.
Oltre a questo, le linee guida prevedono che per ottenere le erogazioni siano rispettate una serie di “tappe” e “obiettivi” e che i fondi siano correttamente spesi e rendicontati. Qui il vero rischio, ha spiegato Moavero, riguarda la previsione che gli investimenti di NgEu rispettino le “norme Ue sugli aiuti di Stato”, che però in una pandemia hanno poco senso e possono bloccare una mole enorme di risorse.
Per capire quante di queste previsioni diverranno norme, come detto, bisognerà attendere l’approvazione del Regolamento da parte di Consiglio e Parlamento Ue (entro l’anno). NgEu prevede poi che il nuovo debito emesso da Bruxelles per finanziare il piano venga restituito con imposte europee. Per quelle, però, serve il via libera di tutti i Parlamenti nazionali (che in alcuni casi, come Italia e Germania, devono votare l’intero piano). Se non avviene, i singoli Paesi dovranno rimborsare parte delle sovvenzioni, riducendo il beneficio netto sul Pil nel lungo periodo.