Il sistema in tilt e il business privato

Dagli arresti domiciliari utili agli arresti domiciliari inutili (dannosi). È il film che viviamo. C’è gente che vorrebbe lavorare, mandare i bambini a scuola, ma deve stare isolata a casa, senza sintomi. C’è stato il rientro dalle vacanze, il ritorno al lavoro, l’apertura dei siti culturali, il ritorno a scuola, lo sport. Impossibile immaginare che milioni di persone avrebbero effettuato un tampone? A molti responsabili regionali l’idea non è passata dalla mente. E il risultato di un tampone può arrivare anche dopo 7-10 giorni, dopo un’attesa del prelievo di altri 3-4 giorni. È comunque una quarantena. Il sistema va in tilt e non c’è ancora l’influenza! Ma siamo italiani e la soluzione la troviamo: apriamo ai privati, ovviamente a pagamento. Dov’è la novità? Autorizzata la trasformazione in business di una pandemia. Le tariffe, a esclusione di due Regioni che hanno imposto un tetto, sono le più disparate e con il ricatto: più rapidamente vuoi il risultato, più paghi. Anche 220 euro quando un tampone non ne vale piu di 30-40. E il tampone, se hai la sfortuna di essere positivo, dovrai ripeterlo altre due volte. L’emergenza è stata in gran parte gestita a livello locale, tutte le inefficienze si sono ingigantite, la fornitura di strumenti e reagenti è affidata ad agenzie regionali che non hanno idea di cosa e quanto necessiti. Si punta al prezzo più basso e non alla qualità. Non parliamo del personale e delle burocrazie. Il pubblico ha corso una gara impari con il privato. Quando si vuole erogare nuovi servizi o in orari diversi, gli iter si inceppano tra sindacati, leggi regionali, nazionali e statuti. E intanto il privato fa business, si approvvigiona dei sistemi migliori, sceglie il personale, impone le tariffe. Così peraltro aumenta anche il divario tra le Regioni. La sanità non può essere locale, né regionale. Per fortuna una donna lungimirante ha appena evidenziato la necessità di una sanità europea. Quando?

 

Vaccini per l’Europa: “Togliere il segreto su accordi e negoziati”

Corporate Europe Observatory (Ceo), Ong specializzata nella sorveglianza delle lobby, chiede alla Ue e ai governi di rompere il segreto sui negoziati e sui contratti per l’acquisto congiunto dei vaccini contro il Covid-19, denunciando gli indebiti vantaggi per le case farmaceutiche. L’iniziativa formalizza gli appelli di Medici senza frontiere, European Public Health Alliance e European Alliance for Affordable Medicines sulla necessità di garantire sicurezza e accessibilità universale dei vaccini. Un nuovo rapporto del Ceo, pubblicato ieri, svela i contatti tra le lobby e funzionari europei che dimostrano come l’industria farmaceutica stia cercando di difendere i propri profitti a discapito una risposta efficace alla crisi sanitaria.

Il settore impiega circa 175 lobbisti per influenzare il processo decisionale dell’Ue, con circa 15 milioni di euro investiti annualmente solo dalle dieci società farmaceutiche più impegnate. La Federazione europea delle industrie e associazioni farmaceutiche ha tentato di bloccare l’acquisto collettivo dei vaccini, preferendo negoziare con ciascun governo. Il colpo non gli è riuscito. Ma l’intensificazione delle pressioni, secondo il Ceo, rende necessario un controllo pubblico.

Per ora, l’Ue ha firmato accordi con l’inglese AstraZeneca e il duetto franco-inglese Sanofi-Gsk e si appresta a siglarne altr con le americane Johnson & Johnson e Moderna, la joint-venture germanico-statunitense Biontech-Pfizer e l’altra tedesca CureVac. Si spartiranno i quasi 3 miliardi di euro stanziati dalla Commissione tramite il fondo speciale per le emergenze. Altri soldi vengono dai singoli governi: dall’Italia almeno 187 milioni di euro solo per AstraZeneca, che collabora con l’università di Oxford per il vaccino nella cui produzione è impegnata anche l’Irbm di Pomezia (Roma). Le prime dosi potrebbero arrivare entro fine anno in Italia secondo i ripetuti annunci del ministro Roberto Speranza, che pure non convincono tutta la comunità scientifica preoccupata per le sperimentazioni troppo rapide.

La contrattazione è condotta a porte chiuse da un team di negoziatori composto dall’esecutivo Ue e dai delegati di sette governi (Italia, Germania, Francia, Olanda, Spagna, Svezia, Polonia) che fa rapporto a un Comitato direttivo con tutti gli Stati membri. Le aziende stanno strappando pagamenti anticipati (soldi dei contribuenti) per neutralizzare il rischio finanziario nel caso in cui i vaccini falliscano. Nessuno al momento può valutare se in cambio garantiscano prodotti sicuri, prezzi bassi e ampia disponibilità come annunciato. Non si conosce, ad esempio, il contenuto delle valutazioni del comitato che ha consentito ai ricercatori di Oxford di riprendere la sperimentazione dopo che un volontario si era ammalato di mielite trasversa.

Il Ceo ha richiesto alla Commissione Ue l’accesso ai contratti, i nomi dei negoziatori governativi, la corrispondenza e i verbali dei loro incontri con le case farmaceutiche. “L’interesse pubblico deve prevalere sulla riservatezza”, dichiara Olivier Hoedeman, ricercatore dell’Ong. “Chiediamo che, in contropartita al co-finanziamento pubblico, le aziende riconoscano ai governi la co-proprietà sui vaccini e licenze aperte, anziché mantenere il modello monopolistico basato sui brevetti che, peraltro, rischia di creare un pericoloso precedente in vista della creazione di un organismo europeo per il finanziamento dei farmaci, ispirata alla statunitense Barda, recentemente proposta dalla Commissione”, commenta Yanis Natsis, rappresentante della società civile nel Board dell’Agenzia europea del farmaco. L’Agenzia è stata chiamata a rilasciare un’approvazione provvisoria alla commercializzazione che permetterebbe alle case farmaceutiche di somministrare le prime dosi di vaccini alle categorie più a rischio, in attesa di completare le ultime fasi di sperimentazione. Una misura d’emergenza che potrebbe comportare effetti collaterali, indennizzati con una parte della caparra. Questa è solo un contributo alla produzione, garantisce un diritto di prelazione agli Stati, che dovranno poi pagare le dosi ordinate al prezzo indicato nel contratto.

1.350 casi e metà controlli. Allerta Capitale e Napoli

Quasi gli stessi contagi giornalieri registrati in media nell’ultima settimana con un numero di tamponi molto inferiore. Sono i dati sui contagi da SarsCov2comunicati ieri dal ministero della Salute. Ieri i casi totali (compresi attualmente positivi, morti e guariti o dimessi dagli ospedali) sono aumentati di 1.350 unità, a fronte di 55.862 tamponi effettuati, 27.566 in meno rispetto alle 24 ore precedenti. In aumento i decessi: 17, domenica erano stati 15.

Il dato non è rassicurante, soprattutto alla luce di quello degli ultimi 7 giorni. Tra lunedì 14 e domenica 20 il ministero aveva registrato 10.406 nuovi casi per una media giornaliera di 1.486 unità, ma la media dei tamponi è stata molto più alta dei numeri comunicati ieri: oltre 87mila test di media al giorno (con picchi di 100.607 mercoledì, 101.773 giovedì, 99.839 venerdì e oltre 103mila sabato) contro i 55mila delle ultime 24 ore. Tradotto: i tamponi si sono quasi dimezzati ma i contagi sono rimasti quasi gli stessi. Non una buona notizia, considerata la riapertura delle scuole – che secondo le previsioni porterà con sé una aumento dei casi – e la stagione autunnale alle porte con il suo carico di virus influenzali. Dopo due giorni di calo, poi, tornano a salire i ricoveri: 110 in più in regime ordinario per un totale di 2.475 e 10 in più in terapia intensiva (232 in tutto).

Nessuna Regione ha registrato zero casi. A destare preoccupazione sono i dati della Campania, l’unica che supera quota 200 nuovi casi (243 contro il 171 di ieri l’altro) e il Lazio: 198 contagi, 117 dei quali a Roma: “L’incremento dei dati della pandemia della Regione Lazio merita attenzione”, ha commentato Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani, anche se “l’aumento è legato anche all’accresciuta capacità di intercettare i contagi, frutto del grande lavoro svolto in termini di tamponi, 8 mila solo oggi. E ad una ricerca attenta di tutti i contatti”. “Il nostro reparto Covid è tornato pieno – ha spiegato Francesco Le Foche, responsabile del Day hospital di immunoinfettivologia dell’Umberto I di Roma –. La situazione è al momento tranquilla, ma non si può avere un sovraccarico”. “Quello che sta succedendo – ha aggiunto – è una crescita dei contagi che comporta un aumento della carica virale socialmente espressa. In persone che hanno un disequilibrio immunitario questa può portare alla malattia”. Dopo le vacanze “la carica sta aumentando gradatamente, rispetto al numero dei contagi. Insomma il guadagno ottenuto con il lockdown è messo in pericolo da comportamenti estivi”.

Test salivari, ok dello Spallanzani. Il tampone si farà solo ai positivi

C’è il via libera dell’Istituto Spallanzani. Come accaduto per altre tecniche di screening rapido dei contagi da Covid-19, il Lazio è pronto a fare da apripista per i test rapidi salivari. In settimana il “timbro” sul nullaosta: “Solo una formalità”, confermano fonti qualificate al Fatto. Da lunedì, al massimo ai primi di ottobre, i kit che forniranno una risposta in meno di 10 minuti – in realtà appena 3, ma bisogna considerare anche il tempo necessario per le operazioni connesse – saranno a disposizione delle Uscar, le unità mobili coordinate da Pier Luigi Bartoletti, e verranno utilizzati soprattutto nelle scuole, a fronte di casi sospetti e situazioni critiche.

La procedura prevede che solo i soggetti che risulteranno positivi vengano poi sottoposti a tampone. I salivari, quindi, insieme a sierologici e antigenici sono pensati per effettuare uno screening preliminare nelle zone che presentano situazioni di criticità, nelle quali solo in un secondo momento verrà utilizzato il test classico, considerato lo standard per la diagnostica. Un modo per utilizzare in maniera più mirata quest’ultimo e non intasare i laboratori, preso atto che al momento non pare possibile moltiplicare il numero dei molecolari come chiesto da diversi ambienti e rappresentati del mondo scientifico. Si tratta di test, spiegano gli esperti, che si adattano perfettamente ai bambini e ai disabili, perché percepiti come meno invasivi in confronto al classico tampone – che viene inserito nel naso a un livello di profondità che può provocare un certo fastidio – specie nei più piccoli – e implicano una minore collaborazione del paziente. “Certo, per i nostri operatori il rischio di contagio è più elevato – sottolinea Bartoletti – perché i bambini non sempre collaborano e i sanitari sono più esposti ai fluidi provenienti dalla bocca. Ma, chiaramente, permetteranno uno screening più ampio fra queste categorie”.

La verifica sul campo nel Lazio servirà per capire nel concreto l’affidabilità dei kit salivari come attività di monitoraggio del virus e, soprattutto, il suo funzionamento nel contesto scolastico. Dove, fanno sapere dall’unità di crisi regionale, questi test andranno ad aggiungersi a quelli già a disposizione: tamponi molecolari classici, test antigenici rapidi, test sierologici. In relazione alle esigenze, al contesto e alla necessità di screening, tutti questi strumenti saranno utilizzati al fine di individuare i positivi e permettere ai plessi scolastici coinvolti di riprendere le lezioni il prima possibile. “L’obiettivo è sempre lo stesso: evitare la formazione di focolai – spiega ancora Bartoletti –. Noi dobbiamo essere in grado di capire quanto il virus si è diffuso in un determinato luogo. E poi agire in maniera mirata”. Le unità mobili – dei veri e propri camper – sono nate nel Lazio durante il lockdown e sono state messe a punto attraverso la collaborazione con il virologo Andrea Crisanti, ordinario di microbiologia all’università di Padova e tra gli ideatori del cosiddetto “modello Vo’” utilizzato dal Veneto: viaggeranno per tutto il Lazio ogni qual volta ci sarà una situazione critica in una scuola.

Il Lazio fin qui ha già fatto da apripista per i test rapidi antigenici, ampiamente utilizzati all’aeroporto di Fiumicino nei giorni più critici del rientro dei vacanzieri e da qualche giorno a disposizione dei drive-in, dove tuttavia vengono somministrati soltanto a chi rientra dai Paesi a rischio. Grazie a questa “sperimentazione”, ad esempio, si è potuto apprendere come questi abbiano bisogno di una carica virale mediamente elevata per essere attendibili. In questi giorni il commissario all’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri pubblicherà la richiesta di offerta per comprarne 5 milioni da utilizzare in porti e aeroporti. La stessa cosa è avvenuta per i test sierologici, “provati” nel mese di aprile a Nerola, uno dei principali focolai del Lazio, dove nel giro di 72 ore furono testati tutti gli abitanti del paese – un piccolo centro nei pressi del reatino con meno di 2mila abitanti – che vennero quindi “liberati” dalla zona rossa in pochi giorni. Ogni volta, dopo le verifiche “sul campo” nel Lazio, le varie tecnologie sono poi state adottate da tutte le Regioni d’Italia. Ora poi sempre allo Spallanzani si lavora sui molecolari “rapidi” che possano ottenere risultati in 90 minuti.

I caccia cinesi in volo su Taipei Xi: “Legittimo, l’isola è nostra”

Hanno superato quasi 40 volte tra venerdì e sabato la linea che separa la terraferma dall’isola gli aerei da guerra cinesi infiammando di nuovo le tensioni in Asia orientale. Le ripetute incursioni, provenienti da più direzioni sono state eseguite da sofisticati jet da combattimento e bombardieri pesanti, non hanno precedenti nella storia recente del conflitto tra Taiwan e Pechino, “Ciò a cui stiamo assistendo ora non è solo un problema per lo Stretto di Taiwan, ma per l’intera regionale. Le recenti attività militari della Cina, soprattutto negli ultimi giorni, costituiscono chiaramente una prova di forza, che fa parte dei loro attacchi verbali e delle minacce militari contro Taiwan”, è stata l’accusa lanciata davanti giornalisti il ​​presidente Tsai Ing-wen. L’aumento dell’attività militare cinese è arrivato guarda caso in coincidenza con le riunioni tenutesi nella capitale, Taipei da Keith Krach, sottosegretario di Stato per gli affari economici, energetici e ambientali degli Stati Uniti, anche in occasione di una funzione commemorativa avvenuta sabato scorso in omaggio all’ex presidente di Taiwan Lee Teng-hui. La visita di Krach per tre giorni all’isola è stata denunciata da Pechino, con il portavoce del ministero degli Esteri di Xi JinPing che ha chiesto alle due parti di “interrompere immediatamente” gli scambi ufficiali.

La Cina ha reagito con rabbia crescente al rinsaldamento dei legami tra Taipei e Washington e ha intensificato le esercitazioni militari nelle acque intorno all’isola che Pechino continua a considerare parte del suo territorio. La linea mediana dello Stretto di Taiwan è sempre stata un confine di controllo informale ma ampiamente rispettato per Pechino e Taipei. Secondo i rapporti del governo di Taiwan e degli Stati Uniti, prima del fine settimana, gli aerei da guerra di Pechino l’avevano attraversato intenzionalmente solo tre volte dal 1999: la prima, a marzo 2019, la seconda, a febbraio di quest’anno e la terza in una visita da parte dei servizi sanitari e umani degli Stati Uniti. Venerdì, poi, l’escalation per un totale di 37 aerei cinesi, tra cui bombardieri H-6, caccia e un aereo da guerra Y-8 che hanno attraversato la linea mediana, secondo la Difesa di Taiwan. Quest’ultimo sostiene di “aver emesso allarmi radio e di aver dispiegato sistemi missilistici di difesa aerea per monitorare le attività”. La risposta di Pechino è arrivata ieri: “Taiwan è una parte inalienabile del territorio cinese e non esiste la cosiddetta linea mediana”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin. Chiamatele pure provocazioni.

Erdogan pensa già al dopo-Sarraj

“La Turchia è dispiaciuta” per le dimissioni di Fayez al-Sarraj ma continuerà a sostenere il governo di Accordo Nazionale di Tripoli e a mantenere in vigore gli accordi siglati nel 2019 con il premier libico non seguendo questi il singolo individuo”. A riparlare pubblicamente di Libia è stato Ibrahim Khalil, portavoce della presidenza turca, mentre il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, era concentrato a discutere a porte chiuse con i suoi consiglieri eventuali nuove misure restrittive per contenere il contagio da Covid dopo la crescita delle ultime settimane. Il premier tripolino dimissionario che, secondo Agenzia Nova, ieri sarebbe volato ad Ankara per colloqui segreti con Erdogan, una settimana fa aveva annunciato di volersi ritirare prima della fine di ottobre. Gli accordi bilaterali a cui si riferisce Khalil sono quelli relativi alla demarcazione delle zone esclusive marittime e al sostegno turco per la sicurezza. Tradotto: armi turche in cambio di appalti libici ed esplorazioni per trovare gas e petrolio di cui Turchia è del tutto sprovvista sulla terraferma. Ankara, appoggiata dal governo di Accordo Nazionale libico (Gna), ha effettuato fino a una decina di giorni fa attività di trivellazione nell’Egeo definite “illegali” da Cipro, Grecia e altri Paesi europei, specialmente la Francia, che accusano Ankara di aver violato il Diritto internazionale, oltre alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare. Alcune fonti hanno riferito anche di un accordo per cui il porto di Misurata diventerà una base militare turca. Se verrà confermato consentirebbe ad Ankara non solo di controllare una postazione cruciale sul Mediterraneo, nonchè roccaforte delle milizie anti Khalifa Haftar, ma anche di dispiegare la propria flotta nella regione. Tra le navi turche che giocheranno un ruolo fondamentale, se il conflitto terminerà a favore del Gna, ci sono anche quelle che forniscono elettricità. In un paese con le infrastrutture distrutte a causa del decennale conflitto, la Turchia attraverso la compagnia turca Karadeniz Holding, che possiede numerose centrali galleggianti, fornirà fino a 1.000 megawatt di elettricità a tutta la Libia. La fase attuale di relativa tregua dopo l’annuncio di cessate il fuoco del 21 agosto scorso tra Sarraj e il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ha intanto premiato quest’ultimo. Il Consiglio Affari esteri dell’Unione europea ha infatti deciso di rimuoverlo dalla lista delle autorità colpite da sanzioni. Ora si tratta di decidere chi sostituirà Sarraj prima delle elezioni calendarizzate per la fine di marzo. Se sarà un solo uomo o un triumvirato, di certo dovrà essere gradito a Erdogan che guarda al ministro dell’Interno Fathi Bashagha, esponente di Misurata e sostenuto dalle milizie più potenti della città.

Il filo (di perle) che lega i Tory di Johnson a Putin

Per tirare palle da tennis al premier britannico Boris Johnson, all’epoca sindaco di Londra, la russa dal passaporto britannico Ljubov Chernukin ha pagato 160 mila sterline che le hanno consentito l’accesso alla partita e all’ambito campo verde. Dopo le racchette, per sollevare calici di cristallo a lampadari altrettanto sfarzosi nell’hotel di lusso Goring nel centro di Londra, e poggiare la mano sulla spalla dell’ex premier Theresa May, la bionda ha alleggerito il suo conto in banca di altre 135mila sterline.

Gli ultimi tre primi ministri britannici, David Cameron compreso, la milionaria dalle ciocche bionde e gli zigomi pronunciati li ha conosciuti tutti grazie a una cinquantina di donazioni compiute negli ultimi otto anni, iniziate nel 2012, e che ammontano a un totale di un milione e 700mila sterline. Per i suoi cospicui finanziamenti alle casse della politica conservatrice inglese, la Chernukin è entrata e rimarrà nelle cronache della storia britannica come la più generosa donatrice di fondi destinati agli uomini dietro gli scranni dei Tories.

“La moglie di un oligarca russo paga migliaia di sterline per cenare con Teresa May” è il titolo di un articolo glamour in cirillico, apparso sui media russi nel 2019, dove Ljubov è ritratta in foto tra una pletora di vertici conservatori e membri del governo, dalla Baronessa Natalie Evans, leader dei Lord, alla ministra dell’immigrazione Caroline Nokes. Tra Liz Truss, segretaria del Tesoro, e Karen Bradley, segretaria per la questione Irlanda del Nord, la slava sorride in posa senza proprio accanto alla premier May.

Il 16 giugno scorso l’Occrp, Organized crime and corruption reporting project, sollevava la medesima questione: “la moglie dell’ex vice ministro delle Finanze russo ha donato 2,47 milioni di dollari al partito conservatore britannico”. Perché? Perché i Chernukin sono due: l’altro è Vladimir, suo marito ed ex vice ministro delle Finanze russo, giunto in Gran Bretagna nel 2004 quando fu allontanato senza molte spiegazioni dagli uffici della Duma. Otto milioni di dollari sono arrivati nel 2016 sul conto dell’ex deputato, transazioni bancarie dal paradiso offshore nelle Isole Vergini, movimenti su cui aveva lanciato più volte l’allarme in passato la Deutsche Bank. A risalire alla fonte del torrente di dollari, sterline e rubli sono stati i reporter della Bbc, che hanno analizzato i Fincen files (un’inchiesta dell’Icij, consorzio internazionale giornalisti investigativi), e hanno scoperto che l’azienda offshore che compiva i pagamenti era legata al tycoon Suleyman Kerimov. Più che un uomo, Kerimov è una miniera di proprietà e azioni: quelli delle maggiori compagnie energetiche russe le possiede tutte. Nelle liste di Forbes svetta tra gli uomini più ricchi non della Federazione russa, dove è nato sovietico, ma del mondo, un elenco dove è entrato grazie a un patrimonio che supera i sei miliardi di dollari. Indagato per frode fiscale in Francia dal 2016, raggiunto dalle sanzioni emesse dal Tesoro americano per aver favorito “attività maligne russe” nel 2018, è vicino al presidente Putin.

L’uomo che voleva comprare la Roma – su consiglio del suo amico Roman Abramovich, il miliardario proprietario del Chelsea, convitato di pietra più ingombrante di tutta Londongrad – Kerimov sarebbe il finanziatore di Vladimir e della moglie ed emissaria Ljubov, vestita da sera per incontrare i conservatori da un lato all’altro della Capitale. Gli avvocati dei Chernukin hanno dichiarato di non avere alcun legame col magnate, che a suo volta, tramite i suoi legali, ha negato di aver mai avuto a che fare con loro. Invece qualcuno dal partito conservatore, che nei riflessi del Tamigi non vede ancora sporgere le guglie del Cremlino, ha replicato che, come tutti gli altri, “i cittadini britannici con origini russe hanno il diritto democratico di fare donazioni”.

Il giornale di ex ministri per quelli futuri

È un’ovvietà, va confessato fin dall’inizio, ma non si può che constatare per l’ennesima volta quanta verità ci sia nel vecchio adagio per cui molti danno buoni consigli quando non si può più dare il cattivo esempio. Ci riferiamo, in questo caso, allo straordinario inserto economico del quotidiano detto Il Riformista. Il prezioso manufatto è appaltato alle cure di Renato Brunetta, che ne sarebbe il direttore, il quale si avvale della “direzione scientifica di Sabino Cassese, Pier Carlo Padoan e Giovanni Tria”. Ieri questo parterre de roi ha prodotto un’apertura così titolata: “Le riforme? Ecco come bisogna farle”. L’autorevole guida è firmata dal giurista Cassese, che ci invita a non ripetere i “decenni di errori” che ci hanno lasciato in mutande: e chi meglio di lui che fu ministro negli anni Novanta, poi giudice costituzionale e avvocato delle meglio grandi imprese in tutti questi anni? D’altra parte, a chi vorreste chiedere lumi sulle riforme da fare se non a Padoan e Tria, gli ultimi due ministri dell’Economia che solo per sfortuna non hanno potuto applicare le loro ottime idee quando potevano? E al direttore Brunetta – eletto con Berlusconi dal 1999 e ministro della Funzione Pubblica per tre anni dal 2008 al 2011 – non gli vuoi chiedere un bel parere sulla rava e la fava? Quanto all’ex segretario della Fim-Cisl Bentivogli, che dire? Niente.

Bce deve fare di più, però non sa come

La pandemia, che fa chiudere di nuovo mezza Europa e manda a picco le sue Borse, forse renderà il compito di Christine Lagarde più agevole: i mercati si aspettano che la Bce aumenti di altri 500 miliardi, entro dicembre, il suo programma anti-pandemico di acquisto di titoli, il cosiddetto Pepp (a oggi la Banca centrale s’è impegnata per 1.350 miliardi di euro fino a giugno). Tanto più, è il ragionamento, che se l’obiettivo è portare l’inflazione vicina al 2%, siamo molto, molto lontani.
Problema: non tutti, nel board guidato dall’ex ministra francese, sono d’accordo. In soldoni, la Germania e altri Paesi del Nord non sono convinti che si debba proseguire su quella strada: il Pepp non rispetta, infatti, i consueti vincoli usati dalla Bce per evitare il finanziamento diretto degli Stati (vietato dai Trattati) e consente grande flessibilità – e cioè discrezionalità – alla banca centrale.
Il dibattito a Francoforte è partito da tempo, anche se nell’ultimo Consiglio “non si è parlato di una estensione del Pepp”, ha detto Lagarde una settimana fa. Ieri, però, il Financial Times – che ha solitamente ottime fonti nella banca centrale europea – ha pubblicato una notizia davvero sorprendente: due anonimi membri del board hanno riferito che la Bce sta studiando gli effetti della sua reazione al Covid-19 per capire se estendere/aumentare il Pepp e anche se usare la già citata flessibilità/discrezionalità anche negli altri programmi di acquisto a lungo termine della Bce. In sostanza se applicarla anche al Quantitative easing lanciato cinque anni fa da Mario Draghi e ormai entrato stabilmente nella “cassetta degli attrezzi” di Francoforte.
Questa è una sorta di sfida a un pezzo dell’establishment tedesco e segnatamente quello che ha tentato di bloccare la Bce attraverso una serie di ricorsi alla Corte costituzionale tedesca: l’ultima, controversa sentenza dei giudici di Karlsruhe, per dire, riguarda proprio i limiti che dovrebbe rispettare il Qe. Lo scontro, semplificando, tra Francia e Germania in seno alla Bce va avanti dall’inizio della pandemia e non pare destinato a chiudersi a breve: la sola presenza di Francoforte sui mercati rende impossibile esercitare un forte vincolo esterno sulle scelte politiche (finanziarie o no) dei Paesi dell’eurozona. Per questo forse, ha riportato sempre ieri Wolfgang Münchau nella sua Eurointelligence, alcuni politici tedeschi (e cioè Wolfgang Schäuble e la sua “corrente” nella Cdu di Angela Merkel) stanno facendo pressioni perché la Bce fermi i suoi programmi di acquisto. Difficile che finisca così: come ha spiegato sul Fatto il direttore del Max-Planck-Institut, Lucio Baccaro, gli industriali tedeschi non hanno alcuna intenzione di rinunciare all’euro, a costo di dover concedere qualcosa ai fannulloni del Sud. Ci guadagnano troppo.

Il Recovery farà salire il Pil, ma resta il rischio austerità

Quale sarà l’impatto economico del Recovery fund, o meglio Next Generation Eu (NgEU)? Una prima risposta l’avremo all’inizio della prossima settimana, quando il governo approverà la Nota di aggiornamento al Def di aprile. Le prime stime sono promettenti, ma sono subordinate a una serie di condizioni che possono vanificarne l’effetto, da quelle imposte dai regolamenti europei (a non dire delle pastoie burocratiche e procedurali) per finire alla procedura di approvazione definitiva, che vedrà il coinvolgimento del Consiglio europeo e dei 27 parlamenti nazionali dell’Unione, di cui non si conoscono i tempi.

Il cuore di NgEu è la Recovery and Resilience facility: 672,5 miliardi, di cui 312,5 di sovvenzioni e 360 di prestiti (che impattano sul debito). All’Italia spettano 63 miliardi delle prime (più circa 17 miliardi da altri strumenti) e 127 miliardi dei secondi. Un totale di circa 200 miliardi entro il 2024, la cui parte rilevante sono i sussidi. Nei giorni scorsi su Voxeu, Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro, e Giancarlo Corsetti dell’Università di Cambridge hanno stimato che, se anche tutte le risorse venissero spese per metà in modo inefficace (cioè senza aumentare lo stock di capitale) NgEu avrebbe un impatto limitato nel 2021 (quando, se va bene, si otterrà un anticipo del 10% delle somme) ma poi quasi triplicherà il tasso di crescita potenziale dell’Italia, portandolo dallo 0,8% (scenario base) al 2,8% nel 2022-2024, sopra il 2% nel 2025.

Uno scenario che i due economisti considerano “conservativo”, a due condizioni: la prima è che le risorse vengano utilizzate per “spese aggiuntive”, cosa che nelle linee guida del Recovery Plan del governo italiano vale soprattutto per le sovvenzioni (i prestiti andranno invece a finanziare programmi già esistenti); la seconda è che la Bce si ritiri molto lentamente dal suo forte stimolo monetario (il programma di acquisto di titoli di Stato Pepp, che mantiene basso il costo del debito dei Paesi).

Altre due condizioni implicite, poi, vanno considerate implicite. La prima è che le risorse arrivino e siano spese tutte, la seconda è che non venga ripristinato l’armamentario di norme Ue che impongono misure di austerità ai Paesi ad alto debito, ad esempio il Patto di Stabilità e i regolamenti successivi. Il Patto è stato sospeso per la pandemia, a oggi pare difficile che venga ripristinato così com’è e comunque non prima che il Pil Ue abbia recuperato il livello pre-Covid (nel 2023). Ma i paesi del Nord premono per accelerare.

Nei giorni scorsi l’ex ministro degli Esteri e degli Affari Ue, Enzo Moavero Milanesi, ha scritto sul CorSera che il rischio di non riuscire ad avere le risorse c’è. Oltre alle linee guida, la Commissione – in attesa dell’accordo tra i governi – ha redatto molti documenti di lavoro e alcuni hanno contenuti “pericolosi”. In documento redatto dal Segretariato generale del Consiglio Ue, per dire, Bruxelles scrive che i fondi di NgEu dovrebbero avere una “condizionalità macroeconomica: in pratica il Consiglio può sospendere (su proposta della Commissione) i pagamenti quando uno Stato si trova in disavanzo eccessivo e non adotta misure efficaci per correggerlo”. Sono le temute procedure per deficit previste dall’armamentario di cui sopra, che possono tornare se il Patto di Stabilità viene ripristinato.

Oltre a questo, le linee guida prevedono che per ottenere le erogazioni siano rispettate una serie di “tappe” e “obiettivi” e che i fondi siano correttamente spesi e rendicontati. Qui il vero rischio, ha spiegato Moavero, riguarda la previsione che gli investimenti di NgEu rispettino le “norme Ue sugli aiuti di Stato”, che però in una pandemia hanno poco senso e possono bloccare una mole enorme di risorse.

Per capire quante di queste previsioni diverranno norme, come detto, bisognerà attendere l’approvazione del Regolamento da parte di Consiglio e Parlamento Ue (entro l’anno). NgEu prevede poi che il nuovo debito emesso da Bruxelles per finanziare il piano venga restituito con imposte europee. Per quelle, però, serve il via libera di tutti i Parlamenti nazionali (che in alcuni casi, come Italia e Germania, devono votare l’intero piano). Se non avviene, i singoli Paesi dovranno rimborsare parte delle sovvenzioni, riducendo il beneficio netto sul Pil nel lungo periodo.