Maratona lugubre: come si commenta una maxi-sconfitta?

Ha vinto l’antipolitica, cioè i cittadini hanno ratificato una legge voluta dal 98% dei votanti alla Camera, recandosi peraltro ai seggi più che in altre occasioni d’epoca non-Covid: e adesso?

Gli ospiti delle maratone elettorali sono lì dal dopopranzo. Il giorno della chiusura delle urne è sempre l’apoteosi, il baccanale, l’orgia dell’opinionismo. Stavolta c’è un lieve disagio nell’aria, per non dire un’aporia: gli opinionisti sono tutti firme dei giornali che hanno fatto (in alcuni casi enfaticamente) campagna per il No, quindi qui c’è qualcuno che ha sbagliato, o gli analisti o gli elettori. Mentre gli scrutatori stanno ancora sigillando le urne per portarle agli uffici comunali, in studio già da un’ora vengono emesse tonnellate di istruzioni del tipo then/if, “se/allora”: congetture, predizioni, e tra le righe ipotesi di caduta del governo, pellegrinaggi da Mattarella, atti autolesionistici di Conte, destituzione di Zingaretti, governo Bonaccini, tutta roba pulp che il voto, sancito e quieto nel buio dell’urna, ha già invalidato, e vabbè.

Gli instant poll disegnano sui volti un’espressione di puro scetticismo, che diventa negazione, che diventa orrore, quindi rassegnazione: si sperava nel 5-1 per il centrodestra: oltre alla caduta di Liguria-Marche-Veneto (con Zaia alle percentuali che prendeva la Dc in quelle terre negli anni ’70-‘80), l’espugnazione della Toscana e la disfatta di Emiliano in Puglia, e invece c’è questo 3-3 che non dà modo di gigioneggiare. Fioccano fra i vari canali sondaggi puramente speculativi: “Se si fosse votato per le elezioni nazionali…” avrebbe vinto la Lega, col Parlamento tagliato, peraltro. Vedi a volte come succedono le tragedie. Il Sì sta arrivando al 70%, al Sud addirittura è oltre il 75: non saranno quelli che vogliono il reddito di cittadinanza? Peraltro, butta lì su La7 Bechis (il cui giornale sosteneva che col Sì avrebbe vinto solo la Meloni, mah), ha votato solo il 7% delle persone in isolamento per Covid: siamo sicuri di voler considerare valido il voto?

C’è Di Maio che parla: s’è pettinato da cresimando, forse per far vedere che non ha intenzione di trasformare l’aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli. In sostanza dice che lui ha vinto il referendum e Crimi ha perso le Regionali.

SkyTg24 si collega con un inviato che ha beccato fuori da Montecitorio Marattin di Italia ancora viva (meglio di niente). Domanda: “L’ago della bilancia in Puglia potrebbe essere Italia Viva?”. (Ragguardevole l’1,6% di Scalfarotto, e menomale che la Bellanova ha per errore invitato a votare Emiliano, riportando di colpo carriolate di elettori a Ivan, sennò avrebbe preso pure di meno). Dallo studio lo interrompono subito perché c’è Zingaretti in conferenza stampa. Zingaretti dice che si farà carico delle preoccupazioni di quei cittadini che hanno votato No: cioè ha perso pure se ha vinto. Per poco non chiede scusa. Quanto alle Regionali, dice che “la situazione dell’alleanza che sostiene il governo è molto fragile e delicata” (è ufficiale: sta leggendo il discorso che s’era preparato per la sconfitta). Si va a recuperare Marattin, magari ha qualcosa di fondamentale da dire: “Il nostro obiettivo era appoggiare una candidatura nuova, fresca” (Scalfarotto è in politica dal 2007), e, quanto al referendum, “la vittoria del Sì dimostra che bisogna fare altre riforme”: in pratica ha vinto Renzi con la riforma del 2016, che però il 60% dei cittadini ce l’aveva contro, peccato.

Su SkyTg24 Cangini, senatore di Fi tra i 71 che hanno raccolto le firme per il referendum, è soddisfatto: “I sondaggi ci davano al 10%, se Meloni e Salvini non fossero rimasti imbrigliati dalla demagogia e avessero fatto campagna per il No, poteva vincere il No”. Diremmo di più: se i cittadini avessero votato No, avrebbe vinto il No. Intanto alla Maratonamentana Paolo Mieli cerca di far litigare Sansa con Padellaro insinuando scherzosamente (cioè sul serio) che il Fatto l’abbia fatto perdere.

Ci sono le proiezioni: Emiliano, pare, l’ha sfangata. Su SkyTg24 Sabino Cassese, il più radicale costituzionalista per il No, ha un tesi capziosa: il 69% di Sì vuol dire che “la maggior parte degli italiani è favorevole alla riduzione dei parlamentari e non è contro il Parlamento” (ma questa era una sua illazione, ed è diventato lo spauracchio del No, non c’è una riga vuota sulla scheda in cui scrivere se si è contro il Parlamento), anti-parlamentarismo di cui, dice Cassese, sono invece tacciabili i 5Stelle (e non Renzi, la cui riforma che cambiava 45 articoli della Costituzione Cassese appoggiava).

Intanto siamo preoccupati per la brava Sardoni, inviata non solo in un probabile focolaio Covid, ma, più pericolosamente, nel quartier generale del renziano Giani, dove festeggiano Nardella, Bonaccini, Nencini, Lotti, tutta gente che ci mancava solo perdesse contro la Ceccardi.

Su Rai1 il direttore de La Stampa Giannini prende atto che “ci continueremo a tenere questo governo necessario che finora è stato carente”, come del resto evincibile dal gradimento dei cittadini (60%). Poi si collegano con un deputato di Azione (viva la rappresentanza!), ma non è Calenda, è l’altro, ed è l’unico diversivo di un pomeriggio lugubre, come vedere un dodo allo zoo.

Il Fenoglio privato visto da chi ha ispirato “Johnny”

Nell’ottobre del 1962, in una intervista che gli fece Gino Nebiolo per il quotidiano Gazzetta del Popolo, lo scrittore Beppe Fenoglio (Alba, 1922 – Torino,1963) ricordò: “Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, (…) sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza. Quanti di noi andammo nei partigiani perché sapevamo che c’era anche lui? E quanti gli devono la propria formazione intellettuale e civica?”.

Pietro Chiodi, bresciano di Corteno Golgi, in Val Camonica, dove era nato nel 1915, allievo di Nicola Abbagnano e poi docente di Filosofia della Storia all’Università torinese, partigiano combattente, studioso di spicco dell’esistenzialismo e primo traduttore in Italia nel 1953 di Essere e tempo di Martin Heidegger, era stato insegnante (al liceo Govone di Alba) e amico di Fenoglio. Più che un docente, fu un maestro di libertà, tanto che assieme a Leonardo Cocito, un altro professore del “Govone”, ucciso in seguito dai nazifascisti, divenne uno dei personaggi-chiave, con il suo vero nome, della prima parte di Il partigiano Johnny. Infatti, poco prima della decisione di Johnny, nel romanzo, di salire sulle “alte colline” delle Langhe per unirsi ai partigiani, “Chiodi si voltò un’ultima volta e disse, con la faccia stanca, aggravata dalla barba trascurata: Ragazzi, teniamo di vista la libertà”.

Chiodi fu uno degli ultimi a vedere Fenoglio all’Ospedale Molinette di Torino, poco prima che l’autore di Una questione privata morisse nella notte del 17 febbraio 1963. Quando gli dissero che ormai Beppe era spacciato, accorse alle Molinette, credendo che Fenoglio non sapesse ancora niente. “Mi lasciava parlare”, avrebbe poi scritto Chiodi, “guadandomi fisso e assentendo: ogni tanto sorrideva amaramente. Capii che sapeva tutto e tacqui. Stavo per piangere. Allora Beppe mi prese una mano con la destra, e con la sinistra mi fece segno come volesse dire: su su, non fate tante storie”. Gli “era stata praticata la tracheotomia e comunicava scrivendo su un notes. Se lo fece dare, e aggrottando le ciglia come soleva fare, scrisse sul foglio: ‘Caro Chiodi, occupati anche tu a suo tempo degli studi di mia figlia Margherita’. Null’altro”.

Il ricordo di Chiodi è un frammento dello scritto Fenoglio, scrittore civile, che apparve su La cultura nel gennaio del 1965. Il saggio viene riproposto ora in versione completa nel piccolo e prezioso volume delle Edizioni dell’Asino che raccoglie, sotto il titolo Beppe Fenoglio e la Resistenza (pagine 79, euro 10), anche altri testi di Chiodi. Curato da Cesare Pianciola, che ha scritto un bel ritratto del traduttore di Heidegger, e con una prefazione di Alberto Cavaglion e un saggio dello studioso fenogliano Gabriele Pedullà, il libro è stato pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del professore partigiano, avvenuta il 22 settembre del 1970.

Quando, due anni dopo la scomparsa dello scrittore, Chiodi volle rievocare l’allievo e l’amico per La cultura, seppe coniugare con commozione e con verità la parte privata, quella delle memorie dell’uomo-Fenoglio, con l’indagine sul narratore. Fu uno dei primi, se non il primo, a mettere bene in chiaro che “Fenoglio inorridiva quando qualcuno lo diceva epigono di Pavese, o lo considerava scrittore di ispirazione contadina o provinciale”. E tutto ciò, beninteso, a differenza di quanto aveva pensato Elio Vittorini, al quale Fenoglio non perdonò mai la nota di copertina assai stonata per La malora. Il suo ritorno alla Langhe, nei romanzi e nei racconti, era un movimento”, dice Chiodi, “che aveva le sue motivazioni altrove, e che veniva da molto lontano”. Più volte, continuava, “mi disse che da adolescente aveva spesso sognato di essere un soldato dell’esercito di Cromwell, ‘con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla’. E di questo bisognerà tenere conto per intendere sia il rigore della sua scrittura che il rigore della sua morte”. Un rigore “inglese”, come inglese, “elisabettiana e rivoluzionaria”, era stata la sua formazione culturale e morale, e all’origine della sua stessa scelta resistenziale; un rigore “che fu ad un tempo civile e religioso”, di stile e di gusto.

L’allievo di Abbagnano, il traduttore di Heidegger, che era riuscito a fuggire da un lager nazista, come narrò nel suo libro Banditi, già nel 1965, insomma, aveva capito tutta la grandezza e l’unicità di Fenoglio, come del resto gli riconobbe Italo Calvino. E si era reso conto che forse il vero capolavoro di Beppe non era Il partigiano Johnny, seppure grandissimo, bensì Una questione privata. Scrisse Chiodi: “L’ultima cosa che egli ci ha lasciato, lo stupendo troncone di romanzo Una questione privata, riassume e suggella, come in un brusco congedo, il senso del suo destino di uomo e di scrittore”.

L’“Ego” di Incenzo ha un occhio a Dalla

Che festa! “Era il compleanno di Venditti, quella sera conobbi Zero e Dalla”, racconta Vincenzo Incenzo. “Lucio ripeteva che di lì a poco se ne sarebbe andato: ‘ho un impegno, devo incontrare un governatore svedese’, sosteneva”. Più tardi, continua Incenzo, “feci un lungo giro in auto con Michele Zarrillo. Finimmo a Ponte Milvio. Sulle banchine del Tevere vedemmo Dalla che conversava con i barboni. Altro che diplomatico scandinavo! Era un adorabile bugiardo. Aveva il dono dell’autoironia e scriveva cose che oggi suonano profetiche. Mi diceva: ‘Bisogna saper immaginare il giornale di domani, non quello di oggi”. Incenzo (che vanta un cursus honorum senza confronti tra gli autori italiani) nel suo secondo album in proprio Ego ha omaggiato Lucio, reinventando un vecchio gioiello scritto a quattro mani con il bolognese, Rispondimi. “Trovava il senso delle cose sparando frottole a fin di bene. Lavoravo con la Pfm al musical Dracula: il produttore David Zard doveva affrontare il trapianto di fegato. Dalla gli presentò un suo conoscente: ‘Anche lui ha un fegato nuovo, guarda come sta bene’. Zard si convinse: solo dopo seppe che l’amico di Dalla non si era mai operato. Però aveva trovato il coraggio per la sfida”. Incenzo sorride, pensando ai colleghi illustri: “Firmai l’ultimo brano cantato da Endrigo, Altre emozioni, lo reinterpreterò nel prossimo album. Sergio era fulminante. Se gli chiedevo della musica attuale, mi diceva: ‘sono diventato sordo, ma non rincoglionito’”. E Califano? “Gli proposi il mio tributo a Pasolini, Pierpaolo. Franco non stava più bene, ma volle farlo. Lo cantò una volta sola, con voce stanca. Ed era perfetto così”. Quanto a Zero, “due anni fa produsse il mio primo album Credo, questo nuovo non l’ha ancora ascoltato, ma era immerso in un progetto monumentale. Io e Renato scambieremo i doni”. Ego è un lavoro vario e ricco, dove Incenzo si misura con le ballate, ma anche con l’elettronica e i ritmi latini. “L’unità narrativa è il sentimento con cui mi ribello a un sistema che ci ha privati dell’identità e della profondità del confronto: non dobbiamo delegare i nostri diritti agli oligarchi e ai social. Anche questo Paese annega nell’incultura e nell’intolleranza più ottusa. Feci ascoltare in anteprima a Saviano il brano Un’altra Italia. Roberto mi scrisse cinque minuti dopo, dicendosi commosso. Ecco il punto: dobbiamo emozionarci senza arrenderci”.

“Sign o’ the Times” e la magia di Prince rivive con 63 inediti

“In Francia un uomo anoressico è morto di una grande malattia con un piccolo nome, per caso la sua ragazza si è imbattuta in un ago e fece la stessa fine. A casa un diciasettenne si diverte a esser parte di una gang chiamata I discepoli manovrano una mitragliatrice completamente fatti di crack”. È il 31marzo 1987 e Sign Of The Times – dove la Of è sostituita con il simbolo della pace – piomba come una lama affilata nell’ovattato panorama musicale degli anni Ottanta. Uno spartiacque, e non solo per i testi ma, soprattutto, per l’alchimia blues e soul arrivata al capolinea: dopo questo album sarà l’hip hop a dominare il music business. La Warner – in collaborazione con la Fondazione del cantante di Minneapolis – pubblica una versione monumentale con le canzoni del suo periodo più prolifico, tra il 1985 e il 1987, originariamente destinate a tre diversi album e oggi raccolte tutte insieme, con 63 tracce inedite. Prince dopo il tour di Parade registrò diverse canzoni con i suoi Revolution – quasi un intero album chiamato Dream Factory – ma si incuriosì a un nuovo approccio capace di trasformare la sua voce in falsetto (pitchshifter) immaginando di realizzare un disco sotto lo pseudonimo di Camille. Decise di sciogliere la band – dalla quale si sentiva frustrato – per proseguire con il nuovo progetto, in parte ispirato dalla figura dell’ermafrodito Herculine Barbin, uno dei primi casi di identità di genere “forzata” da un tribunale. Sull’ambiguità sessuale Prince ha costruito la scenografia dei suoi live, spesso vestito con autoreggenti e mutandine col pizzo, già dai tempi di Dirty Mind. Ma una terza svolta avviene nei suoi studi di Paisley Park: una volta realizzato di avere due album pronti e altri outtakes, Prince tenta di convincere l’etichetta discografica a far uscire un triplo album dal nome di Crystal Ball. La Warner rifiutò e si arrivò al compromesso del doppio disco di Sign O The Times, nel quale confluirono tutte le iperboliche registrazioni, alcune quali b-side e altre addirittura in un altro album travagliato e uscito postumo, il Black album. Odissea vera e propria dettata non da un ego apparentemente ipertrofico ma dalla inarrestabile vena creativa dell’artista, capace di sovvertire ogni sorta di radice r’n’b con innesti di funk e rock, la sua vera cifra stilistica. Tra le tracce più interessanti ascoltate in anteprima, la frizzante All My Dreams, sporcata con il vocoder e arricchita da una quasi marcetta nuziale, la commovente ballad Visions e Can I Play With U, nella quale il folletto di Minneapolis corona uno ei suoi sogni di collaborare con il “maestro” Miles Davis. Non mancano – tra le canzoni inedite – alcuni omaggi ai miti di Prince, ad esempio Big Tall Wall capace di resuscitare il fantasma di Lennon o il funk mozzafiato di Blanche, erede dei suoi mentori George Clinton e James Brown.

Altro che Provvidenza: il Duce era presbite e soffriva di ulcera

“La politica è la sola religione di questo secolo Ventesimo” si legge più o meno a metà delle 600 pagine di M. L’uomo della provvidenza (in libreria da mercoledì per Bompiani), secondo volume della trilogia che lo scrittore napoletano Antonio Scurati consacra a Mussolini. In effetti la parabola temporale qui contemplata – dal 1925 al 1932 – restituisce ancora una volta il primato novecentesco delle ideologie e dei partiti: dai passaggi che portano il Duce a instaurare la sua dittatura personale al “pantano di intrighi, gelosie e rancori del sottobosco politico romano”. Ma come anche nel primo fortunato M. Il figlio del secolo (Premio Strega 2019, mezzo milione di copie vendute, record di traduzioni, serie tv in lavorazione) l’affresco del potere coglie i protagonisti nella loro dimensione privata e ne svela con impietoso scandaglio vizi e debolezze (non solo nel romanzo ma nell’ecosistema stesso del fascismo, vedi la parabola di Augusto Turati all’insegna del sesso come nemesi del potere: nominato a sorpresa da Mussolini segretario del Partito fascista al posto di Farinacci, dopo anni di rigore “moderato” finisce nella polvere con uno scandalo sessuale montato ad arte).

Ecco allora che non c’è racconto pubblico del regime fascista, sia pure al netto della sua ferocia totalitaria, che non susciti nella sensibilità del lettore uno scherno perverso. Scurati descrive un Mussolini che “studia ogni giorno il tedesco come uno scolaretto, si vergogna degli occhiali da presbite e si diletta ad ascoltare Chopin, eseguito esclusivamente per lui da un pianista di grido, annusando un garofano rosso”, un Galeazzo Ciano “con qualche fallimento alle spalle, qualche ambizione artistica frustrata, che aveva imparato ad annoiarsi con charme posando in tragiche imitazioni di Rodolfo Valentino”, un Rodolfo Graziani con “la mascella quadrata, una capigliatura foltissima a stento dominata dalla brillantina, la pelle cotta dal sole, la grinta da duro dei film di gangster americani”, un Roberto Farinacci che è “il popolano appena digrossato che capisce solo le questioni di forza, è il trionfo della provincia sulla città, del cazzottatore di strada sul pugile olimpionico, del coraggio della rissa su quello del soldato”. La politica fascista – quella della soppressione di ogni libertà prima garantita dallo Stato liberale, della repressione sistematica di ogni dissidenza, dell’ambizione di rieducare un popolo – si innerva su una mediocrità umana così tratteggiata. Del resto, c’è un episodio rievocato in questo “romanzo documentario” da Scurati che fa coincidere l’era del terrore con lo sberleffo. La seduta che inaugura il Tribunale speciale per la difesa dello Stato porta alla sbarra un muratore, che informato del fallito attentato a Mussolini, pare abbia esclamato: Li mortacci sua. Che dire poi dell’ottusa aberrazione di condannare alla pena capitale un uomo per il solo reato di avere pensato di commettere un reato. È il caso di Michele Schirru, un anarchico condannato a morte in virtù della riposta intenzione di attentare alla vita del Duce: “Per infilare il cadavere di Schirru nella bara, troppo corta, i becchini devono piegargli le ginocchia. Per riuscire a inchiodare il coperchio, due militi sono costretti a sedersi sopra l’asse di faggio grezzo”. Lungi da noi una fuga dalla Storia e dai suoi eventi tragici – tra tutti dolenti i capitoli dedicati alle mire coloniali in Libia (“L’impero. Una modestissima collezione di deserti”) con Badoglio e Graziani che si rendono protagonisti di una vera e propria deportazione di massa con campi di concentramento e uso dei gas contro i ribelli locali – ma se l’operazione divulgativa di Scurati ha un merito è proprio quello, attraverso uno statuto letterario sia pure ambiguo perché privo di invenzioni, di sottrarre Mussolini e i suoi gerarchi dalla solennità storiografica e di ricollocarli nell’immaginario all’altezza o bassezza delle loro miserie. Come non ripercorrere il disegno totalitario del Duce e la sua insofferenza per il confronto democratico nel momento in cui apprendiamo soffrisse di ulcera duodenale e il suo ufficio di capo di governo puzzava spesso di “vomito sanguinolento”. È un racconto della Storia forse non inedito ma che mescola caratteri umani, ambizioni politiche, ragioni di Stato, in frasi icastiche e liberatorie come “Mentre Benito Mussolini a Cavallasca cavava sangue, letteralmente cavava sangue, a Roma Roberto Farinacci cercava di fotterlo”.

Professione Reporter: ma in Algeria costa la galera

Il giornalista Khaled Drareni, in prigione dallo scorso 7 marzo, è stato condannato, martedì 15 settembre, dalla corte d’appello di Algeri, a due anni di reclusione, semplicemente per aver svolto il suo lavoro. A agosto era stato condannato in primo grado a tre anni. Il suo crimine: aver pubblicato degli articoli sull’ “Hirak”, in un paese come l’Algeria che sta sprofondando nella repressione dal giorno dell’elezione del suo nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, nel dicembre 2019, ex fedele del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto alle dimissioni nell’aprile 2019. Ecco dunque quale è il reato commesso da Drareni: aver seguito in modo libero e indipendente le manifestazioni dell’ ”Hirak”, la rivolta popolare che ha spinto l’ex presidente “fantasma” a cedere il potere e che da più di un anno reclama un “sistema nuovo”, un’Algeria “libera e democratica” e uno stato di diritto.

Se la condanna è stata ridotta di un anno in appello, la sentenze dei giudici algerini resta una delle più pesanti mai pronunciate prima contro un giornalista dalla proclamazione di indipendenza del paese, nel 1962. Nel 2004, sotto Bouteflika, il giornalista Mohammed Benchicou era stato per esempio condannato a sua volta a due anni di prigione per trasferimento illecito di valuta. Drareni non è un giornalista qualsiasi. Il suo nome è noto ai media internazionali. È corrispondente da Algeri per la tv internazionale in lingua francese TV5 Monde, lavora per l’Ong francese Reporter senza frontiere, che difende la libertà di informazione e di stampa in tutto il mondo, ed è fondatore del sito di informazione online, a accesso gratuito, Casbah Tribune. È un giornalista molto popolare in Algeria, ma anche all’estero. Chi si interessa all’Algeria lo segue su Twitter, per la sua precisione e professionalità. Proprio questa popolarità, ben oltre i confini dell’Algeria, lo rende colpevole agli occhi delle autorità, che lo puniscono con la prigione e che più in generale tentano di imbavagliare ogni voce critica. La condanna di Khaled Drareni, per “istigazione a manifestazione non armata” e “minaccia all’integrità del territorio nazionale”, suona dunque oggi come un monito per tutti i giornalisti, che in Algeria lavorano già in condizioni molto difficili: il paese è al 146mo posto su 180 nella classifica per la libertà di stampa nel mondo. Questo è il messaggio delle autorità algerine: o ti metti in riga, al servizio del potere, o finisci in prigione. Il messaggio è rivolto anche a tutti i cittadini algerini, perché il processo a Khaled Drareni non è solo quello della libertà di stampa, è anche quello della libertà di espressione e delle libertà individuali, che vengono violate ogni giorno. “Due anni di prigione per Drareni. Faremo appello in Cassazione”, ha fatto sapere all’agenzia France Presse uno degli avvocati del giornalista, a sua volta figura di punta dell’Hirak, Mustapha Bouchachi. “Il fatto che sia mantenuto in prigione e condannato è la prova della chiusura del regime in una logica di repressione assurda, ingiusta e violenta”, ha osservato a sua volta Christophe Deloire, segretario generale di Reporter senza frontiere. “Colpendo e mettendo a tacere i giornalisti che lavorano sull’Hirak, la giustizia algerina, agli ordini del regime, crede di poter rinchiudere la protesta dentro una pentola a pressione. È una strategia inefficace e esplosiva, che mina la legittimità di chi la mette in atto”, ha denunciato l’Ong francese, che sta conducendo una campagna internazionale per la liberazione immediata di Khaled Drareni.

Il giornalista non era comparso in tribunale da solo. A processo con lui c’erano anche Samir Benlarbi e Slimane Hamitouche, due volti noti dell’Hirak. I due uomini, su cui pesavano gli stessi capi di imputazione di Drareni, sono stati condannati a quattro mesi di prigione ciascuno. Avendoli già scontati nell’attesa del processo, sono usciti liberi dal tribunale di Algeri. Arrestato il 7 marzo scorso, durante una manifestazione repressa dalla polizia, per attacco all’unità nazionale, posto in un primo tempo sotto controllo giudiziario, poi in custodia cautelare, Khaled Drareni, che ha festeggiato il suo quarantesimo compleanno dietro le sbarre, è diventato suo malgrado il simbolo di una stampa sempre più oppressa in Algeria. Poco più di un mese fa, lunedì 3 agosto, è apparso tra le mura del carcere di Kolea, emaciato ma con il suo abituale grande sorriso, davanti ai giudici del tribunale Sidi-M’Hamed di Algeri al momento del processo di primo grado, che si è svolto in videoconferenza a causa della pandemia di Covid-19. La scorsa settimana, durante l’udienza d’appello, il viso era ancora più magro, ma il sorriso era lo stesso. Davanti ai giudici, Drareni ha ripetuto che non aveva fatto altro che “svolgere il suo lavoro di giornalista indipendente e di esercitare il suo diritto di informare in quanto giornalista e cittadino”. Ha precisato di aver lavorato su tutte le proteste, comprese quelle favorevoli al governo. Ha insistito sul suo diritto come cittadino di esprimere il proprio punto di vista, la “cosiddetta libertà di espressione”. La giustizia gli rimprovera in particolare una pubblicazione su Facebook in cui il giornalista ha solo detto la verità, cioè che il sistema politico in Algeria non è cambiato dopo l’elezione del presidente Tebboune. Drareni è accusato di aver criticato “la corruzione e il denaro” del sistema politico e di aver pubblicato il comunicato di una coalizione di partiti favorevoli allo sciopero generale. “Sono un giornalista, non un criminale – ha detto in sua difesa al termine dell’udienza d’appello -. Il tipo di giornalismo che svolgo non minaccia la sicurezza del paese, ma lo protegge”. Come in prima istanza, anche in appello, il pubblico ministero aveva chiesto contro di lui quattro anni di prigione, 100 mila dinari di multa e quattro anni di privazione dei diritti civili. “La prigionia di Khaled Drareni è il risultato dell’accanimento di un solo uomo: il presidente Tebboune – ci ha detto un osservatore di primo piano, che preferisce restare anonimo -. Tebboune si sta comportando con Drareni come aveva fatto Gaïd Salah, l’ex capo dell’esercito che aveva preso il posto di Bouteflika al momento della sua destituzione, contro Karim Tabbou, l’oppositore politico, recentemente rilasciato.

Allo stesso modo Tebboune si accanisce contro Drareni che, durante una conferenza stampa, ha trattato da spia, da informatore. È una cosa senza precedenti. I giudici hanno avuto paura. Si sono detti: non si può rilasciare una persona che, stando al primo magistrato del paese, è un informatore”. Questa condanna arriva in Algeria anche a due mesi da una riforma costituzionale prevista per il prossimo primo novembre, giorno anniversario dell’inizio della guerra d’indipendenza dell’Algeria (1954-1962), mentre la repressione è sempre più forte nei confronti dei media indipendenti, degli attivisti dell’Hirak e degli oppositori politici. Dei giornalisti sono stati accusati dal regime di seminare la “sedizione” nel paese e di essere al soldo di “parti straniere”. Diversi sono in prigione, come Abdelkrim Zeghileche, direttore della radio indipendente online Radio Sarbacane, condannato il 24 agosto a due anni di prigione per un post su Facebook in cui lanciava un appello alla creazione di un nuovo partito politico. Altri processi sono in corso. “Ormai gli oppositori algerini, appena parlano, vengono accusati di attacco all’unità nazionale“, osserva il suo avvocato Djamel Aissiouane. Anche El Watan, il principale quotidiano in lingua francese in Algeria, che stenta a sopravvivere, ha subito questa ondata di repressione senza precedenti che si è intensificata con la pandemia. Gli sono state ritirate delle pubblicità pubbliche dopo aver pubblicato a fine agosto un’inchiesta sulle origini opache del patrimonio dei figli del generale Ahmed Gaïd Salah, l’ex uomo forte del paese a capo dell’esercito, che ha gestito la transizione prima di morire improvvisamente nel dicembre 2019. (Traduzione di Luana De Micco)

“Capitano tutte a me” Un piccione viaggiatore che non vuole più volare ora abita a casa mia

L’altro giorno ho fatto un incontro speciale. Mentre camminavo diretta verso casa, mi sono sentita improvvisamente osservata, mi sono girata e ho visto che un piccione mi guardava e fin qui niente di strano, tutti i volatili con i loro occhietti laterali sembra che ti osservino. Però lui era diverso, mi osservava con aria attenta come se avesse qualcosa da dirmi. Lì per lì non ci ho fatto caso e ho ripreso a camminare, ma stranamente il piccione ha iniziato a seguirmi, più io acceleravo il passo, più lui velocizzava la sua andatura. Arrivata a casa, lui era già lì davanti al portone, con un’aria indagatrice, si è fatto velocemente le scale a piedi e me lo sono ritrovato davanti alla porta di casa. Non volava, non accennava neanche un saltino, camminava e basta. L’ho portato sul terrazzo, l’ho posato sulla ringhiera e ho cercato di farlo volare. Niente, mi guardava e non volava. Gli ho dato delle molliche di pane, le ha molto gradite, qualcuna l’ho buttata dalla terrazza nella speranza che lui volasse giù per prenderla, niente, voglia di volare zero. Allora gli ho parlato come fosse un essere umano: “Mi scusi Piccione, perché non vola, forse ha qualche problema fisico? Si apra, io sono amica dei piccioni”. A questo punto il piccione, che da ora chiamerò Jonathan Livingston, mi ha indicato con una zampetta una specie di piccolo cilindro fissato sotto l’ala destra, io l’ho aperto e dentro c’era un messaggio del 1940: “Circolo Piccioni viaggiatori città di Asti, chiunque dovesse trovare questo messaggio sappia che noi ex piccioni viaggiatori e portatori di ordini, da oggi diventiamo semplici piccioni viaggiatori podisti, ci rifiutiamo di volare e di portare messaggi da un campo di battaglia all’altro, siamo contro la guerra. Ci dichiariamo ufficialmente piccioni pacifisti e obiettori di coscienza. Rifiutando il volo come pericoloso strumento bellico al servizio degli eserciti di tutto il mondo. Viva l’Italia, fate l’amore e non fate la guerra!”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

“A’ tempi der corona” Nissim, poeta degli esclusi. La vita è tutta uno scherzo, non ci resta che ridere

Un poeta celebra se stesso. Non nel senso di gloria o vanagloria. Ma perché è naturale che si identifichi con l’impulso poetico che sgorga dal suo talento. Fa un dono, certo, a volte un grande dono. Ma prima di tutto alla sua stessa natura di persona che aggiunge o rivela qualcosa al mondo.

Piero Nissim vive la sua vocazione in un altro modo. Si rende conto che sta attraversando una vita densa di eventi e di persone, di scoperte e di incontri, e intende la poesia come pagare un pedaggio, alla maniera di Benigni e Troisi, che versano un fiorino ogni volta che attraversano la frontiera toscana, nell’indimenticabile Non ci resta che piangere. L’avventura di Nissim potrebbe intitolarsi Non ci resta che sorridere, perché c’è un filo di serenità da persona molto giovane (non lo è ma non fa differenza) che attraversa tutto ciò che scrive, un rapporto mai tetro con la realtà e una sorta di accettazione più vicina allo scherzo che alla lamentazione, nonostante i tempi. Infatti il libretto di poesia che si aggiunge adesso a una lunga collezione, recitata o pubblicata da Nissim, si intitola A’ tempi der corona e lo scherzo è su chi finge di non sapere e di non esserci, non sulla solitudine e la paura.

Questa raccolta di poesie (sonetti con metrica rigorosamente osservata e niente finzione di stornello) è quel tipo di narrazione poetica che è scritta per gli altri e dedicata agli altri. E vedi benissimo che il poeta non vuole parlarti di sé, per quanto con bravura e passione. Scrive per chi lo legge e vuole parlare a loro, agli altri, che politica, scienza e cultura lasciano soli. La trovata di usare un dialetto (il dialetto pisano è il suo, ma non è la ragione) ci dice subito che il lettore parteciperà a uno spettacolo a cui il vernacolo aggiunge (come in certe composizioni culinarie) una punta di allegria, una comunicazione benevola che sembra occasionale ma aggancia, un sapore di conforto senza pietismo e senza celebrazione.

Non è per caso che il nostro poeta venga dal tempo antico di quella cultura italiana-ebrea che ha lasciato segni importanti e profondi nella vita italiana. Quando trova una chitarra il nostro poeta dalla metrica impeccabile e capace di una nuova, diversa ragione (a volte lieta, a volte malinconica) per ognuno dei suoi 42 sonetti, diventa un cabarettista che trattiene e intrattiene, e da luogo a spettacoli che molti ricordano, malinconici e lieti, e, a momenti, di fronte a flash di memoria o di eventi accaduti, triste in quel suo modo di clown bianco, che porta una borsa piena di cose che non si possono abbandonare.

Ma torniamo a A’ tempi der corona, scritto in un dolce e fluido vernacolo pisano. È civiltà italiana bene impastata di Storia e di storie, di affetti e sentimenti, dove nazione vuol dire legame più forte con gli altri nel momento difficile.

 

A’ tempi der corona. 42 sonetti. Pandemia in vernacolo pisano –  Piero Nissim, Pagine: 104, Prezzo: 10, Editore: Ctl

Sudan Khartoum fra gli esplosivi ed echi di Bashir

La strada del nuovo corso sudanese è irta di minacce e di pericoli, di trame e complotti, ma soprattutto è colma di esplosivi e armi. A Khartoum è forte ancora l’eco di 41 arresti per possesso di esplosivi, una quantità abbastanza grande – secondo il ministero degli Interni – da far saltare in aria la capitale. Secondo il pubblico ministero Taj Eldin al-Sirr che conduce le indagini, “gli esplosivi sequestrati sono molto pericolosi, compresi materiali simili a quelli che hanno distrutto il porto di Beirut”. “Abbiamo sequestrato enormi quantità di nitrato di ammonio durante i raid nell’est del Nilo”, ha annunciato Sirr, “le Forze di supporto rapido hanno organizzato 12 imboscate, che hanno portato all’arresto di 41 persone, e alla confisca di pericolosi materiali esplosivi che avrebbero potuto far saltare in aria l’intera capitale”. Gli arrestati sono un po’ contrabbandieri, un po’ nostalgici del regime di Omar Bashir ma rappresentano un serio pericolo e a Khartoum la situazione è tornata molto tesa, soldati nelle strade e check-point sulle arterie principali.

Il nitrato di ammonio è una sostanza chimica industriale comunemente usata per i fertilizzanti, ma può anche essere usato come esplosivo, spesso nelle miniere. Il direttore del dipartimento generale per gli affari penali, il generale di brigata Alaa El-Din Mohamed Abdel-Jalil, spiega che ”il nitrato di ammonio è presente nel mercato locale per usi civili, ma se usato in modo improprio diventa molto pericoloso e i terroristi stanno sfruttando il nitrato di ammonio qui in Sudan come esplosivo di base per i loro ordigni”.

Nel frattempo, il generale di brigata Jamal Jumaa Adam, portavoce ufficiale della RSF, ha denunciato che parte di questo materiale viene anche contrabbandato nei Paesi vicini: “Abbiamo paura di essere classificati ancora una volta come sponsor statali del terrorismo”. Il generale ha rivelato che una parte degli esplosivi sequestrati è stata utilizzata nel tentativo di far saltare in aria il corteo di automobili del primo ministro Abdullah Hamdouk lo scorso marzo.

 

Il “divanismo” che spacca

Non sappiamo se le elezioni Regionali innescheranno la resa dei conti nel Pd. Vediamo però la frattura che separa, per così dire, le sue anime. E niente la illumina di più del Reddito di cittadinanza. La misura, perfettibile, è una cartina di tornasole dell’odio per il povero – non per la povertà, sia mai – giudicato sempre in qualche modo responsabile della sua condizione. Questa idea si riflette nella povertà culturale di non riuscire a elevare il dibattito oltre il concetto del divano, inteso nel suo senso metaforico.

La notizia che i familiari dei presunti assassini di Willy Monteiro prendevano il Reddito mentre i figli avevano uno stile di vita incompatibile con i requisiti ha scatenato la peggiore retorica. Sia chiaro: il centrodestra che sfotte “il popolo del sofà” (copyright Luca Zaia, il leghista presentabile) non fa notizia; così come la grande stampa, che racconta i “furbetti” del Reddito come un fenomeno di massa e le garanzie pubbliche ai grandi gruppi (editori, ça va sans dire) come “formule innovative”.

È nel Pd che il dibattito chiude il cerchio. “La politica dovrebbe avere il compito di dare loro un assegno per poco tempo e poi farli alzare da quel divano, farli uscire di casa e farli andare a lavorare”, ha detto il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, ex Sinistra giovanile, già bersaniano, poi renziano e oggi desideroso di scalzare Nicola Zingaretti . “Vergognati”, gli ha risposto l’ex ministro Fabrizio Barca, ex tesserato Pd e coordinatore del Forum Disuguaglianze. Bonaccini si è risentito: “Chiedo soltanto verifica sull’andamento del Rdc”. Durante il lockdown auspicava di mandare a lavorare nei campi i percettori del reddito “per restituire in parte quel che prendono”. L’idea che i poveri che prendono il reddito vengano coccolati dalla politica assistenzialista non li abbandona. Poco importa che la ricerca economica suggerisca l’opposto (le politiche anti-povertà non disincentivano il lavoro) e che la misura riguardi tre milioni di beneficiari, cresciuti del 25% con la crisi Covid. E poco importa che non si ricordino analoghe denunce contro gli imprenditori che usano la Cassa integrazione Covid senza essere in crisi. Evidentemente sono i poveri il problema.