Avanti avanti Monica Vitti

Siccome la classe non è acqua, mentre il popolo dei social si interroga sul non detto del non monologo di Sabrina Ferilli, mentre “legioni di imbecilli” si sfidano all’ultimo post, e dopo averla applaudita fanno esattamente quello che la Ferilli aveva stroncato (la tragedia dell’opinionismo); siccome la classe non è acqua, mentre sui tweet infuria la polemica – fateci la carità di una polemica su Sanremo –, in quel preciso momento la più grande attrice del cinema italiano (quando c’era il cinema, e perfino il cinema italiano, e perfino una diva come Monica Vitti) ha tolto il disturbo in punta di piedi, mentre tutti erano voltati dall’altra parte. Si chiama fuga all’inglese.

Se volevamo un’altra prova della perdita di centralità della tv generalista, la fuga all’inglese di Monica Vitti ce l’ha data. Giusto un ciao ciao di Amadeus strizzato nella scaletta fino alle due di notte, nei talk show nemmeno l’intervento di un virologo; però i funerali in diretta, l’ultima cosa con cui Monica avrebbe voluto farsi ricordare.

Per capire quanto è stata grande, e quanto la sua grandezza è inseparabile dal momento magico del nostro cinema, ci restano i film affluiti sulle piattaforme, che stanno diventando i centri di accoglienza della memoria. Su RaiPlay, nell’antologia dei passaggi in video a cura delle Teche, spicca il Sottovoce di Gigi Marzullo, con curioso effetto testacoda. Le interviste sono come le partite a tennis, se giochi con uno più forte migliori anche tu, mentre se giochi con uno più scarso anche tu vai fuori palla. Ora, Marzullo con la sua finta mezzanotte non è esattamente il Nadal degli intervistatori. Eppure l’allegria, l’istinto, la sprezzatura della Vitti riescono ad avere la meglio, a miracolare anche Gigi. Sempre nello speciale di RaiPlay Ciao Monica, un emozionato Paolo Conte le dedica Avanti bionda al pianoforte: “Avanti avanti bionda finché batte il cuor/ Tanto la vita è un bel fior”.

Avanti bionda, finché farai battere i cuori. Ossia, per sempre.

Evviva l’ecologia in Costituzione, ma anche nei gesti di ogni giorno

Salutiamo con favore il voto positivo della Camera per l’inserimento in Costituzione della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. Un passaggio stabilisce che “l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo tale da recare danno alla salute e all’ambiente”. Ottimo proposito, ma pure complesso da mettere in pratica, visto che un po’ tutto ciò che oggi facciamo reca danno all’ambiente. Non vorremmo che la modifica da tempo attesa agli articoli 9 e 41 della Carta porti agli ennesimi nobili principi che poi non verranno attuati. Cominciamo dalla realtà di questi giorni. Il prezzo dell’energia è in crescita. Paura per le tasche degli italiani. Il governo cerca di compensare gli aumenti tagliandone una parte (sempre con soldi pubblici che vengono sottratti ad altri obiettivi). Ma è corretto? Se vogliamo fare in fretta la transizione ecologica ed energetica, il prezzo elevato è un segnale potentissimo per indurci a consumare meno e meglio. Se l’energia costa di più, dovremmo diventare più attenti a non sprecarla come facciamo oggi in case, fabbriche e uffici. Dovremmo correre più rapidamente verso l’installazione di energie rinnovabili rese più competitive proprio dal maggior prezzo delle fossili, invece introduciamo nuovi cavilli e balzelli che rendono la vita più difficile a chi produce rinnovabile ma lasciano indenni i petrolieri. Il ministro Cingolani dice che dobbiamo installare più rapidamente pannelli solari e pale eoliche: bene, ma la burocrazia che le ostacola è statale! E non c’è bisogno di invocare i grandi impianti su suolo che nuocciono al paesaggio, quando abbiamo migliaia di chilometri quadrati di terreno già cementificato tra capannoni, periferie e parcheggi. Dobbiamo solo agevolare le pratiche e abbattere i vincoli. Il primo problema della transizione ecologica sta nel risolvere le contraddizioni: con la bocca si declamano azioni verdi, con i fatti si autorizzano grandi opere nere.

Il Grande Centro. Ristorante, pizzeria, giardino, curling, Italia Viva: c’è di tutto

Grande Centro, ristorante pizzeria con giardino, forno a legna, matrimoni, cerimonie. Più mi addentro in questa faccenda del grande centro e meno ci capisco. Ma insomma, va molto di moda questa specie di curling politico di posizionarsi al centro, tutti al centro, in attesa di capire con quale legge si voterà, quella attuale, un proporzionale, e se sì con quale sbarramento, e insomma per ora il sistema più accreditato è il Salcazzellum, quindi la situazione è fluida.

Il Grande Centro – vendono anche piccoli elettrodomestici – è tutto un fibrillare di sigle e di nuovi nomi, tipo Italia Viva doveva sposare Coraggio Italia e dar vita a Italia al Centro, con il che capirete che un buon copy avrebbe un futuro assicurato. Centro Centrissimo, Centro per Sempre, o anche Centro Arredo – vendono anche camerette – andrebbe bene.

Come avviene nelle grandi città, anche nel Grande Centro c’è un gran traffico, tutti incontrano tutti in appuntamenti segretissimi che il giorno dopo compaiono sui giornali. Berlusconi ha una corsia preferenziale dalla quale, di solito, “si sfila”, poi si rinfila, poi incontra Casini, poi guarda alla Lega, insomma tutte ’ste baggianate sul Centro devono sembrargli un po’ ridicole, visto che il centro pensa di essere lui. In tutta la faccenda, di centrista c’è solo l’egocentrismo, in effetti. Purtroppo, lo dico con la morte nel cuore, Coraggio Italia è un po’ in crisi perché il governatore della Liguria, Toti e il sindaco di Venezia, Brugnaro, hanno diverse visioni del Grande Centro, mannaggia, sai tipo Hegel e Kant, e quindi la situazione si fa drammatica. Resa incandescente dal fatto che con Brugnaro si schiera Lupi, di Noi con l’Italia (giuro). Gli altri, invece, avevano adottato Mastella, perché in una banda uno col cervello ci vuole, e anche perché sennò Renzi e Toti al sud non li vota nessuno, cioè al Grande Centro vendono anche prodotti regionali dop. Per il resto: porte girevoli, cioè se ho capito bene il Grande Centro dovrebbe essere aperto ai residenti nel gruppo misto, a quelli di Forza Italia in crisi d’identità, alla pattuglia compatta di Italia Viva, ai totiani (o totici?).

Poi ci sarebbe un altro centro, che sarebbe quello di Calenda con più Europa, un grandioso polo aggregativo di idee e progetti che si attesta attualmente intorno al quattro per cento, se va bene. Qui, per non far coincidere sempre Centro e grisaglia ministeriale, si sceglie la via del punk: Calenda, “il centro mi fa schifo”. Gli sembra riduttivo, piccolo, mentre lui vuole un movimento “liberale, democratico, riformista europeista e serio”, dice che lui sarà il perno che riporterà Draghi al governo nel 2023. Ecco, bravo, faccia da perno.

Poi siccome c’è stato il festival di Sanremo e tutto il resto, ho perso un po’ di vista ’sta cosa del Grande Centro, ma è certo che nel gioco c’è anche una corrente del Pd che esorta il segretario a “guardare al Centro” dato che nei 5 Stelle prevale il cupio dissolvi. La situazione aggiornata – ma può cambiare tutto in pochi minuti – è che il Grande Centro resta una bella idea, bellissima, tranne alcuni piccoli particolari: non si sa chi lo farebbe, come, con chi, quando, perché, con quali voti, con quale legge elettorale, con quali leader e con quale programma. Dettagli. Sembrerebbe più un “che ci inventiamo adesso?”, solo che il cast è strampalato, la lite sempre in agguato, il melodrammatico “mai con Tizio, mai con Caio” viene smentito dopo due giorni e si ricomincia da capo. Nell’indefessa costruzione del Grande Centro.

 

L’eterno conflitto di interessi di B. che epura Meloni

In un Paese come il nostro, in cui quasi tutti fanno i liberali con il fondoschiena degli altri, accade che per giorni una forza politica venga esclusa dalle reti Mediaset senza che nessuno proferisca parola. Davanti ai giornali che raccontano come l’ex Cavaliere si sia adombrato per una frase di Giorgia Meloni (“Non gli devo niente”), e come per questo siano stati annullati molti inviti di esponenti della destra nelle trasmissioni di Rete 4, la politica reagisce con il silenzio.

Stanno zitti quelli che un tempo salivano sulle barricate per condannare il conflitto d’interessi e tacciono ovviamente anche quelli secondo cui il conflitto d’interessi non è mai esistito. L’assordante silenzio dei nostri sedicenti difensori della democrazia ha una spiegazione precisa. E ha poco a che fare con l’egoismo dei vari leader che, sotto sotto, gioiscono per la punizione inflitta a un avversario. Il vero motivo per cui nessuno proferisce verbo è la paura. Il timore, fondato, di subire ritorsioni catodiche se ci si espone troppo.

Per capire cosa rischia chi alza la voce basta sfogliare la collezione dei giornali. Era il 2004 quando, stando alle cronache, il vicepremier del governo Berlusconi, Marco Follini, allora segretario dell’Udc, si mette a battibeccare con il leader di Forza Italia che, dopo l’ennesimo scontro, gli dice “ti faccio sparire e sparare dalle mie tv”. Risultato: Follini scompare e lascia la politica. E gli altri incassano l’avvertimento. La scena si replica, con le opportune correzioni, nel 2018, quando i parlamentari forzisti vanno in delegazione ad Arcore per accusare i conduttori Mario Giordano, Paolo Del Debbio e Maurizio Belpietro di aver dato troppo spazio al populismo finendo così per far vincere Matteo Salvini, che ha sopravanzato Forza Italia nelle urne. Le trasmissioni vengono cancellate. Nessuno però protesta. Non lo fanno i politici, neppure quelli della Lega, e nemmeno i giornalisti che, dal canto loro, sperano di tornare in video forti dei loro buoni ascolti e del mutato quadro politico. Sì, il quadro politico. Perché è proprio Berlusconi a dare l’assenso all’ingresso del Carroccio nel primo governo Conte. Il leader azzurro spera (a ragione) che in questo modo Salvini faccia da tappo alle norme sul conflitto d’interessi promesse dai pentastellati durante la campagna elettorale. Così le trasmissioni riprendono e tutti possono far finta di essere liberi.

Intendiamoci, un editore ha tutto il diritto di stabilire cosa mandare o non mandare in onda. E allo stesso modo, visto che ci mette i soldi, ha pure il diritto di stabilire assieme ai suoi direttori la linea politica delle sue testate. Ma il gioco è pulito e alla luce del sole se l’editore fa solo l’editore. Se invece è pure un politico, l’informazione si trasforma, quando serve, in propaganda. Cioè non sempre, ma solo al momento opportuno.

Visto che le cose stanno in questo modo, non ci si deve stupire se pure Giorgia Meloni, dopo essere stata bandita, ha subito cambiato registro. Non ha alzato la voce, ma ha parlato di “incomprensioni”. Poi si è messa a elogiare Berlusconi, che “è stato un gradissimo presidente del Consiglio” capace di “assicurare all’Italia l’autonomia energetica grazie ai suoi rapporti con Russia e Libia”. Così il sovrano, pardon il presidente, ha dimenticato e perdonato. E lei è stata riammessa in tv (a corte si vedrà).

Non so a voi, ma a me viene in mente Charles Baudelaire quando diceva che “il più grande trucco del diavolo è far credere che non esiste”. Come il conflitto d’interessi.

 

I giornaloni prevenuti sul Papa “degli ultimi”

Domenica scorsa 6 milioni e 731 mila spettatori hanno seguito per un’ora papa Francesco che dialogava su Rai3 con Fabio Fazio su un vasto spettro di tematiche cruciali del nostro tempo e sul mistero della fede. Ma nessuno dei principali giornali italiani ha ritenuto questo evento degno della prima pagina, né tantomeno di commentare nel merito le riflessioni del pontefice; quasi fossero risapute e irrilevanti.

Il più noto dei critici televisivi, Aldo Grasso, si è limitato a una breve, ironica recensione sul web per dire che il papa aveva sbagliato location e che voleva sembrare “un parroco in tv”. Esortandolo a non riprovarci perché “una volta va bene, dalla seconda si entra nel detestabile chiacchiericcio che Francesco ha detto di biasimare”. In una parentesi Grasso se l’è presa pure con Fazio, suggerendo che “era più prete l’intervistatore dell’intervistato”. Niente di originale: ci aveva già pensato un ospite indispettito, tempo fa, a dargli del “fratacchione”. C’è poi chi ha indugiato sul dilemma se si trattasse di una vera o di una finta diretta, come se cambiasse qualcosa. Mentre la storica Lucetta Scaraffia aveva preventivamente criticato la scelta del papa che, accettando di partecipare a una trasmissione leggera, sminuirebbe il suo ruolo di capo della Chiesa riducendosi a una “celebrity” qualsiasi. Anche lei, dopo, ha criticato Fazio per non aver osato rivolgere domande scomode al suo ospite. Questa ridda di malevole obiezioni di metodo ha evidenziato un senso di fastidio nei confronti di Francesco, e della sua scelta di concedersi proprio a Fazio, tanto intenso da indurre costoro a ignorare i contenuti del suo intervento. Non devono averla pensata così i telespettatori, numerosi come non mai per una trasmissione già rigettata da Rai1 e da Rai2 a causa del suo orientamento politico e culturale. Eppure, di tutto si può accusare il papa tranne che di non aver parlato chiaro. Chi l’ha seguito con animo sgombro, ne è rimasto colpito. Ha ricordato che il lavoro non riceve una giusta retribuzione. Ha denunciato l’istinto dei governanti che antepongono la logica del potere alla cura degli uomini, spendendo più in armi che in opere di bene. Ha definito criminale l’accanimento contro i migranti. Ha chiamato con il loro nome, lager, i campi di prigionia libici finanziati dai nostri soldi. Ha richiamato l’antica saggezza dei popoli che nella madre terra riconoscono una natura da custodire, anziché avvelenarla. Ha raccomandato di guardare negli occhi i poveri, di non avere paura a toccarli perché il tatto è il più prezioso dei sensi, e aiuterà a scacciare le paure che ci assalgono. Ha ammesso di non riuscire a spiegarsi la sofferenza dei bambini nell’ambito del disegno divino in cui pure crede. Ha indicato la mondanità e il clericalismo come i vizi peggiori della Chiesa. Ha esortato alla preghiera come bisogno umano fin dalla più tenera infanzia. Considerare tutto ciò una predica inutile, condannata all’oblio, è l’esito del cinismo diffuso che spinge tanti sapientoni a trattare con sufficienza il suo prodigarsi. Banalizzano il suo pensiero come se si trattasse di una versione religiosa del “politicamente corretto”. Lo snobbano. Dà loro fastidio che la critica radicale del sistema dominante, entrate in crisi le ideologie, possa rianimarsi nella dimensione del sacro, trovare alimento e aggiornamento nella tradizione biblica. E naturalmente li irrita che il papa possa trovare interlocutori nel pensiero laico e nei suoi strumenti di divulgazione popolare. Il progressismo, comunque inteso, è la loro bestia nera. Torni a fare il suo mestiere, questo papa, senza troppe invasioni di campo! È fin troppo facile constatare che questi scandalizzati critici di Francesco, non importa se cristiani osservanti o meno, sono essi per primi espressione del clericalismo contro cui domenica scorsa egli ha puntato il dito. Lo ha fatto sorridendo, spiegando perché si trova più a suo agio abitando in una struttura alberghiera piuttosto che negli appartamenti vaticani dove vivevano isolati i suoi predecessori. Loro santi, lui no, ha scherzato.

Non credo proprio che la moltitudine di persone, fedeli e non, che lo hanno guardato e ascoltato davanti al teleschermo, ne abbiano tratto la sensazione di un pastore venuto meno al suo ruolo. Resterà un papa di minoranza, ma ha dimostrato di saper trasmettere il suo messaggio sormontando il muro di sufficienza cementato dallo scetticismo dei media che lo trattano come una bizzarra anomalia. Scommetto che oggi, giustamente, troverà vasta eco sulle prime pagine dei giornali l’accorata lettera con cui Benedetto XVI respinge l’accusa di “comportamenti erronei” nella vicenda degli abusi pedofili perpetrati a Monaco di Baviera quando lui ne era arcivescovo. Continuino pure a riservare un trattamento minore ai messaggi di Francesco. Nel mondo lui troverà altri seguaci.

 

La dignità di Mattarella, che si è sacrificato per il bene del Paese

Durante il suo discorso di reincarnazione Sergio Mattarella ha pronunciato 18 volte la parola “dignità” suscitando l’applauso entusiasta e la standing ovation di una platea che non ne aveva alcuna, come aveva abbondantemente dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, durante i giorni delle elezioni presidenziali… La dignitas latina comprendeva alcuni valori non negoziabili: il coraggio, fisico e morale, la lealtà, il rispetto della parola data, la protezione dei più deboli, il sacrificio di sé fino alle estreme conseguenze in nome dei propri ideali giusti o sbagliati che fossero (Catilina docet). Nello stesso giorno del discorso di Mattarella i Navy Seal americani circondavano nel villaggio siriano di Atmeh un gruppo di terroristi, fra cui c’era il capo attuale dell’Isis Quraishi, intimando loro di arrendersi se volevano aver salva la pelle. Quraishi, un uomo di 45 anni, pur di non arrendersi ed esser catturato vivo si è fatto saltare in aria insieme alla moglie e ai due figli. Questa io la chiamo dignità. (Massimo Fini, Fq, 5 febbraio)

Notizie dal futuro. I partiti avevano studiato tutti i dettagli, inclusa la solidità dell’edificio in cui si nascondeva Sergio Mattarella, per essere sicuri che non sarebbe crollato sopra vittime innocenti se ci fosse stata un’esplosione. Infatti quando le forze speciali sono atterrate davanti al Quirinale, a Roma, il capo dello Stato si è fatto esplodere, sacrificando anche la propria famiglia. “I cadaveri” ha raccontato ai giornalisti un portavoce di Azione “sono volati fuori dal palazzo”. Così è stato eliminato l’ostacolo più grande ai soliti magheggi della partitocrazia italica, consentendo ai partiti di lanciare un avvertimento a chi voglia provare a riformarla, ai giudici che rialzano la testa, ai giornalisti che la criticano, a tutti i giovani che dopo le manganellate in piazza meditavano di sfidare i vecchi partiti incancreniti fondando un movimento che si facesse carico davvero dei problemi del Paese (dalle disuguaglianze sociali all’ambiente, dai diritti civili alla sanità pubblica, dalle infrastrutture fatiscenti ai rapporti tossici tra capitale finanziario e mondo produttivo) e ribaltasse l’attuale modo di produzione capitalista, la cui insostenibilità e le cui contraddizioni hanno creato le condizioni per un’epoca nuova. Durante il discorso di insediamento, i partiti avevano applaudito con entusiasmo ipocrita le critiche di Mattarella all’andazzo di questi anni, ma non intendevano ritirarsi dalla scena globale, determinati a difendere i propri interessi. I servizi segreti deviati (i servizi segreti) hanno lavorato mesi per scoprire il nascondiglio di Mattarella, successore di Mattarella; ai primi di agosto la certezza di averlo trovato. Subito informati i segretari di partito: al briefing in una saletta riservata di Montecitorio i militari hanno portato un modellino del Quirinale, dove il presidente si nascondeva. Esclusa l’ipotesi di bombardare l’edificio per evitare vittime innocenti, anche se il raid sul terreno era più pericoloso per le forze speciali, l’attacco, deciso per la settimana scorsa, era stato bloccato dal bel tempo. Martedì mattina, dopo un vertice di tre ore fra il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore, il via libera all’operazione. Mercoledì, dopo mezzanotte, una cinquantina di soldati delle forze speciali sono atterrati dentro il Quirinale a bordo di tre elicotteri, con la copertura di aerei e droni. Quindi hanno urlato nei megafoni, sollecitando il presidente a uscire dall’edificio. Al piano terra c’era una famiglia di quattro persone, ignara di vivere col presidente, che li usava come scudi umani: sono usciti e sono stati portati al sicuro. A quel punto, però, al secondo piano c’è stata l’esplosione.

 

I giornaloni come Totò su Draghi al Quirinale

Siamo già entrati nella fase di rimozione di quello che è successo nelle votazioni per il Quirinale. Lunedì sera a Otto e mezzo, Giuseppe Conte ha detto qualcosa di noto a chiunque abbia sfogliato un giornale nelle scorse settimane, ovvero che c’era una linea condivisa fra i grandi quotidiani per spingere Draghi al Colle: apriti cielo. Il direttore della Stampa, Massimo Giannini, si è messo a urlare che “no, non è vero, non è così!”. Eppure fin dal primo giorno di votazioni, il 24 gennaio, Giannini diceva sul suo giornale che bisognava “preservare Draghi come elemento di stabilità del sistema, anche con un ruolo diverso, è fondamentale per il Paese”. Un po’ come Totò, che nel film I Tartassati comincia a fare il nostalgico del fascismo pur di ingraziarsi il maresciallo interpretato da Aldo Fabrizi. Appena il carabiniere gli dice di non essere un fascista, Totò ribatte scaltro: “Ma allora lei è anti… come me! Ho detto pro? Mi sarà scappato un pro, non me ne sarò accorto”. Come Totò, Giannini non è nuovo a queste giravolte quando si parla di Draghi. Il 22 dicembre twittò: “Draghi è il candidato per il Quirinale. E il governo vada avanti”. Un mese dopo, sempre a Otto e mezzo, disse che il premier “non ha mai detto di non voler stare a Palazzo Chigi”. Certo, come no.

La nuova era Gualtieri è già una commedia

Nel nostro presente ritorno al passato (il Mattarella bis, forse anche il proporzionale Prima Repubblica, Gianni Morandi e Massimo Ranieri) affiora, direttamente dagli anni 60, il monito vintage del lei non sa chi sono io.

Declinato in “voi non sapete chi è papà” dai due rampolli del capo di gabinetto del sindaco Gualtieri fermati dai carabinieri della Capitale in piazza Euclide e multati perché privi di mascherina. Episodio ampiamente sbeffeggiato nelle cronache cittadine, ma su cui torniamo incuriositi dalla location (gli eterni, irredimibili Parioli), e dall’imperdonabile assenza di alcuni fondamenti filmici nell’educazione impartita in casa di Albino Ruberti.

Possibile che ai birbantelli non sia stata mai somministrata la visione di quel fondamentale trattato pedagogico che è Il vigile di Luigi Zampa (1960). Con lo zelante agente della stradale, Alberto Sordi-Otello Celletti, che intima l’alt al sindaco che lo ha promosso (Vittorio De Sica), colto in missione segreta presso l’amante, subendone le inevitabili rimostranze. Episodio tratto dalla vita reale: il vigile Ignazio Melone che aveva osato elevare contravvenzione per un sorpasso vietato nientemeno che al questore di Roma, Carmelo Marzano, quanto mai indignato per non essere stato riconosciuto. Purtroppo il Ruberti babbo non era nelle condizioni di impartire agli impertinenti pargoli edificanti lezioni di vita essendo stato a sua volta preso in castagna (anzi in porchetta di tonno e ostriche David Hervé) mentre, il Primo Maggio 2020, pasteggiava con la compagna e gli amici del Pigneto, lontano da casa, e dunque in palese violazione del lockdown. Multato dai tutori dell’ordine ebbe la stessa reazione alla De Sica (ma detta sessant’ anni dopo, degna, diciamolo, di un B-movie).

Intervistato dal Foglio, l’alto papavero capitolino racconta di aver fatto una bella lavata di capo ai monelli, naturalmente dopo aver pagato i 600 euro di multa. Poi “si congeda con gentilezza e torna al lavoro”. Infatti,“ a giorni ci sarà un’infornata di nomine”. Un linguaggio commestibile che si addice alla giunta Gualtieri che in quattro mesi dalla nascita non ha ancora dato tangibili segni di vita. Se non trattare febbrilmente posti e poltrone e attribuire le proprie manchevolezze alla “macchina ferma”, all’“abbiamo trovato cose incredibili”. Insomma, l’eterno scarico della monnezza su “quelli che c’erano prima”. Con il rischio, un giorno, chissà, di ritrovarsi a dire: lei non sai chi ero io.

Abusi, Ratzinger: “Chiedo perdono, ma non mentii”

Benedetto XVI respinge l’accusa di aver coperto quattro casi di pedofilia quando era arcivescovo di Monaco e Frisinga. “Ancora una volta – scrive il Papa emerito – posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso”. Una risposta, quella di Benedetto XVI, arrivata dopo i risultati dell’indagine della pedofilia del clero dell’arcidiocesi bavarese che, dal 1977 al 1981, vide alla guida l’allora cardinale Ratzinger.

Il Papa emerito ha affidato la sua replica a quattro giuristi cattolici tedeschi, di cui tre canonisti: “In nessuno dei casi analizzati dalla perizia Joseph Ratzinger era a conoscenza di abusi sessuali commessi o del sospetto di abusi sessuali commessi dai sacerdoti”. Benedetto XVI ha voluto rispondere anche a chi lo ha accusato di aver volutamente negato la sua presenza alla riunione nella quale si affrontò il caso di uno dei preti, risultato solo successivamente pedofilo: “Mi ha profondamente colpito che la svista sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo”.

I software si moltiplicano, sistema in tilt

Le file agli Hub; i medici che non riuscivano a prenotare i tamponi; il contact tracing bloccato; le reclusioni obbligate per i ritardi nell’invio degli esiti dei test. Molti dei disagi vissuti recentemente dai lombardi hanno un denominatore comune: l’inefficienza del sistema informatico della sanità regionale. O meglio, dei vari sistemi informatici, visto che Ats, medici di Famiglia, Asst, sono tutti costretti a usare un’infrastruttura costruita senza un disegno organico. Un collage di software diversi che sotto la pressione di Omicron, sono stati aggiustati in corso d’opera, rattoppati e piegati alle esigenze.

Iniziamo dalle Ats che per tracciare positivi e contatti usano un programma sviluppato dalla softwarehouse bresciana Invisiblefarm. Un software acquistato in autonomia da ogni singola Ats (il sistema è uguale per tutte, ma è stato comprato da ognuna singolarmente), senza un contratto quadro. Così è comprensibile che con l’arrivo di Omicron, quei sistemi – tarati per le esigenze delle singole Ats – non abbiano retto all’aumento dei casi. Da qui i ritardi nelle liberazioni e il tracciamento saltato.

Un modus operandi oscuro, visto che la Regione ha un’agenzia – Aria – che oltre a essere una softwarehouse, deve centralizzare gli acquisti sanitari. Il software di Invisiblefarm, poi, non comunicava con il sistema fornito da Ats ai medici di famiglia per prenotare i tamponi. Da qui l’impossibilità di prenotare i test, motivo delle file in farmacie.

Inoltre entrambi i sistemi di Ats si sono rivelati incompatibili con un terzo software, il Malinf, creato da Aria per il conteggio dei positivi, quello che aveva inviato a Roma i dati epidemiologici errati, costringendo la Lombardia a una settimana di zona rossa non giustificata.

Nella classifica delle responsabilità Aria è sul podio. La Corte dei Conti già nel 2021 aveva sottolineato come avesse fallito nel ruolo di centrale d’acquisto, come denunciato nelle loro interrogazioni dai consiglieri Pietro Bussolati (Pd), Marco Fumagalli e Massimo de Rosa (M5S).

Un giudizio negativo ribadito dalla Corte il 31 gennaio 2022, quando ha analizzato il “Piano d’azione”, presentato da Aria per sanare le carenze del 2021. E anche questa seconda indagine – che il Fatto ha letto in anteprima – è stata una bocciatura. Per i giudici, Aria non hanno fatto nulla per risolvere i problemi riguardanti: “assetto societario, governance e funzioni”; “personale”; “immotivate disparità nel trattamento economico del personale”; “ricorso eccessivo alle consulenze”; “mancato rispetto del limite dei compensi degli amministratori”; “Criticità rilevate nello svolgimento della funzione di centrale acquisti, nella programmazione, nel monitoraggio sugli acquisti” e negli “strumenti operativi”.

Tranchant il giudizio dei giudici: “Il documento risulta carente sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale». Ciononostante ieri la Giunta Fontana ha affidato ad Aria il compito di creare la nuova “Rete regionale di Prenotazione sanitaria”.