Covid, soldi delle donazioni: mancano le rendicontazioni

Chi controllerà l’utilizzo di quello tsunami di soldi generato dalle donazioni che tra il 2020 e il 2021 si è abbattuto su enti locali, Regioni, Comuni, ospedali pubblici per l’emergenza Covid? Nessuno. Né si è controllato prima, né lo si farà poi. A oggi, infatti, un obbligo di rendicontazione per le Pubbliche amministrazioni non c’è. O meglio, la rendicontazione dettagliata è prevista per legge, ma tale obbligo scatterà solo alla fine dello Stato di emergenza (oggi fissata al 31 marzo 2022). Secondo il decreto “Cura Italia” (n. 18 del 17 marzo 2020) tutte le Pa beneficiarie di donazioni liberali dovranno presentare trimestralmente apposita rendicontazione separata dei fondi confluiti sui propri conti Covid, e pubblicarla nella “Sezione trasparenza” dei rispettivi siti. Ma lo stesso decreto stabilisce che l’obbligo scatti alla fine dello Stato di emergenza. Quindi chi oggi ha pubblicato i dati di spesa, lo ha fatto di sua sponte. E chi non ha pubblicato nulla, non è soggetto ad alcun tipo di richiamo, perché non era tenuto a farlo.

Dal 31 marzo prossimo le cose cambieranno e online si riverseranno milioni di dati, impossibili da verificare. Un compito immane che spetterà soprattutto ad Anac, ma dalla stessa Autorità fanno sapere che sarà improbo controllare tutto. Quindi l’attività ispettiva avverrà o con controlli a campione o con monitoraggi, oppure, in base a singole segnalazioni. Così sarà quasi impossibile rilevare casi di frode o affidamenti sospetti e un caso come i “camici di Fontana” difficilmente potrà esser scovato.

Analizzando le rendicontazioni disponibili oggi è agevole seguire il percorso dei soldi fino ai macro centri di raccolta (Protezione civile, Regioni, Comuni, Asl, ospedali), ma diventa impossibile tracciare l’ultimo miglio percorso dalle donazioni: sappiamo quanti camici ha comprato Regione Lombardia, ma non sappiamo quanto siano costati singolarmente, da chi li ha presi e quanto li ha pagati. Inoltre, la maggioranza dei centri di raccolta ha speso meno di quanto ricevuto e ha parecchi fondi fermi sui propri conti. Spesso a causa del “paradosso delle donazioni finalizzate”, quelle donazioni gravate da un vincolo specifico che non si sono potute utilizzare per scopi diversi. Il caso eclatante è l’Ospedale in Fiera a Milano: Regione Lombardia al 4 settembre 2020, aveva raccolto 53.060.407,52 euro, 25.806.300 dei quali vincolati alla costruzione dell’Astronave di Bertolaso. Ma l’Astronave – costata 17,5 milioni – è stata realizzata con i fondi raccolti da Fondazione Fiera (21 milioni), così il Pirellone è stato costretto a richiedere ai donatori una liberatoria all’utilizzo delle risorse per altro. Lo spostamento dei fondi è stato agevole per le macro donazioni, come quelle di Moncler (10 milioni) o Fondazione Invernizzi (4 milioni), perché la giunta Fontana ha proceduto con delibere di restituzione, ma ciò è stato impossibile per tutte quelle micro. Così, secondo gli ultimi dati disponibili, da 15 mesi almeno 14 milioni restano “parcheggiati” su un conto regionale.

Il mensile Vita ha fissato alcuni numeri: la Protezione civile per il Covid-19 ha raccolto 170.587.507 euro. A oggi ne ha spesi 167.782.465: 15.403.650 per ventilatori polmonari; 146.419.502 per Dpi; 998.400 per tamponi e 4.960.913 per spese di trasporto. Ma l’ultimo miglio, quello che il ventilatore percorre dal magazzino della Protezione civile all’ospedale, è impossibile da ricostruire.

Più complicato districarsi tra le poche rendicontazioni delle Regioni. Ognuna è andata per conto proprio. L’Emilia-Romagna, che ha dedicato un sito per illustrare lo stato dell’arte (i dati sono aggiornati al 1° luglio 2021), ha racconto 78.596.495 euro e ne ha spesi 68.776.711: il sito non svela il destino dei 10 milioni inutilizzati. Anche il Veneto ha pubblicato una macro rendicontazione, aggiornata al 31 dicembre 2020: ha raccolto 69.992.849,57 euro, ma mancano i dati disaggregati e non sono riportati eventuali avanzi di cassa. Assai più stringato il report dalla Campania (aggiornato al 31 dicembre 2020): ha ricevuto donazioni per 8.952.575,65, ma sul loro utilizzo dà solo pochi cenni. Basilicata e Sardegna hanno scelto di non rendere noto alcun dato aggregato.

Iliad, offerta formale per il 100% di Vodafone

Un’offerta per l’acquisto del 100% di Vodafone Italia presentata da Iliad: la notizia, diffusa da Bloomberg, è stata confermata dai vertici della compagnia francese: “Confermo che Iliad ha fatto un’offerta a Vodafone per l’acquisizione del 100% di Vodafone Italia” ha detto Thomas Reynaud, amministratore delegato dell’operatore telefonico francese sbarcato in Italia nel 2016. Gli analisti ritengonoche si tratti di un’operazione tra gli 11 e i 14 miliardi di euro che arriva proprio mentre Tim è sulla strada per separare rete e società di servizi. Resta qualche dubbio sull’onere finanziario da sostenere e sullo scoglio antitrust, anche se tutti concordano che un consolidamento alleggerirebbe la pressione competitiva.

Diamanti, Banca d’Italia sapeva tutto già nel 2013

La Banca d’Italia sapeva già nel 2013 che la vendita dei diamanti in banca violava le regole. Nonostante quella scoperta sulle pietre del broker Idb, “che evidenziava come alcune operazioni effettuate potessero rispondere a finalità poco trasparenti”, però, Via Nazionale non ne fece parola con i risparmiatori o il mercato e non intervenne per fermare il business attraverso i canali bancari perché i diamanti non erano prodotti bancari ma “servizi connessi”, dunque i relativi controlli non ricadevano sotto la sua responsabilità. Già dal 2011 ne aveva lasciato la verifica alle stesse banche intermediatrici (che ci lucravano sopra commissioni sino al 24%), come il Fatto ha rivelato qualche giorno fa. Palazzo Koch a gennaio 2014 si limitò a segnalare la cosa alla Procura di Milano e a comminare una sanzione da 62.500 euro per violazione delle norme antiriciclaggio. Così il business continuò indisturbato, rovinando altre decine di migliaia di risparmiatori sino al 2016, quando lo scandalo esplose nella puntata del 17 ottobre di Report, e fu sanzionato dall’Antitrust il 30 ottobre 2017 per “le modalità di offerta gravemente ingannevoli e omissive” dei broker Idb e Dpi, le due società di commercializzazione delle pietre finite in dissestro dopo lo scoppio dello scandalo, attraverso le banche con le quali operavano, UniCredit e Banco Bpm (Idb), Intesa Sanpaolo e Mps (Dpi).

Lo ha confermato ieri, nell’audizione alla Commissione bicamerale di inchiesta sulle banche, il direttore generale di Bankitalia Luigi Federico Signorini. Signorini è intervenuto al posto del Governatore Ignazio Visco per rispondere del ruolo di Via Nazionale nella vicenda, dopo che Report il 13 dicembre scorso ha fatto luce sui rapporti tra Dpi e i vertici di Mps, segnalati dal whistleblower della Vigilanza Carlo Bertini.

Bankitalia scoprì le magagne attraverso un’ispezione di vigilanza in Banca Aletti (all’epoca nel gruppo Banco Popolare, oggi Banco Bpm) iniziata il 16 maggio e conclusa l’11 ottobre 2013, il cui rapporto fu consegnato al cda – “all’uopo convocato” – l’8 gennaio 2014. Ne derivò un’altra verifica dell’Unità di informazione finanziaria (l’organismo antiriciclaggio di Bankitalia) iniziata in Banca Aletti e in Aletti Fiduciaria il 20 settembre e finita il 23 dicembre 2013, i cui risultati furono comunicati il 16 gennaio 2014. In seguito su Banco Bpm emerse “un diretto e significativo coinvolgimento della banca in attività di commercializzazione dei diamanti non correttamente riportato”. Motivo per cui Banca d’Italia denunciò l’istituto per ostacolo alla vigilanza. L’inchiesta di Milano è stato divisa in più tronconi e le condotte di ostacolo sono state trasferite a Verona dove il processo dovrà ripartire.

Al 30 settembre scorso il business delle pietre ha coinvolto 71mila clienti delle banche, che hanno incassato commissioni per 273 milioni e sinora hanno rimborsato 1,2 miliardi. Un disastro, ma non per Banca d’Italia: vigilare non era affar suo.

Lagarde e gli errori che complicano la vita al premier

Ipreoccupanti aumenti dell’inflazione e dello spread sui titoli di Stato dovrebbero aver fatto capire – perfino ai giornalisti celebrativi – che il premier Mario Draghi non possiede il potere magico di tenere sempre basso il costo del maxi debito pubblico dell’Italia. Ma Draghi non sta nemmeno riuscendo a evitare – come invece dovrebbe – che la Banca centrale europea – di cui è stato il più autorevole presidente fino al 2019 – faccia trapelare segnali di addio alla politica monetaria accomodante e agli acquisti di titoli pubblici. Segnali che provocano effetti negativi e costosi ai Paesi più indebitati come l’Italia, che ha nella Bce il principale acquirente del suo maxi-debito. E che, da grande debitore, potrebbe vedersi chiedere da Francoforte – come avvenuto con la Grecia – perfino la rinuncia a parte della sua sovranità nelle politiche di bilancio.

Pertanto il premier, dimenticando le celebrazioni mediatiche e la sconfitta nella corsa al Quirinale, dovrebbe impegnarsi al più presto per tutelare l’Italia nell’attuazione della politica monetaria della Bce: usando meglio la sua autorevolezza e competenza. Questo compito è diventato più complicato perché l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel ha voluto alla Bce un vertice “politicizzato”, meno esperto tecnicamente e quindi meno indipendente rispetto a quando la guidava Draghi (pur in sintonia con la leader di Berlino) con il fidato vice Vitor Constancio, ex presidente socialista della Banca del Portogallo.

Gli attuali presidente e vicepresidente della Bce, la francese Christine Lagarde e lo spagnolo Luis de Guindos, condividono la provenienza governativa e l’inesperienza nell’attuazione della politica monetaria. Lagarde è stata avvocato d’affari negli Stati Uniti, prima di mettersi al servizio di chiunque arrivasse al potere in Francia. Divenne viceministro del Commercio estero con il presidente di centrodestra Jacques Chirac. Saltò sul carro del successore, Nicholas Sarkozy, che la impose ministro delle Finanze e poi a capo del Fondo monetario internazionale di Washington al posto del connazionale socialista Dominique Strauss Kahn (travolto da uno scandalo sessuale). Lagarde, con l’arrivo di Emmanuel Macron, si riciclò per farsi appoggiare nella nomina alla Bce. A Francoforte dovrebbe continuare la politica monetaria espansiva di Draghi e gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi più indebitati, come chiedono i suoi “grandi elettori” Francia e Italia nonostante le riserve della Germania e di Paesi nordici. Ma Macron è sotto elezioni presidenziali. Draghi sconta i contrasti nella maggioranza. La furba Christine non tenterà di puntellare la sua posizione personale compiacendo di più Berlino?

Il suo vicepresidente, l’ex ministro delle Finanze di centrodestra de Guindos, è stato imposto proprio dalla Germania alla Bce, dopo essersi guadagnato – nelle riunioni segrete dell’Eurogruppo – l’immagine di “fedelissimo”, “scudiero” o perfino “cameriere” dell’allora dominante collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Lo spagnolo è stato il primo discusso caso di passaggio diretto da un governo al vertice della Bce, che dovrebbe essere “indipendente”. In passato de Guindos aveva operato anche nella banca Usa Lehman Brothers, crollata e diventata simbolo negativo della crisi finanziaria.

In Italia sarebbe necessario un confronto – nel governo e in Parlamento – sui rischi provocati dalla pesante dipendenza da un creditore come la Bce con vertice “politicizzato”. Perché Draghi, aiutato dai fidati ex colleghi alla Banca d’Italia – il ministro dell’Economia Daniele Franco e il membro del direttivo Bce Fabio Panetta – può riuscire a evitare “sorprese” da Francoforte. Ma deve evitare altri scivoloni, che estenderebbero gli effetti negativi anche nel confronto a Bruxelles sulla riforma del Patto di stabilità.

Appesi alla Bce: sullo spread niente “effetto Draghi”

Esattamente un anno fa, i giornali si riempivano di un fenomeno economico noto come “l’effetto Draghi”. Il solo arrivo dell’ex Bce a Palazzo Chigi – avvisavano – poteva arrivare a valere un calo di decine di punti dello spread e risparmi miliardari sui costi di finanziamento del debito. Un anno dopo, ieri, il differenziale di rendimento tra i Btp italiani e i Bund tedeschi a 10 anni ha chiuso a 158 punti base (dopo i 160 dell’avvio) in crescita rispetto ai 155 della vigilia, numeri che non si vedevano dall’estate 2020.

L’ultima fiammata è stata innescata da una confusa conferenza stampa di Christine Lagarde. “Non prendo impegni senza condizionalità”, ha spiegato la presidente della Bce giovedì. Non sappiamo se l’uscita abbia accelerato i tempi di un percorso di rialzo dei tassi d’interesse ormai segnato oppure sia stato l’ennesimo scivolone dialettico che le capita ogni tanto (il suo “non siamo qui per chiudere gli spread” del marzo 2020, in piena pandemia, causò un terremoto sui mercati). Di certo ha voluto abbandonare la sicurezza con cui a dicembre scorso aveva definito “altamente improbabile” un rialzo dei tassi per il 2022.

Dovremo aspettare le previsioni macroeconomiche del 10 marzo prossimo, le “condizionalità” a cui si riferiva Lagarde, per avere un’idea sulle future mosse della Banca centrale. Ma il solo fatto di non aver escluso la possibilità di uno o più rialzi dei tassi per quest’anno, ha dato definitivo impulso al mercato che scommette sulla possibilità che la Bce sarà costretta ad abbandonare in anticipo la fase di espansione monetaria.

Da giovedì i tassi d’interesse sono saliti un po’ ovunque in Eurozona, cominciando dai titoli ritenuti più sicuri come i bund tedeschi e interessando tutto il resto, compresi i titoli di Stato italiani. Il mercato ormai sconta che entro la fine dell’anno l’epoca dei tassi d’interesse negativi sarà conclusa. Questo determina un’altra importante conseguenza: anche l’epoca degli acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale si concluderà in anticipo. La Bce ha ripetuto più volte in questi anni che il rialzo dei tassi avverrà solo quando saranno conclusi i vari programmi di Quantitative Easing. Ipotizzare un rialzo anticipato vuol dire anche che il supporto della banca centrale per l’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi periferici, Italia inclusa, si concluderà prima del previsto.

Per i titoli italiani le conseguenze non sono di poco conto. Stimando per quest’anno un deficit pubblico intorno ai 110 miliardi, se gli acquisti della Bce fossero andati avanti come ipotizzato qualche mese fa, il mercato avrebbe dovuto assorbire solo una parte residuale del nuovo debito. La quasi totalità del deficit sarebbe stata assorbita dalle erogazioni del Recovery fund (circa 40 miliardi nel 2022) e dai programmi di acquisto della Bce: circa 20 miliardi di euro col Piano di acquisti pandemici (Pepp) fino a marzo (quando si concluderà, a un anno di distanza da quando fu lanciato dopo la gaffe di Lagarde) e 50 miliardi col vecchio piano di acquisti (App) per tutto l’anno in corso. Se il programma App si dovesse invece concludere in anticipo, la quota di debito che il mercato dovrà assorbire sarà decisamente più importante.

Questa possibilità si è riflessa sul differenziale di rendimento – lo spread – tra titoli italiani e titoli tedeschi, che dopo i minimi di un anno fa è ritornato a salire in modo deciso, con buona pace di quanti ritengono che l’aver messo mister “whatever it takes” a capo del governo avrebbe posto definitivamente al riparo l’Italia dalle turbolenze dei mercati. La realtà è che il riparo dai mercati è coinciso in questi anni con l’ombrello della Banca centrale europea, che pur avendo sempre smentito in via ufficiale la possibilità di tener sotto controllo lo spread tra i titoli di Stato dei vari Paesi, quando questo ha superato un certo limite (per l’Italia tra 230 e 300 punti) si è mossa per ridurlo.

I rischi per l’Italia che il mercato sta prendendo sempre più in considerazione non riguardano solo l’ammontare maggiore di titoli di Stato che si troverà ad assorbire. L’aumento dei prezzi dei beni energetici può pesare in modo deciso sulla crescita dell’economia.

Le previsioni sono state riviste al ribasso in queste settimane, e l’ultima, quella di Banca d’Italia, stima una crescita del Pil sotto al 4% nel 2022, contro il 4,7% stimato dal governo nei documenti di bilancio. Un cambio anticipato di linea della Bce peggiorerebbe il quadro. L’aumento dei tassi provoca un aumento delle spese per interessi sui mutui e i finanziamenti di famiglie e imprese – con conseguente riduzione della domanda interna (consumi e investimenti privati) – e potrebbe peggiorare la situazione, schiantando il briciolo di ripresa maturata lo scorso anno.

Per capire se l’impianto di bilancio definito dal governo reggerà in questo nuovo scenario bisognerà guardare alla “crescita nominale”, cioè quella reale sommata all’inflazione, stimata oggi al 4,5%. Più volte Draghi ha spiegato che la riduzione del debito pubblico si basa sulla capacità di generare una crescita duratura. Insomma, conta più l’aumento del Pil che i tagli di spesa. Ma se la crescita nominale andasse sotto il 4,5%, il rapporto debito/Pil ricomincerebbe a crescere pericolosamente. A quel punto, se vuole rispettare le regole fiscali Ue (oggi sospese per il Covid ma pronte a ripartire nel 2023) il premier non potrà escludere una correzione di bilancio.

Dai dati diffusi dall’Istat sull’ultimo trimestre 2021, la crescita acquisita per il 2022 è del 2,4% per cui, se si somma l’inflazione attesa oltre il 3%, si arriva ad un valore ben oltre il limite ipotizzato e tutto l’impianto regge. Ma non c’è da star tranquilli, visto che l’ultimo bollettino della Banca d’Italia rileva un’attività economica in rallentamento già dalla fine dello scorso anno.

Il quadro non è roseo. Mentre i partiti richiedono giustamente un intervento che attenui le pressioni del cosiddetto caro bollette, il governo è costretto a sperare che l’impatto del rialzo dei prezzi e dei tassi sulla crescita non faccia saltare i conti. L’ombrello della Bce potrebbe chiudersi proprio mentre se ne avrebbe più bisogno, con ripercussioni sui rendimenti dei titoli di Stato ben più significative e che, come visto, la sola presenza di Draghi al comando potrebbe non essere sufficiente a placare.

Cartabia incontra i partiti: resta stop alle porte girevoli

Venerdì approderanno al Consiglio dei ministri gli emendamenti della Guardasigilli Marta Cartabia alla riforma del Csm, dopo lo stallo per il voto del presidente della Repubblica. Come anticipato nelle settimane scorse dal Fatto, sulle porte girevoli per i magistrati resta la proposta dell’ex ministro M5s Alfonso Bonafede: le toghe che entrano in politica, alla fine del loro mandato non potranno tornare a fare né i pm né i giudici. Per quanto riguarda il sistema elettorale per il rinnovo dei membri togati del Csm, la ministra presenterà l’ipotesi prospettata ieri ai capigruppo della maggioranza: il sistema maggioritario bi-nominale, ma con correzioni proporzionali più accentuate rispetto all’idea illustrata a dicembre. Per il 16 febbraio la commissione Giustizia della Camera aveva già fissato una seduta proprio per esaminare tutti gli emendamenti al testo base, quello Bonafede, depositati addirittura a giugno scorso mentre oggi, la stessa Commissione, voterà la riforma dell’ergastolo ostativo, imposta dalla Consulta.

Renzi e gli speech: per i cinesi diventa “The Predator”

“The Predator”, l’uomo che voleva “rivoluzionare il sistema politico italiano”, colui che ha introdotto per la prima volta una riunione alle 7.30 del mattino, sconvolgendo “gli italiani abituati a lavorare alle 9.00 di mattina”. Definizione, quella di “predatore” che potrebbe essere una traduzione un po’ enfatica di “rottamatore”. È la presentazione di Matteo Renzi pubblicata sul sito cinese della Qiao’ao International Public Relations Co. Ltd di Pechino, società di think tank collegata alla Matai’ao International Public Relation Co. Ltd, che a sua volta avrebbe pagato Renzi per alcuni mesi – secondo quanto risulta al Fatto – la somma di poco più di 8 mila euro. La Matai’ao (termine che in cinese significa “Matteo”) è stata citata all’interno di una segnalazione per operazioni sospette (Sos) dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, scattata però per altre ragioni, ossia un “girofondo” tra due rapporti bancari entrambi di Matteo Renzi. I pagamenti non hanno alcun rilievo penale. La Sos è stata rivelata da Corriere della Sera e La Stampa, ma è stato Il Fatto a ricostruire e scoprire che una di quelle citate era la società cinese per la quale Renzi ha tenuto diverse conferenze. Sul sito della Qiao’ao, Renzi è inserito tra i “consiglieri globali”, insieme ad altri cinque ex leader internazionali: lo spagnolo Mariano Rajoy, il francese Francois Holland e il portoghese Josè Barroso, oltre alle ex presidenti di Mauritius, Amina Fakim, e Costa Rica, Laura Miranda.

Leggendo la scheda di presentazione di Renzi in lingua cinese viene fuori una descrizione piena di elogi dell’attuale senatore di Italia Viva. Renzi viene descritto come “giovane ed energico” mentre “indossava jeans neri e maglietta alle riunioni e faceva le cose velocemente”. Non solo. “Durante il suo incarico di segretario generale del Partito Democratico italiano – si legge – ha assunto un gran numero di giovani e la maggior parte della sua squadra di segreteria era di età inferiore ai 35 anni”; durante il suo periodo da leader dem, invece, “per facilitare il suo lavoro trasferì l’ufficio della Segreteria a Firenze” anticipando la prima riunione “alle 7:30 del mattino”. E ancora: “La rivista Fortune nomina Renzi la persona più influente al mondo sotto i 40 anni” mentre “Foreign Policy lo ha inserito tra i primi 100 pensatori globali”. Allegato c’è un video di un minuto (visibile da ieri su Ilfattoquotidiano.it), contenente le immagini di alcuni incontri cui Renzi ha partecipato in Cina. Citati i convegni del 21 giugno 2018 a Pechino, del 21 settembre 2018 a Shanghai, del 27 ottobre 2018 a Chongquing e quello del 21 settembre 2019 a Pechino, in occasione del “Beijing World Economic and Environmental Conference”. Nel video, a un certo punto Renzi, seduto affianco a Rajoy, dice: “Siamo Paesi amici, anche se litighiamo a calcio”. La Quiao ha anche un sito in inglese. Qui la scheda dell’ex premier si trova nella sezione “portfolio”. L’ex premier risulta available for (“disponibile per”, ndr) “business consultancy”, “video conferences”, “keynote speakers”, “public relations” e “honorary directorship”. L’elogio continua. Fra i “meriti” di Renzi anche “la semplificazione dei processi civili (…) le unioni civili fra persone dello stesso sesso e l’abolizione di tante piccole tasse”.

Le 3 telefonate di Letta jr. a B.: “Silvio, ora collabora con noi”

“Pronto Silvio, come stai?”. Per la prima volta Enrico Letta ha chiamato Silvio Berlusconi senza passare dallo zio Gianni. Se durante il periodo pre-Quirinale era stato il Richelieu dell’ex premier a fare da ambasciatore tra i due, nelle ultime due settimane è stato il segretario dem ad alzare personalmente la cornetta e comporre il numero di Arcore. La scusa erano le condizioni di salute del leader di Forza Italia, ricoverato al San Raffaele nei giorni degli scrutini per il Colle. Un motivo “istituzionale” che ne cela un altro: l’obiettivo di Letta è cercare di sfruttare la spaccatura nel centrodestra e provare a iniziare una “collaborazione” con Berlusconi che parta proprio dalla modifica della legge elettorale, magari in senso proporzionale. Nelle ultime due settimane, raccontano fonti di Forza Italia, i due si sarebbero sentiti tre volte.

La prima telefonata è arrivata una decina di giorni fa, subito dopo la rielezione di Sergio Mattarella. E l’oggetto della conversazione è stata resa nota dallo stesso segretario dem: “Ho chiamato Berlusconi per scusarmi per le mie parole sulla sua candidatura al Colle – ha rivelato Letta dopo averlo definito “divisivo” – ho usato parole troppo dure, ma la politica è così”. Telefonata che il leader di Forza Italia aveva apprezzato molto dopo esserci rimasto male per il veto sul suo nome da parte dei dem. Poi negli ultimi dieci giorni Letta ha chiamato altre due volte il leader azzurro. L’ultima a metà della scorsa settimana, mentre infuriava lo scontro tra Berlusconi e gli altri due leader del centrodestra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Quest’ultima era addirittura andata su Rete 4 a dire che lei a Silvio non doveva niente ottenendo una fatwa – ora rientrata – a Mediaset. E quindi il segretario dem si è inserito nelle pieghe della coalizione. Chi ha assistito alle conversazioni racconta di un tono “amichevole e cordiale”, di battute sul Milan (sono entrambi tifosi rossoneri) e poi di un ragionamento politico che parte dal governo Draghi per arrivare allo scenario post-elezioni 2023. I due hanno condiviso che l’esecutivo debba arrivare fino a fine legislatura evitando scossoni da campagna elettorale prendendo come esempio la “responsabilità” dimostrata in questo anno proprio da Pd e Forza Italia. Ma il segretario dem si è spinto oltre invitando Berlusconi a “staccarsi” dai sovranisti Salvini e Meloni che vanno verso l’isolamento e pensare a una modifica della legge elettorale Rosatellum che non garantirà “rappresentatività” con il taglio dei parlamentari. Il senso del suo ragionamento, raccontano fonti azzurre, sarebbe stato più o meno questo: “Dopo le elezioni del 2023, serve una maggioranza con tutte le forze europeiste per il dopo Draghi”. Una frase che, alle orecchie di Berlusconi, è suonata come una proposta indecente: approvare una legge proporzionale e poi formare una maggioranza “Ursula” dopo il voto che allarghi la coalizione di centrosinistra anche a FI. Prospettiva che piace all’ala governista del partito. La conversazione si è conclusa con l’impegno di risentirsi “più avanti”.

Sulla legge elettorale, se Enrico Letta non ha fatto ancora un endorsement pubblico per il proporzionale, la richiesta sale da quasi tutte le correnti del Pd. Ma Berlusconi, per il momento, resiste sul maggioritario per restare attaccato al centrodestra con Salvini. Con questo sistema FI, grazie a un accordo con la Lega, avrebbe 10 posti al Senato e 20 alla Camera. Disegno che il leader di FI ha spiegato al settimanale Chi in uscita oggi con tanto di servizio fotografico con la fidanzata Marta Fascina ad Arcore. Nell’intervista, Berlusconi si dice pronto a “tornare in campo” per un “centro moderato” alternativo alla sinistra che però “stia in un centrodestra di governo dopo il 2023”. La coalizione però è a pezzi. Salvini ieri ha attaccato Meloni (“Se qualcuno vuole andare da solo faccia pure ma così si perde”), mentre la leader di FdI ha risposto candidandosi a leader e sfidando gli alleati: “Serve un patto anti-inciucio nero su bianco”.

Casaleggio, Grillo e il tribunale: la leadership a ostacoli di Conte

Ventotto febbraio 2021, ore 11 e 30. I vertici del Movimento 5 Stelle si ritrovano all’Hotel Forum, a Roma, e Giuseppe Conte accetta la richiesta di Beppe Grillo: sarà lui a mettere la faccia sul rilancio di un M5S in crisi. Sembra semplice: la leadership, il voto degli iscritti, la rifondazione. E invece in un anno succede di tutto, tra scomuniche pubbliche e storici divorzi, con Conte che oggi è costretto a ripartire quasi da capo.

 

L’inizio Dopo il “conticidio”

A febbraio 2021, Mario Draghi scalza Conte da Palazzo Chigi. Non è un passaggio indolore per il Movimento, che decide di sostenere il nuovo esecutivo nonostante sia la principale vittima politica del ribaltone. Conte non è ancora il leader, ma è in quelle settimane che Grillo gli chiede di mettersi in gioco: “Io ci sono e ci sarò”, dice lui di fronte a un tavolino improvvisato e coperto di microfoni fuori da Palazzo Chigi. Il problema è che nei 5S tira una pessima aria, perché in tanti non sopportano le larghe intese. Alessandro Di Battista, il più popolare tra i “dissidenti”, se ne va sbattendo la porta.

 

Rousseau Scontro sui dati

A fine febbraio, Conte dice sì a Grillo, ma chiede al garante di risolvere la questione aperta con Rousseau. I rapporti tra il Movimento e Davide Casaleggio sono ai minimi. Ad aprile il figlio di Gianroberto chiede 450 mila euro di donazioni arretrate, poi annuncia il divorzio dal Movimento e il lancio di un fantomatico “progetto” alternativo. Conte chiede allora che Rousseau consegni al M5S i dati degli iscritti, in modo che la base possa votare su altre piattaforme: l’ex premier sta lavorando al nuovo Statuto e ha fretta di legittimare la propria leadership.

Ma per Casaleggio la questione è ormai personale: “Conte leader? Ignoro che idee abbia, per ora ha solo mediato tra M5S, Pd e Lega”. Il guru di Rousseau non ha intenzione di fornire i dati perché ritiene appartengano alla sua associazione e resiste all’ultimatum di Vito Crimi, che pretende gli elenchi “entro 5 giorni”. A fine maggio, il M5S si rivolge al Garante della Privacy, chiamato a decidere di chi sia la proprietà di quei dati. La risposta è netta: “Rousseau dovrà consegnare al M5S entro 5 giorni i dati degli iscritti di cui l’Associazione risulti responsabile”. La guerra con Casaleggio finisce, ma Conte ha perso tre mesi.

 

Il garante La scomunica

Sancito il divorzio da Rousseau, Conte si trova davanti il peggiore degli imprevisti. Quattro mesi dopo avergli affidato il M5S, Grillo cambia idea. Il 24 giugno il fondatore incontra gli eletti alla Camera e silura l’avvocato: “Sono il Garante, mica un coglione. È Conte che ha bisogno di me, non viceversa”. Conte è spiazzato. Si prende qualche giorno, poi risponde a Grillo in una conferenza al Tempio di Adriano, dove chiarisce che nel M5S “non possono esserci carenze e ambiguità” su ruoli e poteri: “Sta a Grillo decidere se essere un genitore generoso o un padre padrone”. Il Garante però è furioso. Lamenta che Conte vuole esautorarlo, metterlo ai margini del suo Movimento. Protesta perché non è stato coinvolto abbastanza nella stesura di uno Statuto definito “seicentesco”. Stronca Conte in una maniera che sembra definitiva: “Non ha visione politica né capacità manageriali. Io questo l’ho capito e spero che possiate capirlo anche voi”. La rifondazione contiana fatta a pezzi da chi l’aveva voluta.

Conte però non rinuncia, confidando che i pontieri del Movimento possano calmare Grillo, che non ha molte altre alternative se non affidarsi all’ex premier, l’unico a godere di un significativo consenso nella base. E infatti il fondatore rinuncia alla forzatura del voto sul “comitato direttivo”, accetta la mediazione di sette esponenti 5 Stelle e alla fine dà il via libera al progetto di Conte. Siamo a inizio agosto e gli iscritti ratificano Statuto e leadership su SkyVote, la nuova piattaforma online.

 

Inchieste Giornali contro

Conte si trova più volte a rispondere alle accuse uscite su alcuni quotidiani. L’ex premier non è indagato, ma diverse testate associano il suo nome a quello di persone sotto inchiesta. Ad aprile, Domani pubblica stralci di un interrogatorio dell’imprenditore Pietro Amara, secondo cui l’ex premier – quando lavorava come avvocato – sarebbe stato “raccomandato” per ricevere una consulenza da 400 mila euro dalla società Acqua Marcia. Circostanza sempre negata da Conte, il cui nome compare in quei verbali insieme a decine di altre persone tritate dentro una presunta Loggia Ungheria.

Poi c’è il caso di Luca Di Donna, avvocato ed ex socio di Conte sotto inchiesta per traffico di influenze illecite per una fornitura di mascherine. Secondo i pm, Di Donna avrebbe “trafficato” il nome di Conte, utilizzandolo a sua insaputa per ottenere vantaggi per la fornitura. Il leader M5S, estraneo all’indagine, finisce sulle prime pagine. L’ultima spina è quella della presunta perquisizione di cui ha parlato ancora Domani qualche giorno fa: “Conte e i suoi affari da avvocato, la Finanza a casa del capo dei 5 Stelle”. Una notizia rilanciata come una “perquisizione”, ma in realtà un’acquisizione concordata motivata dal fatto che la Guardia di Finanza – che lavora a un’inchiesta (senza indagati) per false fatturazioni nell’ambito del concordato preventivo di Acqua Marcia – non avesse trovato altrove le fatture oggetto del caso.

 

La fronda La spina Di Maio

Il nuovo anno inizia con le trattative per il Quirinale. La priorità di Conte è il no a Draghi, meglio se per favorire l’elezione di una donna. Le trattative palesano però l’ultima trincea interna contro il capo politico, quella organizzata da Luigi Di Maio. Il ministro sgomita per assecondare le ambizioni del premier, poi, intuito che la sfida è improba, si mette di traverso all’intesa su Elisabetta Belloni, impallinandola con la sponda di mezzo Pd, renziani e FI. Una “quinta colonna” draghiana dentro al M5S che ora, con la sospensione delle votazioni che hanno investito Conte a leader, si gode il vuoto di potere.

“Basta ipocrisie: se si vuol far come si vuole, meglio ripartire da zero”

Dopo l’ordinanza del Tribunale di Napoli che ha sospeso il nuovo statuto, Giuseppe Conte e anche Vito Crimi – che del Movimento Cinque Stelle è stato a lungo reggente – hanno prospettato l’eventualità che una nuova consultazione aperta anche agli iscritti del M5S da meno di sei mesi possa sanare le criticità evidenziate dal Tribunale di Napoli. Ne parliamo con Gianluigi Pellegrino, avvocato esperto di diritto amministrativo.

Avvocato Pellegrino, a suo giudizio è così?

Si, però non può indirla Giuseppe Conte che è, diciamo così, il frutto delle decisioni ora sospese perché invalide.

E allora chi potrebbe farlo?

Lo potrebbero fare gli organi preesistenti ai sensi dell’unico statuto vigente, ossia quello precedente a quello approvato ad agosto. Comunque la violazione delle regole interne riscontrata dal giudice è clamorosa. A questo punto sa che succede?

Prego.

Se l’intenzione è di fare come si vuole, si fa prima a fare un altro contenitore politico anziché dire che si aspetta il merito e poi l’appello e via dicendo. Basta leggere l’ordinanza di ieri per vedere che è stato già espresso un giudizio molto netto. Mi pare difficile che nel merito quel giudizio possa cambiare, talmente grossolano è il vizio di non aver convocato novantamila iscritti. Peraltro in sede di merito il giudice si potrà dichiarare territorialmente incompetente e questo potrebbe comportare un allungamento dei tempi.

Ma è giusto che un giudice entri nelle questioni interne a un partito?

Se mai mi stupisco che l’abbia fatto così tardivamente, davanti ad una violazione così clamorosa. Mi sembra piuttosto che abbia sbagliato il giudice di primo grado a non accogliere il ricorso cautelare degli attivisti. Insomma mi stupisco che chi abbia determinato tutto questo pasticcio non sia stato bloccato prima.

Perché?

I partiti sono associazioni anche se non è stata mai data attuazione all’articolo 49 della Costituzione. E in più devono comunque reggersi su metodo democratico, quindi quando principi democratici di base vengono violati così clamorosamente è naturale che intervenga il giudice se compulsato. Ripeto se mai lo ha fatto tardi.

E i 5 Stelle non hanno rispettato metodo democratico?

Sarò più chiaro: se il mio condominio decide di installare un ascensore nel palazzo dove abito ma si dimentica di convocarmi per fare votare pure me è nel mio pieno diritto far valere l’illegittimità di quella decisione. Figurarsi un partito che indossa l’usbergo della democrazia se poi non la rispetta.

Come se ne esce?

Guardi innanzitutto bisogna uscire dall’ipocrisia, perché un conto è che una associazione bocciofila faccia pasticci, altro è se li fa una struttura che rappresenta milioni di elettori e che ha espresso un presidente del Consiglio. Siamo di fronte a un soggetto politico di enorme importanza ma anche al carattere immaturo del suo funzionamento. Anzi tutta questa vicenda è proprio la riprova della fase che stiamo vivendo.

Cioè?

Il segno di uno sbandamento del Paese. Prima c’è stato Berlusconi che ha messo in piedi un partito che non ha mai fatto un congresso e che decide tutto ad Arcore. Ora siamo a Grillo diverso ma… uguale.