“Con meno parlamentari la democrazia è più solida”

Si può criticare la riforma del taglio dei parlamentari da molte angolazioni, ma su un punto la professoressa Elisabetta Palici di Suni è sicura: “Questa riforma non andrà a toccare le fondamenta e lo spirito della nostra Costituzione. Anzi servirà per migliorare il funzionamento del Parlamento”. Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Torino, Palici Di Suni oggi sostiene convintamente il “sì” al referendum del 20-21 settembre e il motivo è semplice: “Ridurre il numero dei parlamentari farà sì che il Parlamento sarà più efficiente e poi perché meno parlamentari significa rappresentanti più preparati e autorevoli”.

Professoressa, perché voterà a favore?

Io avrei preferito una riforma più ampia anche sul bicameralismo ma, dopo l’esito del 2016, non sono più proponibili modifiche della Carta così ampie. Quasi mille parlamentari in Italia mi sembrano troppi, anche in confronto ad altri paesi dove oggi sono molti meno. Questa riforma sarebbe coerente con altre camere basse di tutta Europa. Poi c’è anche un motivo di efficienza.

Ovvero?

Ridurre il numero dei parlamentari significa assemblee più ridotte che funzionano meglio: un numero eccessivo di rappresentanti rende i dibattiti più dispersivi. C’è un’altra conseguenza che non viene mai sottolineata: nel nostro Parlamento lavorano molto le commissioni parlamentari e molte leggi vengono approvate in commissione in sede deliberante. Ma queste sono presenti solo in Spagna, Portogallo e Grecia mentre sono assenti in tutti gli altri paesi europei dove tutte le leggi sono discusse nelle commissioni e poi votate in aula. Questo garantisce la trasparenza e la pubblicità delle scelte parlamentari e la qualità delle leggi.

Poi c’è il tema del risparmio.

Non è un elemento così determinante, ma sicuramente esiste. Credo però che sul risparmio si debba intervenire in un altro modo: i parlamentari italiani sono pagati troppo rispetto agli altri paesi europei e si dovrebbe intervenire anche su questo aspetto.

Secondo alcuni costituzionalisti questa riforma porterà a un vulnus di rappresentanza. È così?

Io questo problema non lo vedo: 400 deputati e 200 senatori sono sempre un numero elevato e se la riduzione del numero dei parlamentari favorisce le forze politiche più rappresentative non sarà un pericolo la democrazia, semmai la consolida. Senza considerare che questo tema deve essere regolato con la modifica del sistema elettorale e non c’entra niente con la Costituzione.

Il Pd però dice che la riforma va accompagnata con un sistema elettorale proporzionale.

Con la riduzione del numero dei parlamentari sicuramente si favoriscono le forze più rappresentative ma è una conseguenza positiva e non uno smacco. Se abbiamo mille partitini e pulviscoli non è che la democrazia sia più forte. Detto ciò, questa riforma è compatibile sia con un sistema proporzionale che con uno maggioritario. Se si vuole approvare una legge elettorale benissimo, ma non è una questione così dirimente.

È vero che avremo il minor numero di parlamentari rispetto agli altri Paesi?

Questi calcoli sono complicati: un conto è se si contano tutti i parlamentari o solo quelli eletti direttamente. Nel Regno Unito ci sono 1400 parlamentari ma i componenti dellla Camera dei Lords non sono eletti direttamente. Che facciamo allora, li mettiamo tutti insieme? Questo calcolo può portare da una parte o dall’altra a seconda della convenienza.

Lei come votò al referendum di Renzi del 2016?

Votai sì e mi sento coerente di votare sì anche oggi. C’è anche da considerare un altro elemento: nella Costituzione originale non era stabilito a priori il numero dei parlamentari. I 630 deputati e 315 senatori di oggi sono già frutto di una riforma costituzionale. Operare sul calcolo dei parlamentari non significa modificare la struttura del Parlamento.

Provi a convincere i suoi colleghi costituzionalisti del “no”.

La spaccatura dei costituzionalisti dispiace ma è anche inevitabile. C’è già stata nel 2016 e si riproduce oggi. Può darsi che io perda di nuovo anche questa volta ma una cosa è certa: questa riforma non mette in discussione la democrazia e nemmeno lo spirito della Costituzione. È una modifica che serve a far funzionare meglio le Camere e non tocca il fondamento della Costituzione che io difendo in tutti i modi.

Zanda sta col No Ma nel 2008 chiese 600 eletti

“Io naturalmente aspetto la riunione della direzione del Pd, perché non ho mai avuto posizioni non coerenti con il mio partito, ma il mio orientamento personale è per il No”. È la posizione del senatore democratico Luigi Zanda, già tesoriere del Pd, incarico lasciato per presiedere la società editrice del Domani, di proprietà di Carlo De Benedetti. Zanda, da consumato parlamentare, sa motivare bene le sue obiezioni: “La violazione del patto che era stato stipulato in sede di formazione del governo è importante e grave, ma la questione ancora più importante è quei contrappesi che sono assolutamente necessari per il funzionamento del sistema. Vanno modificati i regolamenti parlamentari, la platea che elegge il presidente della Repubblica. Senza tutto questo non è una riforma, ma solo un taglio dei parlamentari che non è in sé una riforma”. Chiaro, coinciso, coerente (?). Vedremo fra poco che non è così.

Su Repubblica di domenica scorsa, a Zanda faceva eco l’ex senatrice Anna Finocchiaro – rifattasi viva apposta – ospitata dal quotidiano di Maurizio Molinari per scrivere con evidente sicurezza: “Sono contraria alla riduzione a 200 dei componenti del Senato, proprio in ragione dell’affermazione iniziale: l’Italia è una Repubblica parlamentare e ha un bicameralismo perfetto. Questo implica, per necessità costituzionale, che entrambe le Camere, che hanno allo stato identici poteri e funzioni, e che li manterrebbero, siano il luogo della rappresentanza plurale del Paese”. “Un Senato composto da 200 membri – continuava Finocchiaro – non può rappresentarle”.

Ora si legga il disegno di legge costituzionale del 4 novembre del 2008 (AS 1178): “Onorevoli Senatori – Il presente disegno di legge di revisione della Costituzione intende corrispondere a un’istanza di innovazione del nostro ordinamento costituzionale che deve ormai ritenersi condivisa da una larghissima maggioranza delle forze politiche e parlamentari. La questione della riduzione del numero complessivo dei parlamentari nazionali”. Poco più avanti: “La riduzione del numero complessivo dei deputati e dei senatori è rimasta continuativamente nell’agenda parlamentare. Il presente disegno di legge punta dunque a recuperare, isolandola in una specifica e circoscritta proposta di modifica costituzionale (corsivo nostro), la prima e più stringente ipotesi di riduzione del numero dei parlamentari. In particolare, si propone una modifica degli articoli 56 e 57 della Costituzione orientata a fissare in quattrocento il numero dei deputati e in duecento il numero dei senatori, con la riduzione in proporzione del numero dei parlamentari eletti nella circoscrizione Estero, fissati rispettivamente in otto per la Camera e quattro per il Senato”. “Si prevede inoltre di portare da sette a cinque il numero minimo di senatori per ciascuna Regione”.

Riduzione secca, senza fronzoli, senza riequilibri o contrappesi, con una proposta “specifica e circoscritta”, senza altro in cambio. Esattamente come si vuol fare oggi. I primi due firmatari di quella proposta si chiamavano Luigi Zanda e Anna Finocchiaro. Chissà se hanno qualcosa in comune con quelli di cui abbiamo parlato poc’anzi.

Crisi di rappresentanza? L’Italia resterà prima in Ue

“Se si vuole fare una comparazione tra i parlamentari nelle democrazie europee non si possono mischiare le pere con le mele”. Parola di Stefano Ceccanti che prima di essere deputato del Pd e sostenitore del “sì” al referendum sul taglio dei parlamentari è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Pisa. E da costituzionalista Ceccanti sostiene che il dossier di Camera e Senato secondo cui, se passasse il taglio dei parlamentari, l’Italia diventerebbe il fanalino di coda in Europa nel rapporto tra eletti ed elettori sia fuorviante.

Ricapitoliamo. Giovedì il Quotidiano Nazionale e ieri Repubblica hanno dedicato spazio a un dossier “riservato” del 19 agosto dell’ufficio studi di Camera e Senato riportando una tabella che compara i deputati eletti nelle Camere basse di tutti i 28 Stati membri dell’Unione Europea, calcolando un coefficiente preciso: il numero di deputati di ogni paese per 100.000 abitanti. Secondo questa tabella, oggi l’Italia sarebbe quintultima con 1 deputato ogni 100.000 abitanti mentre, se dovesse passare il taglio dei parlamentari, scenderebbe all’ultimo posto con 0,7 eletti ogni 100.000 elettori. Quanto basta per far affermare al Qn, primo giornale a riportare la notizia, che “il taglio dei parlamentari è inutile: l’Italia ne ha già meno degli altri paesi Ue”. Completa ieri Repubblica che mostra la tabella integrale: “Referendum, con il sì Italia ultima nella Ue per rappresentanza” è il titolo di pagina 6. Peccato che, come hanno sottolineato ieri diversi costituzionalisti tra cui Ceccanti, il professor Francesco Clementi dell’Università di Perugia e Carlo Fusaro dell’Università di Firenze, dietro al dossier ci siano due errori di metodo: “In primo luogo – spiega Ceccanti – vanno comparati gli Stati di uguale dimensione di scala. Per esempio non si può comparare l’Italia con Malta perché è ovvio che quel paese abbia un rapporto basso elettori/eletti ma questo perché un’assemblea deve avere comunque un numero minimo di eletti”. Il secondo motivo è ancora più importante: “La comparazione può avvenire solo tra rappresentanti che sono eletti allo stesso modo e che svolgono la stessa funzione”. Ergo: deputati e senatori italiani con quelli del Bundestag tedesco, dell’Assemblea Nazionale francese, della Camera dei Comuni inglese e della Camera spagnola.

Per queste due ragionila comparazione può avvenire solo tra paesi simili in termini di popolazione (e non per esempio con il Portogallo che ha gli stessi abitanti della Lombardia): quindi Italia, Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna. Non solo: l’errore metodologico in cui sono incappati i due quotidiani è che per l’Italia vanno presi in considerazione i 945 parlamentari odierni (e non solo i 630 della Camera) e i 600 dopo la riforma (e non solo i 400 deputati) perché nel nostro paese deputati e senatori sono eletti direttamente e danno entrambi la fiducia al governo. Con questi nuovi dati si può notare che oggi l’Italia ha il più alto rapporto tra parlamentari e cittadini tra gli altri quattro paesi europei più grandi (1,6 ogni 100.000 abitanti) e che dopo la riforma non diventerà l’ultima ma sarà ancora al primo posto insieme al Regno Unito: 1 parlamentare ogni 100.000 abitanti. Più bassa la rappresentanza in Germania, Francia (0,9) e Spagna (0,8). Insomma, il “sì” al taglio dei parlamentari non porterà alcun vulnus di rappresentanza ma, come sostengono molti costituzionalisti, ci farà allineare alle più grandi democrazie europee.

L’altra truffa a Zingaretti. I camici mai consegnati

Dopo il caso delle mascherine pagate 11 milioni (3 rientrati) e mai consegnate, alla Regione Lazio c’è quello dei camici e delle tute protettive. Mai arrivati, se non in minima parte e peraltro già sequest0rata dalla Guardia di Finanza. La Regione guidata da Nicola Zingaretti ha revocato l’ordine alla società Internazionale Biolife che quattro mesi fa si impegnò a consegnare “con estrema urgenza per fronteggiare l’emergenza” 850mila camici e 1 milione di tute. Alla fine ne sono arrivati meno di 150 mila, con la Regione ora pronta a chiedere indietro l’anticipo già versato, ossia 2,8 milioni di euro, più altri 1,4 milioni di penale. Guai però a chiamarlo buco (questa volta) perché con la stessa società “l’agenzia di Protezione Civile del Lazio non ha saldato una fornitura di mascherine, autorizzate e conformi, provenienti della stessa società” e quindi pari patta: una valutazione che non trova d’accordo le opposizioni.

Ma procediamo con ordine. In piena pandemia, l’ente assegna commesse per oltre 100 milioni di euro in via diretta a società minuscole, appena costituite o senza alcun know-how nel settore: le conseguenze sono ritardi e mancata consegna del materiale. È il 30 marzo quando la Regione decide di affidare alla Internazionale Biolife, con sede a Taranto e che vende prodotti omeopatici compresi quelli per il benessere sessuale, il corposo ordine da “fornire entro l’8 aprile, presso l’aeroporto di Fiumicino”. Il giorno dopo viene pagato l’acconto, 20% del totale, ma la prima consegna di camici avviene il 3 giugno. A metà del mese arrivano in tutto circa 150mila camici su un totale di 1 milione. E si arriva così al 26 agosto quando la Finanza notifica il sequestro “emesso dalla procura di Taranto nell’ambito di un procedimento penale che vede indagati i responsabili della Internazionale Biolife”. Per la società i ritardi sono dovuti alle procedure di sdoganamento presso le dogane turche e al porto di Bari, a cui si aggiunge la necessità di “rietichettatura delle confezioni” dei camici. La Regione però a questo punto decide per la revoca: “La condotta contrattuale della Biolife è chiaramente caratterizzata da inaffidabilità e inattendibilità dei tempi di esecuzione. Ha omesso di curare con la dovuta diligenza ed il necessario tempismo l’adempimento della propria obbligazione”.

Una versione che fa quasi sorridere l’amministratore delegato, Luciano Giorgetti: “Ai primi di agosto abbiamo chiuso un’altra commessa con gli stessi soggetti che pubblicamente ci accusano di essere inaffidabili, mi sembra un bel paradosso. Sul mio procedimento abbia fatto ricorso al Riesame. Inoltre abbiamo denunciato i fornitori: se non verremmo pagati chiederò il sequestro dei conti correnti”. Una storia che si preannuncia ricca di ulteriori colpi di scena, senza dimenticare il caso iniziale, anticipato dal fattoquotidiano.it, della EcoTech, un’azienda che vende lampadine a Led, ma che ha avuto una commessa da 35 milioni di euro per le mascherine, mai arrivate. “Purtroppo avevamo ragione, la Ecotech non era un caso isolato, sono stati confermati tutti i nostri dubbi anche sulle forniture della Internazionale Biolife. Sorprendente che il Direttore della protezione civile sia ancora al suo posto” incalza Roberta Angelilli di Fratelli d’Italia. Ecotech aveva corrisposto una parte dell’anticipo alla società svizzera Exor, che a sua volta, aveva chiesto l’approvvigionamento sempre alla Biolife, che poi dalla Regione riceverà la commessa dei camici.

Non sembra l’unico problema del Lazio, alle prese con i ritardi nei tamponi per chi rientra dalle vacanze: le Asl fanno attendere per giorni, romani e turisti in coda anche per 4 ore ad alcuni “drive in” per i test e il sindaco di Civitavecchia, snodo centrale degli arrivi dalla Sardegna e non solo, fatica a gestire il traffico e gli assembramenti.

 

Sbugiardato Salvini: sono migranti solo lo 0,4% dei positivi

“I porti si devono chiudere altrimenti se l’emergenza sanitaria tornasse per colpa di qualche sbarcato sapremo chi andare a prendere o chi andare a denunciare”. I nuovi ingressi sono “un rischio non più solo economico e sociale, ma anche sanitario visto l’alto numero di sbarcati positivi”. E ancora ieri: “Pur di spalancare porte e porti, gli incapaci Conte e Lamorgese mettono in pericolo l’Italia”. Da mesi Matteo Salvini arricchisce il vecchio tema dell’immigrazione con il fattore Covid. Una propaganda politica che si è accesa ancora di più con l’aumento degli sbarchi nei mesi di luglio e agosto. Quella del leader della Lega però resta una tesi, smentita dai numeri che raccontano una realtà diversa. Secondo i dati (finora inediti) del ministero dell’Interno, da inizio pandemia e fino al 14 agosto, nelle strutture di accoglienza sono in totale 1.218 i migranti positivi (di cui 710 in quarantena alla data del 14 agosto). Un numero che se paragonato agli oltre 265 mila casi che ci sono stati in Italia, rappresentano poco più dello 0,4 per cento.

Ma vediamo i dati alla luce anche degli sbarchi. Da inizio anno sono arrivati 17.985 migranti, 6.950 nei primi sei mesi del 2020. Fino al 30 giugno si contavano 603 positivi nei centri di accoglienza. A luglio e agosto gli sbarchi sono raddoppiati (11.035), mentre il contagio ha colpito altri 615 migranti. Una cifra che non spaventa la comunità scientifica, con Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità: a seconda delle Regioni, “il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti è minimale, non oltre il 3-5% è positivo e una parte si infetta nei centri di accoglienza” , ha detto il 17 agosto. “Nessun migrante positivo – spiegano dal Viminale – è attualmente in carico a presidi ospedalieri regionali”.

La sottosegretaria Zampa “Mancano centri piccoli, paghiamo le scelte di questi anni”

Il numero di contagi nelle strutture di accoglienza non allarma neanche il ministero della Salute. La sottosegretaria Sandra Zampa spiega al Fatto: “Il punto dirimente di questo dibattito è che, innanzitutto, non è affatto vero che i migranti siano più ‘contagiosi’ di altri. Non c’è nessuna evidenza di maggiore diffusione del virus nelle strutture di accoglienza”. “Il ministero della Salute – aggiunge – ha diffuso delle linee guida che indicano la necessità di controlli e quindi tamponi per chi sbarca, piccole strutture, isolamento immediato per i positivi. Linee guida troppo scarsamente applicate. Mentre per i tamponi credo che non ci siano criticità, vi sono mancanze laddove si dice che le comunità devono essere piccole, ma non si possono trovare strutture adatte in così pochi giorni. Paghiamo la politica di questi anni”.

Le cifre della Fase 1: “Quasi tutti
i casi in strutture del Nord”

A occuparsi del tema della diffusione del virus nei centri accoglienza è stato anche l’Istituto Nazionale per la promozione della salute dei migranti: per fotografare la situazione durante la Fase 1, ha condotto un’analisi su oltre 5mila strutture (coprendo più del 70% degli ospiti). I casi di Covid durante la Fase 1 erano 239, distribuiti in 68 strutture, lo “0,38%” sul totale degli ospiti. “Quasi la totalità delle strutture con almeno un caso confermato – riporta il documento – si trova al Nord, in particolare in Lombardia (19; 27,9%) e in Piemonte (15; 22,1%)”. Sono le regioni dove il virus ha avuto maggiore diffusione. I centri di accoglienza sono lo specchio del Paese, ma con numeri più esigui. Forse Salvini non se n’è accorto.

Piano Crisanti per i test: “Superlaboratori fissi e mobili. E dati Google”

Venti laboratori attrezzati con le macchine e le tecnologie dei sistemi “aperti” usati a Padova e altrove, per impiegare meno reagenti e non dipendere da chi li produce, così da processare 10 mila tamponi al giorno per ciascun laboratorio. Altri venti laboratori mobili, cioè su camion, capaci di analizzarne duemila al giorno e così “rispondere prontamente a situazioni di emergenza” nel Paese e “sostenere la capacità di Regioni in difficoltà”.

Le “divisioni regionali” che si registrano da mesi sulle modalità del tracciamento, le macchine e i reagenti, un’“insensata panoplia di iniziative e adozioni tecnologiche che generano confusione”, sono tra i motivi per cui il professor Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia dell’Università di Padova, propone un “piano nazionale di sorveglianza” e una “centrale comune di analisi dei dati”. È lo specialista che ha messo il Veneto del governatore leghista Luca Zaia sulla buona strada scoprendo che i positivi asintomatici erano già il 5 per cento della popolazione di Vo Euganeo (Padova) prima che tutti ci accorgessimo dei casi gravi e quindi dell’epidemia. In Italia a maggio, secondo i tassi di sieropositività, per l’Istat c’erano 1,5 milioni di contagiati, ora in larga parte sono guariti ma hanno trasmesso il virus. La linea del professore è dall’inizio quella di moltiplicare i tamponi. A maggior ragione, secondo Crisanti, bisogna farlo adesso, nel pieno della gestione dei rientri dalle vacanze e alla vigilia della riapertura delle scuole dove sarà essenziale intervenire tempestivamente per limitare chiusure e quarantene: un ragazzino con la febbre, magari anche non Covid, da solo richiederà decine di tamponi se non 100 o 200. “Se i casi dovessero aumentare al ritmo osservato durante le ultime settimane ci si può aspettare di raggiungere una incidenza giornaliera in eccesso di tremila casi al giorno per settembre”, scrive Crisanti.

Il governo sta esaminando la proposta del professore per arrivare a 250/300 mila tamponi giornalieri contro i 70-75 mila di media aumentati in questi giorni fino a poco meno di 100 mila. Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute e unico medico del governo, sostiene che con l’influenza stagionale potremmo essere costretti perfino a decuplicarli. Nuovi laboratori, dunque. Non si tratta di costruirli da zero, semmai di potenziare le capacità di quelli esistenti. Pubblici, innanzitutto. Ma anche privati se si ritiene che il pubblico non basti, come è successo in diverse Regioni, tra cui la Lombardia che si è affidata in parte al Gruppo San Donato. Laboratori fissi e anche mobili per andare dove c’è bisogno. Il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà gli ha chiesto di mettere per iscritto il suo progetto, il professore ha mandato a Roma una relazione di tre pagine ora all’esame dei responsabili di Palazzo Chigi, del ministero della Salute e del Comitato tecnico scientifico che si riunisce alla Protezione civile. I laboratori aggiuntivi servirebbero, secondo Crisanti, al rafforzamento della sorveglianza nella scuola, negli uffici pubblici e alle frontiere “per intercettare i casi di importazione”. Il professore propone anche “un accordo con Google per tracciare i movimenti degli stranieri e degli italiani che entrano in Italia con aerei e mezzi propri”, che sembra comportare una lesione del diritto alla privacy più profonda di quella realizzata con l’app Immuni e tuttavia limitabile al dato degli ultimi Paesi visitati – onde evitare triangolazioni volte ad eludere i controlli, come tornare dalla Croazia via Germania per eludere i controlli che altrimenti sarebbero obbligatori, un po’ come fece chi rientrava dalla Cina dopo lo stop ai voli diretti di fine gennaio – che finché si viaggia in aereo è già nel Pnr (Passenger Name Record). Crisanti chiede anche di incoraggiare l’uso di Immuni e di testare, prima e dopo il voto del 20 e 21 settembre, i 300 mila scrutatori e rappresentanti di lista che lavoreranno nei 30 mila seggi elettorali. La sua valutazione è che il piano potrebbe costare 40 milioni di euro, più 1/1,5 milioni al giorno per la sua gestione.

Il taglio dei pagliacci

Dunque, ricapitolando. L’Innominabile, che anziché abolire il Senato voleva abolire le elezioni per il Senato e definiva “ridicolo avere 945 parlamentari” perché “la riduzione del numero dei politici è la priorità per essere credibili”, lascia libertà di voto ai suoi eventuali elettori sulla riduzione dei politici perché, siccome non l’ha fatta lui, “è solo uno spot”. Repubblica, che nel 2016 sponsorizzava la sua boiata, ora guida il fronte del No raccontando frottole, e cioè che col Sì l’Italia finirebbe “ultima nella Ue per rappresentanza”, con “la più bassa percentuale nel rapporto tra eletti ed elettori”. E, per dimostrare il falso, calcola solo gli “eletti” alla Camera, cioè i deputati (che scendono da 630 a 400), e dimentica i senatori (da 315 a 200), anch’essi “eletti” diversamente dai membri nominati delle Camere alte degli altri Paesi. Calcolando tutti e 600 i parlamentari, l’Italia rimane il grande paese Ue col più alto numero di eletti in rapporto agli elettori. Ma a questi mezzucci devono ricorrere quelli del No per non confessare il loro vero movente: dar torto ai 5Stelle anche quando hanno ragione, a costo di rinnegare ciò che avevano sempre detto e pensato.

A pag. 7 troverete lo strepitoso caso di un pesce di nome Zanda, senatore Pd e presidente della fondazione di De Benedetti che edita il Domani, e della degna compare Anna Finocchiaro, ex senatrice e neoeditorialista di Repubblica. Zanda vota No perché mancano “i contrappesi assolutamente necessari per il funzionamento del sistema” e prima “vanno modificati i regolamenti parlamentari e la platea che elegge il presidente della Repubblica”. La Finocchiaro fa campagna per il No perché “si fa un taglio lineare pensando che le Camere possano funzionare con 400 deputati e 200 senatori, ma così il sistema parlamentare non può funzionare” e poi “la Costituzione non è un take away

da cui puoi prendere quello che ti piace e cambiare quello che non ti piace. È un sistema delicato, sofisticato, fatto di pesi, contrappesi”. Ora, nel 2008, i due bei tomi furono i primi firmatari di un ddl costituzionale identico a quello che voteremo il 20 settembre: cambiava due soli articoli della Carta, il 56 e il 57, per un taglio lineare dei deputati (da 630 a 400) e dei senatori (da 315 a 200). Cambiava solo il partito proponente: Pd anziché M5S. E i contrappesi? E i regolamenti? E la platea? E la rappresentanza? E la funzionalità? E il take away? Niente di niente. Quand’erano loro a chiedere 600 eletti, il Parlamento avrebbe funzionato come un orologio svizzero: ora invece sarà l’apocalisse. Però dài, su col morale: se vince il Sì, non solo avremo il 36,5% di parlamentari in meno. Ma anche il 36,5% di speranze in più di non rivedere certi pagliacci in Parlamento.

Alla ricerca della serenità perduta perché la felicità è fuggevole

Si potrebbe pensare che solo la letteratura o la psicologia clinica abbiano diritto a occuparsi di felicità e, in effetti, è nei romanzi che troviamo la sua migliore illustrazione. Però, anche la psicologia scientifica, cioè quella sperimentale, può dare dei contributi alla sua comprensione e questo è da sempre il mio approccio. Il primo contributo consiste nella differenza percepita tra la quantità di gioia provata al raggiungimento di un desiderio e il dolore causato dalla successiva perdita di quanto era entrato a far parte del nostro io. Quel dolore è più grande della precedente felicità. Per questo, una vita frugale concentrata su pochi beni e passioni, si traduce spesso in un’esistenza meno vulnerabile: c’è meno da perdere. Il secondo contributo è dato da un altro tipo di asimmetria, quella tra i beni posseduti e le cose che non sono nostre: i beni sembrano valere di più semplicemente perché sono nostri e anche perché sono disponibili. Di qui il nome “effetto disposizione” che è stato dato a questo meccanismo. In sostanza, più degli investimenti materiali sono importanti gli investimenti affettivi. Si tratta di scoperte rilevanti, anche perché spiegano stati d’animo come la gelosia e il lutto, che altrimenti resterebbero un mistero. Temere un abbandono prima che capiti (la gelosia) e disperarsi per una perdita definitiva sono atteggiamenti non spiegabili da un punto di vista logico.

Il terzo contributo sperimentale allo studio della felicità giunge dagli studi sull’illusione di controllo: si tratta della tendenza che in genere abbiamo a sopravvalutare la capacità di dominare la nostra vita e a sottovalutare l’azione del caso: credere che il mondo sia regolare ci tranquillizza perché ci permette di prevedere il futuro. Il dolore però non è assenza di felicità: è altra cosa. Ad esempio, con il passare degli anni capita di perdere persone care. A me è successo con un fratello e un amico, entrambi giovani. Queste esperienze fanno riflettere sulla vulnerabilità e sulla presunzione di credere che il futuro replichi il passato: ecco perché ho dedicato il mio ultimo libro all’illusione perniciosa d’invulnerabilità, il maggiore ostacolo sulla via per la saggezza (A tu per tu con le nostre paure. Convivere con la vulnerabilità, Il Mulino). Solo la serenità ci rende meno vulnerabili e fa accettare le perdite che possono colpirci inaspettate: è più importante e meno instabile della felicità intesa come espansione dell’io, come realizzazione di obiettivi personali. La serenità ha a che fare non solo con noi, ma con la gratitudine verso gli altri, con il donare, con un’armonia più ampia.

Beveva sette bottiglie di champagne a sera. Era pazzo della Taylor

Nella commedia dell’arte dei primissimi anni Settanta, il “ruolo” del vecchio filibustiere, gaudente, simpatico, attento alle sfumature della vita, era di Aristotele Onassis.

Lui era una certezza.

Sapevo dove trovarlo, come trovarlo, a volte con chi trovarlo, perché amava uscire, frequentare i locali, bere champagne, anche sette bottiglie di Cristal in una sera (sì, sette, non esagero); godere delle attenzioni femminili e si beava nel creare una sorta di narrazione da seduttore impenitente. Tra noi c’era un patto, stabilito da lui: “Puoi fotografare quello che vuoi, però mi devi lasciare stare quando piscio”. Sia ben chiaro: mica lo seguivo al bagno, ma amava tirarsi giù la patta per strada e appoggiarsi agli alberi. Sempre. Per me andava bene, tanto mi interessava il “dopo”: sistematicamente passeggiava per via Veneto e le vie intorno, e sistematicamente veniva abbordato dalle prostitute, tutte donne che uscivano di casa iper chic e alla guida di belle macchine. Lo seguivano. Ci scambiavano un paio di convenevoli. E lo portavano in albergo.

Lui contento, padrone. Sempre sorridente. Solo un paio di volte si scocciò: una sera avevo saputo di un appuntamento segreto tra lui e Liz Taylor in un locale romano; grazie a un amico mi introduco dalle cucine, entro e lo pizzico: la Taylor veloce nella fuga, lui immobile, e l’unica reazione fu quella di lanciarmi un bicchiere pieno di champagne. Cristal, ovvio; il secondo screzio a Montecarlo: lì non voleva fotografi, era il re, frequentava le figlie, e indossava i panni solo del grande imprenditore. A momenti mi arrestavano.

Capitolo a parte, sua moglie: lui e Jacqueline Kennedy erano una coppia strana, poco insieme, lei amava andare a Capri, viveva in barca, e scendeva solo per acquistare sandali a profusione. Con lei la noia ti poteva assalire.

Venezia 77, si punta tutto sulla stagione autarchica

Lacci e lacciuoli. Si parte il 2 settembre con Lacci di Daniele Luchetti, ma la settantasettesima non è la Mostra dei film, bensì la Mostra – al tempo – del Covid: accrediti ridotti, rilevazione della temperatura corporea, varchi d’accesso presidiati, tracciamento, mascherina obbligatoria ovunque, prenotazione online delle proiezioni, e via discorrendo. Undici giorni strabici, un occhio alla programmazione, un altro al bollettino dei contagi, sperando la prima abbia sempre la meglio e un focolaio non divampi al Lido: si vuole, con un tot di retorica, Mostra della ripartenza, per ora è della contingenza. Red carpet inibito al pubblico, ospiti e accreditati stranieri parcellizzati, l’Italia a far la parte del Leone: o la va o la spacca. Si poteva soprassedere e rimandare all’anno prossimo? Sì. Si doveva? Forse, lo dirà il tempo. Cannes dopo un tira e molla imbarazzante ha forzatamente annullato, mettendo un bollino revanscista sui titoli che avrebbe proposto; Locarno ha rimandato all’anno prossimo, approntando poi qualche iniziativa di poco conto; Toronto opta, in date parzialmente sovrapposte a quelle veneziane, per una versione prevalentemente digitale; Telluride s’è fortemente rimaneggiato, traslocando nei drive-in.

Insomma, Venezia è l’unico festival di prima grandezza rimasto su piazza: ci è arrivato con l’abituale “armiamoci e partite” della politica, ministero dei Beni culturali, Regione Veneto e Comune di Venezia, dovrà restarci con i film, senza bruciarsi col cerino. A prescindere dall’emergenza, l’edizione era già di transizione, la prima di Roberto Cicutto presidente di Biennale, l’ultima, almeno del secondo ciclo consecutivo, del direttore artistico Alberto Barbera. Cicutto ha posticipato la Biennale Architettura al 2021 e quella d’Arte al 2022, confermando però il proprio cavallo di battaglia, il cinema. Barbera, viceversa, deve reinventarsi: s’è dimostrato largamente il migliore a imbastire un festival con gli Studios, e Netflix, trasformando la Mostra nel trampolino privilegiato per l’award season hollywoodiana, Oscar e Globes in testa. Vi ricordate La forma dell’acqua, La La Land, Roma e gli altri campioni stelle & strisce? Quest’anno deve farne a meno, i blockbuster americani non s’affacciano, la piattaforma streaming sta a guardare, il banco piange o rischia di. Che fare? La carta giocata da Barbera è la parità di genere, sconfessata fino all’anno scorso, ora servita sotto l’ombrello della qualità: otto registe (due italiane e sei straniere) su diciotto titoli in Concorso, Cate Blanchett presidente di giuria, Tilda Swinton e Ann Hui Leoni d’Oro alla Carriera. Cherchez les femmes. Basta per riposizionarsi? Ni. C’è chi in questi giorni ha superato la parità abbracciando la gender neutrality, ovvero eliminando la distinzione di genere per premiare gli interpreti: non più migliore attore e migliore attrice, ma migliore interpretazione da protagonista e da non protagonista. La mossa è della Berlinale diretta da Carlo Chatrian, l’ultimo festival ad andare in scena prima del lockdown e ora il primo a sparigliare. Il futuro è vastamente incerto, Venezia prova a rilanciare un sistema che in Italia, dalla querelle tra Piccolo Cinema America e Anica in giù, ha dimostrato anche in epoca Covid molta miseria e poca nobiltà: rilancio o rinculo? Le date d’uscita in sala concomitanti con le premiere lagunari – Notturno di Gianfranco Rosi il 9 settembre, Le Sorelle Macaluso di Emma Dante il 10, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli il 17 e così via – invitano all’ottimismo, anche se la paura di un lockdown ottobrino non è al riguardo da sottovalutare, di certo una concertazione più lungimirante non avrebbe aspettato una pandemia per trasmettere la cerimonia di inaugurazione e proiettare l’ouverture Lacci nelle sale: in Francia ci hanno preceduto nel 2019. L’adattamento del romanzo di Domenico Starnone e gli altri dovrebbero riaffezionare il pubblico al grande schermo, sebbene all’uopo sia assai più efficace un Tenet: al debutto mercoledì 26 agosto la spy-story di Christopher Nolan ha richiamato 57.938 spettatori per 403.965 euro d’incasso. Lo sappiamo, e non c’è da rallegrarsene, è ormai l’evento che fa il pubblico, un film non basta. E nemmeno un festival.

Avrebbe potuto più di qualcosa Tre piani di Nanni Moretti, che però ha preferito attendere la prossima Cannes, ma Venezia 77 dirà comunque molto del comparto nazionale: uno star-system (?) chiamato a illuminare una notte autarchica; Gianfranco Rosi, il cui Notturno passerà pure a Telluride, Toronto e New York, che cerca la definitiva consacrazione internazionale; esordienti, dal Pietro Castellitto de I predatori al Mauro Mancini di Non odiare, che prenotano un posto al sole; registe, dalla Dante alla Nicchiarelli, che rivendicano poetica e stile; i gemelli De Serio (Spaccapietre) e Claudio Noce (Padrenostro, con Pierfrancesco Favino) che attendono conferme. Noi invece attendiamo sorprese. Belle, eh.