Una vita smeralda con gnocca e Covid: la Briatore story

Ora che il malanno si quietò, possiamo stappare, brindare, sorseggiare la solita bottiglia di Krug Gran Cuvée millesimato da 1.140 euro la bottiglia. E metterci comodi per raccontarvi la storia di Flavio Briatore, il re leone “nato poverissimo” sulle alture del Cuneese una settantina di anni fa. Sceso nelle pianure del jet set per accomodarsi al tavolo verde della vita. Vincere il banco con il suo socio Emilio Fede e qualche trucco. Scappare alle Virgin Islands inseguito dalle guardie. Giocare agli autoscontri con la Formula 1 e i soldi del suo amico Luciano Benetton. Fare shopping a Londra con Heidi Klum. Fare il bagno a Malindi con Naomi Campbell. Tornare in Italia negli anni dell’era arcoriana, coperto da amnistia e dal suo amico Silvio, a fomentare i ricchi e a sputazzare i poveri. Trionfare sui rotocalchi per casalinghe sognanti. Bagnarsi ogni tanto in Costa Smeralda. Detestare i sardo-pastori, i perdenti e i comunisti. Diventare l’icona dei veri uomini che se ne fregano, “il Covid è un raffreddore”. Amare l’Italia dei privé. Ma parcheggiare prudentemente la Bentley e la residenza fiscale a Montecarlo.

Visto da molto lontano, Flavio Briatore è un unicorno con fibbie in oro, incenso e mirra che galleggia nel vasto mare dei mediocri incantati dal suo mantra: “Se vuoi, puoi”. Ma avvicinandosi, il miraggio si sgonfia. È solo aria frizzante per gonzi. E il primo gonzo è lui: “Ero anch’io uno di quei ragazzi che andavano in Sardegna a guardare le barche dei ricchi. Sognavamo di diventare come loro, di avere le donne più belle, le ville, gli yacht”.

Anche se non se lo ricorda nessuno, il suo inizio è col botto, dieci chilogrammi di tritolo piazzati nella Bmw del suo primo socio in affari, un tale Attilio Dutto, finanziere, palazzinaro, giocatore d’azzardo, che salta per aria una mattina di primavera del 1979. Non a Palermo o a Beirut, ma a Cuneo. E in quella automobile sarebbe dovuto salire anche Briatore, che invece era arrivato all’appuntamento con un provvidenziale quarto d’ora di ritardo. L’inchiesta – che sfiorerà un paio di famiglie mafiose e un giro di bische clandestine – finisce nel nulla. Briatore si eclissa. Ricompare nella Milano anni Ottanta, con una compagnia di prima classe, Bettino Craxi, Lele Mora, Iva Zanicchi, e naturalmente Fede con cui organizza partite a poker per polli da spennare: industriali, conti, marchesi, il cantante Pupo, più qualche figurante nei panni di generali venezuelani, sceicchi arabi, petrolieri texani. Fino a quando un paio di magistrati a Milano e Bergamo incriminano la coppia alla voce “banda dei bari”. Meno male che quando arriva il mandato di cattura, Briatore sta facendo il bagno a Saint Thomas, isola dei Caraibi, dove l’estradizione compare solo nell’elenco dei cocktail per vip. Essendo latitante, trova subito lavoro. Glielo offre Benetton che lo trova “un po’ teppista, ma tanto simpatico”.

Prima la rappresentanza dei negozi di maglioni in America, poi la guida della scuderia di Formula 1, due campionati vinti con Michael Schumacher, altri due con Fernando Alonso, molte liti, qualche scandalo, montagne di soldi che appaiono e scompaiono. Dal palcoscenico dell’ultramondo non scende più. Ci passeggia in ciabattine Gucci con ciuffo di visone sul metacarpo, in compagnia di donne bellissime. Esibisce solo attrici, modelle, starlet “mai sopra i 32 anni”. Non le ingaggia per amore, ma per il brand, l’immagine, la comunicazione, che sono le tre endorfine dei vincenti come lui: “L’apparire è il mio lavoro”.

Dice di lavorare “15 ore al giorno”. Copre gli intervalli volando qui e là con il suo Falcon 900. Dice: “Amo la vita gipsy”, che vorrebbe dire “zingara”. Per fortuna i suoi accampamenti non sono roulotte con i panni stesi: ha una villa a Montecarlo, un attico a Parigi e uno a New York. Una casa a Milano. Un pied-à-terre a Atene. Una villa a Londra. Un intero resort sulle spiagge di Malindi, il Lion in the Sun. Dove organizza feste da ballo per le sue fidanzatine e le amiche italiane che qualche volta se ne vergognano, come capitò a Giovanna Melandri, pupilla di D’Alema, capodanno 2007.

Quando torna in Italia per fondare il Billionaire in Costa Smerlada – “che ormai è diventato un marchio, un modo di essere, un modo di vivere”, ultimamente anche una malattia – trova ad attenderlo l’altra metà dell’ostrica, anzi la perla, Silvio B., che lui chiama “il mio presidente”. Amiconi al primo sguardo. Al punto da scambiarsi i maglioncini di seta blu, le amiche, il pediatra per curarle. Il Billionaire è la sua immagine. Ci vanno i brianzoli ricchi, i russi, gli arabi e Jerry Calà. Offre la “più alta concentrazione di gnocca per metro quadro”, come disse suscitando scandalo. In realtà è un timido: “Gli sguardi della gente mi intimoriscono, porto gli occhiali da sole per difendermi”.

Oltre ai soldi e al successo ha un paio di matrimoni alle spalle. Entrambi con divorzio incorporato. L’ultimo con la soubrette Elisabetta Gregoraci che commosse l’Italia quando gli sbirri, per la solita persecuzione fiscale, sequestrarono il loro Yacht, il Force Blue, e lei disse che il loro bimbo di due mesi, abituato alla culla del mare, aveva perso il sonno, mentre lei, per lo stress, il latte. Lui prima schierò gli avvocati. Poi pagò 5 milioni per il dissequestro. Senza piagnucolare troppo, come sanno fare i vincenti venuti dal nulla.

Il suo nulla è il paesino di Verzuolo, 6mila abitanti, padre e madre maestri elementari. Fratello contadino. “Non vedevo l’ora di andarmene e l’ho fatto”. I soliti invidiosi ricordano che a scuola fosse un disastro. Bocciato in quinta elementare e due volte all’esame da geometra. Ce l’ha fatta alla terza, da privatista, tesina su Come costruire una stalla. Che è più o meno come disegnare un rettangolo. Dicono che sbagliò anche quella volta, disegnando due gradini all’ingresso. Ma come direbbe la sua vecchia amica Daniela Santanchè, anche lei di Cuneo, sua socia al Twiga, dove la tengono nel freezer, è una feic nius. Non erano gradini. Forse era un citofono.

I fucili dei “sudisti” non fermeranno le marce per i diritti

Nel 1861, anno di nascita dell’Italia unita, sette Stati secessionisti del Sud scatenavano la guerra civile americana per conservare in schiavitù i lavoratori neri. Sarebbe durata quattro anni. Oggi ci assale il dubbio che gli Usa corrano il rischio di una nuova guerra civile. Con una differenza: stavolta alla Casa Bianca è insediato una specie di novello confederale sudista che aizza i bianchi a difendersi dagli afroamericani con le armi in pugno. Esagero? Osserviamo due fatti accaduti negli ultimi giorni. Primo fatto. Il diciassettenne che a Kenosha ha ucciso per strada due manifestanti imbracciava lo stesso fucile d’assalto puntato sulla folla a Saint Louis dall’avvocato Mark McCloskey, affiancato dalla moglie Patricia armata di pistola. Un filmato che ha fatto il giro del mondo e diviso l’America. Ebbene, i due coniugi McCloskey sono stati chiamati da Trump a inaugurare la convention repubblicana rivendicando il diritto dei cittadini ad affiancare le forze dell’ordine contro la “feccia”. Il loro esempio, ahimé, è stato immediatamente seguito. Secondo fatto. Al fianco del movimento di protesta “Black Lives Matter” che va avanti da tre mesi e che è stato riacceso dai sette colpi di pistola sparati da un poliziotto nella schiena di Jacob Blake, si è schierato l’intero mondo dello sport americano. Interrotti i playoff Nba del basket. È come se in Italia i calciatori di Serie A avessero fermato il campionato. Seguiti dal baseball, dal tennis e dal soccer. Atleti popolari, spesso miliardari, in prima fila a rappresentare una visione di civiltà, un senso comune diametralmente contrapposto. La composizione etnica e sociale degli Usa rende pericolante l’egemonia wasp impersonata da Trump. È cambiata la mentalità, nella crisi economica è cresciuta l’aspirazione a un ricambio di equilibri. I commentatori stanno concentrando la loro attenzione sui vantaggi elettorali che Trump potrà riscuotere dalla radicalizzazione del movimento e dai saccheggi messi in atto dalla sua ala più violenta. È un tema, certo. Il bisogno di sicurezza pesa fortemente nell’opinione pubblica. Ma rischiamo di perdere di vista la dimensione storica del rivolgimento che scuote la società americana: al centro della nuova, potenziale guerra civile, insieme alla mai risolta questione della discriminazione razziale, viene proposto da Trump il sacro diritto di difendere la proprietà privata con ogni mezzo. E questo in un Paese che conta più armi in circolazione che abitanti. Dove non sono più le piantagioni di cotone, bensì le merci, le vetrine, i centri commerciali, i quartieri della classe media a diventare oggetto di contesa. E dunque, come antidoto al declino della potenza americana, la destra torna a proporre una risposta autoritaria che comporta nuove forme di segregazione dei diseredati nei loro ghetti urbani. Se necessario, con la forza. Ben triste anniversario, quello di oggi: il 28 agosto 1963, di fronte a una folla senza precedenti, Martin Luther King pronunciava a Washington un discorso tra i più celebri e commoventi della storia contemporanea: I have a dream. Sognava per i suoi figli e per tutti gli afroamericani il raggiungimento di una piena, autentica uguaglianza. Accese grandi speranze. Cinque anni dopo, nel 1968, sarebbe stato ucciso con una fucilata in testa. La fine del sogno, allora, generò per reazione fra gli afroamericani la scorciatoia tragica e perdente dei “Black Panthers”. Una spirale che rischia di riproporsi? Trump se lo augura, e nessuno è in grado di fare previsioni fondate. Ma una cosa è certa: nel 2020 la crisi americana si colloca in un contesto mondiale profondamente mutato; nei rapporti di forza internazionali, e anche sul piano culturale. L’antirazzismo è un valore condiviso dentro gli Usa e su scala planetaria, tornato di prepotente attualità. Sempre più intrecciato col perseguimento della giustizia sociale. Lo sappiamo bene anche in Italia. Cercheranno di sbarrargli il passo con lo spettro della guerra civile. Ma I have a dream, il seme di Martin Luther King, non smette di germogliare.

“I have a dream”: per fortuna vive ancora l’appello di Luther King

Sono trascorsi 57 anni da quel 28 agosto in cui, davanti al Lincoln Memorial di Washington, Martin Luther King raccontava di avere un sogno. Un mondo in cui bianchi e neri fossero uguali davanti alla legge e nella coscienza collettiva. Varcata la soglia del Terzo millennio, quel I have a dream rischia di perdersi nel buio del Medioevo trumpiano.

King fu ucciso a Memphis il 4 aprile 1968, colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa, con la stessa modalità con cui, 5 anni prima, il 22 novembre del 1963, a Dallas era stato ucciso J.F. Kennedy.

Circa 60 anni dopo, e dopo la morte di George Floyd, il paese si rivolta contro la polizia e Trump al grido di “Black lives matter”, King è più vivo che mai. Ne è la dimostrazione il moto di protesta e sdegno che continua a percorrere come una miccia gli States, da un capo all’altro dell’oceano, con una partecipazione superiore a quella dei primi anni 60. Le conquiste civili, il valore dei diritti, hanno segnato un punto di non ritorno.

Certo, il susseguirsi di crisi economiche, gli attentati del 2001, lo spettro delle pesti del millennio hanno fatto emergere paure ancestrali: “La precarietà mette a rischio la tenuta di una società integrata: è come se questa fosse sotto assedio della società esclusa – dichiara Victor Matteucci, esperto di questioni razziali e responsabile da oltre 20 anni di programmi di cooperazione internazionale finanziati dalla Commissione europea – La globalizzazione ha prodotto una contiguità tra le due società, perché, in ogni città, a ogni latitudine, convivono élite benestanti privilegiate, barricate in quartieri residenziali super sorvegliati e fasce di emarginati ammassate nelle periferie in un contesto di degrado e di esclusione dalla condivisione di posizioni e spazi”.

“Il conflitto tra polizia e gruppi afroamericani negli Usa così come l’intolleranza contro immigrati e Rom in Italia – prosegue Matteucci – indica che, in particolare, il prototipo del maschio bianco, simbolo della cultura dominante occidentale, più di altri modelli, ha perso tutte le sue certezze. Questo clima di tensioni sociali induce i bianchi in crisi a trovare il nemico più vicino e più vulnerabile innescando comportamenti conservativi, aprendo la caccia allo straniero”.

La responsabilità delle leadership in questa fase è enorme: il rischio latente è la deriva autoritaria. Ma finché esisteranno discriminazione e sottomissione, qualcuno continuerà a gridare I have a dream.

Il sogno di Martin Luther King ci ricorda che giustizia sociale e uguaglianza tra uomini e donne di ogni colore e credo sono possibili.

“L’80% dei giocatori sono di colore: chissà quanti voti ha perso Trump”

Che il gioco più amato d’America riprenderà, si scopre mentre il giornalista sportivo Flavio Tranquillo, storica voce italiana del basket Nba, commenta al telefono quello che sta accadendo negli Stati Uniti: “È comunque una scelta plateale e senza precedenti”.

La coscienza civile degli atleti è riuscita a fermare lo show della Nba.

Non è mai accaduto prima, è più di uno sciopero e di un boicottaggio, bisognerebbe trovare una parola adatta. È un atto politico enorme, le conseguenze lo saranno altrettanto.

Negli anni 90 Micheal Jordan manifestava il suo disimpegno politico: “Anche i Repubblicani comprano le scarpe”. Il tweet di LeBron James di ieri invece è: “Chiediamo cambiamenti”.

Quello che accade nel basket è comunque un segno dei tempi ed espressione di una sensibilità di un determinato periodo storico. Oggi cambia la risposta della società civile. Alle parole di LeBron applaudono tutti, compresi quelli che dell’establishment fanno parte. Il pugno guantato di Tommie Smith sul podio delle Olimpiadi del 1968 è stato certamente più potente, ma è stato un atto compiuto da due atleti che subito dopo sono stati considerati dei reietti.

Dal campo di basket le conseguenze si propagheranno fino alle urne di novembre?

Quello che è accaduto, come si dice in gergo, è ginormous, unendo le parole inglesi gigante ed enorme. L’80% dei giocatori della Nba è afroamericano. Nessuno può dire quanti voti contro Trump sono andati persi, ma potenzialmente l’impatto è stato fortissimo.

La rivolta dura poco, ma Nba resta nemica di The Donald

“Vogliamo un cambiamento. Siamo stufi di quest’uomo”: il tweet di LeBron James, numero uno del basket Usa e mondiale e perno della protesta della Nba contro le brutalità della polizia sui neri, dà la misura dell’insofferenza dello sport nei confronti di Donald Trump che ieri sera ha replicato: “Nba ormai è una organizzazione politica”. Un tweet con insulto quello di LeBron – Fuck this man!!! –, che segna la distanza tra la Casa Bianca e la rabbia dei neri dopo il ferimento, domenica scorsa, a Kenosha, nel Wisconsin, con sette colpi alla schiena, dell’afroamericano Jacob Blake, che rischia di restare paralizzato, e l’uccisione martedì notte di altri due neri ad opera di un miliziano suprematista di 17 anni. A migliorare i rapporti tra Trump e le stelle dello sport, non contribuiranno di certo le dichiarazioni a Politico del genero e consigliere del magnate, Jared Kushner. Sostenendo di volere aprire un dialogo, Jared ha detto: “I giocatori della Nba possono pagarsi il lusso di prendersi una serata di congedo, un lusso che la maggior parte degli americani non possono permettersi.”

Deciso mercoledì sera, per iniziativa dei Bucks di Milwaukee, la squadra del Wisconsin, lo stop ai playoff della Nba ha subito innescato analogo gesto del basket femminile. Pure gli arbitri della Nba protestano, solidali con i giocatori, contro le iniquità razziali negli Stati Uniti: una marcia pacifica nella bolla incantata del Walt Disney Resort di Orlando, indossando una maglietta con lo slogan “Tutti contro il razzismo”. Tramortito e fermato dal virus, il basket ha cercato rifugio nel reame fuori dal mondo di Topolino e Paperino per chiudere una stagione anomala, senza pubblico né pathos, come la Champions del calcio in Europa, cercando di salvaguardare almeno i diritti televisivi. In una riunione dei giocatori, Lakers e Los Angeles Clippers votano per la sospensione definitiva della stagione Nba. E LeBron James, oggi il campione più prestigioso e rappresentativo, come un tempo Wilt Chamberlain, o Magic Johnson, o Kobe Bryant, è dell’idea di dare una risposta dura contro il razzismo.

Ma alla fine prevale la proposta di tornare a giocare e non mandare a rotoli la stagione, dopo avere fatto saltare tre partite, Milwaukee-Orlando, Houston-Oklahoma City e Portland-Los Angeles Lakers, che saranno recuperate in data da destinarsi. Ai giocatori, sono arrivati attestazioni di solidarietà di Joe Biden, candidato democratico a Usa 2020, e Barack Obama, l’ex presidente, il primo nero alla Casa Bianca. Non è la prima volta che campioni sportivi indicano la via alla società americana: Jesse Owens, a Berlino nel 1936, dimostrò ad Adolf Hitler e al mondo intero l’assurdità delle teorie razziali; Cassius Clay si fece interprete del ‘no’ di una generazione di giovani alla guerra del Vietnam; e, sul podio di Città del Messico nel 1968, il pugno levato in un guanto nero di Tommie Smith e John Carlos mostrò che il razzismo non era ancora stato archiviato negli Stati Uniti. Non lo è neppure 52 anni dopo, nonostante l’uomo sulla Luna, Internet e i social e un nero alla Casa Bianca per due mandati.

Durante la presidenza Trump, l’insofferenza degli sportivi verso la tolleranza di atteggiamenti razzisti e suprematisti è andata crescendo: atleti che s’inginocchiano durante l’inno; squadre campioni e singoli assi che rifiutano l’invito alla Casa Bianca per celebrare i loro successi; la capitana della nazionale di calcio femminile campione del mondo, Megan Rapinoe, che contesta apertamente il presidente.

Molti giocatori, alla ripresa della stagione a fine luglio, erano riluttanti a scendere in campo come se nulla fosse, dopo l’uccisione di George Floyd a opera di poliziotti a Minneapolis: volevano farsi sentire. E così sui parquet della Florida sono comparse le scritte Black lives matter, e su oltre il 70% delle canotte, al posto dei nomi, campeggiano ora parole come ‘equality’ ‘uguaglianza’, per Belinelli che con Gallinari e Mensi forma il trio italiano nella Nba –, ‘stand up’, ‘freedom’, ‘love us’, ‘justice’, ‘how many more’, soprattutto ‘enough’.

Ieri sera intanto il presidente Trump ha chiuso la convention repubblicana dal prato della Casa Bianca, con accanto la figlia Ivanka. Il suo bersaglio è stato l’avversario democratico, Joe Biden: lo ha sfottuto – lo vede troppo sveglio ultimamente e propone un test antidroga prima del prossimo duello in tv – e poi lo definisce un pericolo per gli Stati Uniti. “L’agenda dei democratici e di Joe Biden è la più estremista mai presentata da un candidato presidenziale; ho passato i miei quattro anni alla casa Bianca a riparare i danni che lui ha fatto in 47”. Poi allontana le ombre di un partito spaccato, di una fronda repubblicana contro di lui: “Il Partito Repubblicano va avanti unito, determinato e pronto ad accogliere milioni di democratici”.

Caso Navalny, una pista bulgara per il veleno

Siberia, Russia, Germania e adesso Bulgaria. Conduce fino a Sofia la nuova pista da seguire per risolvere il caso di quello che, da una latitudine all’altra, chiamano ormai tutti “il paziente”. Le ultime notizie sulle condizioni di salute di Aleksej Navalny le riporta il giornale Der Spiegel: i medici tedeschi che hanno in cura nella clinica Charite di Berlino l’oppositore più famoso del Cremlino si sono confrontati con alcuni colleghi bulgari dopo i risultati delle analisi.

I test hanno dimostrato la presenza di tracce di una sostanza già rilevata nel 2015, quando il trafficante di armi bulgaro Emilian Grebev fu avvelenato con un composto rimasto fino ad allora sconosciuto, che però assomiglia molto a quello che è costato il coma al blogger. Gli scienziati “considerano possibile l’uso dello stesso tipo di veleno” ha scritto il giornale tedesco. Tre russi che viaggiavano in Europa con false identità – con alias che di solito usano gli uomini dei servizi segreti – furono accusati del tentato omicidio di Gebrev e altri due bulgari nel 2018 con “un composto organofosforico”, appartenente alla stessa famiglia di sostanze presenti nei gas nervini, a cui fanno spesso ricorso gli agenti sotto copertura della Federazione russa. Uno dei tre condannati in contumacia a Sofia, presunto ufficiale della Gru, servizi segreti militari, è rimasto incastrato anche in un’altra indagine, riguardo un’altra scia di avvelenamenti avvenuta in Europa: quelli compiuti ai danni dell’ex spia del Kgb, Serghey Skripal, e di sua figlia Yulia, in Gran Bretagna. Mentre il volto più noto dell’opposizione russa rimane in coma, il Cremlino è tornato a esprimersi. Il portavoce del presidente Putin ha ribadito che “non c’è motivo di un’indagine vera e propria”, la vicenda merita solo “una procedura di routine”.

Parigi, mascherina obbligatoria all’aperto. Marsiglia si “ribella”: “No a piani lockdown”

Mentre la Francia ieri ha registrato oltre 6000 nuovi contagi, il prefetto di Parigi estenderà l’obbligo della mascherina a tutta la Capitale. Lo ha detto il primo ministro Jean Castex. Che ha anche annunciato il passaggio di altri 19 dipartimenti – oltre a quelli di Parigi e Marsiglia – in “zona rossa”. “Nuovi piani di lockdown locali o globali sono pronti. Il nostro sistema ospedaliero è pronto anche a una nuova ondata di pazienti, in termini di letti, mascherine, farmaci, rianimatori. Ma faremo di tutto per evitare un nuovo lockdown, soprattutto generale” ha spiegato. Immediata però è arrivata la reazione rabbiosa della sindaca di Marsiglia, Michelle Rubirola. Che esclude misure di quarantena per la sua città. “È inimmaginabile. A Parigi, invece, non pensano a un nuovo lockdown. Usano due pesi e due misure. L’ho detto a Castex e sono pronta a ripeterlo” ha continuato. Al fianco di Rubirola c’era Didier Raoult, il “dottor clorochina”, il virologo che sosteneva di avere trovato la cura per il coronavirus: la clorochina, appunto, associata a un antibiotico. Pratica bocciata dal sistema francese.

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp

Per ora hanno vinto l’ad Luigi Gubitosi e i molti e molto variegati azionisti di Tim: il progetto Fibercop – una nuova società della rete – va avanti nelle modalità desiderate dall’ex monopolista, col sostegno unanime di governo e maggioranza (emerso ieri in un apposito vertice), dell’opposizione e pure dei sindacati. L’unanimità “giallorosa” non era peraltro un fatto scontato visto che i 5Stelle e un pezzo del Pd – a differenza di Roberto Gualtieri – erano sempre stati a favore di una nuova società a forte controllo pubblico che, fin dall’azionariato, garantisse imparzialità a tutti gli operatori. Così il cerino resta in mano a Enel, che possiede a metà l’altra azienda della rete, Open Fiber: il suo socio al 50%, la pubblica Cassa depositi e prestiti, è ormai pienamente coinvolto nell’operazione Fibercop (e d’altra parte Cdp si trova nell’imbarazzante situazione di essere anche il secondo azionista di Tim col 9,9%). Se la Borsa vale come indicatore: ieri Tim è salita di nuovo (+3,4%), Enel è scesa (-2,3%).

Ripartiamo dall’inizio. Risale agli anni Novanta la sciagurata privatizzazione di Telecom, venduta con tutta l’infrastruttura, che ci consegna oggi un’azienda con assai meno ricavi e molti più debiti di un tempo: ne hanno risentito in particolar modo gli investimenti. Com’è noto, la messa a terra della fibra in Italia è molto indietro e lo è da tempo. In uno dei suoi momenti di fantasia, l’allora premier Matteo Renzi decise che sarebbe stata Enel a cablare tutto lo Stivale: Francesco Starace, che era ed è l’amministratore delegato, si mise all’opera con Cassa depositi creando appunto Open Fiber (OF). I risultati sono rivedibili: molti soldi spesi, bilanci debolucci, ritardi inauditi, un futuro radioso sempre a venire. E ora ci sono due società a forte presenza pubblica, due progetti in concorrenza e ancora ritardi.

La società della rete. Se ne parla da oltre dieci anni e molto insistentemente dacché esiste OF. Perché non se n’è fatto nulla finora? Questione di soldi, in sostanza. Tim non può perdere la rete, che vale a bilancio 15 miliardi e garantisce con le banche gran parte dei suoi molti debiti: è dunque favorevole, ma solo se conserverà il 50% più un’azione. Opzione appoggiata da Gualtieri per un motivo semplice: se non si fa così, Tim non può reggere. Una grossa mano a Gubitosi, in questo senso, l’ha data l’offerta del fondo Usa Kkr: 1,8 miliardi di euro per acquisire il 38% della rete secondaria di Tim, ossia quella in rame e fibra che dall’armadietto in strada entra nelle case (valutazione totale: 7,7 miliardi). È su questa base – e grazie a un accordo con Fastweb – che si creerà FiberCop, la società in cui si prepara a investire Cdp.

Ora che succede. Dopo il via libera unanime arrivato al capo di Cdp Fabrizio Palermo in una riunione ieri a Palazzo Chigi (presenti Conte, molti ministri ed esponenti di tutti i partiti di maggioranza), lunedì il cda di Tim darà vita all’operazione FiberCop e discuterà del Memorandum of understanding con Cassa depositi. I dettagli finanziari vanno ancora definiti, ma la sostanza è che la pubblica Cdp si prepara a entrare in FiberCop conferendo la sua metà di OF (e forse anche con soldi); Tim conferirà a sua volta anche la rete primaria (quella che va dalla centrale agli armadietti). Alla fine l’ex monopolista dovrebbe restare con la maggioranza assoluta, Kkr e Cdp col 18% a testa, il resto diviso tra Fastweb, che parte col 4,4%, e altri investitori (ieri Tim ha stretto un pre-accordo con Tiscali che potrebbe preludere all’ingresso nel capitale di FiberCop).

La mediazione Gualtieri. Per convincere i colleghi il ministro ha detto due cose: questo è un primo passo per una futura società pubblica della rete (e così ha sedato i grillini), Tim avrà la proprietà, ma non il comando. Secondo quanto spiegato ieri da Palermo a Palazzo Chigi, funzionerà così: non regole definite nello Statuto, ma un patto di sindacato tra Tim e Cdp che preveda un presidente con deleghe forti scelto dalla Cassa, il gradimento della stessa società pubblica sull’ad e la prima linea del management. Ovviamente il tutto funziona se Gubitosi si impegna a fare gli investimenti che servono e magari se Cdp entra nel cda di Tim.

E ora Enel? Dovrà dire cosa vuol fare. I problemi, intrecciati, sono di due ordini: di soldi e reputazionali. Starace si è impuntato nel pretendere una supervalutazione di Open Fiber, che serve a riconoscere la bontà della sua iniziativa e garantirebbe a Enel di fare una plusvalenza su un investimento finora non oculato. Il fondo australiano Macquarie, secondo gli interessati, alla fine della due diligence in corso riconoscerà che OF vale 7 miliardi di euro, il doppio di quanto la valuta Tim. Problema: Starace, manager di un’azienda sostanzialmente pubblica, vorrà bloccare un’operazione che ha il sostegno di governo, maggioranza e opposizione?

Boeri, Bisin e il diritto di infettare (pagando)

Il salario dovrebbe includere il rischio di contagio, butta lì – tra le altre cose – l’economista Tito Boeri in un editoriale su Repubblica che andava forse titolato Una modesta proposta. Tradotto: gli imprenditori pagherebbero per il rischio (o il diritto?) di far infettare i propri dipendenti. Proprio questo è lo spunto di un recentissimo paper di Alberto Bisin, anche lui editorialista di Repubblica (guarda un po’) ed economista (questo non ci sorprende). Durante una pandemia gli interventi di “economia pianificata” (sic) causano maggiori perdite di benessere e richiedono troppe informazioni rispetto a misure di mercato. La soluzione? “In un mondo efficiente” l’imprenditore acquisterebbe infection rights per ogni dipendente infettato. L’operaio venderebbe la pelle per qualche briciola in più. Ma si sa, il diritto alla salute è un retaggio statalista e collettivista.

È ragionevole che un operaio rischi come un operatore sanitario, se il suo rischio non combatte l’epidemia? E se l’imprenditore rispetta tutte le leggi, perché mai dovrebbe comprare il diritto a infettare?

Ogni rapporto sociale ridotto a scambio di mercato: ecco come nasce l’idea di infection rights. E potrebbe pure non funzionare. Perché se paghi, infetti quante persone ti pare. Con esiti disastrosi. È l’efficienza della mano invisibile di chi ha il portafoglio più gonfio.

Mail Box

 

Briatore risiede all’estero, ma ora è l’Italia a curarlo

Gentile senatrice Santanchè, il suo amico Briatore, al quale auguriamo pronta guarigione, ha la residenza a Montecarlo e a Londra e in quei paesi paga le tasse (paesi extracomunitari, lo ricordiamo). Quindi, secondo i principi del suo partito Fratelli d’Italia, non dovremmo curarlo in italia. Prima gli italiani e poi gli extracomunitari. Non è questa la posizione politica sua e di Giorgia Meloni?

Vito Mario Burgio

 

La destra crede solo nel potere del denaro

Gentile redazione, dopo aver letto “Briatore e i nuovi mostri della vita Smeralda” di Daniela Ranieri e la lapidaria chiusa in cui scrive “questi non credono in niente”, mi è venuta in mente una citazione di Dostoevskij tratta da Diario di uno scrittore: “Nel mondo attuale per libertà s’intende la licenza, mentre la vera libertà consiste in un calmo dominio di se stessi. La licenza conduce soltanto alla schiavitù. Il mondo moderno considera la libertà come un complesso di leggi che garantiscono la sicurezza materiale. ‘Ho danaro, sono quindi libero’. E, invece, si tratta di un’altra servitù, quella votata al danaro”. Io non penso che questa destra ridicola, fatta di portabandiera di una campagna negazionista che sputa sulle tombe dei morti da Covid, non creda a nulla, penso bensì che credano nei mali moderni: scambiando la libertà per la licenza, finiscono schiavi del loro modo di vivere. Sono schiavi del denaro: più ne hanno, più si credono liberi, e più sono schiavi di se stessi.

G.C.

 

Mr. Billionaire: tanti soldi ma poca saggezza

Passati i settant’anni ci si trova ad aver vissuto, per ben che vada, l’80 per cento della propria vita e si acquisisce quello che in genere si chiama “saggezza” . Ma evidentemente, con l’età media che si è allungata, nemmeno i vecchi fanno più i vecchi. Dov’è finita la saggezza di un vecchio famoso e con milioni di euro in tasca, “l’anziano di Arzachena”, che al suo crepuscolo invece di avere la dignità di stare zitto (come ha fatto il donnaiolo di Arcore, terrorizzato dal contagio), vuol prenderci in giro con la prostatite?

Maurizio Contigiani

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento alla pubblicazione in data 19.07 sul “Fatto Quotidiano” dell’articolo dal titolo “Covid, l’ozono per ‘sanificare’ il Senato per il ministero della Salute è una ‘bufala’”, il suddetto articolo, nel riportare la notizia circa l’utilizzo dell’ozono per sanificare gli ambienti del Senato, evidenzia che esso non ha proprietà sterilizzanti e che Sanity System Italia Srl di Padova, alla quale è affidato il servizio, “si fa pubblicità nelle sale più prestigiose delle istituzioni”. Il quotidiano ha riferito notizie non vere per le seguenti ragioni. Presso il Senato è stata adottata una procedura di sanificazione e non di sterilizzazione, complementare a procedure di pulizia e disinfezione. Una scelta che, oltre a tutelare la salute dei senatori e di tutti i collaboratori, trova ragione nella volontà di contribuire a rallentare la diffusione del contagio conformemente alle raccomandazioni del Ministero della Salute e alle indicazioni contenute nella sua Circolare del 22 maggio 2020. Il trattamento di sanificazione, “inteso in questo caso come il complesso di procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante la pulizia e il controllo e il miglioramento della qualità dell’aria” fa sapere l’ufficio stampa del Senato “è stato adottato come complementare alle procedure di pulizia”, proprio come indicato dal Ministero della Salute (Circ. 22.05.2020). La società Sanity System Italia Srl, azienda di punta nel settore della sanificazione professionale, si limita a render noto a chi frequenta gli ambienti, che essi sono sanificati a tutela della salute generale.

Sanity System Italia Srl

 

Cito dalla Treccani i due significati di “sanificazione”: “1. Nell’industria alimentare, sinonimo di sanitizzazione” (cioè di igienizzazione). Non essendo il Senato un’industria alimentare, va scelto il secondo: “Sinonimo di disinfezione”. Cioè “operazione o complesso di operazioni per la distruzione dei germi patogeni”, tra cui i virus. Che è il senso in cui chiunque, soprattutto in questo periodo, intende la sanificazione. Sui cartelli appesi a Palazzo Madama, poi, è la stessa Sanity System a dire che l’ozono serve a “eliminare agenti patogeni”. Falso, o meglio, non dimostrato rispetto al Sars-CoV-2. Per cui si tratta come minimo di pubblicità ingannevole. Senza contare che il Senato – fonte l’ufficio stampa – ha assegnato l’appalto in seguito al diffondersi dell’epidemia: per cos’altro sarebbe stato assegnato, se non per prevenire il contagio? Se si investono soldi pubblici in procedure dall’efficacia non verificata, ci sembra giusto che i lettori lo sappiano.

P.Fros.

 

 

In merito all’articolo pubblicato ieri “I misteri di Briatore: tampone e 65 infetti”, a differenza di quanto da voi riportato, preciso che i tamponi effettuati in ospedale vengono processati dal laboratorio interno, senza necessità di essere validati dall’ospedale Sacco. Il laboratorio del San Raffaele è stato infatti autorizzato da Regione Lombardia a eseguire e validare questo tipo di analisi a partire dallo scorso mese di marzo.

Ufficio stampa Gruppo San Donato

 

L’informazione da noi riportata proviene da una fonte interna al San Raffaele. In ogni modo, ciò che interessava era la tempistica per ottenere il risultato dei test, circostanza da voi non smentita.

Andrea Sparaciari