Omofobia. Dietro l’odio per il diverso c’è la paura della propria vulnerabilità

 

Gentile redazione, poiché ho stimato i vostri interventi sul ddl Zan, volevo portare alla vostra attenzione un caso di cronaca avvenuto nel Cagliaritano, più precisamente nella spiaggia del Poetto. Una coppia di due ragazzi gay è stata insultata e minacciata (per essersi scambiata un bacio) da una famiglia vicina a loro sulla spiaggia. Ma dalle ricostruzioni sembra che stavolta non abbia vinto la logica del branco. Quando i due giovani sono stati aggrediti, le persone attorno si sono mostrate tutt’altro che indifferenti. Anzi, hanno difeso la coppia, intimando gli aggressori ad andarsene e chiamando le forze dell’ordine. Non so se i tempi stanno cambiando, però mi pare un’inversione di tendenza.

Claudio Manca

 

Gentile Claudio, notizie come queste di certo arridono a un’inversione di tendenza (come dice lei) del pensiero dominante. Certo, non possiamo non rammemorare i casi di indifferenza che spesso accompagnano colpevolmente le aggressioni omotransfobiche (citiamo, a titolo d’esempio il quindicenne di Piacenza che nel luglio scorso, non un decennio addietro, il branco ha accerchiato e lasciato a terra nel disinteresse generale). D’altro canto, però, occorre leggere la questione che lei pone da un punto di vista socio-culturale, che poi è l’aspetto più interessante del ddl Zan dato che quella che gli viene chiesta è un’impresa tantalica: in Italia, da sempre, il dibattito culturale prima che politico in merito è stato falsato e sessualizzato, creando falsi miti come la promiscuità o la perversione che hanno illuminato il popolo Lgbtq con la luce della colpa (concetto per altro religioso, in uno Stato che, lo ricordiamo, è laico). Occorre, dunque, ridefinire un territorio di parole per recuperare dall’omosessualità “l’omoaffettività” in modo da restituire dignità a tutte le forme dell’amore e stigmatizzare, quello sì, l’odio verso le minoranze. Da dove provenga quest’odio atavico per il diverso, poi, sarebbe interessante provare a raccontarlo, e certo deve riguardare la promessa che il Diciannovesimo secolo (il secolo delle macchine) ha fatto all’uomo, che cioè sarebbe diventato invincibile, e che invece il 900 ha poi mandato in frantumi. Forse, quando l’uomo farà pace con la sua vulnerabilità (e il sogno dell’invincibilità), smetterà di odiare l’altro e scambiarlo sempre per un nemico.

Angelo Molica Franco

Mente chi denuncia nel taglio problemi di rappresentanza

Ne L’Arte di ottenere ragione il grande filosofo tedesco Arthur Schopenhauer elenca i “38 stratagemmi” comunemente utilizzati per uscire vincenti da una discussione anche quando si ha torto. In quinta posizione nella lista degli “artifici disonesti ricorrenti nelle dispute” compare un grande classico della dialettica: la premessa falsa che il pubblico non è in grado di riconoscere perché a digiuno della materia del contendere. Questa vecchia tecnica viene oggi usata a piene mani (a volte per ignoranza o volte in malafede) da molti esponenti del fronte del No in vista del referendum sul taglio del numero dei parlamentari. Lo ha fatto, per esempio, il 21 luglio in un’intervista a Repubblica il leader delle Sardine, Mattia Santori, affermando sicuro che se i deputati e i senatori passeranno da 945 a seicento non ci “potremo lamentare se la politica è distante dai cittadini” perché “avremo un eletto ogni 150mila abitanti”. Distante da Santori appare però solo la matematica: gli italiani residenti nel nostro Paese sono 60 milioni. Il che porta a un rapporto di circa un eletto ogni 100mila. Ma se a Santori va concessa l’attenuante di un’inesperienza ormai cronica che lo spinge sempre più spesso a esprimere opinioni prima di aver ragionato, più severo deve essere il giudizio nei confronti dell’ex presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Tesauro. Intervistato dall’edizione napoletana del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, Tesauro commette un errore da bocciatura all’esame di Diritto pubblico comparato. Sostiene l’esimio costituzionalista: “Oggi c’è chi si riempie la bocca dicendo che nel confronto con gli altri Paesi europei abbiamo troppi deputati. Ma il numero assoluto dei deputati e dei senatori non significa niente. Conta il rapporto tra eletti e cittadini e in questo caso siamo al 23esimo posto in Europa. Con la riduzione saremmo ultimi”. Tutto vero tranne la conclusione. Clamorosamente falsa.

Perché, anche se a partire dalla prossima legislatura i parlamentari eletti diventassero 600, molti importanti Paesi del Vecchio continente continuerebbero ad avere un rapporto peggiore del nostro. Ad esempio la Germania e la Francia dove c’è un rappresentante degli elettori ogni 117mila abitanti o il Regno Unito dove la proporzione è uno ogni 102mila. I conti sono semplici da fare. I tedeschi sono 87 milioni ed eleggono al Bundestag, il parlamento federale, 709 deputati. I francesi sono 67 milioni ed eleggono all’Assemblea nazionale 577 deputati. Gli abitanti della Gran Bretagna sono 66 milioni e mezzo e scelgono i 650 membri della Camera dei Comuni. Ma allora perché anche il comitato dei Democratici per il No, di cui fanno parte tra gli altri il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ed esponenti del Nazareno come Gianni Pittella, Daniele Vitti e Tommaso Nannicini, insiste impunemente nel sostenere che diventeremo i peggiori d’Europa in fatto di “rapporto tra cittadini ed eletti”? Perché il comitato fa dolosamente confusione. Al numero dei parlamentari eletti di Gran Bretagna, Germania e Francia aggiunge pure i parlamentari non eletti. A Londra i componenti della Camera dei Lord formata da oltre 600 membri a vita, 87 ereditari e 21 scelti dalla Chiesa anglicana. A Parigi, i membri del Senato composto da 348 parlamentari non votati dai cittadini, ma da 150mila grandi elettori (sindaci delle maggiori città, consiglieri comunali, consiglieri regionali e deputati) e a Berlino i 69 senatori del Bundestag designati dai vari Länder. Detto questo, cari lettori, al prossimo referendum votate come vi pare. Ma non fatevi ingannare.

 

Per il “ No” è più democratica la Cina con i suoi 2980 deputati

La riduzione del numero dei parlamentari divide tanto la politica quanto l’accademia, in particolar modo i costituzionalisti, molti dei quali nel corso degli ultimi mesi hanno legittimamente cambiato opinione, passando da un sì poco convinto a un no polemico e barricadero. L’argomento che il Comitato del No e alcuni Colleghi docenti pongono alla base del loro ragionamento riguarderebbe il deficit di rappresentanza e, per l’effetto, un vulnus alla democrazia, quasi che i concetti di rappresentanza e quelli di democrazia si basino sulla “quantità” degli eletti e non piuttosto sulla loro “qualità” (e taccio sui numerosi e pessimi esempi che il Parlamento ha dato di sé nel corso degli anni). Anche in questo caso, temo che i nostri parlamentari (e non solo loro) non abbiano ben inteso quel che a me appare chiaro: la riduzione, peraltro neppure troppo drastica, del numero dei parlamentari è cosa molto sentita (e voluta) fra la gente e ogni tentativo di rimetterla in discussione, dopo che aveva ottenuto la quasi unanimità, appare come una “difesa della casta”, dei propri privilegi e della propria condizione. A essa dovrà necessariamente accompagnarsi una nuova legge elettorale che, almeno nei miei auspici, dovrebbe reintrodurre la possibilità di esprimere una o più preferenze (in modo da consentire una scelta più consapevole da parte degli elettori) e la modifica più complessiva della organizzazione e del funzionamento delle Camere introducendo quella tecnologia che, in parte assente in tempo di lockdown, non ha consentito al Parlamento di proseguire nei suoi indispensabili lavori (tutti incentrati sulla presenza fisica di deputati e senatori). Oggi sarebbe tecnicamente possibile convocare le Commissioni in videoconferenza, lavorare a distanza e riservare le sedute in presenza, eventualmente, alla sola manifestazione di voto. A me non pare una scelta sovversiva quella di ridiscutere i numeri che, al contrario appaiono non del tutto consoni con la dimensione (geografica, demografica e culturale) del Paese, presente com’è la peculiarità, tutta italiana, di un parlamentarismo paritario e perfetto (ai fini dell’approvazione di una legge una camera è lo specchio dell’altra), né mi pare che i numeri possano essere confusi col principio: se così fosse dovremmo affermare che i 2980 deputati cinesi garantiscono a quel Paese una democrazia stabile e matura, mentre i 100 senatori e i 435 deputati statunitensi (con 330 milioni di abitanti), al netto di Trump, sono alla base di un regime autoritario!

Infine una considerazione di metodo: nel corso degli anni, Parlamento e governo hanno in più di una occasione provato a modificare la Costituzione repubblicana (talvolta riuscendovi, come lo sciagurato nuovo Titolo V, che mostra tutta la sua contraddittorietà in tempo di pandemia), proponendo profonde trasformazioni tanto della forma di Stato, quanto della forma di governo. Si è detto, giustamente, che tali interventi erano inopportuni e si è dubitato della correttezza dell’uso dell’art. 138 Cost. perché ciò che si finiva per approvare era, di fatto, una “nuova Costituzione”; ora che pare si sia tornati a interventi di microchirurgia – sia pure su un tema sul quale ci sono sensibilità diverse (gli eletti da una parte e gli elettori dall’altra) – molti hanno scelto di stare dalla parte della “conservazione”. Dare un segnale di umiltà e di coerenza sarebbe stato utile, salvo che il referendum non finisca per diventare uno strumento politico per aprire una improvvida crisi di governo. Sono convinto che il segnale, chiaro e univoco, lo manderanno le elettrici e gli elettori, indicando ai parlamentari la strada più prudente e opportuna per intraprendere una stagione di autoriforma.

 

Referendum, se dite “no” siate almeno Terracini

Immaginiamo di essere a Parigi, alla vigilia della convocazione degli Stati Generali. C’era chi sosteneva ancora che le Leggi fondamentali della Monarchia erano le migliori del mondo, seppure intorbidate dall’assolutismo torvo di Luigi XV, e che andavano per questo corrette. E chi diceva invece che la Costituzione era da rifondare su basi del tutto nuove. L’argomento più popolare invocato dai sostenitori di questa seconda posizione era: l’aristocrazia di Versailles non era più l’aristocrazia di spada, che poteva pretendere una funzione rappresentativa in virtù delle vittorie militari con le quali, assieme al re, aveva costituito il regno; quell’aristocrazia era solo più un insieme di egoisti cicisbei che vivevano in un esilio dorato alle spalle dello Stato. Non c’è dubbio che l’attuale campagna referendaria riecheggi questo tema: la classe politica fondata sui partiti è solo più una massa parassitaria. Ci troviamo allora di fronte a una alternativa secca: difendere la legge fondamentale, seppur deturpata, sperando che i rappresentanti riprendano l’orgoglio di essere i costruttori di quel “corpo politico” che è il popolo sovrano nella concretezza delle sue divisioni; o constatare, amari e disillusi, il disfacimento (a causa dei suoi eletti) di questo stesso corpo. E dunque: oportet ut scandala eveniant. Ci troviamo davvero nella condizione dell’asino di Buridano, ma la questione non è il numero dei parlamentari. È se aggrapparci al principio della rappresentanza organizzata che amiamo, o se invece lasciare che quel che appare un sentimento popolare largamente diffuso faccia il suo corso. Perché il Pd e Art. 1 non prendono posizione? Perché sanno che nel loro popolo la difesa in punto di principio non verrebbe compresa. I costituzionalisti hanno fatto finta di non capire la questione in gioco, e hanno cercato di spostarla sul piano tecnico. C’è chi non sceglie – per motivi tecnici – nessuno dei due secchi (Zagrebelsky); chi sceglie tecnicamente quello del No (i 183 costituzionalisti del relativo appello) puntigliosamente distinguendosi da chi adduce anche vaghi principi politici; e c’è chi ritiene che queste difficoltà tecniche siano inesistenti (Onida). Non è dato ritrovare, quindi, una chiara distinzione intorno a che cosa si intenda per quella “rappresentanza” che gli uni vogliono umiliare, gli altri rigenerare. Tutti sembrano accontentarsi della rappresentanza come mera elettività. Ma l’elettività non crea nessuna rappresentanza. Rousseau vedeva chiaro l’essenza di quest’ultima: “(Mosè) ideò ed eseguì la stupefacente impresa di costituire in nazione uno sciame di profughi disgraziati, privi di arte, di armi, di capacità, di virtù, di coraggio, e che, non possedendo un solo pollice di campo, costituivano un branco straniero su tutta la faccia della terra. Mosè osò fare di questo branco errante e servile un corpo politico, un popolo libero, e, mentre esso errava nei deserti senza neanche avere un sasso su cui posare il capo, gli dava quella istituzione duratura che ha sfidato il tempo, la sorte e i conquistatori …”.

Ma che cosa rende possibile a qualcuno dirsi “rappresentante” e fare e mantenere un corpo politico? Se rappresentare vuol dire parlare a nome di un assente (il popolo, la classe…), dire la sua volontà, indicare la strada che egli vuole si percorra, allora è indispensabile che il rappresentante parli sempre e solo in nome di questo “altro”. Se il rappresentante parla dei propri interessi particolari, e non di quelli (di parti del popolo) che egli stesso generalizza (l’“altro”), allora tutto l’edificio crolla. Ma, prima ancora, da quale posizione si può tentare di parlare in nome di questo altro? Terracini lo chiarì in modo esemplare nel discorso con cui aprì, il 4 marzo 1947, in Assemblea Costituente, la discussione generale: “… La imminente discussione… deve dare conforto… a tutti coloro che, soffrendo in sé … di ogni offesa ed ingiuria che venga portata contro il principio rappresentativo e gli istituti nei quali esso storicamente oggi s’incarna, voglion però… che questi non vengano meno al proprio dovere: che non è solo quello di elaborare testi legislativi e costituzionali, ma anche di essere in tutti i propri membri esempio al Paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità… di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facili popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell’Assemblea. …noi (riusciremo) a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del mondo che l’Assemblea costituente italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l’ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto”. Dire che il popolo italiano, nel 1946, era un popolo probo, eroico, incorrotto non era né vero, né facile: era il rappresentante che lo plasmava così. Se qualcuno volesse riprendere questo discorso, allora varrebbe la pena difendere questo Parlamento.

 

Gli asciugamani IKEA e Brad Pitt. Per scovare l’odore dell’orgasmo

Gwyneth se ne è uscita con un nuovo prodotto: la candela al profumo di orgasmo (FQ, 23 giu 2020)

Il caratteristico aroma di una figa eccitata dipende dalla formazione di molecole odorose che si trovano anche in piante e fiori. La scoperta, pubblicata sulla rivista di chimica Female Chemistry, si deve alla ricercatrice giamaicana Hortensia Izod dell’Università di Stoccolma. L’esperimento è stato condotto in una camera d’albergo, servendosi di alcuni asciugamani di cotone Ikea e di Brad Pitt. La dottoressa Izod, che stravede per Pitt, ha inzuppato un asciugamano nella sua figa dopo aver baciato il divo con la lingua. Ha quindi esaminato i composti chimici presenti nell’asciugamano e li ha confrontati con quelli prodotti dalla sua figa non eccitata. Ha così scoperto che la figa eccitata produce aldeidi e chetoni, composti organici che ricordano il profumo della vaniglia e del mirto. Li troviamo in molti profumi che solitamente definiamo floreali: un gruppo, le aldeidi alifatiche, è usato da un secolo nello Chanel N°5. I chetoni, invece, danno l’aroma ad alcuni tipi di birra, e questo spiegherebbe perché i popoli nordici adorano il cunnilingus. I diritti cinematografici dell’esperimento sono stati opzionati da Martin Scorsese. La dottoressa Izod sarà interpretata da Joe Pesci.

Dal diario di Conte – 24 gennaio 2020. A Manaus, nel mezzo della Foresta Amazzonica brasiliana, c’è un punto in cui si incontrano due fiumi: uno più caldo e scuro (Rio Negro), l’altro più freddo e trasparente (Rio Solimoes). Quando confluiscono e diventano un unico fiume, quel fiume, il Rio delle Amazzoni, resta di due colori per molti chilometri. Giallo da una parte, grigio dall’altra. Ecco, se dovessi descrivere cos’è il mio piscio oggi, direi che è il Rio delle Amazzoni. Sono ad Assisi, il cuore del cattolicesimo mondiale – che ho preferito al meeting annuale di Davos – dove 800 anni fa San Francesco scrisse il Cantico delle Creature, e sto pisciando contro un ulivo secolare e contro la crisi climatica. È il mio modo di evitare la retorica delle grandi occasioni, una decisione che mi ha portato a rinunciare al meeting con i grandi della Terra. Quando nessuno sapeva dell’esistenza di Davos, qui si pisciava già sugli ulivi secolari. In questo momento, accanto a me, sta pisciando tutto il gotha dell’imprenditoria e dell’associazionismo cattolico italiano: i presidenti di Confindustria e Coldiretti Vincenzo Boccia ed Ettore Prandini, il presidente dell’Enel, Francesco Starace, e due donne che negli ultimi mesi ho conosciuto bene, entrambi possibili candidate dell’alleanza giallo-rosa in Umbria: la sindaca di Assisi Stefania Proietti e l’amministratore delegato di Novamont e presidente di Terna, Catia Bastioli. Non mancano gli esponenti di quel mondo cattolico cui strizzo l’occhio da tempo: il sociologo Mauro Magatti, il banchiere Leonardo Profumo, il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà di CL, Giorgio Vittadini, e perfino i rappresentanti italiani a Bruxelles David Sassoli e Paolo Gentiloni. La nostra pisciata si ispira all’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco ed è un’unione perfetta tra sostenibilità, green economy e la bellezza dell’Italia, con una spruzzata di coesione sociale. Nello scrollarmi il pisello, formulo una promessa a effetto: “Qui da Assisi parte il percorso per inserire la pisciata nella Costituzione italiana”. Sento che il 2020 sarà un altro anno bellissimo.

 

La Rai lottizzata non è filo-fatto

C’è evidentemente una linea di continuità, nell’avvicendamento alla guida di RaiNews24, che riguarda il nostro quotidiano. Forse un ordine di servizio o magari un ordine dall’alto. Oppure, una prevenzione, un pregiudizio. Prima Il Fatto non viene citato – come sarebbe d’obbligo – neppure quando pubblica un’intervista al presidente del Consiglio. Poi, nel saccheggio quotidiano della rassegna stampa, il “conducente” Gianluca Semprini si permette addirittura di sentenziare – a proposito di un tema delicato come il conflitto fra Stato e Regioni – che “il giornale è sempre abbastanza vicino alle posizioni governative e contrario ai governi regionali”. Sempre e abbastanza, ma non troppo né troppo poco, insomma.
Al contrario di quello che fanno generalmente le testate giornalistiche della Rai che invece non usano mezzi termini: alcune sono sempre filo-governative e altre sono sempre filo-opposizione. Con la differenza fondamentale, però, che Il Fatto non ha padroni ed è libero di scegliere la sua linea politica; mentre i tg lottizzati del servizio pubblico, con i rispettivi direttori e “conducenti”, sono appaltati a questo o a quel partito, a questo o a quel leader politico.

Contagi e Costa Smeralda: Rep vs. Rep

Ci siamo permessi, ieri, di dare dell’incosciente a Francesco Merlo che invece di prendersela con “l’inguaribile impunito”, Flavio Briatore, attaccava il governo per non aver chiuso le discoteche. “Incosciente” ovviamente era un calembour mutuato dalla definizione che di Briatore dava lo stesso Merlo, consapevoli che mettendosi a giocare con le parole al cospetto di un maestro noi finiamo tramortiti. Eppure, di quell’incoscienza devono essersi resi conto a Repubblica che, con innegabile perizia, in un pezzo di Fabio Tonacci a pagina 5 ha ricostruito come “la Costa Smeralda è diventata la capitale estiva del virus”. Vi si legge un elenco di ordinanze emanate, cancellate e poi riesumate che mai e poi mai coinvolgono il governo, ma sempre e solo il presidente regionale Christian Solinas. È lui che permette che la “movida ricominci” a metà luglio, è lui a prorogare l’ordinanza sulle discoteche che scade il 31 luglio fino al 9 agosto. Lo stesso Solinas fa finta di niente quando il governo, il 7 agosto, emana il Dpcm che preclude l’attività delle discoteche e “tra l’11 e il 12 agosto, intorno a mezzanotte e mezzo, firma la proroga”. “Si poteva evitare il contagio di questa zona fino ad allora sostanzialmente Covid-free?” chiede Tonacci. Merlo la risposta l’ha già data. Peccato fosse sbagliata.

“Due Camere più snelle saranno più centrali”

“La riduzione del numero dei parlamentari è un presupposto indispensabile per rendere il Parlamento più centrale”. Andrea Morrone, 50 anni, è ordinario di Diritto costituzionale di Bologna e non ha dubbi su cosa votare al referendum sul taglio degli eletti.

Professor Morrone, perché voterà “sì”?

Voterò a favore perché penso che la riduzione dei parlamentari possa portare a un nuovo ruolo del Parlamento. E questo per due motivi: in primo luogo perché, in base alla comparazione giuridica e alla logica, un numero ridotto dei parlamentari è indice di una maggiore qualità della rappresentanza. Il taglio degli eletti infatti spingerà i partiti a selezionare dei candidati migliori e anche chi è investito di questo ruolo sentirà con maggiore responsabilità la propria funzione. Poi c’è un secondo motivo…

Dica.

Esiste una regola generale: il numero dei parlamentari è inversamente proporzionale alla democrazia di un paese. Le assemblee pletoriche si ritrovano solo in dittature come Cina, Corea del Nord e nella ex Urss. Per questo sostengo il “sì”: un Parlamento con numeri più contenuti è coerente con le altre democrazie parlamentari. Tutte quelle europee hanno un numero di eletti compreso tra 450 e 700.

Secondo i fautori del “No” ci sarà un problema di rappresentanza. Cosa ne pensa?

È una questione mal posta: non c’è dubbio che riducendo il numero di rappresentanti si riduca la rappresentatività, più che la rappresentanza. Il punto però è che la questione della rappresentatività va affrontato con la legge elettorale. Questa obiezione è insidiosa ed equivoca perché si può aumentare o diminuire la rappresentatività quanto si vuole, ma poi la rappresentanza dipende dalla capacità di andarsi a prendere i voti.

Il Pd dice che per votare “Sì” la riforma va accompagnata con una legge proporzionale.

La riduzione del numero dei parlamentari è neutra rispetto alla legge elettorale. In primo luogo la riforma elettorale va fatta dopo e non prima del referendum, ovvero quando sappiamo il numero dei rappresentanti. Poi la riduzione dei parlamentari è compatibile sia con una legge proporzionale che con un sistema maggioritario. Dipende tutto da una scelta politica: il Pd ha un obiettivo politico e non c’entra niente con la Costituzione. Da un lato i dem vogliono impedire una maggioranza a guida Salvini e dall’altra vogliono mettere una soglia di sbarramento per tagliare le unghie ai piccoli partiti come Renzi e Calenda.

Lei sostiene che il Parlamento sarà anche più efficiente. Perché?

Un Parlamento con un numero ridotto di rappresentanti può lavorare meglio perché può controllare meglio il governo e potrà dare maggior importanza alle autonomie. Due riforme che andrebbero fatte di conseguenza potrebbero essere quella di evitare al premier di presentarsi in entrambe le camere per le fiducie (basterebbe una seduta comune) e poi avere 200 senatori in meno può preludere alla risoluzione del bicameralismo.

Nel 2016 lei era per il “Sì” alla riforma Renzi. Oggi si sente coerente?

Votai Sì alla riforma del 2016, ma oggi condivido la linea di chi dice che occorra fare riforme puntuali della Costituzione. Per questo trovo contraddittorio che chi al tempo ha fatto campagna per il No sostenendo che la Carta andava cambiata con interventi chirurgici, sia contrario anche oggi.

I costituzionalisti del “No” dicono che si risparmia pochissimo. È vero?

Io non condivido il messaggio anti-politico del M5S, ma come cittadino non sono indifferente al risparmio che si potrebbe ottenere da questa riforma. Anche per questo voterò “Sì”.

Referendum, la giravolta dei parlamentari

Se non altro Roberto Giachetti l’aveva detto subito, in un meraviglioso caso di dissociazione da se stesso: “Voto il taglio dei parlamentari, ma un minuto dopo raccoglierò le firme per cancellarlo con un referendum”. Molti colleghi l’hanno seguito in ritardo: in aula hanno pigiato il tasto del “sì”, alle urne voteranno il contrario. Hanno ottimi argomenti, che però si erano dimenticati in Parlamento, dove la legge era passata con un plebiscito assoluto: 553 favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti. Ora si scoprono gli avversari della riforma in tutti i partiti. Addirittura 4 grillini: Andrea Colletti, Elisa Siragusa, Andrea Vallascas e Maria Lapia. E poi Giorgio Mulè, Deborah Bergamini, Osvaldo Napoli (Forza Italia), Matteo Orfini, Fausto Raciti, Laura Boldrini (Pd), Nicola Fratoianni (LeU). Molti altri esegeti del No – come il leghista Borghi – in aula si rifugiarono dietro una missione per non metterci la faccia. Poi ci sono quelli sempre in bilico, che aspettano di capire la strategia più proficua. Come Italia Viva (“Evitiamo di personalizzare”, ironizza Ettore Rosato). Persino il ministro Lorenzo Guerini fa melina e aspetta la direzione del Pd (per verificare che ci sia un accordo sulla legge elettorale). A sinistra pure c’è imbarazzo, Pier Luigi Bersani teme “il trappolone” al governo Conte: “Su un tema così controverso ogni opinione in famiglia è legittima e va rispettata. Io, assieme a molti altri a sinistra, ho sempre proposto la riduzione dei parlamentari”.

La dinastia Ferri: da Silvio a Renzi (o con tutti e due)

In Toscana la leggenda narra che Denis Verdini, ormai destinato al tramonto politico, sia stato sostituito da Cosimo Maria Ferri da Pontremoli (Massa Carrara). È lui, ex berlusconiano d’antan e oggi deputato di Italia Viva, il deus ex machina di Matteo Renzi in Toscana. Conosce tutti, parla con tutti e da dietro le quinte muove le sue pedine per far diventare il piccolo partito renziano l’ago della bilancia alle prossime elezioni regionali. E quindi Cosimo Ferri non avrà avuto difficoltà a pescare Clara Cavellini proprio a Pontremoli, il suo feudo. Assessore alla Sanità della giunta di centrodestra di Lucia Baracchini in cui Jacopo Ferri (il fratello di Cosimo) è vicesindaco, Cavellini ha deciso di abbracciare la causa renziana: nei giorni scorsi ha annunciato la sua candidatura nel collegio di Massa Carrara con Italia Viva in sostegno dell’aspirante governatore di centrosinistra Eugenio Giani. Ma quello di Cavellini, 55 anni ed eletta nel 2016 con la lista di centrodestra “Lista Civica Cara Puntremal”, non è solo l’ultimo caso di un unione di fatto tra Forza Italia e Italia Viva, per giunta dopo anni di critiche alla gestione sanitaria del centrosinistra in Toscana. La candidatura di Cavellini è diventata anche un caso politico a livello locale: per correre nelle liste di Italia Viva, si è dimessa da assessore ma non da consigliere comunale. Ergo: alle regionali sostiene una coalizione di centrosinistra mentre nel suo comune continuerà ad appoggiare la sindaca di centrodestra Baracchini. Non si sa ancora se creando un nuovo gruppo di Iv anche in consiglio comunale o rimanendo direttamente in quello di centrodestra. Per il momento l’ex assessora alla Sanità è rimasta sul vago: “Proseguirò comunque la mia attività come consigliera comunale con il mio solito impegno a servizio dei cittadini” ha scritto nei giorni scorsi su Facebook.

Nel motivare la sua corsa, Cavellini ha spiegato che la decisione è arrivata per seguire le orme di Ferri: “Mi sono impegnata in politica a livello locale sempre seguendo l’On. Enrico Ferri e ora ho deciso di sostenere l’impegno politico del figlio Cosimo come recentemente ho già fatto durante la sua candidatura come parlamentare e a cui sono legata da una cara amicizia fin dai tempi in cui frequentavamo da ragazzini lo stesso corso di judo”. E sulle sue posizioni anti-Rossi, Cavellini si dice coerente: “Il mio impegno sulle problematiche sanitarie sarà volto a modificare l’essenza della riforma di Enrico Rossi per ridare centralità ai territori marginali” ha detto. Chissà cosa ne pensa il candidato Eugenio Giani. In Toscana però Cavellini non è l’unica candidata proveniente dal centrodestra passata con Iv: nel collegio di Firenze i renziani hanno conquistato Massimo Pieri, fondatore del Pdl in città mentre a Prato corre l’ex consigliere comunale di FI Antonio Longo. Dinamiche simili si replicano anche in Campania e Puglia e in diversi comuni: a Corsico, nel Milanese, Forza Italia e Italia Viva sostengono Roberto Mei che un anno fa faceva gli auguri per il centenario dei fasci di combattimento e a Giugliano i renziani appoggiano direttamente l’ex vicesindaco di FI, Elvira Romano. Un’unione sempre più di fatto.