La Duse scrive molte lettere e Gabri fa un’alzata di spalle. L’attrice di teatro meritatamente diva – Eleonora Duse – e il poeta divinamente vate, Gabriele D’Annunzio, s’incontrano e s’incendiano ma quando lui se ne stanca, lei lo cerca ed è un vano soliloquio: “In vero, tutta la vita è attendere il domani.”
La donna che si sente chiedere al primo incontro – “voglio giacere con te” – non immagina da lì a poco la follia di “una passione devastatrice”. Accade nel suo camerino. Il fragore degli applausi è ancora in sottofondo mentre le corbeille di fiori giunte a valanga attendono la pietà di una veloce occhiata in corridoio.
Il poeta che già a 16 anni s’impone come astro nella scena letteraria appare sulla soglia e se la prende, la Duse, per “non farla guarire mai – mai più.”
Eccola, anche la sua bella sorte, la smarrisce: “Ho quarant’anni e amo”.
Non l’inaudito amplesso di Ginevra e Lancillotto, non lo strazio d’oltretomba di Paolo e Francesca, neppure Rinaldo e Angelica nei tumulti epici di amore e duelli ma ecco Gabri e la Duse, eccoli nel racconto di un amore, giorno dopo giorno, concluso.
Il caro amico dell’epistolario è il fantasma di una fine nelle lettere inedite, ventitré che l’attrice invia al poeta (più altre due alla marchesa Di Rudinì, Alessandra, divenuta sua rivale nel cuore del Vate), tra il marzo e l’aprile del 1904, questo carteggio è pubblicato a cura di Franca Minnucci da Ianieri editore ed è una sorta di taccuino dell’amore perduto.
La Duse, malata, riposa nella camera dell’Hotel Bristol di Roma prima e a Palermo poi, sperando ancora – e illudendosi – di poter interpretare il capolavoro teatrale di D’Annunzio, La figlia di Iorio che lei ha visto sgorgare e compiersi quando il loro idillio era travolgente.
Il poeta inizia a scrivere la tragedia il 18 luglio e la completa il 29 agosto del 1903. E su di lei, solo per lei, trasfigurando in lei Mila, il ruolo da protagonista, D’Annunzio dedica la sua magia creatrice. “Era mia, era mia e me l’hanno presa!” così scrive lei pensando a La figlia di Iorio ed è, questa frase, anche il titolo del carteggio-soliloquio in cui, come si legge, lei stessa sentenzia: “Siamo due, ma io morta”.
La fine degli amori si assomiglia sempre. Una donna più giovane e attraente sta entrando nella vita di lui con importanza crescente. Ci sono i ricordi lancinanti del tempo felice, incancellabili, che pesano come un macigno su un cuore già affranto.
Come in tutti gli amori che finiscono ci sono piccole e grandi miserie, codardia e trascuratezza. Il poeta che più di ogni cosa amava se stesso, ha trovato nella Divina, che nell’intimità ha ribattezzato Ghisola, la chiave di accesso a un mondo, quello del teatro, che gli era estraneo. Ha potuto godere delle risorse finanziarie dell’attrice – Eleonora Duse è a tutti gli effetti il produttore – per gli allestimenti teatrali di altri suoi lavori che non hanno riscosso il successo del pubblico.
Tutto pesa e aggrava il tormento della Duse, l’ingratitudine di lui, i problemi economici, la prospettiva di una desolata solitudine, l’esser esclusa da una vita a due che diceva di affinità artistiche e sentimentali.
Nelle lettere la parabola del cuore è completa. Dall’illusione iniziale che niente potrà separare i due amanti, alla paura che la propria malattia possa allontanare il poeta che ama la bellezza e solo di essa vuol circondarsi.
La storia che li ha uniti, si è esaurita. La Duse sviluppa nelle sue lettere la vicenda di un amore nelle sue più variegate sfaccettature. C’è l’amore carnale, l’intesa sentimentale e artistica, la condivisione di progetti che si realizzano, e poi, lancinante, il sentirsi cancellata dalla vita dell’altro, la percezione della sua insofferenza, lo svuotarsi di senso di gesti intimi, ora ripetuti per compiacere – la Duse chiede al poeta di mandarle delle violette – ma queste sembrano aver perduto il profumo di prima: “Mai più l’anima mia toccherà la tua”.
Eppure la donna continua a scrivere che le sta a cuore solo la felicità dell’amato. Anche nelle lettere scritte alla rivale cui si rivolge da donna a donna, chiede se ella sia in grado di tutto sacrificare per il poeta che tutto esige. Si fa strada in lei la consapevolezza dell’egoismo maschile ma al contempo chiede di essere perdonata per l’insistenza delle sue preghiere. Le notti in solitudine si fanno sempre più agitate, le lettere – scritte nelle ore più buie o all’alba, mentre la primavera lentamente arriva – volgono alla speranza: “Ti aspetto per sempre”, “vivo solo per attenderti”.
D’Annunzio taglia per sempre la Duse dall’opera “della carne e dello spirito.” La donna, smarrita a se stessa, coglie un lampo di lucidità e lo rimprovera: “Tu non hai sentito niente per me in questa ultima fase e dunque non hai compreso”. Con la freddezza di chi affonda il bisturi nella carne infetta, lo rimprovera di non saper affrontare la solitudine, di averne terrore, di cercare solo il godimento “o per l’arte o per la carne”, di non avere nemmeno pietà: “Amare vuol dire salvare, essere vigile, sentire se l’altro soffre, nient’altro”. Nell’ultima lettera la Duse prende congedo: “Ti auguro tutto ciò che consola e placa di vivere, ti auguro oblio nell’arte”. È l’estate 1904.
“Nessuna donna mi ha amato come Ghisola, né prima, né dopo”. Così mormora D’Annunzio quando, nell’aprile del 1924, accoglie la notizia della morte di Eleonora Duse, comincerà a officiare per lei, solo per lei – trasfigurando in lei, l’arte – un vero e proprio culto.