Chiamate la neuro

Brutalmente violentata dai Briatore Boys nella saga estiva della Prostata Smeralda, la Logica cercava un po’ di ristoro su una questione puramente matematica: la riduzione dei membri del Parlamento italiano, fra i più pletorici del mondo, che ora rischia di diventare un po’ più moderno ed efficiente. Purtroppo anche lì la Logica prende botte da orbi dai fronti del No e del Ni, che paiono usciti dalle serate più alcoliche del Billionaire. Per dimostrare il falso, e cioè che col Sì avremmo il Parlamento meno rappresentativo al mondo, si sommano le mele alle pere: si paragona il nostro Senato (elettivo e paritario con la Camera) alle Camere alte di altri Paesi (non elette e con meno poteri). Chi poi nel 2016 contestava – giustamente – la controriforma Renzi-Boschi perché sfasciava un terzo della Costituzione e pretendeva un Sì o un No secco a un blocco di misure eterogenee, poche sagge (meno senatori, via il Cnel) e molte demenziali (l’abolizione dell’elettività dei senatori, un iter legislativo vieppiù complicato e un combinato disposto con l’Italicum che premiava il governo a scapito del Parlamento), ora contesta il Sì per la ragione opposta: per tagliare i parlamentari, si tagliano solo i parlamentari, cambiando solo 2 articoli della Carta, senza “riforme organiche”. E meno male, viste le schifezze organiche in circolazione.

Poi c’è chi misura il peso dei parlamentari dal numero: più sono, più contano. Una barzelletta: l’eletto è tanto più autorevole e autonomo quanti più elettori rappresenta. E chi teme che il Parlamento esca screditato dovrebbe spiegare come ne uscirebbe dalla bocciatura popolare di un’autoriforma da esso stesso votata 4 volte con maggioranze oceaniche: rilegittimato o delegittimato? La comica finale è l’appello di Zingaretti a Conte perché si schieri sulla riforma elettorale e alla maggioranza perché la voti almeno in una Camera prima del referendum. Oh bella: non s’era detto, quando B. cambiò la legge elettorale ad personam e a colpi di maggioranza (Porcellum), che quella è materia parlamentare e il governo non deve impicciarsi perché le regole del gioco si decidono insieme e il Parlamento è sovrano? E come si fa a votare la legge elettorale prima di sapere quanti saranno gli eletti? Si lasciano in bianco le caselle col numero dei collegi di Camera e Senato e si riempiono dopo il 21? O si dà per approvata la legge costituzionale prima che i cittadini la votino? Si fa come l’Innominabile che nel 2015 varò l’Italicum per la sola Camera nella speranza che il referendum del 2016 abolisse l’elettività dei senatori e, dopo la vittoria del No, lasciò scoperto il Senato finché la Consulta rase al suolo la porcata? Ma soprattutto: quando arriva l’ambulanza?

Tra champagne blu, sesso e fiatella: il cielo senza limiti

Fosse per gli stereotipi su di loro che i passeggeri dicono a mezza voce – “Ma i piloti si sposano con le hostess?”, “Alla fine sono tutti camerieri”, “Lo sai che non possono donare gli organi?” –, la loro vita in cabina sarebbe triste e monotona. Invece, come scrivono Franco Lombini e Mario Tadiello, laureati, traduttori e steward di lunga data, “nell’alto dei cieli la realtà supera di gran lunga la più fervida delle fantasie”. In Apriti cielo. Confessioni minime di due steward al servizio di sua Maestà (Bookabook), uscito alla fine del lockdown, raccontano la scoperta “dell’umana turbolenza”. E rivelano informazioni curiose e inedite, come il fatto che in mano degli steward ci sia il profilo di ogni cliente, tanto che “sappiamo persino chi ha l’alito cattivo”.

Si comincia con la carica dei quaranta super ortodossi, i cui figli decidono di giocare con le parrucche delle madri, tanto che a fine volo su una delle capigliature finisce una gomma da masticare che Franco deve togliere tagliando la ciocca senza farsi vedere. Si passa per le acrobazie erotiche di due giovanotti e una “donzella genuflessa che sta combattendo una guerra su due fronti”, dove la cosa bizzarra non è tanto il sesso orale quando la risposta ai due steward prontamente intervenuti: “Abbiamo quasi finito”. Non meno surreali sono i due passeggeri ribattezzati “Stabilo”; lui tuta gialla fosforescente, lei tailleur arancione e camicia verde “così se ammariamo l’elicottero ci vede prima”.

Ma c’è anche la bambina che sale con l’orsone di peluche gigante, piazzato sul water della toilette in mancanza di spazio, la passeggera che pretende una lavatrice di panni durante il volo, la claustrofobica che incastra un cuscino nella porta della toilette, due signore che fanno la doll therapy con due bambole trattate come bambini veri, infine le richieste assurde: “Posso avere un bicchiere di champagne blu? L’ho visto in un film”. Tra la signora che vomita apposta per avere sedili liberi intorno a sé, bambini che urlano come indemoniati e passeggeri che ogni tanto vanno ammanettati, capita che anche lo steward si sbagli, annunciando di avere a bordo un passeggero con una severa “penis allergy” (allergia al pene) invece che “peanuts allergy” (noccioline). Insomma, è vero che gli aerei inquinano ma, i due ne sono testimoni, quanto a spettacolo a bordo forse non sono secondi a nessun mezzo di locomozione. Persino Greta potrebbe sorridere.

“Passione devastatrice”. La diva, il vate e la “tragedia”

La Duse scrive molte lettere e Gabri fa un’alzata di spalle. L’attrice di teatro meritatamente diva ­– Eleonora Duse – e il poeta divinamente vate, Gabriele D’Annunzio, s’incontrano e s’incendiano ma quando lui se ne stanca, lei lo cerca ed è un vano soliloquio: “In vero, tutta la vita è attendere il domani.”

La donna che si sente chiedere al primo incontro – “voglio giacere con te” – non immagina da lì a poco la follia di “una passione devastatrice”. Accade nel suo camerino. Il fragore degli applausi è ancora in sottofondo mentre le corbeille di fiori giunte a valanga attendono la pietà di una veloce occhiata in corridoio.

Il poeta che già a 16 anni s’impone come astro nella scena letteraria appare sulla soglia e se la prende, la Duse, per “non farla guarire mai – mai più.”

Eccola, anche la sua bella sorte, la smarrisce: “Ho quarant’anni e amo”.

Non l’inaudito amplesso di Ginevra e Lancillotto, non lo strazio d’oltretomba di Paolo e Francesca, neppure Rinaldo e Angelica nei tumulti epici di amore e duelli ma ecco Gabri e la Duse, eccoli nel racconto di un amore, giorno dopo giorno, concluso.

Il caro amico dell’epistolario è il fantasma di una fine nelle lettere inedite, ventitré che l’attrice invia al poeta (più altre due alla marchesa Di Rudinì, Alessandra, divenuta sua rivale nel cuore del Vate), tra il marzo e l’aprile del 1904, questo carteggio è pubblicato a cura di Franca Minnucci da Ianieri editore ed è una sorta di taccuino dell’amore perduto.

La Duse, malata, riposa nella camera dell’Hotel Bristol di Roma prima e a Palermo poi, sperando ancora – e illudendosi – di poter interpretare il capolavoro teatrale di D’Annunzio, La figlia di Iorio che lei ha visto sgorgare e compiersi quando il loro idillio era travolgente.

Il poeta inizia a scrivere la tragedia il 18 luglio e la completa il 29 agosto del 1903. E su di lei, solo per lei, trasfigurando in lei Mila, il ruolo da protagonista, D’Annunzio dedica la sua magia creatrice. “Era mia, era mia e me l’hanno presa!” così scrive lei pensando a La figlia di Iorio ed è, questa frase, anche il titolo del carteggio-soliloquio in cui, come si legge, lei stessa sentenzia: “Siamo due, ma io morta”.

La fine degli amori si assomiglia sempre. Una donna più giovane e attraente sta entrando nella vita di lui con importanza crescente. Ci sono i ricordi lancinanti del tempo felice, incancellabili, che pesano come un macigno su un cuore già affranto.

Come in tutti gli amori che finiscono ci sono piccole e grandi miserie, codardia e trascuratezza. Il poeta che più di ogni cosa amava se stesso, ha trovato nella Divina, che nell’intimità ha ribattezzato Ghisola, la chiave di accesso a un mondo, quello del teatro, che gli era estraneo. Ha potuto godere delle risorse finanziarie dell’attrice – Eleonora Duse è a tutti gli effetti il produttore – per gli allestimenti teatrali di altri suoi lavori che non hanno riscosso il successo del pubblico.

Tutto pesa e aggrava il tormento della Duse, l’ingratitudine di lui, i problemi economici, la prospettiva di una desolata solitudine, l’esser esclusa da una vita a due che diceva di affinità artistiche e sentimentali.

Nelle lettere la parabola del cuore è completa. Dall’illusione iniziale che niente potrà separare i due amanti, alla paura che la propria malattia possa allontanare il poeta che ama la bellezza e solo di essa vuol circondarsi.

La storia che li ha uniti, si è esaurita. La Duse sviluppa nelle sue lettere la vicenda di un amore nelle sue più variegate sfaccettature. C’è l’amore carnale, l’intesa sentimentale e artistica, la condivisione di progetti che si realizzano, e poi, lancinante, il sentirsi cancellata dalla vita dell’altro, la percezione della sua insofferenza, lo svuotarsi di senso di gesti intimi, ora ripetuti per compiacere – la Duse chiede al poeta di mandarle delle violette – ma queste sembrano aver perduto il profumo di prima: “Mai più l’anima mia toccherà la tua”.

Eppure la donna continua a scrivere che le sta a cuore solo la felicità dell’amato. Anche nelle lettere scritte alla rivale cui si rivolge da donna a donna, chiede se ella sia in grado di tutto sacrificare per il poeta che tutto esige. Si fa strada in lei la consapevolezza dell’egoismo maschile ma al contempo chiede di essere perdonata per l’insistenza delle sue preghiere. Le notti in solitudine si fanno sempre più agitate, le lettere – scritte nelle ore più buie o all’alba, mentre la primavera lentamente arriva – volgono alla speranza: “Ti aspetto per sempre”, “vivo solo per attenderti”.

D’Annunzio taglia per sempre la Duse dall’opera “della carne e dello spirito.” La donna, smarrita a se stessa, coglie un lampo di lucidità e lo rimprovera: “Tu non hai sentito niente per me in questa ultima fase e dunque non hai compreso”. Con la freddezza di chi affonda il bisturi nella carne infetta, lo rimprovera di non saper affrontare la solitudine, di averne terrore, di cercare solo il godimento “o per l’arte o per la carne”, di non avere nemmeno pietà: “Amare vuol dire salvare, essere vigile, sentire se l’altro soffre, nient’altro”. Nell’ultima lettera la Duse prende congedo: “Ti auguro tutto ciò che consola e placa di vivere, ti auguro oblio nell’arte”. È l’estate 1904.

“Nessuna donna mi ha amato come Ghisola, né prima, né dopo”. Così mormora D’Annunzio quando, nell’aprile del 1924, accoglie la notizia della morte di Eleonora Duse, comincerà a officiare per lei, solo per lei – trasfigurando in lei, l’arte – un vero e proprio culto.

L’altra faccia di pavese. Fu fascista? No, solo “poeta”

Settant’anni fa, nella sera del 27 agosto 1950, Cesare Pavese metteva fine con il sonnifero alla sua non lunga e tormentata esistenza, dato che era nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe. Si uccise in una stanza dell’Hotel Roma di Torino, un albergo da viaggiatori, a pochi metri dalla stazione dei treni di Porta Nuova. Lasciava scritto nel biglietto d’addio di non fare “troppi pettegolezzi”. Invece i “pettegolezzi” non lo lasciarono più, mescolandosi, da allora, alla pubblicazione degli inediti e del diario Il mestiere di vivere, e alle rivelazioni sui suoi amori infelici. Tutto ciò ebbe una appendice persino scandalosa quando, l’8 agosto 1990, il critico Lorenzo Mondo pubblicò su La Stampa un frammento di diario assolutamente sconosciuto dello scrittore piemontese. Risalente al 1942-1943, il block-notes vergato da Pavese riportava giudizi favorevoli al fascismo e al nazismo, con affermazioni sconcertanti come questa: “Tutte queste storie di atrocità naz. (iste) che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione franc. (ese) che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci”.

La pubblicazione sul quotidiano di Torino sollevò un mare di polemiche, e ci furono tentativi, a destra, di appropriarsi di un intellettuale che, nonostante le contraddizioni già emerse dell’uomo e dello scrittore, era stato incasellato nell’antifascismo e nella sinistra. Si seppe inoltre che il frammento di diario era stato consegnato a Mondo da Maria Sini, la sorella dell’autore di La bella estate, nel lontano 1962, e che Italo Calvino aveva sconsigliato vivamente la divulgazione.

Mai compreso pertanto nelle opere pavesiane e rimasto nei cassetti prima dell’uscita su La Stampa per quasi trent’anni, adesso Il Taccuino segreto di Pavese è stato pubblicato integralmente, e per la prima volta in un libro, da Nino Aragno (pagine 118, euro 25), in una edizione curata dall’italianista Francesca Belviso, con un’introduzione dello storico Angelo d’Orsi e una testimonianza di Mondo. C’è inoltre un’antologia degli interventi sui giornali che fecero seguito allo scoop di La Stampa: da Giancarlo Pajetta ad Alessandro Galante Garrone, da Pierluigi Battista a Franco Ferrarotti, da Natalia Ginzburg a Gianni Vattimo. Proprio in alcuni di quegli scritti, al tempo letti forse sbadatamente, c’era già la chiave per comprendere il Pavese presuntamente fascista e ammiratore dei tedeschi, e per riflettere sulla personalità “bifronte” dello scrittore e sulla sua appartenenza, nel bene e nel male, alla grande cultura europea del Novecento: tragica cultura di un secolo tragico. Come ora emerge bene, nel volume di Aragno, dai saggi di Angelo d’Orsi e della Belviso.

Fu Galante Garrone, il “mite giacobino” della Resistenza, a cogliere e a descrivere con lucidità l’essenza vera di Pavese. Una sera, dopo la Liberazione, scrisse, che “non so se Giulio Einaudi o un altro propose quasi scherzosamente ai presenti di indicare su un biglietto, in breve, le adesioni o gli orientamenti politici di ognuno di loro. Ci fu chi scrisse Pci, un altro Psiup, altri Pda o Pli. Pavese scrisse soltanto P; e a chi gli domandava che cosa volesse dire, rispose sorridendo: poeta”. Era un poeta, non un politico, e credeva che ai poeti fosse concesso tutto: il mito, il destino e pure non nascondere a se stesso, in un certo periodo della vita, ciò che milioni di italiani e di tedeschi avevano praticato in maggioranza schiacciante fino al 1942-’43: l’adesione al nazifascismo, alla guerra, alla brutalità.

Era un poeta e quindi, pavesianamente, un eterno ragazzo. E come i ragazzi, sostenne Natalia Ginzburg, “usava scrivere tutto quello che gli passava per la mente”. In La casa in collina, del resto, un romanzo “revisionista”, in cui espresse pietà per tutti i morti, anche per i fascisti, non scrive forse che “solamente l’uomo fatto sa essere ragazzo”? Come disse un suo amico, ricordato dalla Belviso, “Pavese possedeva due anime, o meglio, due nature, due forze effettive fra loro contrastanti – Pavese e l’anti-Pavese – Pavese e il suo paradosso”. Era la sua debolezza, ma pure la sua forza, il suo essere europeo, come lo fu un narratore in apparenza distante da Pavese: il fascista Pierre Drieu La Rochelle. Cioè l’autore, non a caso, di un diario indimenticabile sulla guerra e sulla guerra civile.

Debolezza, forza, ma anche scacco. Lo “scacco di Pavese”, insomma, che Angelo d’Orsi ripropone nel senso che “non riguarda soltanto il suo fallimento privato, essenzialmente amoroso, bensì il suo complesso, irrisolto rapporto con la società, con la politica, con l’umanità stessa”. Tutte cose che fanno, poi, la perennità di Pavese, e il suo essere, parafrasando Arthur Rimbaud, “assolutamente moderno”.

Lite Turchia-Grecia, Berlino fa l’arbitro

Berlino

Lo specchio di mare immortalato da Mediterraneo di Salvatores è la nuova polveriera d’Europa. È l’allerta del governo di Berlino rispetto alla tensione fra Grecia e Turchia, come dimostrano le dichiarazioni del presidente turco Erdogan (nella foto): “Ci prenderemo quello che è nostro. Atene eviti errori che la porterebbero sulla strada della rovina. Se vuole pagare un prezzo, che venga ad affrontarci”. La disputa riguarda l’esplorazione turca di idrocarburi all’interno della Zona economica esclusiva greca, che non è riconosciuta da Ankara. “Ogni scintilla può portare alla catastrofe”, ha detto il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, tornando da una missione diplomatica tra Ankara e Atene. Sarà quindi probabilmente questo l’argomento che terrà banco alla riunione informale dei ministri degli Esteri dell’Ue che si apre oggi a Berlino. Il governo di Angela Merkel si offre per un ruolo di mediazione. È necessario “fare spazio per trovare una soluzione pacifica e sostenibile nella lite sul gas nella regione”, ha detto la ministra della Difesa, Annegret Kramp-Karrenbauer, a margine dell’incontro tra i ministri della Difesa Ue. Ma stavolta la situazione è più complicata. Perché se è vero che da un consiglio informale non si attendono decisioni comuni, una posizione comune della Ue è necessaria. E un accordo tra Parigi e Berlino è tutt’altro che scontato. La Germania vuole che si apra un dialogo tra Grecia e Turchia, come ha già fatto nelle scorse settimane, quando una telefonata di Angela Merkel il 22 luglio al premier greco Kiriakos Misotakis e poi a Recep Tayyp Erdogan ha frenato i motori delle navi da guerra greche in soccorso dell’isola greca di Kastellorizo (a 3 km dalle coste turche) e ha fatto sospendere le esplorazioni delle navi turche. Ma la ripresa del dialogo tra i due vicini non è partita, anche perché a due settimane di distanza, il 6 agosto, Atene ha spiazzato tutti presentando il suo accordo con l’Egitto sulle frontiere marittime che di fatto taglia fuori la Turchia. “I greci non hanno mantenuto le promesse” ha tuonato Erdogan. Ora la Germania vuole tenersi equidistante tra i due contendenti, sia perché è l’unico modo per svolgere una credibile funzione di mediazione, sia perché Erdogan ha sempre il dito sul grilletto con gli oltre 3 milioni di migranti alle frontiere. Il presidente francese Emmanuel Macron invece ha dichiarato subito “una piena solidarietà alla Grecia” aggiungendo “che non è accettabile che lo spazio marittimo di uno stato membro dell’Unione venga minacciato e violato. Chi lo fa deve essere sanzionato”. Ma non è un mistero che la Francia, a partire dal dossier libico, ha qualche attrito con la Turchia. In ogni caso le sanzioni contro Ankara, presentate dall’Alto rappresentante Ue Josep Borrell, sono lo spettro che aleggerà nelle riunioni di oggi. L’Italia però non vuole sanzioni dure, fanno sapere fonti italiane.

SuperPac repubblicano, offensiva negli Stati chiave

Joe Biden dice che la convention repubblicana racconta “una realtà alternativa”, in cui “migliaia d’americani non sono morti di coronavirus nell’ultima settimana, milioni di americani non sono stati contagiati o non hanno perso il lavoro, l’economia non ha subito stop, i nostri figli non sono rimasti a casa da scuola.” La convention pecca magari d’ottimismo, ma la campagna di Donald Trump si muove con realismo e punta tutto sull’economia e sugli Stati in bilico, per rimettere in equilibrio una corsa che, al momento, vede Biden avanti.

Politico rivela che America First Action, il maggiore super Pac per la rielezione di Trump, è certo che sia l’economia e non il timore del contagio o le violenze nelle città, a condizionare le scelte degli elettori alle urne. Per questo, concluse le convention, la prossima settimana, America First Action diffonderà spot televisivi e online per 18,6 milioni di dollari in quattro Stati in bilico determinanti il 3 novembre, Pennsylvania, Wisconsin, North Carolina e Florida: obiettivo, criticare i programmi di Biden, che non esclude un nuovo lockdown, se il virus dovesse di nuovo dilagare, e convincere gli elettori che non sappia risollevare l’economia.

I sondaggi continuano a dare Biden avanti, in media di 7/8 punti. E un rilevamento Reuter/Ipsos indica che Biden gode della stessa fiducia di Trump sul fronte economico, mentre finora gli era sempre stato dietro. La scelta degli Stati indica che Trump è sulla difensiva, teso a proteggere il suo territorio: nel 2016, lui lì vinse ovunque e, adesso, teme di perdere; e, forse, dà già per perso il Michigan, dove non sta investendo. Biden accusa Trump di fare lo struzzo e di “mettere la testa sotto la sabbia”, ma deve pure rintuzzare gli attacchi della convention repubblicana, condotti, nella terza giornata, soprattutto dal vice di Trump, Mike Pence, che ha parlato dal forte dove nel 1814 vennero composte le parole dell’inno americano, durante un assedio delle forze britanniche. A Kenosha, nel Wisconsin, dove da lunedì si susseguono le proteste contro la polizia, dopo che agenti hanno gravemente ferito un afroamericano a colpi di pistola alla schiena, ci sono state, l’altra notte, altre due vittime, in tutto, i morti sono tre. Due di loro sono stati uccisi da Kyle Rittenhouse, 17 anni, bianco, arrestato con l’accusa di omicidio volontario. Ha usato un fucile contro i manifestanti antirazzisti.Ieri il presidente Trump ha deciso di inviare rinforzi, si profila una nuova Portoland dove gli interventi dei federali sono stati molto criticati. Che il clima elettorale sia teso lo dimostra anche un consiglio dato a Biden da Hillary Clinton: “Non concedere in alcun caso la vittoria” a Trump a novembre: “il conteggio dei voti sarà lungo”, a causa del voto per posta. “Non dobbiamo lasciargli neanche un millimetro. Dobbiamo restare concentrati ed essere implacabili come lo è lui.” Finora, era Trump a non escludere di non riconoscere una sconfitta.

Ciprograd, il colore dei soldi: russi

È il paradiso temporaneo delle vacanze di molti; Cipro offre residenza permanente solo ai pochi che possono permettersela. Le sue spiagge sono la meta di chi fugge dal Covid-19 che ha già contagiato quasi un milione di persone nella Federazione russa. Da qualche anno però l’isola resta a galla grazie ai miliardi di euro di investimenti stranieri, e soprattutto dei rubli dell’élite di Mosca. Che sia diventata Ciprograd o la “Mosca mediterranea” lo ha scoperto la squadra investigativa di Al Jazeera, entrata in possesso dei Cyprus Papers, dove sono documentate le richieste di cittadinanza sull’isola. Dal 2017 al 2019 almeno 2.544 persone l’hanno ricevuta e oltre mille di loro hanno in comune due cose: la stessa nazionalità e molti zeri sul conto in banca. Quelli che hanno il passaporto rosso dell’isola in tasca – un documento che permette di vivere e fare affari nel resto d’Europa – sono tutti russi e tutti ricchi: milionari, miliardari, parlamentari, imprenditori, criminali, ricercati o condannati. Quasi tutti legati al Cremlino o ai suoi affari, dentro e fuori la Russia. La cittadinanza si ottiene grazie a quello che gli esperti di crimini finanziari chiamano “schema Cipro”, un salvacondotto messo in piedi nel 2013 quando l’economia di Nicosia era al collasso e i passaporti sono divenuti merce da scambiare con milioni di euro: ne servono 2 da devolvere in investimenti, 500 mila euro da lasciare alle banche in cambio di proprietà immobiliari, 150 mila euro di contributi a programmi di sviluppo. Da quando il governo cipriota ha iniziato a concedere questi golden visas per soldi – che sono arrivati insieme alle accuse di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale – sono entrati 8 miliardi di euro nelle casse statali e in questo fiume di denaro i torrenti maggiori sfociavano da Mosca. Ieri c’era la Capitale inglese degli oligarchi, Londongrad, oggi c’è “Limassolgrad”: è la scritta che appare sul cartello piantato sui marciapiedi della seconda città più grande dell’isola, dove risiedeva anche l’armatore russo proprietario della nave che trasportava il nitrato responsabile dell’esplosione letale di Beirut.

Nella città mediterranea girano uomini di connessioni e contatti con il potere russo. Vitaly Buzoverya, Aleksey Yakovitsky e Victoria Vanurina, che nello stesso giorno del 2018 hanno visto approvata la loro cittadinanza, sono la troika al vertice della Vtb, quella che viene spesso definita la “banca del Cremlino”, sotto sanzioni dal 2014 quando la Russia ha annesso la Crimea. Prima di apparire nei Cyprus Paper il nome di Vadim Moshkovich era stato pubblicato nella lista dei primi dieci miliardari russi di Forbes, nel 2014. Moshkovich, attento a ricordare le sue attività filantropiche a favore dei bambini meno abbienti, ha fatto fortuna con i beni primari, investendo in agricoltura, petrolio, piantagioni di zucchero, carne. Membro del Consiglio russo, è stato parlamentare della Camera alta della Duma. Vive ora dove passeggia anche l’oligarca Oleg Deripaska, legato a Putin ma anche a Trump e finito per questo nell’indagine di Robert Muller, già socio del consigliere Paul Manafort, perno della campagna 2016 del presidente americano. A Cipro è approdato anche l’ex deputato russo Igor Reva, assieme a quelli che la Federazione vorrebbe processare e che sono ricercati dall’Fsb, servizi di sicurezza russi. Per l’accusa di abuso di potere Nikolay Gornovsky, uno degli ex capi della compagnia energetica statale Gazprom, non torna in patria dal 2019, l’anno in cui si rifugia sull’isola anche Yuri Obodovsky, ex banchiere accusato di corruzione. Lo stesso destino che condividono con i fratelli Aleksey e Dimitry Ananiev, perseguiti per appropriazione indebita dalla Promsvyazbank. Se non sono ricercati dalla madre Russia, gli oligarchi che si trasferiscono a Cipo fuggono dalle sanzioni imposte da Europa e America.

La piccola isola blu è finita anche nel mirino del Cremlino: la Russia ha tentato di tappare la falla finanziaria quando si è accorta che i rubli che andavano oltreconfine non tornavano più indietro e ha aumentato le tasse sugli spostamenti di capitale. Questo non è bastato a frenare la fuga di oligarchi opachi, imprenditori corrotti ed ex politici, ora cittadini di Cipro e del resto d’Europa.

I sindacati danno una mano a Tim

Nella partita della rete unica Tim, dopo la gradita proposta di mediazione del ministro Roberto Gualtieri che ha inserito nella partita Cdp, incassa un altro appoggio nella sua guerricciola con Enel: quello dei sindacati. Il titolo, intanto, festeggia in Borsa il ritrovato clima di “dialogo”: +5% ieri.

Un breve riepilogo. Il governo si è schierato, come tutti i precedenti, per una società unica della rete tlc: al momento infatti i (pochi e in ritardo) investimenti sono portati avanti da due società pubbliche, cioè la stessa Tim e Open Fiber, che è di Enel e Cdp. L’idea, su cui tutti sono d’accordo, è fonderle in un unico soggetto, il problema si presenta quando si deve decidere come: l’ex monopolista ha bisogno di mantenere il 50 e spiccioli per cento della futura società perché la rete garantisce i suoi molti debiti e perché senza rischia di essere solo un fornitore di servizi con troppi dipendenti; Enel e molti operatori, d’altro canto, vogliono una società in cui il pacchetto di controllo sia di Cdp in modo da garantire parità di accesso a tutti (e Enel vuole anche che Open Fiber venga valutata 7 miliardi, mentre Tim offre la metà).

In uno stallo che si protrae da anni è arrivato l’annuncio della fu Telecom di un piano per costituire una sua società della rete, Fibercop, da realizzare con l’ingresso nel capitale degli americani di Kkr e di Fastweb: sarebbe Fibercop, poi, a portare la benedetta fibra nelle case degli italiani. Arriviamo così all’inizio di agosto, quando il governo ha chiesto a Tim e a Luigi Gubitosi di aspettare un mese a dare il via libera a Kkr per creare una società unica della rete: da allora Enel non pare essersi mossa di un millimetro, mentre Cdp sta trattando sulla base della mediazione di Gualtieri (il 50,1% a Tim, ma governance scelta da tutti gli investitori e blindata rispetto agli assetti proprietari). L’accordo, su cui si lavora in questi giorni per arrivare a una lettera d’intenti entro lunedì, prevede però il via libera preliminare di tutte le Autorità di regolazione interessate.

La sola notizia delle trattative ha messo le ali al titolo Tim, che incassa – come detto – pure l’appoggio dei sindacati di settore: “Le scissioni di cui si sente parlare in questi giorni, con la rete Tim che confluirebbe nella nuova società pubblica, ed il resto dell’azienda che diventerebbe così una società di servizi, aprirebbe la strada allo ‘spezzatino’ di Tim e al rischio consistente di migliaia di esuberi”, hanno scritto al premier Conte i confederali.

Posizione ribadita anche dalla segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan: “Una Rete unica della banda larga con la presenza rafforzata della Cdp nell’azionariato di Tim è una occasione storica e un progetto fondamentale per il futuro del nostro Paese”.

Il nuovo piano Alitalia? Sarà dell’autore di quello vecchio

Le cose in Italia, si sa, tendono a trascinarsi. E mentre si trascinano a volte si fa fatica a capire in che anno ci si trovi. Prendiamo Alitalia: è il 2017, il 2019 o il 2020? Difficile dirlo perché certe cose e certi nomi continuano a venire fuori come se il tempo non fosse mai passato. Ora, ad esempio, siamo all’ennesimo passaggio decisivo: il governo ha ripreso il controllo della compagnia e sta creando una nuova società (newco) che dovrà gestirla con un nuovo piano industriale (che prevederà, tra le altre cose, qualche migliaio di esuberi). E chi lo sta scrivendo il piano industriale? La società di consulenza Oliver Wyman e in particolare il manager Roberto Scaramella, che era in corsa per fare l’ad di Alitalia ai tempi di Etihad e che ha scritto per Ferrovie dello Stato il piano del 2019. L’esperienza, diciamo così, non gli manca, ma i precedenti – pura sfortuna, per carità – non lasciano tranquilli.

Breve riepilogo. Fallita miseramente la Alitalia dei capitani coraggiosi dei tempi di Berlusconi e pure quella italo-araba che l’aveva seguita (con relativi strascichi nei tribunali), da tre anni l’azienda è in amministrazione controllata: i commissari hanno invano tentato di metterla sul mercato grazie a una cordata che doveva raccogliersi attorno a Ferrovie, appunto, e con Atlantia (sì, i Benetton che hanno pure Aeroporti di Roma) e un partner industriale forte (si è parlato a lungo dell’americana Delta, di cui – non ci crederete – si è tornato a parlare sui giornali l’altro ieri). Fallita la prima gara per sbolognare la ex compagnia di bandiera, la scadenza della seconda è coincisa con l’avvio del lockdown e col terremoto Covid-19 che ha devastato il settore aereo.

La reazione del governo è stata, comprensibilmente, quella di riportare Alitalia sotto il controllo dello Stato: il decreto Cura Italia a marzo autorizzò “la costituzione di una nuova società interamente controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze ovvero controllata da una società a prevalente partecipazione pubblica, anche indiretta” per gestire i due complessi aziendali a nome Alitalia dopo aver elaborato un nuovo piano industriale.

Da quell’ormai antico testo sono passati mesi e la newco nel frattempo è stata oggetto di altri due interventi normativi: il decreto Rilancio ha stanziato fino a 3 miliardi per ricapitalizzare l’azienda e stabilito che la nuova società redigesse “senza indugio un piano industriale di sviluppo e ampliamento dell’offerta”. A tal fine, dopo settimane di litigi giallorosa, ai vertici della newco sono stati indicati Francesco Caio (presidente) e Fabio Lazzerini (amministratore delegato). Nel decreto Agosto, infine, sono stati stanziati 20 milioni proprio per redigere il piano che “senza indugio” andava già redatto a maggio, ovviamente previo permesso della Ue (ma è sparita la norma che prevedeva la liquidazione della newco in caso di niet da Bruxelles).

Quei venti milioni servono, presumibilmente, a farsi aiutare da esperti della materia: Deloitte per la parte finanziaria, lo Studio Grimaldi per quella legale e Oliver Wyman per quella più strettamente industriale. E qui torniamo all’inizio: Oliver Wyman è la stessa multinazionale delle consulenze che presentò il piano industriale nel 2019 al prezzo di almeno 5 milioni di euro; un piano materialmente redatto da Roberto Scaramella e giudicato “non sostenibile nel lungo periodo” da un’azienda che avrebbe dovuto farne parte (Atlantia) e di cui s’è mormorato assai anche dentro Ferrovie. Evidentemente per Alitalia non si può fare a meno del dottor Scaramella: fratello del Mario che qualcuno ricorderà nell’affaire Mitrokhin, bazzica il settore aereo dal 2010. Il suo primo contatto fu con la sfortunata Meridiana: divenuto manager di riferimento del gruppo Akfed dell’Aga Khan, ascenderà anche al ruolo di amministratore delegato della compagnia sarda e di Air Italy in anni non propriamente felici dal punto di vista dei bilanci (ma lui ha sostenuto che “sotto la mia gestione si è registrato il record storico di profittabilità”). Il rapporto si interrompe a novembre 2014: i maligni scrissero che il principe gli aveva dato in benservito (forse non gli piaceva il record di profittabilità), il nostro racconta di essersi dimesso per contrasti con la proprietà che non voleva investire.

Fortuna che Roberto Scaramella è uomo dai mille rapporti. Così ce lo ha raccontato sul Fatto Daniele Martini un anno fa: “È stato a lungo molto legato all’ex ministro Angelino Alfano, mentre il suo miglior amico tra i giudici è Luca Palamara”, col quale “ha condiviso molte cene a Punta Aldia, la località sul mare a sud di Olbia dove amava risiedere d’estate in una villa pagata dalla compagnia Meridiana di cui era manager”. Fatto sta che il governo di Matteo Renzi lo nomina nel 2016 a capo dell’Enav, la società pubblica che garantisce i servizi all’aviazione civile. Ci resta due anni, poi passa a Oliver Wyman e dal 2019 redige ben pagati piani industriali per Alitalia a getto continuo. Forse stavolta, contraddicendo il noto adagio, fare la stessa cosa produrrà esiti diversi. Hai visto mai?

La morte al ballo tra Poe e Čechov

In questi tempi accidentati si è richiamata talvolta la peste di Atene (Tucidide) o quelle di Firenze (Boccaccio) e di Milano (Manzoni). Grande letteratura, che pesca fatti e riflessioni da grandi eventi storici. Ma merita ricordare anche la narrativa d’invenzione, che volentieri ha fatto ricorso a epidemie e contagi immaginari come potenti metafore della condizione umana.

Due soli esempi, entrambi ottocenteschi: Edgar Allan Poe e Anton ČCˇechov. In un racconto famoso, The Masque of the Red Death (1842), Poe immagina che, durante una terribile pestilenza (la Morte Rossa, appunto) un aristocratico “felice e intrepido e sagace”, il principe Prospero, convochi mille dame e cavalieri barricandosi con loro in una vasta abbazia fortificata, cinta da altissime mura con invalicabili porte di ferro, che vengono ulteriormente sigillate dopo aver ammassato enormi provviste. “Con tali precauzioni potevano sfidare il contagio, il mondo esterno se la cavasse come poteva. Per il momento, sarebbe stato follia per loro preoccuparsi o fermarsi a pensare”. Musici, danzatori, teatranti sono all’opera per distrarre l’allegra compagnia: “Lì dentro la sicurezza, fuori la Morte Rossa”. Qualche mese dopo, il principe organizza un sontuoso ballo in maschera, ma ogni ora, anche in mezzo alle danze più sfrenate, risuona implacabile il tocco delle ore di un gigantesco orologio a pendolo, “un clangore sordo, greve, monotono”. La musica si ferma, i danzatori si arrestano sconcertati, impallidiscono, si abbandonano per pochi istanti a “una confusa fantasticheria o meditazione”. Ma riprendono frenetiche le danze, anche se dopo un’ora risuona ancora l’orologio, e tornano “lo stesso sconcerto e il tremore e le assorte fantasticherie di prima”. A ogni ora i sogni dei danzatori “s’arrestano immoti, raggelati”, ma subito riprendono spensierati, rivivono più scatenati che mai, e sul pensiero del contagio non si fermano mai. Non a mezzanotte, però: qui la lenta cadenza dei dodici rintocchi provoca una pausa più lunga, e tutti s’accorgono che fra loro si è insinuato (entrando non si sa da dove) un intruso, con sul volto una maschera cadaverica e indosso un sudario macchiato di sangue. Tutti esprimono “disapprovazione e sorpresa, e poi terrore, orrore, disgusto”, finché il principe condanna l’estraneo che ha osato guastargli la festa all’impiccagione, da eseguirsi all’alba, e lo insegue per le sale del palazzo. Lo ha quasi raggiunto, quando l’intruso si volta bruscamente a guardarlo, e il principe cade a terra sull’istante, prostrato nella morte. Lo sconosciuto null’altro è che il Contagio della Morte Rossa, “venuto come un ladro nella notte”. Uno dopo l’altro “gli ospiti festosi cadono morendo nelle sale insanguinate della loro festa”. Negare l’avanzata del male non è servito a molto.

Il raccontino di ČCˇechov è molto meno famoso, e fa parte di una raccolta di preziosi scritti giovanili che solo da poco è stata tradotta per la prima volta in italiano (Umoresche, a cura di Carla Muschio e con prefazione di Andrea Camilleri, Edizioni Barta). Lo scrittore immagina un incartamento burocratico (che cosa di più cechoviano?) compilato nel 1885 (l’anno stesso in cui il testo fu scritto). In una scuola di villaggio, prima due bambini, poi molti altri “sono affetti da febbre e mal di gola con petecchie in tutto il corpo”, e i responsabili lo segnalano alle autorità sanitarie (19 novembre). Ci vuole un mese prima che la direzione sanitaria scriva al commissario di polizia chiedendo la chiusura della scuola “finché non sarà debellata l’epidemia di scarlattina”. Passa un altro mese prima che il commissario muova un dito; ma non fa che rilanciare la palla al direttore della scuola, chiedendogli di mandare a casa gli scolari “per prevenire e fermare il diffondersi del contagio”. Dopo un altro mese il direttore sanitario dichiara che l’epidemia è finita, la scuola va riaperta (ma non era stata mai chiusa), e comunque lui è troppo impegnato per potersi occupare di tali “elucubrazioni burocratiche”. Parte così tutto un carteggio di accuse reciproche fra polizia e direttore sanitario, ma anche il sospetto che in fondo è tutta colpa del maestro che ha segnalato l’epidemia, sarebbe stato meglio non parlarne per evitare ogni fastidio. A fine febbraio l’ispettore scolastico ordina finalmente la chiusura della scuola “onde evitare l’ulteriore diffondersi dell’epidemia”. Dopo altri 28 (ventotto) scambi di lettere fra burocrati scialbi e distratti, il dossier si conclude con una notizia di giornale di qualche mese dopo: “Ma non parliamo più di questa eccessiva mortalità infantile, e passiamo a cose più allegre e piacevoli”, cioè alla cronaca mondana delle fastose nozze della figlia di un industriale della carta con un ricco borghese. “Che piacere essere il padrone di una cartiera!”, conclude ČCˇechov. L’epidemia innesca un diluvio di carte, tutto un palleggiarsi le responsabilità sbandierando norme e priorità burocratiche. I bambini, intanto, muoiono.

Resistiamo alla tentazione di cercare puntuali analogie con la situazione pandemica che stiamo vivendo. Il principe Prospero non è un presidente di Regione, la sua abbazia non è una discoteca, funzionari e medici della Russia di ČCˇechov non sono uguali ai loro corrispettivi italiani d’oggi. Eppure una piccola lezione da questi due testi potremmo trarla. Primo: barricarsi in una realtà blindata scordandosi del contagio che avanza è illusorio, non impedisce di esser preda del morbo. Secondo: ci sono i diritti e ci sono le norme, ci sono gli uffici e ci sono le gerarchie, ma di fronte a un’epidemia si richiedono azioni immediate per arginare il contagio, le contese sui conflitti di competenza sono assai meno importanti. Da marzo a ieri, l’Italia si è sostanzialmente attenuta a questo elementare buon senso, sarebbe sciocco e autolesionistico cambiare registro proprio ora che il contagio sta (ri)guadagnando terreno.