Mail box

 

Non dimentichiamo le vittime dei terremoti

Gentile redazione, sono passati ormai anni dal terremoto dell’Irpinia, di L’Aquila, di Amatrice, dell’Umbria e delle Marche. Subito dopo i terremoti le visite delle alte cariche dello Stato si sono sprecate, insieme alle lunghe dirette televisive. Così come le infinite promesse fatte sul celere riaggancio alla normalità. Ma di lì a poco, tutto cade nel dimenticatoio. Intanto la gente continua a sopravvivere nella disperazione più assoluta. In televisione, non si sente mai spendere una parola a favore delle zone terremotate. Non si sente mai parlare di abolire la snervante e ed esasperante burocrazia per dare il via libera all’inizio immediato della ricostruzione. Addirittura si assumono istruttori, ingegneri, architetti e geometri, a tempo determinato a basso costo, i quali scappano via appena trovano chi li retribuisce maggiormente. Possibile che anche dopo le continue catastrofi dovute a terremoti devastanti si facciano sempre gli stessi errori?

Ines e Antonio Di Gregorio

 

La scuola deve restare tale e non diventare “caserma”

Sembra che la riapertura della scuola a settembre sia vincolata dal distanziamento di banchi di legno. I tg nazionali, nei servizi dedicati, indugiano sempre su banchi e banchi soltanto. Ho la netta impressione che sia follia collettiva. I banchi resteranno anche immobili e ancorati al pavimento, ma i ragazzi no; non li puoi tenere a un metro di distanza. Quando suona la campanella, per fare un esempio, gli studenti si alzano ed escono tutti insieme e in tutte le classi. A meno che non si trasformi la Scuola in una caserma, dove gli studenti marciano come militari addestrati, tutti in fila a distanza di un metro.

Stefano Masino

 

Nei talk politici si battono le mani senza raziocinio

Egregio Direttore Padellaro, neanche io so cosa ne pensino Corrado Formigli, Giovanni Floris, Myrta Merlino, Bianca Berlinguer e tutti gli altri conduttori che si apprestano a ricominciare la stagione televisiva, ma sarebbe il regalo più gradito a un orecchio attento e a qualche intelligenza che volesse seguire dei discorsi tra politici altrettanto intelligenti – senza essere continuamente disturbati dal fragor di mani – se finalmente sparisse l’abitudine di applaudire, come dice lei, tutto e il contrario di tutto.

Giuseppe Mazzei

 

DIRITTO DI REPLICA

Ho letto a pag 11 del Fatto Quotidiano di martedì 25 agosto nell’articolo “Santanchè-La Russa, il reale punto debole di Giorgia Meloni”, l’opinione dell’informatissimo Scanzi sulla classe dirigente che affianca Giorgia Meloni in Fratelli d’Italia. Nel titolo, accanto alla Santanchè, che non ha certo bisogno della mia difesa (per lei parla la stima che le riserva il presidente di Fdi) figura il mio nome senza che poi, nell’articolo vi sia nulla o quasi che mi riguardi. In ogni caso, sono sincero, le opinioni di Scanzi mi lasciano (per usare termini gentili) del tutto indifferente. Ma l’informatissimo giornalista a sostegno del suo “pensiero” su di me, cita un solo dato concreto e cioè che sarei un volto “che la Meloni deve diuturnamente mandare in Tv”. Il “fatto” è invece che io in Tv, in gran parte per mia scelta come è facilmente riscontrabile, ci vado col contagocce e non sempre volentieri. Forse meno di tre apparizioni al mese e quasi tutte a La 7, la cui sede è vicina a casa mia. Scanzi non sa che una volta, molto tempo fa, a cena con Tatarella e Marco Pannella, indimenticato leader radicale, che si lamentava per l’asserito scarso numero di inviti in Tv, risposi che a me sembrava invece che di inviti e presenze in Tv ne avesse tantissimi. “No, caro Ignazio – mi rispose piccato Pannella – tu credi di vedermi spesso, ma questo è solo perché ti resta impresso quello che dico nelle mie ridotte apparizioni televisive”. Certo, io non mi paragono a Pannella ma Scanzi sappia che, parlando di mie “diuturne presenze televisive” o ha mentito per inaccettabile preconcetto oppure, come diceva Pannella, perché non dimentica le poche occasioni in cui mi vede. Scelga lui.

Ignazio La Russa

Eccellentissimo Camerata Ignazio, non si adombri: l’ho citata, benché fugacemente, solo per donare un po’ di luce al suo crepuscolo. Era un gesto d’affetto. Ha comunque ragione: le sue bischerate sono così enormi che, in effetti, poi fatico a dimenticarle: mi restano impresse, un po’ come l’impepata di cozze rancida. Mi permetta poi di ricordarle che, per uno come lei, tre volte al mese in tivù non sono poche ma tante. Anzi tantissime: una vera e propria occupazione neuronalmente abusiva di suolo catodico. Grazie per il cortese scambio: adoro discorrere del nulla. Mi saluti la buonanima di Farinacci, e sempre care cose. Eia eia alalá!

Andrea Scanzi

 

I NOSTRI ERRORI

Sull’edizione di ieri 26 agosto del Fatto Quotidiano, a pag. 12 abbiamo invertito nome e cognome della dottoressa dermatologa Pucci Romano autrice del corsivo “Sotto la maschera niente più trucchi: addio dittatura della bellezza”. Ce ne scusiamo con l’interessata e con i lettori.

FQ

Messi e il Barça. Un eventuale divorzio spiazza più noi di Leo

Gentile redazione, sono un po’ stupito dal clamore suscitato da Messi e dal possibile addio al Barcellona. Se ne parla ovunque e tutti hanno un’opinione. Così ho pensato: forse non è solo una questione di bravura, ma c’è una componente “bandiera” e “romanticismo” che appartiene al calcio.

Giacomo Parietti

Gentile Giacomo, Leo Messi ha 33 anni e arrivò a Barcellona nel 2000, quando ne aveva 13. Argentino di Rosario, culla di Ernesto Che Guevara e di Marcelo Bielsa detto “el loco”, il pazzo, era afflitto da problemi ormonali per le cui cure, carissime, si fece avanti proprio il Barça, nella persona di Charly Rexach, attaccante del passato. Il contratto con papà Jorge, conservato gelosamente in una banca di Andorra, venne firmato su un tovagliolo di carta. Da allora, solo Barcellona, 704 gol e un ventennio di trionfi come certificano i 34 trofei, fra i quali 10 campionati e 4 Champions con il “carico” di 6 Palloni d’oro. Una storia perfetta, splendidamente bilanciata tra romanticismo, fedeltà a un’unica maglia e soldi a palate. Il massimo del genio, il massimo per un genio. Poi è successo che la favola ha trovato i suoi orchi in un rapporto sempre più acceso e conflittuale: da una parte, il presidente Josep Maria Bartomeu e la sua cricca, dall’altra Leo e i suoi pensieri, cattivi quando non negativi: la nostalgia per le stagioni di Pep Guardiola, i cazzotti di Roma e Liverpool, l’umiliante 8-2 del Bayern. Lo spogliatoio diventato polveriera, la volontà di ribellarsi a quella carenza di leadership che, nei paragoni con Diego Maradona, spesso gli rinfacciavamo. Fino all’annuncio di voler lasciare la seconda casa, la seconda patria. In un vortice di clausole liberatorie e vessatorie, di amici tremanti e nemici tramanti, il mondo attonito ed eccitato. Non è il Barcellona che lo vuole cedere: ci mancherebbe pure. È Messi che ha deciso. A meno che non sia una mossa per sparigliare il mazzo e cacciare l’attuale dirigenza. Cristiano mollò il Real per la Juventus alla stessa età, 33 anni. Ma Cristiano aveva scelto di essere pennone e non bandiera, da Lisbona emigrò a Manchester, quindi a Madrid e infine a Torino. Messi e Barcellona sembravano fatti l’uno per l’altra. Un eventuale divorzio, come sottolinea il lettore, spiazzerà più noi che lui.

Roberto Beccantini

Milano, l’abbandono di Sala non vuol dire vittoria certa del Pd

Ci vuole un bambino o un incosciente o uno spirito libero per gridare: “Il re è nudo!”. In questo caso il grido è stato: “Sala è nudo!”, nel senso che non si vuole ricandidare come sindaco di Milano e sta cercando da tempo una via d’uscita. Vuole trovare un’alternativa e, dopo aver fatto per cinque anni il lavoro più faticoso e meno pagato di tutta la sua carriera, cambiar vita. L’abbiamo scritto sul Fatto Quotidiano il 18 agosto. Ci aspettavamo secche smentite. Invece soltanto un senatore milanese del Pd, evidentemente poco informato, ha reagito scrivendo che l’articolo del Fatto era “vergognoso” e “offensivo” e che attribuiva a Giuseppe Sala “losche trame”. L’articolo, in verità, si limitava a indicare il sogno di Sala: lasciare Palazzo Marino per andare a guidare la nuova società pubblica che potrebbe nascere da Tim e Cassa Depositi e Prestiti per controllare e sviluppare la rete di telefonia italiana, separandosi dalla società che gestisce il servizio telefonico. È il progetto che piace tanto anche a Beppe Grillo, che Sala è andato a incontrare il 10 agosto, nella sua casa al mare di Marina di Bibbona. Mentre il senatore indignato smentiva, Sala, in una entusiastica intervista che Repubblica gli cuciva addosso come un vestito su misura, il 20 agosto confermava il suo interesse per le strategie delle telecomunicazioni italiane e ammetteva di averne parlato con Grillo, negando soltanto – e ci mancherebbe – di essere andato da lui a chiedergli un posto: “Ci confrontiamo a tutto campo sui temi dell’ambiente, delle reti, dello sviluppo digitale, che m’interessano molto. Oggi più che mai servono infrastrutture e servizi che portino a una vera evoluzione nell’istruzione, nella telemedicina, nella sicurezza. Il digitale non può e non deve essere solo e-commerce e social media!”.

“Sala è nudo!”: nessuno, attorno a lui (a parte il senatore disinformato), si è stupito che un giornale raccontasse la sua voglia di cambiare mestiere. Nei palazzi della politica la cosa era nota, benché indicibile. Ora tutti si predispongono ad aspettare le sue decisioni. Sceglierà in base alle alternative che si presenteranno, alle strade che troverà praticabili. Quella di manager della nuova Tim delle reti è la prospettiva più allettante, ma anche la più complicata e difficile da realizzare. Due giorni dopo l’articolo del Fatto, l’amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi, si è precipitato a dichiarare che Tim non ha alcuna intenzione di privarsi della rete (senza la quale è una società finita). In attesa che la politica trovi la soluzione per il sistema delle telecomunicazioni italiane, Sala resta interessato a fare, perché no, il ministro, in un eventuale rimpasto di governo. Ambisce a un ruolo di leader politico nazionale, anche se non sa se fare il Luca Zaia dem (alla guida del Pd del Nord) o il Carlo Calenda green (con già una piccola truppa, il parlamentare europeo Massimiliano Smeriglio, l’ex cinquestelle Lorenzo Fioramonti, l’ex LeU Rossella Muroni).

Intanto gongolano i giovani dem milanesi, convinti che sia ora di restituire Palazzo Marino al partito, dopo i papi stranieri Pisapia e Sala. I due Pier, Pierfrancesco Majorino e Pierfrancesco Maran, si stanno preparando da tempo alla disfida dei quarantenni per conquistare la poltrona di sindaco. Dovrebbero essere più cauti e ascoltare i molti che, attorno a loro, sono invece preoccupati e tremano per le inquietudini esistenziali e le irrequietezze politiche di Sala, perché vedono che il ciclo positivo per la sinistra iniziato con Giuliano Pisapia è ormai esaurito, come esaurita è la narrazione trionfale della Milano di Expo. E dunque fanno una previsione cupa ma realistica: il prossimo sindaco potrebbe essere non del Pd, ma del centrodestra.

 

Los Liberistas, ovvero: come piangere sempre e ottenere soldi (dallo Stato)

L’estate sta finendo eccetera eccetera, potete cantare la canzoncina famosa senza remore, perché quel che ci aspetta è un autunno infinito, invece, e l’inverno chissà, speriamo bene. Quel che si sa, non c’è bisogno di essere un indovino, è che si assisterà al solito derby cattivo e senza esclusione di colpi tra le due compagini più rappresentative della scena politica: Los Liberistas contro lo Stato. Chi segue le cronache politiche sa di cosa si parla: da un lato un pianto continuo e inesausto per dire che i tanti soldi in arrivo dovrebbero andare a loro, industriali e imprese, che cercano finanziamenti pubblici per “il libero mercato” (ahah), e dall’altro un sistema di welfare e assistenza che consenta a tutti i cittadini – anche a quelli espulsi dal sistema produttivo – di campare la famiglia. Colpi bassi, trucchi dialettici da seconda media, sgambetti e paradossi: la solita solfa che diventa addirittura ridicola quando si svolge sui social a colpi di tweet o di post su Facebook. La narrazione aggressiva di Los Liberistas è nota: le tasse sono un furto (qualcuno lo mette nella bio del profilo), e vanno a finire tutte a quei “maledetti statali” che naturalmente “non fanno niente tutto il giorno” e hanno la terribile colpa, in subordine, di prendere lo stipendio anche quando c’è il Covid. Al contrario dei poveri Los Liberistas che sono costretti a mettere i dipendenti in cassa integrazione (cioè a far pagare gli stipendi a noi tutti), e almeno in un terzo dei casi fare i furbetti (2,7 miliardi fregati, sempre a noi).

Va detto che non tutti Los Liberistas sono uguali: ci sono gli estremisti e i moderati, ma il pensiero di fondo è sempre quello: meno Stato e più mercato, salvo poi presentarsi dallo Stato con il cappello in mano quando il mercato non va come vorrebbero. Dannazione. Così le cronache economiche diventano un rosario di lamenti e contumelie: ecco le scuole private addolorate dal fatto che dai rubinetti pubblici non sgorghino più finanziamenti come un tempo. Oppure ecco gli operatori della sanità privata (ma sì, angeli, eroi, salvatori, ecc. ecc) che lavorano con un contratto scaduto da dodici anni: arriveranno gli aumenti, sì, ma coperti al 50 per cento da fondi regionali, cioè pubblici, cioè sempre noi. Naturalmente se si parlasse di devolvere il 50 per cento dei profitti allo Stato si griderebbe ai Soviet, ma si sa com’è, nel rapporto tra pubblico e privato Los Liberistas intendono il flusso soltanto in entrata. Intanto, i numeri sull’evasione fiscale (120 miliardi, stima assai prudenziale) fanno tremare i polsi.

Il derby ha fasi di stanca e momenti di gioco brillante, per esempio quando gli economisti in forza a Los Liberistas (quasi tutti) si scagliano contro provvedimenti di welfare e sostegno ai cittadini più poveri. Apriti cielo: no al salario minimo, no al reddito di cittadinanza (“li pagano per stare sul divano”), no ai blocchi dei licenziamenti, per arrivare sempre lì, alla conclusione che se tu lasci fare al mercato tutto si sistemerà per il meglio. Si è visto, infatti.

Siamo solo al precampionato, la partita vera comincerà in autunno, cioè tra pochi minuti, quando dieci milioni di lavoratori del settore privato faranno gentilmente notare che i loro contratti sono scaduti. È probabile che si incazzeranno un bel po’, e Los Liberistas dovranno sfoderare tutta la loro capacità produttiva per realizzare la loro più grande opera: costruire un enorme cappello e presentarsi, con quello in mano, al cospetto dell’odiato Stato, quel cattivone.

 

Briatore e i nuovi mostri della vita Smeralda

La linea è negare, negare sempre, se necessario fino all’estremo sacrifizio. Sembra che abbiano firmato un patto col sangue: “Se dovesse prendere a me, dite che ho la prostatite”.

Non si capisce cosa intendesse Daniela Santanchè, senatrice della Repubblica, l’altra sera a In Onda, con quel suo modo di dire e non dire, di fatto negando la diagnosi di Covid e attribuendo “autorizzata” il ricovero dell’amico e socio Briatore a problemi di prostata: tenere il punto sulla inoffensività del virus; professare la maschia immunità di Briatore, tenutario di un locale focolaio; dare a intendere che “il sistema” si è inventato la positività di Briatore al virus che Briatore nega esistere e nuocere, peraltro in illustrissima compagnia, al chiaro scopo di smontarne le verità virologiche (o, peggio, gliel’hanno inoculato di nascosto, come da denuncia di coraggiosi inchiestisti di Twitter).

Qualunque sia la risposta tra queste sopra (altre non ne vengono in mente, e in generale il logos recede), si deve registrare che la linea è cambiata. Prima del ricovero di Briatore, tutta la compagnia di giro dei minimizzatori derivava la sua superiore competenza dall’aver parlato coi medici, mica come noi che ci siamo affidati ai cartomanti; medici in prima linea, di quel tipo liberale, scanzonato, col pullover sulle spalle, ansiosi non solo di tornare, ma di far tornare gli italiani in discoteca e sugli yacht ormeggiati al largo di Porto Cervo. “Inizio ad avere le palle piene, bisogna dire la verità agli italiani!”, sbottò il Prof. Zangrillo, Anestesista Rianimatore del San Raffaele (dove è ricoverato Briatore), aprendo le gabbie dentro cui ci tenevano Conte e Speranza: “Uscite, riprendete a vivere, andate al ristorante, in banca. Continuate a vivere più di prima!”. La pandemia, coi contagi pedissequamente in ripresa, si conferma un grande bluff architettato dai governanti al fine di ridurre i cittadini alla docilità e instaurare la dittatura. I camion militari che portavano via le bare da Bergamo erano chiaramente guidati da comparse pagate per terrorizzarci. Forse la scena l’hanno girata nello stesso studio della Nasa dove hanno finto la discesa sulla Luna.

L’uscita della Santanchè, al termine di una giornata di bollettini medici sull’amico colpito dal virus che non esiste, ha fatto fare un salto logico alla negazione del principio di realtà. Con quella rivelazione sibillina (“Questo lo dice lei, io non so niente del tampone”), e con lo stesso candore con cui sosteneva che una prostituta minorenne marocchina fosse la nipote di un presidente egiziano, ci ha fatto venire i brividi. Pareva un episodio de I nuovi mostri. Negare il virus oltre l’evidenza microbiologica (tamponi truccati, già infetti?). Ne siamo affascinati al limite dell’ipnosi. Il punto non è più solo salvare i propri affari, posto che se fai il localaro e il discotecaro non hai meno responsabilità di chi possiede una fabbrica e non puoi esporre migliaia di persone a un carnaio Covid ogni sera per contribuire alla (tua) crescita; il punto è: la morte del buon senso. La cosa più sensata da dire, essendo per di più personaggi pubblici (e cioè: questo è un virus strano che nella maggior parte dei casi non fa danni, ma in altri può portare a guai seri o alla morte, e coi grandi numeri causa la saturazione degli ospedali e il collasso del sistema sanitario, motivo per cui bisogna limitare i contagi), sfugge ai loro apparati fonetici. Non si ricredono nemmeno se il virus lo prendono loro, in un contrappasso didascalico alla vita Smeralda; e sfangandola, come auguriamo a chiunque, la prima cosa che dicono non è “scusate, ho detto un sacco di pericolose scemenze”, ma “visto? Che vi dicevo? È un raffreddore”, come Bolsonaro. Briatore dal nosocomio fa una telefonata irridente al Corriere in cui non nega e non conferma ma gigioneggia, e in effetti sarebbero fatti suoi se non fosse che quello dei contagi è un problema pubblico, specie per uno che ha reclamizzato per mesi le sue frequentazioni promiscue e possiede un’impresa che al momento conta 60 dipendenti contagiati, di cui uno grave.

Per gli intellettuali d’area Casa delle Libertà i droplet emessi sono un indice di libertà. Del resto vengono invitati appositamente per dire la cosa più illogica e meno di buon senso possibile (tipo: “Il virus lo portano i clandestini”, il 3% di positivi sul totale degli sbarcati, e non a Porto Cervo). Forse pensano davvero che sia in corso un complotto planetario ordito dai poteri forti, versione light dei QAnon americani, convinti che la setta di pedofili cannibali che governa il mondo abbia diffuso il Sars-CoV-2 al fine di microchippare l’umanità attraverso i vaccini. Ma forse è peggio di così: credere a una cospirazione vorrebbe dire credere a qualcosa; invece al netto della fede per il capitale, che come spiegò qualcuno è il trionfo del nichilismo, questi non credono a niente.

 

Gene Gnocchi, il maiale di Giorgia Meloni e la satira continente

Nell’intervista rilasciata a Panorama per pubblicizzare il suo passaggio da La7 al programma di Porro su Rete 4, Gene Gnocchi (uno di quegli artisti di sinistra che non disdegnano di lavorare sulle reti del Biscione, nonostante numerosi processi abbiano mostrato in che modo Berlusconi creò il suo impero mediatico, con Dell’Utri che faceva da cerniera fra la mafia e il gruppo Berlusconi; Previti che corrompeva giudici con soldi Fininvest; il sistema off shore All Iberian; la P2: fesso chi si fa degli scrupoli, in Italia, ma il valore di una scelta sarà sempre dato dalle nefandezze che esclude), Gnocchi, dicevo, nell’ennesima intervista commenta le polemiche di due anni fa alla sua battuta sul maiale della Meloni: “La battuta fu strumentalizzata: non ho mai detto che la Petacci era un maiale, e se nella foto della Meloni ci fosse stato un colibrì avrei fatto la stessa battuta”. “Se permette, signor Presidente” interviene con un teatrale sventagliare di maniche un giovane pubblico ministero immaginario, impaziente di offrirsi un piccolo successo oratorio, “vorrei far osservare che la battuta recitata da Gnocchi a DiMartedì (La7) fu questa: ‘C’è una cosa importantissima che riguarda la Meloni. La Meloni continua a pubblicare foto e video di questo maiale in giro per Roma. Deve essere il suo maiale che le è scappato. Diamole una mano a ritrovare il maiale. È un maiale femmina, si chiama Claretta Petacci. È molto vispa, potrebbe essere candidata in un collegio del nord.’ Le reazioni non si fecero attendere. Ci fu chi chiese l’allontanamento di Gnocchi dalla trasmissione, chi lo insultò, chi lo minacciò di “calci nel sedere e schiaffi futuristi” (Forza Nuova). Sulla cancellata di casa sua, Forza Nuova affisse pure uno striscione con la scritta ‘Vigliacco’. Intimidazioni inaccettabili, che impongono ogni solidarietà al comico. La circostanza che suscita il mio interesse sono le sue spiegazioni. Gnocchi disse anche: ‘È lontanissima da me l’idea di dileggiare Claretta Petacci.’ L’ammissione della buona fede è certo lodevole e utile; se le intenzioni funzionassero sempre a puntino, però, non esisterebbero le gaffe. Tutti sbagliamo, nonostante le intenzioni. E la querela di Gene Gnocchi da parte di un parente di Claretta Petacci non è irragionevole. La satira, legalmente, ha un limite: la continenza; ovvero, deve comunicare un ‘dissenso, ragionato, dall’opinione o comportamento preso di mira, senza assumere il senso di un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato.’ Se non c’è un collegamento logico tra giudizio satirico e fatto, si sconfina nell’illecito dell’aggressione gratuita: dare della scrofa alla Petacci secondo noi lo è. A maggior ragione se, come tutti i difensori mediatici si sono precipitati a sottolineare, il bersaglio della battuta era la Meloni; e se, come ha detto Gnocchi, ‘mi è venuto in mente il nome della Petacci, ma poteva essere qualunque altro nome’. A riprova dell’illecito potrebbe esserci anche il fatto che, qualora nella foto della Meloni ci fosse stato un colibrì, la battuta non sarebbe stata affatto ‘la stessa’, come vorrebbe Gnocchi (‘Deve essere il suo colibrì che le è scappato. Diamole una mano a ritrovare il colibrì. È un colibrì femmina, si chiama Claretta Petacci.’). Anche per questo è importante che il processo non si faccia sui media, ma nella sede adeguata, questo tribunale”. Non spetta dunque a noi giudicare, e in assenza di un processo non sapremo mai chi aveva ragione. Scialla.

 

Ma per fortuna il nostro “spirito del tempo” evita di assembrarsi

Non sembri assurdo, ma se fossi stato in confidenza con Flavio Briatore (che malgrado le apparenze deve essere persona tutt’altro che stupida), prima dei noti fatti gli avrei inviato una email con questa breve citazione: “È ciò che è fatto e sofferto in casa, nella costituzione, nel temperamento, nella storia personale, ad avere il più profondo interesse per noi”. Lo ha lasciato scritto due secoli fa un filosofo statunitense che si chiamava Ralph Waldo Emerson, a me ignoto (come penso pure a Briatore) finché non sono andato su Wikipedia alla voce “Spirito dei tempi”, o Zeitgeist. Cercavo di comprendere meglio perché la cosiddetta gente normale, quella che frequentiamo, che ci circonda, che incrociamo per strada adotta disciplinatamente, nella stragrande maggioranza dei casi, tutte quelle cautele (dalla mascherina ai disinfettanti per le mani, al distanziamento) che possano agire da profilassi contro il contagio da Covid. Lo fanno perché glielo ordina il governo? O perché è sensato farlo?

Lo spirito dei tempi (che si sposa al comune buon senso) evita nella stragrande maggioranza dei casi di assembrarsi al Billionaire o in altri luoghi simili, per difendere la propria salute e quella dei propri cari, giustamente considerata il bene prevalente. Non lo fanno perché vittime di leggi talebane, come sostiene l’onorevole Santanchè cui forse farebbe bene vivere ogni tanto lontano dal Twiga, nel mondo reale.

Su un altro versante, non lontano dal Briatore pensiero, si agita la destra-destra (da Salvini a Meloni) che accusa incessantemente Giuseppe Conte di avere imprigionato l’Italia nella quarantena, e nella esagerata paura del virus, per pura sete di potere personale che egli alimenterebbe attraverso l’uso dei pieni poteri liberticidi. Qui non occorre richiamare lo spirito dei tempi ma il comune senso del ridicolo. Poiché l’immagine del premier che l’11 marzo scorso, con il favore delle tenebre, complotta contro il Paese chiudendolo a doppia mandata è una evidente offesa dell’intelligenza altrui (oltre che della propria, ma il divieto di stupidità non è obbligatorio). Davvero qualcuno, che non sia completamente accecato dall’odio del partito preso, può pensare che nelle case degli italiani ci si arrovelli sui limiti costituzionali dei famosi Dpcm (perfettamente legittimi e condivisi dal Quirinale)?

Davvero si pensa che gli elettori abbiano l’anello al naso? Semmai lo spirito del tempo pone a chi ci governa altre domande: su come convivere col virus, sulla riapertura delle scuole, su come l’economia potrà risollevarsi, su ciò che ci attende in autunno. Questo è “il profondo interesse per noi”. Perché, direbbe Emerson, lo spirito del tempo non si forma nelle aule parlamentari o in quelle giudiziarie. E neppure, aggiungiamo noi, negli studi televisivi. E tantomeno al Billionaire.

Merlo, l’incoscienza del giornalismo

“Briatore merita la carezza che si dà agli incalliti incoscienti”, scrive Francesco Merlo su Repubblica. E lo fa con la dolcezza con cui il Colombo di De André abortiva l’America, rivolgendosi a un “inguaribile impunito”, una “testaccia dura” che in fondo non ha tutte le colpe di quanto accaduto. “Si deve infatti al governo italiano e non a Briatore questo pasticcio sul ballo”. Perché “nemmeno a Ibiza le discoteche sono state riaperte” e lì, certamente, Briatore non avrebbe potuto esibirsi nel suo “vecchio e stanco copione”. Ci riesce invece Merlo a esibirsi nel solito copione, già in uso prima che la direzione di Repubblica finisse nelle mani di Maurizio Molinari, ieri ospite d’onore della scuola politica di Matteo Renzi. Il solito copione è chiaro: dàgli al governo sempre e comunque, anche quando non c’entra. Eppure, già a luglio il governo prevedeva la proroga dei divieti per fiere, convegni e discoteche fino al 31 luglio. Divieto ribadito per tutto il mese di agosto con l’allarme personale di Giuseppe Conte il 5 agosto, poi quello di Speranza. Invece il 3 agosto: “In Sardegna restano consentite le

serate in discoteca o in altri locali notturni all’aperto, rispettando le misure anti-Covid come il divieto di assembramento e l’obbligo di distanziamento interpersonale di almeno un metro (due se si accede sulla pista da ballo). Chi lo decise? Christian Solinas, presidente sardo, con un’ordinanza firmata a tarda sera (Ansa del 3 agosto 2020). Il governo? Non c’entra nulla. Gli incalliti incoscienti del giornalismo, però, un po’ c’entrano.

Migranti, governo contro Musumeci: “Solo propaganda”

Èsempre più duro lo scontro tra il governo e il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, dopo che quest’ultimo, tre giorni fa, ha pubblicato un’ordinanza secondo la quale, a causa dell’emergenza sanitaria, “tutti i migranti negli hotspot e in ogni centro di accoglienza devono essere improrogabilmente trasferiti e ricollocati in altre strutture fuori della Regione siciliana”. Ieri l’esecutivo ha impugnato l’ordinanza di Musumeci davanti al Tar di Palermo, sostenendo che la gestione del fenomeno migratorio è di competenza dello Stato e non delle Regioni. Per il ministro del Sud, Giuseppe Provenzano, l’iniziativa del governatore è “priva di ogni fondamento giuridico” e “temo che sia soltanto il manifesto di propaganda e polemica politica”. Il governatore ha già annunciato battaglia legale davanti ai giudici amministrativi attirandosi il favore della Lega. Intanto il ministero dell’Interno ha fatto sapere che è in corso di predisposizione un nuovo bando per reperire altre navi-quarantena per ospitare persone che sbarcano in Italia, alleggerendo così il carico delle strutture a terra. Nel corso dell’estate, i migranti trasferiti dalla Sicilia in altre regioni sono stati oltre 4.000 in tutto. Il Viminale ha annunciato che tra oggi e domani circa 850 richiedenti asilo saranno trasferiti da Lampedusa alle navi quarantena Azzurra e Aurelia. Quest’ultima, grazie al miglioramento delle condizioni del mare, è riuscita ad attraccare ieri sull’isola. A bordo sono stati imbarcati prima 60 migranti positivi al Coronavirus, che erano in isolamento e sotto sorveglianza sanitaria in un padiglione del centro di primissima accoglienza, poi altri 213 ospitati nell’hotspot di contrada Imbricola, dove ci sono ancora circa 850 persone.

Proporzionale e referendum: Zinga assediato dal fuoco amico

Assediato. Anzi peggio: sotto tiro di fuoco amico, si fa per dire. Nella lunga estate calda di Nicola Zingaretti si agitano i fantasmi della fronda interna. “È in corso un’offensiva che ha come obiettivo chiaro la leadership del partito” sbottano nella cerchia del segretario Pd. Dove ormai è ben chiaro che il tentativo di farlo sbilanciare sul referendum di settembre sul taglio dei parlamentari serva a minare i suoi rapporti con i 5 Stelle. Proprio mentre è in corso la trattativa con gli alleati per portare a casa una nuova legge elettorale. Che all’avvio del governo giallorosa, un anno fa, il Pd aveva individuato come correttivo necessario al deficit di rappresentanza che si determinerà con la sforbiciata dei seggi tanto cara al Movimento.

“Vogliono che rotoli la sua testa, altro che” sussurrano al Nazareno dove c’è chi teme che alla Camera la faccenda della legge elettorale torni a impantanarsi dopo l’altolà opposto da Matteo Renzi prima dell’estate. Resta moderatamente ottimista Emanuele Fiano, relatore per i dem del progetto di riforma in commissione Affari costituzionali: “Stando alle ultime dichiarazioni di Italia Viva si è riaperto uno spiraglio di dialogo: se fosse così già prossima settimana potremmo adottare il testo base in commissione e a quel punto è realistico pensare che si approvi la nuova legge elettorale prima del 20 settembre, sebbene solo alla Camera”. Fiano ci spera e a maggior ragione Zingaretti, anche se Roberto Calderoli della Lega lo gela. “Il povero Zingaretti lo sa che in aula alla Camera sulla materia elettorale è consentito il voto segreto? Si informi, perché indipendentemente da quello che deciderà la commissione, la legge nasce morta: in aula con il voto segreto non passerà mai”. Occasione propizia per chi, dentro il Pd, vuole cucinarsi Zingaretti. O almeno questo è il timore principale tra i suoi. L’altro è il fantasma di Renzi di cui si teme il protagonismo: al Nazareno c’è chi è convinto che il debutto alle regionali di Italia Viva non servirà a imporre all’ex segretario del Pd un bagno di umiltà. Anzi. “Conoscendo l’uomo non è escluso che comincerà a pretendere per sé un ministero di peso tanto per far dimenticare che è leader di un partito che alle urne non esiste”.