Sprofondo nero: le liste elettorali piene di fascisti

C’è il burlone che pubblica un fotomontaggio in cui abbraccia il Duce, quello che chiama “nonno” Mussolini, quello che si fa i selfie col braccio teso, quella col tatuaggio nazista sul petto. Come un album di figurine, le cronache delle ultime settimane raccontano una squadra di macchiette nere candidate nelle liste delle prossime elezioni comunali. Nei piccoli centri Salvini, Berlusconi e (soprattutto) Meloni non fanno nessuna selezione all’ingresso.

Il caso che ha trovato più spazio sui giornali è quello del candidato sindaco di Corsico (Milano), Roberto Mei. Un tipo simpatico: si è dimenticato di cancellare dal suo profilo Facebook le tracce della sua fede. Nel 2010 salutava Mussolini come uno di famiglia: “Ciao nonno!!!”, “presto lo andrò a trovare a Predappio”. Dilettava i suoi amici con lunghe citazioni del Duce, definiva il 25 aprile “lutto nazionale”. Il bello è che Mei è sostenuto dall’inedita alleanza Forza Italia-Italia Viva: è il candidato pure dei renziani. Ha provato a fare marcia indietro, a spiegare che erano sciocchezze di gioventù: “Oggi posso sinceramente definirmi un repubblicano democratico antifascista”. Poi però è venuto fuori un altro post più recente, marzo 2019, in cui faceva gli auguri per il centenario dei fasci di combattimento. Il signore ha le idee confuse, chi l’ha scelto ancora di più.

Stefano Sala è il candidato sindaco di Capriano del Colle (Brescia). Espressione di una lista civica, è appoggiato anche dalla Lega di Salvini. L’ultima festa della Liberazione l’ha celebrata così: “Ho letto che palazzo Chigi ha autorizzato i festeggiamenti per il 25 Aprile. Ritengo che la canzone adatta per il flash mob sui balconi sia: Battaglioni, non Bella ciao”. Anche perché “Bella Ciao è il canto più antisemita di tutto il regime”. In altre occasioni si è augurato una “marcia su Roma” e si è fatto un selfie mentre beveva da una tazza con l’immagine di Mussolini. La Lega tace.

Il più creativo è Fiorenzo Bonatti, candidato di Forza Italia a Mantova: si è messo al lavoro con Photoshop e ha pubblicato un delizioso fotomontaggio in cui abbraccia il Duce. D’altra parte Bonatti ha una lunga militanza nell’estrema destra, dal Msi di Almirante alla Fiamma di Rauti. Nel 2018 si era candidato con la lista “Italia agli italiani”, sostenuta da Forza Nuova (capolista al Senato, prese 2mila voti, 0,78%). All’improvviso ha scoperto le virtù liberali ed è approdato in Forza Italia. La foto con Mussolini è una “goliardata”, dice, lui è “un moderato”.

È meno sobrio il profilo di Cristian d’Adamo, infilato in una lista che sostiene Giulio Mastrobattista, il candidato sindaco di Fratelli d’Italia a Fondi (Latina). Questo intellettuale della politica pontina sul suo profilo Twitter si presenta con una bandiera della Lazio e un orgoglioso saluto romano: “LAZIALE E FASCISTA”. E per completezza: “Naziskin, negazionista, omofobo, xenofobo, antidemocratico, anticostituzionale, anticomunista e antisemita”.

A Cologno Monzese (Milano) abbiamo una doppietta. C’è l’assessora meloniana Gianfranca Tesauro che a maggio si è mostrata in pubblico con la mascherina “Boia chi molla” e poi c’è Salvatore Giuliano, candidato pure lui con FdI, che sui social metteva subito le cose in chiaro: “Prima di chiedermi l’amicizia, sappi che sono fascista e odio gli islamici”. Pure lui ha rimosso il messaggio: ovviamente è stato “strumentalizzato”. Le liste di Giorgia Meloni, per chissà quale ragione, sono le più zeppe di nostalgici. Qualcuno è pure candidato alle Regionali, come il campano Gimmi Cangiano (slogan elettorale: “Me ne frego”). A Riva del Garda (Trento), per andare sul sicuro, Fratelli d’Italia candida direttamente il leader locale di CasaPound, Matteo Negri.

All’elenco mancava una presenza femminile: a Valenza (Alessandria) era candidata in una civica di centrodestra Sabrina De Ambrogi. Si è autosospesa quando è venuta fuori una sua vecchia foto con il logo delle Ss naziste tatuato sul petto. Ad Arezzo un fascista era candidato addirittura con il centrosinistra: Flavio Sisi sul suo profilo regalava pensierini illuminati come “Dux mea lux” e “Sono fascista e fascista morirò”. Invece, da vivo e vegeto, era finito in una lista collegata al sindaco del Pd, Luciano Ralli. Se non altro è stato cacciato. Non è stato cacciato invece Gianni Brogi, pure lui autore di numerosi elogi mussoliniani sui suoi profili social. È stato scelto da Salvini – stavolta per le Regionali – per appoggiare Susanna Ceccardi in Toscana. Rimane saldamente in lista.

Amministrative, la Lega “fantasma” al Sud

Milano, 21 dicembre 2019. Matteo Salvini sale sul palco della sala dei Congressi dell’Hotel Da Vinci e gli basta una frase per mettere una pietra tombale su trent’anni di storia: “Oggi è l’inizio di un bellissimo percorso”. Pausa. “Siamo nel 2019 e il fatto che la Lega sia un movimento nazionale mi sembra ormai chiaro ed evidente”. Applausi. Quasi un anno dopo, il progetto della Lega come “partito nazionale” se non è morto, non gode di buona salute. “Possiamo dire che il progetto del partito nazionale che ha portato tanta fortuna a Matteo Salvini per il momento è stato messo in soffitta” è la sentenza di Mauro Calise, politologo all’Università Federico II di Napoli. Non è bastato mettere da parte i matrimoni con rito celtico, le ampolle, il druido, i “negher”, i cori contro i napoletani e “il celodurismo” di matrice bossiana. E neppure riuscire nell’impresa di diventare secondo partito nel centro-sud alle ultime europee (23,3%) e di vincere in regioni dove la Lega era vista come un partito di ufo, come l’Abruzzo, la Calabria e la Sicilia. Per capire se la “Lega Salvini premier” – il nuovo partito che, da statuto, ha sostituito la vecchia “Lega Nord” – abbia attecchito al centro-sud è necessario analizzare in quanti comuni il partito si presenti con una propria lista alle prossime elezioni amministrative del 20-21 settembre. E il risultato per Salvini è desolante: su 372 Comuni delle 8 Regioni del centro-sud in cui si va al voto, il simbolo del Carroccio compare solo in 36 città. Meno di uno su 10. Nel meridione la Lega è un partito fantasma.

La fuga dai comuni

Il dato più impressionante riguarda la Campania, dove su ben 85 comuni il Carroccio è riuscito a presentare il proprio simbolo solo in cinque casi: a Giugliano (Napoli), Ariano Irpino (Avellino), San Nicola la Strada (Caserta) e nelle piccole Pagani, Angri e Cava de’ Tirreni (Salerno). Non ci sarà nessuna lista invece in provincia di Benevento, feudo elettorale dell’acerrimo nemico di Salvini, Clemente Mastella. Il dato che pesa di più è la quasi totale assenza della Lega nell’area metropolitana di Napoli – patria dei Cesaro, scomunicati dal leader leghista – dove il Carroccio corre con una propria lista solo in un comune su 28 e non c’è traccia nemmeno nel Sannio e nell’Irpina. Un dato ancora più basso si registra in Calabria dove la Lega avrebbe potuto beneficiare della spinta di Jole Santelli, governatrice di Forza Italia eletta a fine gennaio. Qui su 73 Comuni che andranno al voto, il simbolo del Carroccio si trova solo in quattro sopra i 15 mila abitanti, tra cui Reggio Calabria dove Salvini punta forte su Antonio Minicuci e Antonio Manica a Crotone. Nel resto della regione, il commissario regionale Cristian Invernizzi si è accontentato di piazzare qua e là qualche candidato, ma tutti in liste civiche. In Puglia invece la Lega si presenta in 11 Comuni su 49 (22%) mentre va peggio in Abruzzo – governata da Marco Marsilio (FdI) dal febbraio 2019 – dove il Carroccio corre in soli due comuni su 62: Chieti e Avezzano (L’Aquila). Va un po’ meglio in Sicilia dove storicamente il centrodestra è più forte delle altre regioni del Meridione: qui la Lega si presenterà in 16 comuni su 61. Meno di uno su tre. Ma da via Bellerio, non sono preoccupati. Anzi, ostentano soddisfazione: “È la prima volta che corriamo veramente e non mi sembra un fallimento avere un nostro candidato (ma senza simbolo, ndr) in un Comune su tre – spiega al Fatto il responsabile Enti locali della Lega, Stefano Locatelli – al centro-sud partivamo quasi da zero”. Lorenzo Pregliasco, fondatore di Youtrend, è di un altro parere: “Se l’opinione pubblica muta velocemente, il processo di rappresentanza politica richiede più tempo – spiega – Se a questo aggiungiamo il fattore della crescita di Fratelli d’Italia, si spiega perché la Lega sia ancora un partito con un forte baricentro al nord”.

Classe dirigente cercasi

Oltre alla difficoltà di presentare proprie liste, Matteo Salvini al sud ha anche un grosso problema di qualità di classe dirigente. Per presentare candidati alle prossime elezioni regionali in Campania e Puglia ha dovuto riciclare dinosauri della politica, trasformisti e notabili locali in grado di portargli in dote migliaia di preferenze. Per esempio a Napoli il Carroccio candida l’ex sindaca grillina di Quarto Rosa Capuozzo (“Sono sempre stata di destra” dice oggi) e l’ex vice coordinatore regionale di Forza Italia, Severino Nappi, mentre in Puglia la Lega ha optato per tutti volti sconosciuti perché non aveva grandi nomi in grado di infiammare i pugliesi. Qui però Salvini ha dovuto ripescare di tutto per guidare il partito: al vertice c’è l’ alfaniano Andrea Caroppo e Mister Papeete, l’europarlamentare Massimo Casanova. E poi un acquisto Salvini lo ha fatto: il sindaco di Foggia, Franco Landella salito sul carro del Carroccio dopo una ventennale esperienza con Forza Italia. Perché convertito al sovranismo e al nuovo verbo salviniano? No, semplicemente perché Forza Italia aveva deciso di depennare la cognata Michaela Di Donna dalle liste per le regionali. La Lega ha grossi problemi anche in Sicilia dove da quattro deputati all’Assemblea regionale adesso sono rimasti soltanto in due e il governatore Nello Musumeci ha riservato l’assessorato dei Beni culturali al leghista Alberto Samonà, lo stesso che qualche anno fa inneggiava alle Ss di Adolf Hitler. Non va meglio in Molise dove il Carroccio è sparito dal consiglio regionale e in Abruzzo dove il coordinatore leghista di Avezzano, Giovanni Luccitti, viene direttamente dal Pd.

“Lega-Italia sta fallendo”

“La Lega al sud è in ritirata perché alle elezioni regionali i rapporti dei micronotabili contano di più dei rapporti di opinione – continua il politologo Calise – È chiaro che fino a quando Salvini è stato al governo poteva godere di un effetto bandwagon (salire sul carro del vincitore, ndr) da parte di un notabilato meridionale attento alle dinamiche clientelari. Quando questa capacità di attrazione è venuta meno, il fenomeno è ritornato nel suo alveo naturale. E adesso cosa ha da offrire la Lega ai micronotabili? Assolutamente niente. Questa dinamica si moltiplica all’ennesima potenza alle elezioni comunali dove contano molto le persone e pochissimo il voto di opinione”. Poi l’affondo: “Per questo, per adesso, il progetto del partito nazionale sta fallendo”.

“La strategia” del “carcere comodo” per Scopelliti

“Abbiamo chiacchierato un paio d’orette… e… abbiamo elaborato una strategia, eh… Gliel’ho detto che ho replicato al magistrato di sorveglianza e che comunque… ci aggiorniamo”. A parlare è Maria Carmela Longo, ex direttrice del carcere di Reggio Calabria finita ai domiciliari per concorso esterno con la ’ndrangheta nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri e dei pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro. Dall’altra parte del telefono il 18 gennaio 2019 c’era Tino Scopelliti, fratello di Giuseppe, l’ex governatore della Regione Calabria detenuto all’epoca nella sua casa circondariale perché condannato nel processo sui conti del Comune di Reggio. L’ex direttrice stava spiegando a Tino che la pratica per il lavoro esterno era andata a buon fine, ma che il magistrato di sorveglianza non aveva accolto la richiesta di far trascorrere il sabato a casa al detenuto eccellente. Poco male. È la stessa Longo a tranquillizzare l’ex presidente della Regione parlandoci “un paio d’orette” ed elaborando “una strategia”. Quale? Ancora non emerge dall’inchiesta del Dap, ma è certo che sono ancora in corso le indagini del Ros. Nell’inchiesta sono indagati anche un medico dell’Asp, una detenuta e diversi agenti della polizia penitenziaria che collaboravano con l’ex direttrice che, “scesa a patti” con i clan, avrebbe consegnato “il carcere ai detenuti per reati di mafia”. Tra questi c’era pure l’ex parlamentare Paolo Romeo, il principale imputato del processo “Gotha” che l’ex direttrice non ha fatto trasferire a Tolmezzo dopo un periodo di detenzione a Reggio. “Controllate il Riesame… – ha detto agli agenti della penitenziaria – Se non risulta niente al Riesame … vuol dire che non ci hanno tempo!”.

“Il problema non è la ’ndrangheta da noi… – è il Longo-pensiero – a me il danno lo fanno gli zingari… sono questi il pericolo peggiore”.

“Soldi, scambi ed email: ecco la ‘trattativa’ della Rai per insabbiare il film sulla mafia”

Rifiutato dalla Rai per una citazione (ironica, ma ritenuta diffamatoria) del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il film La mafia non è più quella di una volta – vincitore lo scorso anno del premio della giuria a Venezia – è al centro di un accordo sottobanco tra Rai Cinema e il produttore Rean Mazzone per evitare un contenzioso giudiziario produttivo di danni per entrambi: economici per il produttore, d’immagine per la Rai. Un’intesa che oltre a sacrificare la libertà di espressione rischia di imbarazzare la Rai, accusata di utilizzare i propri fondi per fini che nulla hanno a che fare con la sua mission. “Ci rivolgeremo alla commissione di vigilanza, un atto così brutale di censura non può passare sotto silenzio. Cosa c’era in questo film che non andava? Si è usato un tono goliardico per raccontare la storia della famiglia Mattarella? O perché si sono fatti accenni alle conoscenze paramafiose del padre di cui sono pieni i libri e gli atti dell’Antimafia?’’, dice l’avvocato Antonio Ingroia, difensore del regista Franco Maresco che ha denunciato la “trattativa’’ tirando fuori una mail del produttore datata 13 febbraio 2020: “Nell’accordo, come sai – gli scrive Mazzone – già loro propongono l’acquisto di altre nostre produzioni in cambio di quanto da loro speso e di quello ancora da pagare in modo da non crearci ulteriori problemi finanziari’’. Quali produzioni? “Propongono per altri due anni l’acquisto dei diritti del film documentario su Franco Scaldati’’ e “altri film’’. “C’è una spaventosa ipocrisia morale – dice Maresco – a tutt’oggi non so se il film è stato pagato e se la Rai è ancora proprietaria: lo abbiamo chiesto sia a Paolo Del Brocco e al mio amico Rean Mazzone, ma ad oggi non abbiamo ricevuto alcuna risposta’’. Non vuole replicare Rai Cinema, e nessuna replica arriva neanche dal produttore Mazzone che abbiamo cercato di contattare, purtroppo senza successo. Il paradosso di un film che denuncia con un linguaggio satirico le ambiguità di una cultura paramafiosa che arriva a trasformare le commemorazioni di Falcone e Borsellino in tristi feste di piazza, tra zucchero filato e cantanti neomelodici, è stato accolto dall’assoluto silenzio di autori e registi del cinema italiano, cui Maresco aveva rivolto un appello per la difesa comune della libertà di espressione: hanno risposto solo Paolo Benvenuti, autore di Segreti di Stato sulla strage di Portella della Ginestra, Michele Diomà, un regista produttore che lavora negli Usa, e Antonio Rezza e Flavia Mastrella, tra i maggiori autori di teatro italiani. “O io sono talmente antipatico, il che è probabile – dice Maresco – oppure scatta il ‘tengo famiglia’: il 95% del cinema italiano dipende da Rai Cinema’’. E, su Del Brocco, Maresco aggiunge: “Da 10 anni sta nel posto in cui si trova, e la legge ne prevede al massimo 8, si sono inventati che in un momento come quello della pandemia la sua esperienza manageriale è utile all’azienda’’.

Lega: “Ecco la fattura finta che inguaia Boniardi”

”Questa fattura è senz’altro irregolare”. È il passaggio chiave dell’esposto presentato nel 2018 dall’ex consigliere regionale della Lega, Marco Tizzoni, che collega la sparizione dei 49 milioni di euro alla Boniardi Grafiche, tipografia di proprietà del deputato salviniano Fabio Massimo Boniardi (nella foto). La denuncia letta dal Fatto aiuta a comprendere meglio i contorni della perquisizione condotta ieri dai finanzieri di Genova negli uffici di Boniardi, che non è indagato. Gli investigatori vogliono capire se le fatture emesse dalla tipografia corrispondono a reali forniture di manifesti elettorali. La denuncia di Tizzoni dice che almeno in un caso non è stato così. Nel gennaio del 2018, una volta diventato presidente del Gruppo consiliare Maroni presidente, Tizzoni ha iniziato a controllare i conti convinto che qualcosa non tornasse. Nonostante la Lega Nord avesse concesso un prestito da 450mila euro, il gruppo si ritrovava infatti in ristrettezze economiche. Tizzoni notò che tra le varie fatture ce n’era una ricevuta dalla Boniardi Grafiche per la stampa di alcuni opuscoli che lui e suoi colleghi non avevano mai richiesto. I pm genovesi titolari dell’inchiesta, Francesco Pinto e Paola Calleri, per ora hanno messo sotto inchiesta l’assessore all’autonomia e alla cultura della Regione Lombardia, Stefano Bruno Galli, presidente dell’associazione Maroni Presidente prima dell’arrivo di Tizzoni. Secondo l’accusa, circa 450mila euro della Lega sarebbero andati al gruppo Maroni Presidente per poi rientrare su conti riconducibili al partito. Una mossa pensata per evitare il sequestro, visto che il denaro era frutto della truffa da 49 milioni di euro. Tramite Galli, i 450mila euro sarebbero formalmente stati utilizzati per acquistare materiale a sostegno della campagna elettorale della Lega. Come sostiene Tizzoni, però, questi acquisti rimasero solo sulla carta.

Festa dell’Unità, l’ultima grana: “Via i giovani dem”

Oggi, per l’inaugurazione alle ore 18, alla festa dell’Unità di Bologna arriverà il segretario Nicola Zingaretti. Ma una delle feste più importanti del Pd – quella che si tiene all’arena Parco Nord del capoluogo emiliano – si apre all’insegna della polemica interna. Questa volta generazionale. È di ieri infatti il comunicato di fuoco con cui i Giovani democratici hanno attaccato i vertici del partito bolognese che per la prima volta non ha previsto di allestire alla festa uno stand dedicato all’organizzazione giovanile dem. “Il Pd è riuscito nell’impossibile! – denunciano – Per la prima volta, i Giovani democratici di Bologna non saranno presenti alla festa de l’Unità provinciale del Parco Nord con il proprio stand, in rappresentanza di una generazione che sempre si è spesa per questo partito e per l’organizzazione della festa”. Così minacciano diserzioni: “La nostra non sarà retorica: prendiamo atto della volontà degli organizzatori della festa di non avere tra i piedi i Giovani democratici, in una fase storica che vede i giovani ancora una volta penalizzati e lasciati indietro. Ed è per questo che noi non ci saremo. O meglio non ci saremo dove siamo sempre stati e dove ci avete sempre trovato. Quindi nei soliti luoghi della festa non troverete le nostre bandiere, ma saremo lì a lavorare, a disposizione volontariamente di quei compagni più anziani che ci hanno insegnato tutto”. Ironia della sorte, sulla bacheca Facebook di Lele Roveri, responsabile dell’organizzazione della Festa dell’Unità di Bologna, c’è il programma della prima festa organizzata dalla Fgci (i giovani dem di un tempo…) nel 1976. Suonavano per loro Lucio Dalla, la Pfm, Guccini, Joan Baez. “E poi penso ai miei budget”, commenta Roveri sconsolato sull’offerta possibile ai giorni nostri. Ora gli toccherà pensare anche ai “suoi” giovani.

“Il sindaco censura il mio Mistero Buffo”. La (buffa) replica: “Mi hanno frainteso”

“Il 29 agosto avremmo dovuto mettere in scena una giullarata di Mistero Buffo del premio Nobel Dario Fo” a Massa Martana, in provincia di Perugia. Ma, a contratto firmato, “abbiamo appreso che l’amministrazione della cittadina umbra si è opposta alla realizzazione dello spettacolo in quanto non lo ritengono adeguato, per i temi attinenti alla religione cattolica, alla loro popolazione”. La denuncia è del regista Eugenio Allegri, che da due anni gira l’Europa con il testo di Fo, basato su episodi della vita di Gesù tratti dai vangeli apocrifi. “Mai ci saremmo immaginati, oggi, una censura di questo tipo”, aggiunge. “Pensare che Mistero Buffo leda la sensibilità religiosa significa non conoscere l’opera, che si ispira invece a una profonda religiosità popolare, ed è anche un attacco alla libertà d’espressione”. Ma il sindaco del Comune, Francesco Federici, parla di un fraintendimento: “Volevamo uno spettacolo più leggero e alla portata di tutti. Abbiamo risposto che si poteva fare più avanti, verso ottobre-novembre. Siamo una delle rare giunte di centrosinistra umbre, chi può pensare che utilizziamo la censura?”.

I banchi arrivano da domani: Bolzano la prima a “finire”

Dopo fiumi di parole, si comincia. Domani è il giorno in cui le prime scuole italiane riceveranno i banchi monoposto della gara indetta dal commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Due milioni di banchi tradizionali e 430mila sedute “innovative” a rotelle, prodotti da 11 aziende (o associazioni temporanee d’imprese) da consegnare in 44mila edifici entro il 31 ottobre. Una piccola quota, nell’ordine di qualche migliaio di pezzi, è già pronta e sarà distribuita secondo criteri di priorità fissati dalla struttura commissariale.

Il primo è l’evoluzione della curva dei contagi. Dove i numeri preoccupano di più, il materiale arriverà prima. Quindi precedenza alle regioni del Nord, ma anche a Lazio e Campania. Poi conterà la data del ritorno in classe: il primo territorio a ricevere l’intera fornitura sarà la provincia di Bolzano, in tempo per l’inizio delle lezioni del 7 settembre (in Veneto ad esempio si parte l’11, nel resto d’Italia dal 14 in poi). E infine un criterio di grado: le scuole primarie (elementari) dove possibile saranno da preferire alle secondarie (medie e superiori).

Il calendario delle consegne è vincolante e allegato al contratto di fornitura, sottoscritto martedì sera dagli 11 aggiudicatari. Che però, per la maggior parte, ancora non si conoscono. Allo scoperto c’è la mega Ati dei 7 produttori italiani di arredo scolastico, capeggiata da Mobilferro, che produrrà 500 mila banchi “tradizionali”. Per le sedie a rotelle, invece, in campo c’è il consorzio tra le venete Estel e Omp (200mila pezzi) e la milanese Principle.

A ogni azienda, poi, è affidato un territorio. Mobilferro, che ha sede al confine emiliano-veneto e da sola sfornerà 200mila banchi, dovrà rifornire l’intera Emilia-Romagna, oltre a parte della Sicilia e della Puglia. “Aspettiamo che il commissario comunichi le cosiddette super-urgenze, cioè le situazioni da tamponare subito. In mancanza seguiremo il calendario e venerdì partiremo dalla città di Bologna”, dice al Fatto l’ad Stefano Bianchini. Vastarredo (la seconda maggior azienda del settore, con sede in Abruzzo) coprirà la maggior parte del Sud insieme al mobilificio Sirianni. Le prime classi a riempirsi di sedie a rotelle, invece, venerdì saranno a Bergamo e a Codogno, due luoghi-simbolo della pandemia. A consegnarle sarà l’azienda veneta Estel, che la prossima settimana rifornirà altri plessi in Calabria e nel Ferrarese.

Ad aspettare di più potrebbero essere alcune scuole di quelle quattro Regioni che, da sole, hanno chiesto la metà dei 2,4 milioni di pezzi messi a gara: Lazio, Campania, Calabria e Sicilia. Soprattutto al Sud, a chiedere nuovi banchi al commissario sono stati quasi due terzi degli istituti, puntando anche a rinnovare arredi vecchi di anni. Queste situazioni sono state classificate come meno urgenti e verranno risolte tra settembre e ottobre.

E anche lo spettro di un ricorso da parte delle aziende escluse – volto a far annullare la gara facendo leva sul cambiamento in corsa dei tempi di consegna – per adesso non si è concretizzato. Da Invitalia fanno sapere che non ci sono impugnazioni, né sono state depositate richieste di accesso agli atti. E ciò nonostante la polemica agitata martedì dal Sole 24 Ore: il giornale degli industriali ha dedicato l’apertura al bando, chiedendo ad Arcuri di rendere noti i nomi dei vincitori e chiarire se la tipologia di fornitura prevista dalla gara fosse cambiata. E ventilando, in chiusura, proprio un ricorso delle aziende. Ma il commissario non ha intenzione di comunicare i nomi finché la legge gli consente di tenerli riservati: e cioè fino al 12 settembre, quando dall’aggiudicazione saranno trascorsi 30 giorni.

 

Sulla scuola si decide venerdì, i trasporti restano in alto mare

È l’unica questione sulla quale si addensano ancora nubi fittissime d’incertezza (per non dire di incoscienza) ed è servito a poco l’incontro di ieri tra la ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, e le Regioni per discutere del nodo dei trasporti pubblici locali che a settembre, con la riapertura delle scuole, dovranno caricare almeno 10 milioni di passeggeri possibilmente in sicurezza, fisica ed epidemiologica. “Ad oggi non ci sono soluzioni sostenibili” ha detto ieri il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, che però ha poi aggiunto di aver “riscontrato attenzione” sul tema.

In pratica, la ministra De Micheli ha portato al vaglio del Comitato Tecnico Scientifico un piano basato sulle proposte delle Regioni che per ovviare all’impossibilità di raddoppiare flotte e conducenti in poco meno di 15 giorni, cerca di ridurre i rischi derogando agli obblighi. Un ossimoro avvincente che, come per alcuni casi nella scuola, potrebbe risolversi in un compromesso furbacchione che maschera da un lato la lentezza d’intervento nell’emergenza attuale, dall’altro debolezze strutturali del sistema dei trasporti.

Al Cts viene chiesto di poter derogare alla distanza minima di un metro a bordo riconoscendo come “congiunti” i compagni di classe o di lavoro oppure rimodulandola in base alla durata del tragitto (negli scuolabus la deroga è già valida sotto i 15 minuti). Mistero, però, sulle eventuali modalità di controllo del rispetto di questi vincoli. E ancora, si ipotizzano potenziamento e certificazione dei sistemi di aerazione e filtraggio dei mezzi pubblici nonché l’obbligo di mascherina chirurgica e la differenziazione degli orari di accesso a scuola. Soprattutto, si propone l’adozione di “separatori morbidi coerenti con le prescrizioni di sicurezza”, i cosiddetti “parafiati”. più facile a dirsi che a farsi.

Il materiale per realizzarli è in fase di sviluppo (Inail e Iit di Genova) e la fase sperimentale richiede un periodo di test di almeno 90 giorni per verificare requisiti di sicurezza sia generali sia per la prevenzione dei contagi. Poi eventualmente servirebbero tempi di gara, assegnazione, produzione, distribuzione e montaggio. Tantissimo. Il plexiglas o un altro materiale rigido, invece, non sembra essere una alternativa soprattutto sugli autobus (è più adatto, invece, all’andamento regolare dei treni). L’unico punto negoziabile, al momento resta la percentuale di carico dei passeggeri e, si dice tra chi sta seguendo il dossier, non si esclude che possa essere fissata al 75 per cento. Nel momento in cui andava in stampa il giornale non era ancora noto l’esito della riunione del Cts.

C’è invece l’accordo per chiudere entro venerdì (oggi si riunisce la Conferenza delle Regioni per valutarlo) sul documento dell’Istituto superiore di sanità con le indicazioni operative per la gestione di casi e focolai nelle scuole: le Regioni chiedono che sia rivisto l’obbligo delle mascherina tra i banchi qualora non sia stato possibile garantire la distanza di un metro (se non altro in base al livello di contagio nell’area geografica), mentre dal Miur rassicurano sul fatto che si troverà posto per tutti. Per il resto, il testo conferma quanto era già emerso: si stabilisce che i genitori misurino la temperatura ai figli, ma che le scuole siano dotate di termometri da usare in caso di malore, che siano registrati con attenzione i contatti di alunni e personale “al di là della normale programmazione” (dalle supplenze agli spostamenti), che si monitorino le assenze sospette e che ci siano comunicazioni rapide tra famiglie, scuola, referente Covid e Asl.

È prevista la quarantena per chi conviva con un positivo, mentre per una classe o per la scuola sarà la Asl a decidere. Il testo rileva però due criticità: si dovrà capire come potranno continuare a lavorare i docenti messi eventualmente in quarantena e quale sia il procedimento che pediatri e medici dovranno seguire per il rientro a scuola dopo la conferma di un caso. Per le risposte restano 18 giorni.

Boom di tamponi, casi in salita. “È l’effetto del contact tracing”

La cattiva notizia è che ieri il ministero della Salute ha registrato altri 1.367 contagi da SarsCov2. Un dato paragonabile (ma solo dal punto di vista aritmetico, come vedremo) con i 1.402 nuovi positivi scovati il 12 maggio, appena una settimana dopo il primo allentamento del lockdown, e in aumento rispetto agli ultimi giorni: domenica erano stati 1.210, lunedì 953 e martedì 878. La buona notizia è che l’aumento dei casi è in gran parte attribuibile all’elevato numero di tamponi effettuati dalle strutture sanitarie: quelli comunicati ieri dagli uffici di Lungotevere Ripa sono stati 93.529, record dall’inizio della pandemia, oltre 20mila in più rispetto a quelli di martedì e in aumento di26mila unità rispetto a quelli di domenica. Il primato “è dovuto soprattutto agli screening sui rientri dall’estero”, segnala il dicastero. Il riferimento è ai tamponi che da dieci giorni a questa parte vengono fatti in aeroporto a chi arriva da Grecia, Malta, Spagna e Croazia, in base all’ordinanza disposta dal ministro della Salute Roberto Speranza il 12 agosto. In pratica si fanno più test e si trovano più positivi. “Il contact tracing, l’individuazione dei positivi e la ricostruzione dei loro contatti, sta funzionando – spiega Fabrizio Pregliasco, docente di Igiene all’Università di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi –. Possiamo dire tranquillamente che più positivi troviamo e meno questi ultimi contagiano” .

La Regione con più casi di Covid-19 torna a essere la Lombardia (269) che sorpassa il Lazio, in pole da alcuni giorni: 162 quelli di ieri, di cui 121 solo a Roma. Come negli ultimi giorni “si conferma una prevalenza dei casi di rientro e in particolar modo con link dalla Sardegna (45%)”, ha spiegato l’assessore regionale alla Sanità Alessio D’Amato. Poi vengono la Toscana (161), il Veneto (147), la Campania (135) e l’Emilia-Romagna (120). L’obiettivo resta sempre lo stesso: “I focolai vanno isolati e monitorati per non farli crescere – spiega Pregliasco –. È come se ci trovassimo di fronte a un incendio: se è piccolo e interveniamo subito conteniamo le fiamme, ma se lo sottovalutiamo il fuoco si diffonde e ci fa male”. Il dato più negativo della giornata arriva dal forte aumento delle vittime: sono state 13, il triplo rispetto ai 4 registrati lunedì e martedì. Ma sullo stesso pesano le 11 persone decedute in Veneto nei giorni scorsi e conteggiate solo nelle ultime ore.

Ora, prosegue Pregliasco, “il numero dei contagi è destinato a mio avviso a salire ancora. L’estate non è finita e a settembre ci attende la riapertura delle scuole, il vero stress test, e l’influenza stagionale. “Sono ottimista – conclude il virologo – ma dobbiamo continuare a essere prudenti e attenti. No ai trucchetti o alle bugie per evitare i tamponi, cerchiamo di non vanificare gli effetti del lavoro fatto fino a oggi”.