Molte foto e niente mascherine: perché tanti infetti al Billionaire

Perché lo staff del Billionaire ha un numero così elevato di contagi, Briatore compreso? Il numero dei positivi si è assestato intorno ai 65, il che vuol dire la quasi totalità dei dipendenti del Billionaire. Un evento che non è accaduto nello staff di nessun altro locale in tutto il Paese, probabilmente neppure nel periodo di massima e incontrollata diffusione del virus, tra febbraio e i primi di marzo, fino al lockdown. Inoltre, il tutto è accaduto in neppure un mese dall’apertura del Billionaire, avvenuta il 18 luglio (i locali hanno chiuso il 17 agosto).

A questo punto è inevitabile farsi delle domande sulle cause, che in effetti possono essere molteplici. Di sicuro, se Briatore afferma di aver avuto febbre e raffreddore ad agosto e di averli derubricati come “un semplice raffreddore”, la sua leggerezza e magari quella eventuale di altri dipendenti o clienti che come lui hanno frequentato il locale potrebbero avere avuto un ruolo importante. Di sicuro non l’unico. Certo, basta scorrere i tag del Billionaire per notare che Briatore ha fatto un numero spaventoso di foto e selfie al Billionaire e in giro per la Sardegna con chi glieli chiedeva, famosi e non. Spesso abbracciato, sempre senza mascherina. Sottolineo “sempre”. Perché la mascherina è da poveri, forse. O da sfigati. O da cagasotto, chissà.

Osservando poi foto, video e tag del Billionaire su Instagram saltano all’occhio altre cose. Intanto c’è una foto di gruppo scattata a inizio stagione 2020 con tutti i dipendenti del Billionaire e condivisa sulla bacheca di molti di loro che lascia sconcertati. Circa 70 membri dello staff tra chef, camerieri, pr, hostess, barman e persone dell’amministrazione posano davanti al fotografo sorridendo, tutti attaccati l’uno all’altro per entrare nell’inquadratura. Nessuno, ribadisco nessuno, ha la mascherina. La location è il Billionaire stesso. Poi, studiando i video delle serate, salta all’occhio un altro particolare. I camerieri non sono semplici camerieri, ma anche animatori. Questo accade (o accadeva) anche in altri locali, ma in questa stagione particolare è un’abitudine che in molti hanno abbandonato. In diversi video si scorgono i camerieri ballare tra i tavoli, girare saltellando per la sala con le fontane luminose in mano, portare le torte di compleanno, circondare il festeggiato cantando e ballando. In un video specifico, postato da una tizia che possiede un hotel di lusso e che festeggia il suo compleanno al Billionaire, si vede chiaramente che i camerieri che la circondano cantando “Tanti auguri” hanno la mascherina abbassata o sotto il naso.

La cosa più incredibile però è che uno di loro si abbassa la mascherina, si infila due dita in bocca e inizia a fischiare. Poi riafferra la fontana luminosa. Magari con quelle dita in seguito taglia la torta o serve ai tavoli o tocca qualcuno.

Insomma, il caso gioca sempre un ruolo nella diffusione di un virus, ma al Billionaire, forse, al caso si è data una bella mano. E senza guanti. Nel frattempo, attendiamo di sapere quanti altri dipendenti di Briatore, anche di sesso femminile, si siano ammalati di prostatite da contatto.

Briatore, mistero tampone. Solo oggi i nomi dei clienti

La prima volta che le agenzie di stampa battono la notizia dei primi sei contagiati tra i dipendenti del Billionaire è il 21 agosto scorso. Quel giorno lo staff della comunicazione del locale di Flavio Briatore fa sapere anche che “una cinquantina di dipendenti sono in auto-isolamento”. Sono passati sei giorni: alla fine si è scoperto che il virus circolava eccome, contagiando 58 dipendenti, compreso l’imprenditore, ora ricoverato al San Raffaele di Milano. Ma dal momento in cui esce la notizia dei primi positivi, quanti tamponi sono stati fatti?

Lo stesso Briatore, che nel frattempo era rientrato a Montecarlo, ha fatto subito il tampone oppure ha atteso domenica quando è arrivato al San Raffaele peraltro per altri motivi, ossia una “prostatite forte”?

“Nessun test in Sardegna”

Il tampone del manager sembra un argomento tabù. Per il suo staff è una questione privata. “Mi sembra una domanda molto inopportuna – spiegano al Fatto –. Non credo che sia un’informazione che siamo tenuti a darle, anche qualora lo dovessimo sapere”. In Sardegna Briatore non avrebbe fatto alcun tampone. O almeno questo spiega al Fatto Marcello Acciaro, capo dell’Unità di crisi della Regione per l’emergenza Covid: “Di sicuro, qui non ha fatto il tampone”. Il manager è arrivato a Porto Cervo il 10 agosto, quando si è dedicato a sport e incontri vari. Il 12 per esempio ha visto Silvio Berlusconi (risultato negativo) e a ferragosto ha partecipato a una partita di calcetto con l’allenatore Mihajlovic, Paolo Bonolis e Andrea Della Valle. Gli ultimi due sono risultati negativi al Covid-19, il tecnico del Bologna ha contratto il virus.

Ma proprio sul tampone di Briatore due giorni fa si è innescato un teatrino mediatico. A confondere le acque è stata Daniela Santanchè (Fd’I) che, martedì sera, ospite a In onda, ha detto: “In questo preciso momento posso affermare che è stato ricoverato per l’infezione alla prostata recidiva. (…) Ad oggi sull’esito del tampone io non ho l’evidenza in tal senso”. Ieri poi sulle pagine del Corriere della Sera è stato lo stesso Briatore a dichiarare: “Ho solo una prostatite forte. (…) Ho fatto il tampone e ancora non so se sono positivo”.

Alla fine ci ha dovuto mettere un punto il San Raffaele di Milano che ieri ha comunicato: Briatore “si è rivolto all’ospedale per una specifica patologia diversa da Covid-19 ed è stato sottoposto prima del ricovero, come tutti i pazienti, al tampone rinofaringeo… Il tampone è risultato positivo”.

È stata soltanto “una prostatite forte”?

Ma quindi, quando parlava al Corriere, Briatore conosceva l’esito del tampone? La prassi vuole che, all’arrivo, ai pazienti del San Raffaele viene sempre fatto il tampone. Potrebbero quindi averlo sottoposto a controllo, appena ricoverato, ossia domenica sera. Il laboratorio è interno al San Raffaele e in 4-24 ore dà l’esito provvisorio (ritenuto comunque affidabile), che viene poi validato dal Sacco.

Anche sul registro presenze è caos

Mentre a Segrate infuria la bagarre sul tampone, in Costa Smeralda le autorità sanitarie sono impegnate in una faticosissima caccia alle migliaia di persone transitate per il Billionaire e locali simili da inizio agosto. In teoria, ogni locale dovrebbe aver tenuto un registro delle presenze che riporta nome, cognome e numero di telefono di ciascun cliente. Ma anche su questo elenco c’è un giallo. Fino a ieri, secondo quanto conferma il dottor Acciaro dell’Unità di crisi, il registro da parte del Billionaire non era stato ancora consegnato alle autorità. “Abbiamo notizie che hanno registrato tutto, ma ancora non ci hanno fornito gli elenchi, perché sono tutti in quarantena. Li hanno scannerizzati e ce li daranno domani (oggi, ndr)”, spiega Acciaro. “Appena li avremo, con i colleghi ci siederemo a un tavolo e tracceremo tutti i contatti”. Una dichiarazione che cozza con quanto riferito al Fatto ieri pomeriggio dall’entourage di Briatore. “Abbiamo consegnato le liste dei clienti del locale all’Unità di crisi”, avevano assicurato. Evidentemente qualcuno non la racconta giusta.

Verifiche a tappeto e nodo-denunce

Intanto le autorità sanitarie riferiscono che ancora nessuno dei clienti entrati in contatto con Briatore e il suo staff è stato rintracciato e avvertito. Un lavoro immane, visto che si tratta di migliaia di nomi e che per ogni positivo scoperto (già 250 quelli venuti alla luce in tutta l’isola), si devono tracciare una media di dieci contatti a rischio. Di quante persone si tratti esattamente, ancora non si sa. Ieri Repubblica parlava di 3mila clienti del solo Billionaire, “ma mi sembrano pochini per un locale che è stato aperto dal 23 luglio”, commenta il medico. “Per fortuna – aggiunge Acciaro – la movida si muove a ondate, quindi spesso gli stessi nomi compaiono su più elenchi di locali diversi. Questo ci facilita il lavoro. In tutta la Sardegna miriamo a recuperare almeno il 60% dei frequentatori”. Uno dei problemi è che in molti casi i clienti hanno fornito ai locali generalità false. Ma di una cosa è sicuro il dottor Acciaro: “Io voglio sapere se c’è stato qualche furbetto, tra i clienti o il personale, che pur avendo la febbre, si è preso una tachipirina ed è andato in discoteca. Se lo trovo – e se c’è stato, lo trovo di sicuro –, lo denuncio”. Una minaccia che potrebbe far tremare i polsi a molti.

Dottore, ho la filossera

1)Qual è la cosa più probabile che ti può capitare se balli stretto stretto senza mascherina in una discoteca della Costa Smeralda in piena pandemia da Covid-19? La prostatite. 2) Qual è il primo pensiero che passa per la testa al titolare di un locale con 65 dipendenti su 70 positivi al Covid-19 quando gli viene la febbre? “Mi sa che ho la prostata infiammata”. 3) Quale specialista chiama un soggetto dolorante alla prostata: l’urologo? No, il primario di anestesia e rianimazione del San Raffaele. 4) Chi può prendere sul serio le risposte 1, 2 e 3? In un Paese normale, nessuno; in Italia, gran parte degli elettori di centrodestra, dopo 26 anni di allenamenti intensivi sul complotto delle toghe rosse, la nipote di Mubarak, le cene eleganti, la casa di Scajola comprata da un altro a sua insaputa, lo stalliere Mangano, il bibliofilo Dell’Utri, i giuristi Previti e Squillante, la devolution di Bossi, la diabolica abilità di Salvini, il modello Lombardia e un’altra vagonata di cazzate, giù giù fino al patto Conte-Covid per instaurare la dittatura. Il che spiega l’esistenza in tv di Briatore, Santanchè, Sgarbi, Chirico, Capezzone, Maglie e di tutto il caravanserraglio dei cosiddetti giornalisti di destra che – diversamente dai loro lettori e/o elettori – non credono a una parola di quel che dicono, ma lo dicono proprio perché milioni di persone si bevono tutto.
Il caso della prostatite per nascondere il Covid ha un precedente illustre: l’uveite diagnosticata dallo stesso prof. Zangrillo a B. che girava l’Italia a tentoni, con occhialoni neri tipo cieca di Sorrento, cercando pretesti per rinviare i suoi processi, finché il medico fiscale del tribunale certificò che ci vedeva benissimo. Vent’anni prima il ministro della Malasanità De Lorenzo, appena uscito di galera perché agonizzante, apparve al Tg1 agonizzante nel letto di dolore, la barba lunga, il corpicino esangue appeso a cannule, flebo e pappagalli, amorevolmente assistito da Vespa; pochi giorni dopo già banchettava a quattro palmenti al ristorante “I due ladroni”. E Sgarbi, nel vano tentativo di giustificare il suo assenteismo truffaldino alla Soprintendenza di Venezia, esibì falsi certificati su patologie più uniche che rare: “cimurro” (tipico dei cani), “attacchi di starnuti” e “allergia al matrimonio” (ma solo orario ufficio). È da allora che, grazie a quella farsa permanente che qui chiamiamo “destra”, non si riesce più a distinguere la politica da una commedia di Molière. Questa è gente che, se vede Hollywood Ending e sente rinfacciare a Woody Allen le sindromi più ridicole della sua ipocondria, “la peste bubbonica… l’allergia all’ossigeno… e la filossera! Solo gli alberi la prendono!”, commenta serissima: “Embè?”.

Con “Tenet” il rischio è di uscire più frastornati che ammirati

La salvezza è nel futuro, ovvero nel passato. Lo predice Tenet, da oggi in 700 sale italiane, e lo pretende il cinema per come l’abbiamo conosciuto in epoca pre-Covid: dall’esito del carrozzone meta-fisico di Christopher Nolan dipendono le sorti cinematografiche globali. Un po’ kubrickiano e un po’ nerd, un po’ fisico mancato e un po’ ingegnere anodino, il regista inglese baratta la DeLorean del mitico Doc per una macchina-cinema dispendiosa (205 milioni di dollari di sola produzione), mastodontica, ambiziosa e confusa, trovando l’inversione temporale: futuro al ritorno, dove citare se stesso (Inception) e Casablanca e dove intercettare, tra mascherine d’ossigeno e apocalisse, lo Zeitgeist pandemico. La missione è affidata al Protagonista (John David Washington), che triangola con il sodale Neil (Robert Pattinson) e l’algida Kat (Elizabeth Debicki, Hitchcock ne sarebbe uscito pazzo…) per sventare la Fine, nelle facoltà dell’oligarca russo Sator (Kenneth Branagh): riusciranno i nostri eroi, pur affrancati dall’epica e espropriati dell’emozione, a portare indietro le lancette e avanti le vite, e viceversa? Per due ore e mezza lo spettacolo è quasi sempre garantito, meno la coerenza interna: “Ci fa o ci è, Nolan?”, è la domanda in platea, giacché il rischio della supercazzola rimane sensibile, sopra tutto laddove il regista e sceneggiatore affida al movimento, dunque allo spazio, la manifestazione dell’inversione del tempo. Nessuno tocchi i vettori al fisico Nolan, per carità, ma se lui indica la luna e tu vedi solo un’automobile che va in retromarcia chi è lo stolto? Visivamente impeccabile, asettico ed esangue – si muore, ma il plasma è questo sconosciuto – oltre ogni ragionevole dubbio, Tenet muove a tenaglia onorando le premesse palindrome del titolo, ma l’esito è più simile a un manuale di costruzione che di sceneggiatura: non a caso, quando i dialoghi esulano dal mero accadimento sono disastrosi. Non è una novità per Nolan, eppure lo spreco di talento e di risorse qui è più percettibile: si rischia di uscirne più frastornati che ammirati, più provati che appagati, anche se con quel che passa sul grande schermo – quasi nulla – storcere il naso pare quasi riprovevole. Rimane il dubbio solito, che cosa potrebbe fare Christopher con uno sceneggiatore e dialoghista al fianco, e un’avvertenza per il futuro: chi ha tempo non aspetti tempo. Sì, vale anche per lui.

I Fourcade, quando il “piccolo” distrugge i sogni del “grande”

Ogni storia di sport cela dentro di sé un’altra storia, spesso abrasiva, spesso dolorosa, spesso inattesa. Come quella dei fratelli Fourcade, francesi baschi, vissuti in un mas bucolico, una cascina in mezzo alla natura, tra pendii scoscesi e boschi. Gente dei Pirenei Orientali, mondo antico, mondo di valori forse elementari ma fortissimi, di sentimenti radicali, di memorie ancestrali. La fatica è una di queste. La tenacia. La resistenza. La caccia: perché alla base della sopravvivenza. I Pirenei sono montagne in cui ti senti padrone dello spazio infinito. C’è uno sport che racchiude tutto ciò: il biathlon. Sci di fondo con carabina in spalla. Si fendono i boschi, su e giù per i sentieri trasformati in piste di gara. Poi, a intervalli regolari, ci sono le piazzole dove sono sistemati i bersagli a cinquanta metri di distanza. Il biathleta si ferma in postazione, si accoscia e spara cinque volte. Ogni sbaglio, una penalità. Che può essere cronometrata o un percorso supplementare. La competizione è individuale, con partenze alternate o di massa, e si gareggia a squadre. Ho riassunto perché non di biathlon parleremo, ma di due fratelli campioni. Solo, uno dei due lo è molto di più rispetto all’altro. Così tanto da trasformare il loro rapporto in qualcosa che mette insieme invidia, risentimento, rancore, delusione, tristezza, autocommiserazione. Disperazione, rabbia. Frustrazione, orgoglio demolito.

Il fratello meno bravo, un giorno, confessò. “Il film che mi piace di più e che vedo ancora è La haine”. L’odio di Mathieu Kassowitz (1995). Il fratello più bravo impiegò anni prima di scrivere e pubblicare nel novembre del 2017, all’apice della popolarità, un libro autobiografico: Müj seu a zluté a sneha, (Mon rêve d’or et de neige, Marabout,), “il mio sogno d’oro e di neve” in cui racconta come sia diventato un fuoriclasse seguendo le tracce del fratello.

Il fratello meno bravo si chiama Simon. È nato a Perpignano il 25 aprile 1984. Peso forma 67 chili, alto un metro e 74. È considerato il più promettente degli atleti francesi. Infatti, nel 2003, conquista il titolo mondiale juniores individuale a Koscielisko, sui monti Tatra, nella Polonia meridionale. Ne vincerà altri tre di titoli juniores, più quattro argenti. Ma gli esordi in Coppa del Mondo e poi alle Olimpiadi di Torino sono modesti, però, poco per volta, emerge. Nel 2009 conquista il titolo mondiale in staffetta mista, a Pyeongchang, in Corea del Sud. L’anno successivo, si presenta ai Giochi di Vancouver come uno dei favoriti. Sfoggia una t-shirt con su scritto “Victory”. Nella squadra olimpica c’è pure il fratello minore Martin. Ha quattro anni di meno, è più alto di undici centimetri, e pesa otto chili di più. È entrato in nazionale nel 2006.

Le gerarchie familiari, comunque, sono piuttosto nette: Simon è il campione, Martin l’apprendista stregone. Invece, un fulminante colpo di scena squarcia questo quadretto da Mulino Bianco il mattino non gelido del 21 febbraio 2010, quando è in programma a Whistler Mountain la mass start olimpica del biathlon maschile (la partenza in linea, 15 chilometri). Succede che Simon va in crisi. Mentre Martin va via come un razzo. Quando sorpassa Simon, è come una pugnalata. Lo vive come un affronto personale. Non lo accetta. Ha capito subito che il fratello minore è un fuoriclasse. Martin sfiora la vittoria, è medaglia d’argento. Sale sul podio. Simon, umiliato dal 27esimo posto, non applaude. Piange lacrime amare. Di fiele.

Racconta Brice, il terzo fratello, il più piccolo, testimone della tragedia che si sta per abbattere sui Fourcade: “È stata una giornata particolare per tutta la famiglia. I nostri sentimenti erano in tumulto. Eravamo felici per Martin. Ma tristi per Simon. Tutti alla vigilia dicevano che sarebbe stato lui l’erede di Vincent Defrasne, campione olimpico dell’inseguimento alle Olimpiadi di Torino del 2006. Colui sul quale riponevano tutte le speranze”.

Simon ammetterà anni dopo che le sue lacrime quel giorno erano di rabbia. Martin “aveva scombussolato tutti i miei piani. Sapevo che era un talento precoce, non immaginavo così”. Aggiunge Brice: “Simon ha vissuto tutto ciò come un’ingiustizia”.

Da quel giorno Martin diventa lo sportivo più titolato dello sport francese: 5 titoli olimpici, 11 titoli mondiali, 7 Coppe del Mondo generali e 24 di specialità. Un mito. Una leggenda. Un idolo. Soprattutto, un esempio. E questo Simon non lo tollera. Lascia la nazionale, per non incrociarlo: “Bisognava che tagliassi i ponti, che mi staccassi dall’affetto che comunque avevo per lui, per trovare la rabbia che mi avrebbe permesso di tirare avanti”.

Erano amici. Dopo, non più. Dicono le cronache che i due si siano alla fine riconciliati. E siano tornati a parlarsi, a confidarsi. Ma quando Martin ha annunciato di ritirarsi, dopo l’ultimo successo in Coppa nel marzo di quest’anno, intervistato dalla tv francese, Simon ha detto: “Non ne sapevo nulla, non mi ha detto che l’avrebbe fatto”.

Maledetto e vizioso Pascoli. “Nel bordello e nell’osteria”

Pisa, 1903. All’osteria “Dal Garzella”, un bell’uomo dal volto gioviale, il moustache folto e nerissimo, una camicia morbida sul petto e il fiocco nero volante e slacciato, tiene banco a un tavolo di amici. Nessuno potrebbe sospettare, tale è il baccano che fa, che è ordinario di Grammatica latina e greca all’università pisana, che è un coltissimo poeta. Di lui sono apparsi i Poemetti, I Canti di Castelvecchio e l’edizione arricchita del suo esordio dal nome inequivocabile, Myricae: sì, è Giovanni Pascoli. Tuttavia, quest’uomo mobilissimo non è il Pascoli della vulgata, del solito ritornello che inizia con la morte del padre ucciso mentre era sul cavallo (da cui, la Cavallina storna che portavi colui che non ritorna), passando per il “nido” come rifugio e fuga dalla vita, il “Giovannino di nuovo vestito/come le bocche dei biancospini”, l’adulto represso. No, è il vero Pascoli.

A rivelarci chi era l’uomo e il poeta è la studiosa Francesca Sensini (associato di Italianistica a Nizza) nel denso e gustoso saggio dall’efficace titolo Pascoli maledetto, che prova a sprigionare il poeta dalla lettura scolastica, “una rappresentazione di sfortune, traumi, turbe, lacrime che obbligano l’artista e la sua opera a una veglia mortuaria” al fine di “demufficare il grande artista da una narrazione datata e falsata”. L’essere maudit/maledetto è una categoria dello spirito e del corpo. E sembra essere il corpo – la sua miseria, la sua transitività – a muovere ogni volta il nostro. Scopriamo, così, che a trent’anni Pascoli conduce un’ esistenza bohèmienne a Bologna: fa tardi con gli amici goliardi e giovani artisti in serate alcooliche, si consacra alla poesia grazie al consumo di laudano (un rimedio a base di oppio, alcool e spezie). È un anarchico, veemente segretario bolognese dell’Internazionale dei lavoratori. Ed era noto al Prefetto di Bologna: dalla metà degli anni 1870, da una nota del Ministero dell’Interno, si apprende che di lui si parla quale “il noto Pascoli, organizzatore capo” delle azioni degli anarchici in città. Un sovversivo che finisce in cella per tre mesi.

Di tale stagione restano componimenti poetici, come un’ode a Passante (l’attentatore di re Umberto I, andata quasi interamente perduta) o La morte del ricco, in cui l’autore mette in scena tutti gli spettri delle vittime del capitalismo, incarnato dal ricco sul letto di morte: un contadino sfruttato, un minatore già sepolto in vita, un affamato. Come individua Sensini, però, questi testi non vengono letti nelle scuole, perché si preferisce dare del Pascoli una versione rassicurante e una lettura più nazional-popolare. Ma l’aspetto più obliato della sua produzione è l’eros, che non è per nulla turbato o rivolto alle sorelle, ma vivacissimo e spontaneo, aureolato a “irrinunciabile ragione di vita” annota la studiosa, che dalle lettere e i documenti da poco esperiti, oltre a raccontare di innamoramenti extra-coniugali (come quando a Messina, professore di liceo, s’innamora di una studentessa, Maria), registra la felice frequentazione delle case di tolleranza. Nell’epistolario col fratello Raffaele, secretato per volontà della sorella Maria fino al 2016, leggiamo: “Puoi immaginare quanti pasticci abbia fatto per non fare accorti in casa di una somma così grande che se ne va – nel bordello e nell’osteria”. Il sesso è un’esperienza esaltante per Giovanni e lo troviamo evocato nell’immagine del fiore. Rileggiamo subito Gelsomino notturno: cosa saranno mai i “fiori notturni” che “s’aprono” dell’attacco? Per sciogliere l’allegoria, di nuovo il francese (Pascoli era grande lettore di Verlaine e Baudelaire): i gelsomini notturni sono anche detti “belle di notte” , e belle de nuit è un altro modo di chiamare le entraîneuse dei bordelli. Ah, che sporcaccione Giovanni.

Ma anche un fervido amante delle donne: la sua poesia abbonda di femmine fascinose , spesso redivive come nella poesia di Poe. In questa continua tensione tra oscillazione ed esaltazione dell’artista attraverso la poesia come idéal di Baudelaire e lo spleen più nero, Pascoli è poeta assoluto, cioè maledetto, dalla definizione di Verlaine: “Assoluto quanto a immaginazione, assoluti nell’espressione”, ma maledetti perché la trasgressione dalla mediocre realtà comporta dolore e perdita di sé. A ben pensarci, però, già Cesare Garboli in Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli da poco ripubblicato, aveva iniziato a suggerire che il poeta fosse tutt’altro che mieloso, ma più inquietante. Le poesie da lui selezionate sono dei “versicoli di casa”, ma in realtà “dettagli che aprono sull’inferno pascoliano”. Alro che eterno fanciullino, dalla famiglia Giovanni fuggiva, tanto che all’amico Severino Ferrari scrive: “Io non posso più durarla in una vita così trambosciata con quello spettacolo de’ miei fratelli affamati e piangenti”. E lo ricorda, pure Sensini che nel dare a Pascoli la stessa caratura internazionale di Verlaine o Baudelaire, rammemora quanta gioia di vivere gli corresse nelle vene, appena uscito di casa al primo incarico di insegnante: “Tutto il mondo è paese ed io ho risoluto di trovar bella la vita e piacevole il mio destino”.

Putin manda le truppe: di giornalisti

Non fucili, ma microfoni. Non in divisa, ma in giacca e cravatta. Non soldati, ma giornalisti. È l’aiuto di Mosca alle autorità di Minsk in difficoltà per le rivolte di piazza e per le dimissioni di molti reporter che prendono le distanze dalla propaganda di Lukashenko. In aiuto del presidente assediato sono stati spediti dalla Russia non gli “omini verdi” che apparvero in Crimea prima dell’annessione alla Federazione nel 2014, ma un centinaio di reporter: “Due aerei carichi di giornalisti russi sono arrivati per rimpiazzarci in cambio di alti salari”, ha detto Alyona Martinovskaya, una giornalista che ha abbandonato il canale Belarus-3. Una metafora perfetta del vuoto di informazione nel Paese – dove il capo dello Stato oscura Internet per bloccare il flusso di notizie – è stata l’immagine degli studi televisivi vuoti del telegiornale statale: il 17 agosto le telecamere inquadravano sedie e scrivanie senza nessuno.

“Era il mio sogno d’infanzia a cui ho dedicato dieci anni, ma ieri ho visto lo studio per l’ultima volta”. Lo ha scritto su Instagram per rendere pubbliche le sue dimissioni uno dei volti più noti del canale della tv Bt, Serghey Kozlovich. “Per colpa del mio stato emotivo ho dovuto smettere”: le ultime notizie che ha letto in onda risalgono al 10 agosto scorso, poi si è reso conto che “il peso che gravava sulla sua coscienza” non gli permetteva di andare oltre. Prima che le proteste iniziassero, si considerava “non un giornalista, ma un traduttore per tutto ciò che il governo voleva dire alle persone”. Durante gli scioperi, mentre leggeva la versione ufficiale arrivata dal ministero dell’Interno, in mente aveva alcuni amici e parenti, tutti finiti in manette o in cella per aver preso parte alle manifestazioni, e non è più riuscito a guardare la telecamera per ripetere bugie mentre in tutto il resto del mondo e del Paese stavano informando del contrario. Se un centinaio di giornalisti russi entra, un altro centinaio rimane fuori: ad alcuni reporter stranieri è stato negato l’accredito d’ingresso, altri hanno ricevuto un divieto di accesso in Bielorussia per i prossimi cinque anni. A parlare di morale è stato anche Vadim Shundalov, un altro giornalista che ha detto addio alle manipolazioni del governo: “Quest’anno la mia coscienza ha detto: è abbastanza”.

Quando il manifestante Aleksandr Taraikovsky è stato ammazzato in piazza Pushkinskaya, il 10 agosto scorso, qualcosa è cambiato. Per il governo “era necessario riferire che era morto per qualcosa che era esploso tra le sue mani, ma c’erano video della polizia in cui si vedeva che lo picchiavano”.

Melania e le lodi a Trump: è la convention, bellezza

Donald Trump è al settimo cielo: le prime battute della convention democratica gli sono piaciute, tanto da ringraziare l’odiatissima Cnn per la copertura. La seconda giornata s’annunciava, però, scivolosa: quattro anni or sono, a Cleveland, Melania Trump aveva fatto flop, con un discorso in parte copiato da quello del 2008 di Michelle Obama: e dire che il magnate aveva garantito che l’aveva scritto lei, di suo pugno, ma nessuno ci aveva creduto.

Questa volta, a creare apprensioni non è il discorso dal Giardino delle Rose della Casa Bianca, appena rinnovato, ma un libro che sta per uscire, l’ennesimo di una stagione editoriale ‘maledetta’ per la famiglia Trump. Melania sarebbe finita su un nastro segretamente registrato mentre dice cose non lusinghiere sul conto del marito, di cui aveva appena ascoltato quelle che Donald definì “chiacchiere da spogliatoio” con il conduttore televisivo Billy Bush. Nei sondaggi, il magnate resta indietro rispetto al suo rivale Joe Biden, che, però, non ha ricevuto nessuna spinta dalla kermesse democratica: Politico/Morning Consult gli dà il 48% dei consensi, contro il 42% a Trump, che, di fronte ai delegati, ha però citato l’unico sondaggio a lui favorevole. RealClearPolitics, che fa la media dei principali rilevamenti, calcola Biden in vantaggio di 7,6 punti su Trump. A mettere nelle peste Melania, è stata una ex amica e confidente, Stephanie Winston Wolkoff, che, allontanata dalla Casa Bianca nel febbraio 2018, starebbe per rivelare in un libro come la First Lady reagì al linguaggio maschilista del marito presidente e anche le relazioni non idilliache con Ivanka, sua figliastra e consigliera molto ascoltata di Trump.

Il libro della Winston Wolkoff, intitolato Melania e io: ascesa e caduta di un’amicizia, sarà pubblicato il primo settembre da Simon and Schuster, che, dopo i volumi al curaro di John Bolton, ex consigliere per la Sicurezza nazionale, e di Mary Trump, la nipote di Donald, ha pure pronto quello dell’avvocato paraninfo Michael Cohen. In quasi quattro anni alla Casa Bianca, Melania non è divenuta un’icona americana: ha talora avuto gesti d’insofferenza verso il marito, sulla vicenda dei figli degli immigrati separati dai genitori, o sul portare la mascherina, che lei adottò per tempo; e talora ha ostentatamente rifiutato sue premure in pubblico, come il prenderla per mano. Ma è sempre rimasta fuori dal dibattito pubblico. Della seconda giornata della convention repubblicana, il discorso della First Lady fa meno rumore della decisione – “assolutamente vergognosa”, dice Biden – del Segretario di Stato Mike Pompeo: parla da Gerusalemme, dov’è in visita, facendosi, secondo il candidato democratico “galoppino per la rielezione del presidente” durante “una missione diplomatica finanziata dai contribuenti” e usando Israele “come strumento”: “l’uso ripetuto e sfacciato del suo ufficio per scopi politici di parte mina il lavoro dei diplomatici e indebolisce ulteriormente le alleanze cruciale e le relazioni globali degli Stati Uniti, già malamente danneggiate dalla avventatezza di questa Amministrazione”.

Pompeo è in Medio Oriente per cercare di indurre altri Paesi arabi alla normalizzazione dei rapporti con Israele, dopo gli Emirati Arabi Uniti. Biden attacca Pompeo, ma cerca di preservare il rapporto con Israele: “È l’ultimo tentativo di questa Amministrazione di usare Israele come controversa questione politica, mentre lo storico sostegno bipartisan a Washington per Israele e la sua sicurezza non dovrebbe mai essere subordinato alla politicizzazione per vantaggi personali”. La campagna di Biden è anche critica sulla convention repubblicana: “La verità è che la leadership di Trump è fallita e che lui non ha nulla di positivo con cui motivare gli elettori”.

Soldi sporchi, Germania kaputt

La Germania ha un problema con il riciclaggio del denaro sporco. Forse non è un segreto per chi di queste cose si occupa, ma è di sicuro una novità per l’opinione pubblica tedesca, che scopre di dover far i conti, in casa propria, con un esercito di colletti bianchi non così immacolati. L’ultimo report annuale della Financial intelligence Unit di Colonia, che riceve le segnalazioni di presunti reati finanziari, mostra un trend di crescita preoccupante.

In dieci anni le segnalazioni sono decuplicate passando dalle 10.000 del 2009 alle 114.914 del 2019 e in un anno, cioè dal 2018 al 2019 sono aumentate di 37.000. Cosa racconta questo aumento? Ci sono più casi sospetti in assoluto o si segnala di più che in passato? Entrambi. E comunque “l’aumento delle segnalazioni di sospetto riciclaggio non è identico a una migliore lotta contro il money laundering”, mette in guardia Fabio De Masi, deputato della Linke che si occupa di questi temi. Il diavolo, infatti, è nei particolari come vedremo, ma almeno il problema è sul tavolo. “Tradizionalmente la cultura del perseguimento di reati come il riciclaggio di denaro in Germania è poco sviluppata”, ha ammesso il responsabile del dipartimento di indagine delle transazioni finanziarie (Fiu) Christoph Schulte a Tagesspiegel pochi giorni fa. In effetti, se paragonata all’Italia, la legislazione in materia è giovane. Il reato di riciclaggio è stato inserito nel codice penale tedesco nel 1992 (in Italia nel 1978) e la prima legge che lo riguarda è del 1993, poi rivista nel 2008, ma per molti ancora lacunosa. Soltanto l’11 agosto scorso i ministeri della Giustizia e delle Finanze hanno accolto la direttiva europea del 2018 per la lotta al riciclaggio, presentando una proposta di legge che potrebbe determinare la vera svolta rispetto al passato. Finora, infatti, si veniva perseguiti per riciclaggio solo quando si poteva dimostrare che il patrimonio sospetto derivasse da commercio di droga, tratta di esseri umani o estorsione. Il progetto di legge invece prevede di trasformare in reato penale il semplice nascondere profitti illeciti, a prescindere dalla loro provenienza. L’aspetto legislativo in ogni caso non è l’unico elemento in gioco. Mentre la situazione al livello di indagini è più complicata di quanto si immagini. La Financial Intelligence Unit, ovvero l’unità centrale per il rilevamento dei sospetti reati di riciclaggio, è stata creata agli inizi degli anni duemila come una divisione dell’Ufficio criminale federale. Poi nel 2017 l’allora ministro delle Finanze cristiano-democratico Wolfgang Schäuble l’ha inglobata all’interno del ministero delle Finanze presso l’autorità delle dogane. Azione che non è passata inosservata e ha suscitato non poche critiche. Secondo il responsabile dell’Ufficio criminale federale, Sebastian Fiedler, questo spostamento dal dicastero degli Interni alle Finanze ha depotenziato la forza e l’efficienza della struttura e l’ha privata della collaborazione delle altre forze di polizia. L’unità in sé non svolge una funzione investigativa attiva ma una funzione di filtro: riceve le segnalazione di transazioni finanziarie sospette da banche, istituti finanziari e notai, quindi le studia, le verifica e le gira alle autorità inquirenti. Ma dei quasi 115.000 casi sospetti nel 2019 appena un terzo è stato rinviato alle procure. E dal 2017 ad oggi le segnalazioni girate dal Fiu hanno prodotto solo 156 sanzioni, 133 rinvii a giudizio, 54 sentenze. Numeri esigui. Di sicuro l’inefficienza del sistema fa discutere la stampa, soprattutto per le mancanze strutturali, come l’assenza di computer e personale.

“Dei 400 posti sulla carta ne abbiamo coperti 300”, racconta il responsabile del dipartimento del Fiu, Schulte. Il lavoro della squadra per i reati finanziari procede così lentamente che la si accusa di rallentare volutamente i procedimenti, trasformando la funzione di filtro in un collo di bottiglia. E il sospetto è così fondato che la Procura di Osnabruck ha aperto un fascicolo con l’accusa di ostruzione alla Giustizia. Secondo il pubblico ministero della Bassa Sassonia, dalla metà del 2018 all’inizio del 2020 in otto casi sospetti di riciclaggio l’Unità non ha proceduto o non lo ha fatto abbastanza velocemente, racconta Süddeutsche Zeitung. E in ballo, in casi del genere, non ci sono mai bruscolini: nello specifico si parlava della segnalazione 1,7 milioni di euro affluiti da tre istituti bancari tedeschi verso stati africani. Anche sul caso Wirecard la società per i pagamenti online con fondi fiduciari fantasma – i sospetti sono analoghi. La Germania non è più e non è solo l’auto-land.

StraBerry, l’impresa cool aveva gli schiavi nei campi

“Buoni, puliti e belli”. All’indomani del sequestro disposto dal Tribunale di Milano per il primo caso di caporalato nelle campagne della Lombardia, lo slogan che continua a campeggiare sul sito dell’iperpremiata start up StraBerry assomiglia un po’ al grido “Milano non si ferma” lanciato dal sindaco Beppe Sala poco prima che la sua regione diventasse l’epicentro mondiale dei contagi da Covid. Un clamoroso autogol pubblicitario. O, detta in termini psicologici, il classico caso di storia vissuta e storia raccontata. Partiamo da quella raccontata.

Un giovane bocconiano, Guglielmo Stagno d’Alcontres, messinese di nobili origini trapiantato a Milano, fonda una start up che coltiva fragole e le vende, oltre che online, tramite una rete di apecar che girano per la città. Il business funziona, gli ordini aumentano e le apecar bianche e rosa piazzate nelle vie del centro meneghino pure.

D’altra parte l’idea di comprare per pochi euro una vaschetta di fragole coltivate a soli 15 chilometri di distanza dalla Madonnina, nelle campagne del Parco Sud, sotto serre riscaldate dall’energia prodotta da pannelli fotovoltaici, è in effetti una novità che si sposa alla perfezione con lo spirito del tempo.

Nel 2013 e nel 2014 Straberry riceve il premio riservato da Coldiretti alle aziende più attente alla sostenibilità ambientale. L’anno dopo arriva anche il riconoscimento del Parco Agricolo Sud Milano, che la descrive come l’azienda più attenta all’ambiente, al territorio e al paesaggio. La start up inizia a fare proseliti sui social. I giornali vanno in visibilio. “A Cassina de’ Pecchi un esempio riuscito di imprenditoria giovanile” (Corriere della Sera, 2015). La storia di Guglielmo Stagno d’Alcontres è perfetta per spargere pennellate di ottimismo in tempi di declino economico. E lui, ovviamente, non si tira mai indietro quando si tratta di raccontare i segreti del suo successo. Mentre studiava in Bocconi, è il ricordo ripreso da tutti i quotidiani che ne hanno scritto negli ultimi anni, “mi venne l’idea di cosa fare dei terreni – 60 ettari a mais e prati stabili – di mia madre a Cassina de’ Pecchi, nel Parco Agricolo Sud Milano. Non rendevano una mazza! Oltre a non saper d’agricoltura non avevo mai fatto l’imprenditore; però capisco velocemente le cose, i numeri mi vengono fuori subito”, raccontava a La Stampa nel 2017.

Un caso di self-made-farmer utile a personificare la tendenza dei giovani che abbandonano le scrivanie per tornare alla terra. “Mentre i miei amici dopo la laurea partivano per la London School of Economics o per New York io cercavo in Olanda le serre migliori”, gonfiava il petto Stagno d’Alcontres snocciolando i numeri della sua impresa: 1,6 milioni di euro di fatturato, 130 lavoratori nei picchi di raccolta, ingresso dei prodotti StraBerry in alcuni supermercati a marchio Iper, pure l’idea di aprire un franchising.

Fine della storia raccontata e inizio di quella vissuta. Secondo i finanzieri del comando provinciale di Milano e il pm Gianfranco Gallo, le fragole della StraBerry erano raccolte da decine di migranti subsahariani sottopagati, sfruttati e minacciati. Un centinaio di ragazzi africani, quasi tutti ospiti di centri d’accoglienza tra Milano e Monza, che invece delle sei ore e mezza di lavoro registrato in busta paga sgobbavano molto di più, arrivando a guadagnare effettivamente una cifra compresa tra 3,5 e 4,5 euro all’ora. Circa la metà rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale di categoria.

Un modello di business non proprio innovativo, secondo il gip di Milano che ha convalidato il decreto di sequestro per 7,5 milioni di euro nei confronti dell’impresa controllata dal giovane Stagno d’Alcontres e amministrata dalla madre, Fabrizia Pilla. I due sono indagati per caporalato (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) insieme ad altre cinque persone dell’azienda. Tra questi c’è il consulente usato per le buste paga truccate, due segretarie amministrative e i due uomini deputati al controllo, un italiano e un guineiano. Erano questi ultimi, secondo l’accusa, a vigilare sui braccianti nei campi a sud di Milano, a minacciare chi non seguiva alla lettera gli ordini dei vertici. Pena prevista? Due giorni senza lavoro, che a 4,50 euro all’ora per 9 ore fanno 81 euro. Quanto basta per ottenere il silenzio di chi è in Italia da solo da qualche mese, parla a stento la lingua, deve mandare denaro a casa per ripagarsi il viaggio ed è in attesa di un permesso di soggiorno.