Chissà Giorgio Bocca cosa ne avrebbe pensato, come avrebbe reagito. Me lo chiedo ogni volta che penso a lui, vero maestro. E succede spesso da quando andiamo in giro, con Laura Gnocchi e tanti altri, a raccogliere le testimonianze dei partigiani per farne con l’Anpi un Memoriale nazionale della Resistenza. Ne incontro anche di più vecchi di Giorgio Bocca, che avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 28 agosto, giorno in cui nacque a Cuneo nel 1920. Come lui, il fascismo lo annusano e lo riconoscono d’istinto anche quando si maschera. Su questo non ho dubbi: Giorgio, il comandante partigiano, convinto che in quei venti mesi di Resistenza si fosse espressa l’Italia migliore, lui che pure per irruenza di cantonate ne ha prese eccome, per esempio una breve infatuazione per i “barbari” leghisti, tra un Bossi e un Salvini avrebbe saputo distinguere. E ritrovarsi quest’ultimo al Viminale gli avrebbe fatto prudere le mani. Anche sui cambiamenti di proprietà e di linea dei giornali in cui aveva continuato a fare il bastian contrario, l’antitaliano, insegnandoci il mestiere tenendosi alla larga dalle stanze di direzione, ho un’idea precisa di quel che amaramente penserebbe. Ma nessuno, tranne forse la sua compagna di vita Silvia Giacomoni, ha il diritto di imbastirci delle supposizioni. Di sicuro possiamo dire quanto sarebbe stato orgoglioso di sua figlia Nicoletta, nata a Milano ma reinnestata come un vitigno autoctono nelle sue Langhe per farci un dolcetto tra i migliori d’Italia. Da quei bricchi, con lo Sten in spalla, guardava la pianura verso Torino sognando il dopo Liberazione, per sentirsi dire dal comandante Dante Livio Bianco: “Andrà già bene se non ci mettono dentro”. Si mise a fare il giornalista, cioè “il bracciante della cultura” alla Gazzetta del popolo di Torino, dove gli einaudiani e i professori universitari annettevano quelli come lui a “una specie di pittoresca suburra, da capitarci qualche volta per una notte brava, ma da non invitare”. Milano, invece, Bocca la conquistò. Bello, talentuoso e ruvido, introdotto nella borghesia progressista da Camilla Cederna, raccontò la modernizzazione del Paese, il boom economico, i vizietti e l’ignoranza dei padroni del vapore, con una neolingua che rendeva magica ogni cronaca, appassionante perfino la descrizione di un ciclo produttivo. Guadagnava bene e si godeva il successo a modo suo. Buoni cibi e buoni vini (“diventai il Re Sole degli alimentari”, scrive di sé ne Il provinciale) e scandalizzava le signore della Milano-bene raccontando a cena della volta in cui, sotto rastrellamento, aveva dovuto fucilare personalmente l’ufficiale delle SS che il suo gruppo partigiano si era portato dietro come prigioniero per tre mesi. Passò dall’Europeo al Giorno portandosi dietro, nell’esplorazione del neocapitalismo, la passione litigiosa per l’ambiente in cui si era formato in montagna: badogliani e garibaldini, o meglio azionisti e comunisti; un borghese progressista convinto che senza gli operai e la sinistra l’Italia sarebbe tornata indietro. Lo scrisse anche il 12 dicembre 1969, il giorno stesso della strage di piazza Fontana, che era roba di servizi segreti e di fascisti, non di anarchici. Per poi aprire la cronaca dei funerali in piazza Duomo con queste parole: “Per avere l’ordine al centro di Milano bisogna che ci vengano gli operai”. Ho tra le mani un libro del 1979, Vita di giornalista, in cui Walter Tobagi intervista Giorgio Bocca sul suo mestiere. Negli anni successivi Bocca continuò a esserne la voce critica pubblicando su Prima comunicazione dei dialoghi sinceri e pungenti con Massimo Fini (al quale in seguito subentrai). Sulla copertina di quel libro Tullio Pericoli ritraeva Bocca con la stilografica innestata a mo’ di baionetta sul mitra che porta in spalla. Tobagi gli chiede anche degli anni del Guf, i gruppi universitari fascisti cui Giorgio neanche ventenne aveva aderito. E aveva scritto una recensione antisemita dei Protocolli dei Savi di Sion che invano hanno cercato di rinfacciare a uno come lui che non divenne certo un partigiano dell’ultima ora, bensì un combattente e un comandante decorato al valor militare; a partire dall’autunno 1943. Mi colpisce oggi una triste coincidenza di quel volume, che si chiude discutendo sul terrorismo di sinistra, come raccontarlo e come combatterlo da democratici. Raccontando a Tobagi la genesi del suo primo libro sul miracolo economico, Bocca cita il suo “amico carissimo” Donato Barbone, editor della Laterza. Ignorando che, meno di un anno dopo, il di lui figlio Marco ammazzerà chi lo sta intervistando. Era, il nostro, ed è ancora, un Paese complicato.
Giorgio Bocca è morto nove anni fa il giorno di Natale, in un’Italia berlusconiana che lo amareggiava. Sepolto con indosso la giacca di lana del suo amico Missoni: odiava le cravatte e il fighettismo altoborghese. Lui era un intransigente ma non un settario. Ribelle sì, ma curioso e con nessuna intenzione di rinunciare al benessere che il suo talento gli aveva procurato. A Repubblica aveva trovato la sua casa naturale fin dalla sua fondazione, pur non appartenendo alla cerchia ristretta di Eugenio Scalfari. Di quel giornale, semmai, rappresentava una preziosa individualità nordista (talora greve coi meridionali), maldisposta a rispettare gli equilibri della politica e dell’establishment. Così la sua intransigenza di nostalgico del Partito d’Azione diventava anche irruenza, cocciutaggine: un giornalismo appassionato, a tinte forti, pennellate irregolari per tesi mai dissimulate. Davvero un esempio di coraggio per noi che mai saremmo riusciti a imitarlo, ma che dal suo esempio venivamo chiamati a schierarci. E se nell’irruenza capitava che per soldi provasse a andare a vedere come si lavorava alla tv di Berlusconi, poi se ne ritraeva assai deluso. Provò a mantenere per i suoi libri il rapporto assai conveniente con la Mondadori, nonostante fosse di proprietà berlusconiana. Ma dal 2002 in poi non ce la fece più. Passò alla Feltrinelli e il primo titolo fu Piccolo Cesare. Scriveva veloce come una saetta, ma erano saette che incidevano nel profondo. Da ammiratore dei contadini piemontesi, anche se nato in città, poggiava il suo mestiere su una corteccia dura come la sua voce e la sua pellaccia: la linfa, cioè l’anima, era passione civile, ribellione, voglia di giustizia; ma intorno, a cerchi concentrici, si era formato il tronco dell’esperienza. Finché ne ha avuto le forze, Giorgio ha adorato girare per ogni contrada d’Italia e nel mondo. Passare notti solitarie in camera d’albergo dopo aver cenato col taccuino degli appunti di fianco al piatto. È la passione inesausta che lo ha fatto grande, dalla parte giusta. Per me, il migliore. Mi manca tantissimo.