La penna-baionetta di Bocca e i taccuini tenuti vicino al piatto

Chissà Giorgio Bocca cosa ne avrebbe pensato, come avrebbe reagito. Me lo chiedo ogni volta che penso a lui, vero maestro. E succede spesso da quando andiamo in giro, con Laura Gnocchi e tanti altri, a raccogliere le testimonianze dei partigiani per farne con l’Anpi un Memoriale nazionale della Resistenza. Ne incontro anche di più vecchi di Giorgio Bocca, che avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 28 agosto, giorno in cui nacque a Cuneo nel 1920. Come lui, il fascismo lo annusano e lo riconoscono d’istinto anche quando si maschera. Su questo non ho dubbi: Giorgio, il comandante partigiano, convinto che in quei venti mesi di Resistenza si fosse espressa l’Italia migliore, lui che pure per irruenza di cantonate ne ha prese eccome, per esempio una breve infatuazione per i “barbari” leghisti, tra un Bossi e un Salvini avrebbe saputo distinguere. E ritrovarsi quest’ultimo al Viminale gli avrebbe fatto prudere le mani. Anche sui cambiamenti di proprietà e di linea dei giornali in cui aveva continuato a fare il bastian contrario, l’antitaliano, insegnandoci il mestiere tenendosi alla larga dalle stanze di direzione, ho un’idea precisa di quel che amaramente penserebbe. Ma nessuno, tranne forse la sua compagna di vita Silvia Giacomoni, ha il diritto di imbastirci delle supposizioni. Di sicuro possiamo dire quanto sarebbe stato orgoglioso di sua figlia Nicoletta, nata a Milano ma reinnestata come un vitigno autoctono nelle sue Langhe per farci un dolcetto tra i migliori d’Italia. Da quei bricchi, con lo Sten in spalla, guardava la pianura verso Torino sognando il dopo Liberazione, per sentirsi dire dal comandante Dante Livio Bianco: “Andrà già bene se non ci mettono dentro”. Si mise a fare il giornalista, cioè “il bracciante della cultura” alla Gazzetta del popolo di Torino, dove gli einaudiani e i professori universitari annettevano quelli come lui a “una specie di pittoresca suburra, da capitarci qualche volta per una notte brava, ma da non invitare”. Milano, invece, Bocca la conquistò. Bello, talentuoso e ruvido, introdotto nella borghesia progressista da Camilla Cederna, raccontò la modernizzazione del Paese, il boom economico, i vizietti e l’ignoranza dei padroni del vapore, con una neolingua che rendeva magica ogni cronaca, appassionante perfino la descrizione di un ciclo produttivo. Guadagnava bene e si godeva il successo a modo suo. Buoni cibi e buoni vini (“diventai il Re Sole degli alimentari”, scrive di sé ne Il provinciale) e scandalizzava le signore della Milano-bene raccontando a cena della volta in cui, sotto rastrellamento, aveva dovuto fucilare personalmente l’ufficiale delle SS che il suo gruppo partigiano si era portato dietro come prigioniero per tre mesi. Passò dall’Europeo al Giorno portandosi dietro, nell’esplorazione del neocapitalismo, la passione litigiosa per l’ambiente in cui si era formato in montagna: badogliani e garibaldini, o meglio azionisti e comunisti; un borghese progressista convinto che senza gli operai e la sinistra l’Italia sarebbe tornata indietro. Lo scrisse anche il 12 dicembre 1969, il giorno stesso della strage di piazza Fontana, che era roba di servizi segreti e di fascisti, non di anarchici. Per poi aprire la cronaca dei funerali in piazza Duomo con queste parole: “Per avere l’ordine al centro di Milano bisogna che ci vengano gli operai”. Ho tra le mani un libro del 1979, Vita di giornalista, in cui Walter Tobagi intervista Giorgio Bocca sul suo mestiere. Negli anni successivi Bocca continuò a esserne la voce critica pubblicando su Prima comunicazione dei dialoghi sinceri e pungenti con Massimo Fini (al quale in seguito subentrai). Sulla copertina di quel libro Tullio Pericoli ritraeva Bocca con la stilografica innestata a mo’ di baionetta sul mitra che porta in spalla. Tobagi gli chiede anche degli anni del Guf, i gruppi universitari fascisti cui Giorgio neanche ventenne aveva aderito. E aveva scritto una recensione antisemita dei Protocolli dei Savi di Sion che invano hanno cercato di rinfacciare a uno come lui che non divenne certo un partigiano dell’ultima ora, bensì un combattente e un comandante decorato al valor militare; a partire dall’autunno 1943. Mi colpisce oggi una triste coincidenza di quel volume, che si chiude discutendo sul terrorismo di sinistra, come raccontarlo e come combatterlo da democratici. Raccontando a Tobagi la genesi del suo primo libro sul miracolo economico, Bocca cita il suo “amico carissimo” Donato Barbone, editor della Laterza. Ignorando che, meno di un anno dopo, il di lui figlio Marco ammazzerà chi lo sta intervistando. Era, il nostro, ed è ancora, un Paese complicato.

Giorgio Bocca è morto nove anni fa il giorno di Natale, in un’Italia berlusconiana che lo amareggiava. Sepolto con indosso la giacca di lana del suo amico Missoni: odiava le cravatte e il fighettismo altoborghese. Lui era un intransigente ma non un settario. Ribelle sì, ma curioso e con nessuna intenzione di rinunciare al benessere che il suo talento gli aveva procurato. A Repubblica aveva trovato la sua casa naturale fin dalla sua fondazione, pur non appartenendo alla cerchia ristretta di Eugenio Scalfari. Di quel giornale, semmai, rappresentava una preziosa individualità nordista (talora greve coi meridionali), maldisposta a rispettare gli equilibri della politica e dell’establishment. Così la sua intransigenza di nostalgico del Partito d’Azione diventava anche irruenza, cocciutaggine: un giornalismo appassionato, a tinte forti, pennellate irregolari per tesi mai dissimulate. Davvero un esempio di coraggio per noi che mai saremmo riusciti a imitarlo, ma che dal suo esempio venivamo chiamati a schierarci. E se nell’irruenza capitava che per soldi provasse a andare a vedere come si lavorava alla tv di Berlusconi, poi se ne ritraeva assai deluso. Provò a mantenere per i suoi libri il rapporto assai conveniente con la Mondadori, nonostante fosse di proprietà berlusconiana. Ma dal 2002 in poi non ce la fece più. Passò alla Feltrinelli e il primo titolo fu Piccolo Cesare. Scriveva veloce come una saetta, ma erano saette che incidevano nel profondo. Da ammiratore dei contadini piemontesi, anche se nato in città, poggiava il suo mestiere su una corteccia dura come la sua voce e la sua pellaccia: la linfa, cioè l’anima, era passione civile, ribellione, voglia di giustizia; ma intorno, a cerchi concentrici, si era formato il tronco dell’esperienza. Finché ne ha avuto le forze, Giorgio ha adorato girare per ogni contrada d’Italia e nel mondo. Passare notti solitarie in camera d’albergo dopo aver cenato col taccuino degli appunti di fianco al piatto. È la passione inesausta che lo ha fatto grande, dalla parte giusta. Per me, il migliore. Mi manca tantissimo.

Il candidato sindaco forzista era fascista. Ma va bene così. Anche agli alleati renziani

Se doveva essere il primo esperimento di gemellaggio politico Forza Italia-Italia Viva, la lista presentata per le Amministrative al Comune di Corsico (Milano), si è dimostrata un fallimento. Colpa del candidato sindaco, il forzista Roberto Mei, dal cui armadio sono spuntati diversi scheletri. Scheletri fascisti. Da giorni circola un post del 2011 nel quale Mei commentava con un “Ciao Nonno, ti verrò a trovare al più presto” un video di Mussolini. Ma scavando nella sua pagina, si trovano like più imbarazzanti: come quelli alla “Divisione Folgore-El Alamein” o all’associazione “CulturaIdentità”, che mira a liberare “la cultura dal regime di menzogne del politicamente corretto, dalle soggezioni conformiste della lobby radical chic e dalla globalizzazione dei cervelli”, rivendicando il diritto alla “legittima difesa”. Ma, forse, il “mi piace” più inquietante è quello alla pagina “Ritterkreuz”, collana dedicata alla “storia militare, alle battaglie, alle uniformi, ai mezzi delle SS”.

Ieri Mei, mister preferenze alle ultime due tornate elettorali, già assessore dell’ex sindaco di centrodestra Filippo Errante (caduto nel 2019 per un voto contrario proprio di Forza Italia), si è difeso: “Mi trovo un po’ spiazzato da chi cerca di strumentalizzare un passato evidentemente superato, come dimostra il mio agire degli ultimi anni. Rispetto all’inizio della mia avventura in politica è cambiato tutto. Mi aspettavo che già la scelta di presentarmi separato dagli alleati di sempre (Lega e Fratelli d’Italia, che appoggiano la ricandidatura di Errante, ndr), in favore di un nuovo percorso centrista e riformista con Italia Viva, mi definisse già come un’altra persona. rispetto a 10 anni fa”, ha scritto sui social. Cioè, ero fascista, non lo sono più.

Ma a Corsico, l’ex Stalingrado del Sud-Ovest milanese, Comune commissariato da un anno e mezzo, nessuno si stupisce. “Tutti sapevano delle sue simpatie estremiste”, attacca il candidato M5S, Gianluca Vitali, che ricorda come Mei avesse fatto già discutere, quando alla cerimonia di un 25 Aprile da assessore si tappò platealmente le orecchie durante il discorso di un rappresentante dell’Anpi.

Italia Viva tace. Anzi ieri ha rivendicato: “Abbiamo trovato nel Roberto Mei di oggi i principi riformisti che merita la città di Corsico 2020, non certo quelli riguardanti post di quasi un decennio fa”. I renziani devono abbozzare dopo il no all’apparentamento ricevuto dal candidato Pd, Stefano Ventre. Si dice che Italia Viva proponesse di scambiare i suoi (pochi) voti con la presenza del suo simbolo sui manifesti e sulla scheda elettorale e che Ventre abbia risposto picche. Da qui la scelta di schierarsi con Forza Italia, in cerca di visibilità. Che ha ottenuto. Una visibilità fascista.

L’audio che imbarazza la sindaca Abagnale: De Luca va votato, “è una rata da pagare”

Non è come l’audio delle fritture, ma solo perché la voce non è di Vincenzo De Luca. È di una delle sue nuove sostenitrici, il sindaco di Sant’Antonio Abate Ilaria Abagnale, che in una chat parla per invitare i suoi a votare per le regionali due candidati del governatore Pd in Campania, l’assessore campano Lucia Fortini e l’ex vicesindaco Città Metropolitana, Francesco Iovino, “perché è come quando compri un’auto, la usiamo tutti ma la rata la pago io”. Traduzione: c’è da pagare una rata per De Luca perché “Lucia (candidata in De Luca presidente, ndr) ci ha fatto avere 3 milioni per ristrutturare le scuole” e “Francesco (in lista con Italia Viva, ndr) ci ha fatto ottenere fondi per le strade”. Alta politica. In nome della quale Abagnale dice di aver convinto il marito a ritirarsi. Si tratta di Nicola Rispoli, figlio di Agostino Rispoli, magnate della zona. Gole profonde azzurre spifferano che l’europarlamentare Aldo Patriciello voleva candidare Rispoli in Forza Italia, per Caldoro. Poi è scoppiata l’emergenza Covid. Ed è scattata la corsa a salire sul carro di De Luca.

I grandi evasori non pagano mai: riscossione al 2,7%

Nonostante un (limitato) miglioramento negli ultimi dieci anni, la riscossione dell’evasione accertata resta un buco nero del fisco italiano. Lo conferma l’ennesima analisi della Corte dei Conti su dati dell’Agenzia delle Entrate: in vent’anni (dal 2000 al 2019) sono state affidate ai soggetti di volta in volta preposte “cartelle” – non solo tributarie – per oltre mille miliardi di euro, ma solo il 13,3% degli importi risulta recuperato. La cosa più sconfortante, per così dire, è che la capacità dello Stato di ottenere il dovuto sembra diminuire con l’aumentare dell’importo: le cartelle sopra i 100mila euro affidate alla riscossione dal 2008 al 2019 ammontano a 302,9 miliardi di imposte totali, l’incasso è stato di 8,2 miliardi, il 2,7%. Sotto la soglia dei 100mila euro, invece, gli importi affidati erano pari a 166 miliardi e il recupero si è attestato a 31,7 miliardi, il 19,1%.

Se invece facciamo una fotografia alla situazione attuale (a fine 2019 per la precisione), scopriamo che il “magazzino” delle entrate iscritte a ruolo ancora da incassare ammonta a 954,7 miliardi, ma di questi solo 79,6 miliardi hanno concreta probabilità di finire nelle casse dello Stato: il resto è infatti riferibile a soggetti falliti (153 miliardi), ditte cessate (119 miliardi), contribuenti con “anagrafe tributaria negativa”, cioè di fatto nullatenenti (110 miliardi) e altre situazioni che escludono un futuro recupero di quanto evaso.

La Corte dei Conti, per chiudere su una nota di ottimismo, registra comunque un “netto miglioramento” tra i quinquenni 2010-4 e 2015-9 con un indice di riscossione generale passato dal 10,8 al 12,5%, con saldi positivi sia sui ruoli erariali (Entrate e Dogane) con l’indice salito dal 7,7 al 9%, sia sui ruoli Inps (dal 21,9 al 25,5%). Ferma al 30,5% invece la quota riscossa per i tributi di Comuni e Regioni.

Il bello del calcio più forte della tv

Domenica sera si è disputata fra Bayern Monaco e Paris St. Germain la finale di Champions League, che ha sostituito la vecchia, cara e più onesta Coppa dei Campioni. Nella vecchia Coppa le vincitrici dei rispettivi campionati europei si affrontavano fin dall’inizio con la tradizionale formula secca: andata e ritorno, chi prevaleva passava al turno successivo.

Poiché il calcio è imprevedibile, ed è questo il suo bello, poteva capitare che una squadra minore battesse una grande squadra. Così successe, se non ricordo male, col Lugano contro l’Inter, una grande Inter molto diversa da quella di adesso piena di brocchi, a cominciare dall’equivoco Lukaku. Con la formula attuale, a gironi, con quattro squadre e quindi sei partite da giocare, è ovvio che si evitano le sorprese e passano le squadre più titolate. Inoltre quasi sempre le ultime partite, a passaggio turno ormai ottenuto, sono inutili. La trasformazione della vecchia Coppa dei Campioni in Champions è dovuta, come sempre, a motivi economici: con più partite da giocare molti più quattrini, elementare Watson.

Nelle quote dei bookmakers il Bayern era dato nettamente favorito, 1,55, ma in linea teorica non c’era poi così grande differenza col Paris, come poi si sarebbe visto sul campo. I tedeschi non hanno vinto tanto per una miglior organizzazione di gioco, che pur c’è stata, ma per una questione di mentalità. È vero che nella formazione titolare del Bayern i tedeschi propriamente detti non sono molti (Neuer, tornato a essere, con Ter Stegen, il miglior portiere del mondo, il dubbio Boateng, il modesto ma prezioso Süle, l’esterno Kimmich, molto cresciuto negli ultimi anni, Goretzka, Gnabry e l’eterno Müller sopravvissuto ai Ribery e ai Robben) ma chi gioca col Bayern vive a Monaco di Baviera e acquista una forma mentis da Bayern cioè tedesca. E i tedeschi hanno sempre battuto i boriosi francesi, come dimostra la Storia di altre e più vere battaglie di cui il calcio è solo una sia pur interessante metafora (la linea Maginot: in due settimane, passando attraverso i Paesi Bassi, Hiltler passeggiava sugli Champs-Élysées godendone la bellezza perché, checché se ne dica, non era privo di gusto estetico).

La partita, dal punto di vista tecnico, non è stata bella, ma tesa ed emozionante com’è inevitabile in una finale di Champions. I problemi iniziano con Sky, a cominciare dai telecronisti che non fanno che discettare di schemi, “si sono messi a quattro”, “Tizio è stato spostato a sinistra”, “Caio gioca dieci metri più indietro”, invece di descrivere la partita e di restituirne le emozioni (nostalgia di Nicolò Carosio: “Così si gioca, palla avanti e pedalare” riferito al piccolo Muccinelli ala della Juve e della Nazionale o la mitica chiusa dopo una vittoria degli Azzurri in Scozia: “E adesso andiamo a berci un buon wiskaccio!”, oggi arriverebbe subito la psicopolizia).

In studio conduce Ilaria D’Amico, brava quanto bella, che potrebbe essere impegnata anche in trasmissioni non sportive come rare volte, troppo rare, le è stato concesso di fare. Il parterre è sontuoso: Fabio Capello, Billy Costacurta, Alessandro Del Piero, il simpatico ‘Cuchu’ alias il Cambiasso di un’altra Inter.

È chiaro che quando parla Capello, grande giocatore ma anche grande allenatore, quindi con una visione complessiva del gioco, noi tifosi ci mettiamo sull’attenti. E lo stesso vale, sia pure a un livello un po’ inferiore, per i Del Piero, i Costacurta, i ‘Cuchu’.

Se si tratta quindi di spiegare il gioco, tutto va bene. Il disastro comincia con le interviste agli allenatori e ai giocatori. Domande prive di sale e direi anche di senso che inducono gli intervistati a risposte altrettanto banali.

Se chiedi a un giocatore che ha appena vinto la Champions quanta emozione ha provato, che vuoi che ti risponda? “Tantissima. E stato meraviglioso, stupendo, incredibile”.

In quanto agli allenatori, ma qui torniamo al campionato italiano, devono restare necessariamente sul vago, per colpa dei media perché se dicono che Caio ha giocato bene il giorno dopo i giornali titoleranno che il tecnico ha detto che gli altri dieci hanno giocato male.

Anche il giocatore, quand’anche abbia segnato tre gol, non può fare concessioni all’autostima, ma deve dire che è sempre e comunque “tutto merito del gruppo”. Perdi, non importa, c’è “un progetto”, altro termine intollerabile che va bene per un’azienda non per una squadra di calcio. Se perdi è meglio perché “cresci” e “cresce il progetto”.

Che le sconfitte insegnino è vero, ma in linea di massima le partite è meglio vincerle che perderle. Ai due allenatori, bravissimi, entrambi tedeschi, Flick e Tuchel, qualche domanda l’avrei fatta.

A Flick, intervistato da Sky, avrei chiesto perché a dieci minuti dalla fine (prevedibile recupero compreso) ha messo fuori Thiago Alcantara perno decisivo del gioco del Bayern per far posto a Tolisso. Una sostituzione incomprensibile perché i francesi avrebbero potuto ancora segnare e nei supplementari l’assenza di Thiago Alcantara si sarebbe fatta sentire pesantemente. Per sua fortuna, il suo dirimpettaio Tuchel pochi minuti prima aveva fatto una mossa altrettanto incomprensibile, aveva messo fuori Di Maria che è insostituibile per definizione, perché ha visione di gioco, lanci geniali alla Iniesta, disposizione a difendere quando occorre, gran tiro (un gol e due assist col Lipsia, tanto per dire).

Una domanda l’avrei fatta anche Thiago Silva, pure intervistato da Sky. Thiago centrale del Paris aveva il compito, insieme al compagno Kimpembe, di occuparsi di Robert Lewandowski. Lewandowski è da anni il miglior centravanti del mondo (per certi versi mi ricorda Ruud van Nistelrooy perché è un bomber assassino, ma sapendo giocare al calcio non è egoista, passa il pallone al compagno meglio piazzato e contrasta con la dovuta durezza). Lewandowski quest’anno ha segnato 55 gol in 46 partite e in questa Champions aveva segnato almeno un gol in ogni turno. Domenica non ha segnato. A Thiago Silva, che ha 35 anni e ha affrontato nella sua carriera i migliori centravanti del mondo, avrei chiesto come ha fatto a fermare Lewandowski e che differenza c’è tra Lewandowski e gli altri assi che ha incrociato. Gli avrei anche chiesto come mai la difesa del Paris, che da capitano comanda, si è fatta sorprendere sul colpo di testa di Coman, il più scarso del Bayern. Invece che gli han chiesto? Se era amareggiato. Ma vai a dar via el cu.

Domenica, alla fine della trasmissione, Ilaria D’Amico e suoi partner si sono autocelebrati. Con ragione perché giocandosi quasi una partita al giorno han dovuto faticare quanto i giocatori e forse anche un po’ di più perché mentre uscivano di scena le varie squadre uscivano di scena anche i loro giocatori, mentre D’Amico e gli altri han dovuto restare sul pezzo fino all’ultimo. In questa autocelebrazione avrei evitato qualche slinguata di troppo alla dirigenza Sky sportiva e non. Non è elegante. E a Ilaria D’Amico una cosa la direi: è vero che loro sono i migliori ma, avendo Sky il monopolio, giocano la partita senza avversari. Troppo facile.

 

La sessualizzazione di Francesco Totti

Francesco Totti, quello che sputò su un avversario durante una partita, si è adontato perché la direttrice del settimanale Gente ha mostrato il culetto della bambina tredicenne Chanel sulla copertina del suo settimanale.

Come dargli torto? Però non si può negare che il culetto dei bimbi non è un “Lato B”, come lo ha definito Francesco Totti, quello che sputò sull’avversario, ma un culetto, semplicemente un culetto, anzi, un culetto santo.

Tra l’altro consentire alla bimbetta di esporlo all’aria, come ha fatto il papà, potrebbe essere dannoso, lo sconsiglio a tutti i papà del mondo perché potrebbe causare un raffreddore.

Altro che “sessualizzazione” (sessualizzazione?) come ha detto Francesco Totti, quello che sputò sull’avversario. Per questo ci permettiamo di consigliare alla bimba Chanel la prossima volta, anche contro l’opinione del papà, di indossare lunghi mutandoni di lana che non espongano il suo culetto all’aria aperta e non perché i porcelloni italiani potrebbero essere portati a sessualizzare, ma perché i culetti scoperti sono inutili e pericolosi per la salute. E poco raffinato.

Ps: invito comunque la direttrice di Gente, Monica Mosca, a smetterla di sessualizzare. È ancora meno raffinato che mostrare il culetto della figlia tredicenne. E meno raffinato che sputare sugli avversari.

Pps: Qualcuno sa se la bimba Chanel, la figlia di Francesco Totti, quello che sputò sull’avversario, ha mai perdonato il papà per averla chiamata Chanel? Forse andare in giro a culetto scoperto è la sua vendetta?

Sotto la maschera niente più trucchi: addio dittatura della bellezza

Il lockdown ha compiuto un miracolo: le donne si stanno liberando dalla dittatura dei canoni di bellezza. La nuova tendenza sul web pullula di celebrità che, incredibile a dirsi, si offrono all’obiettivo fotografico senza trucco e senza inganno, fino a esporre addirittura la patologia, come ha fatto Aurora Ramazzotti con la sua acne decisamente importante.

Stare chiuse in casa ha imposto una serie di riflessioni sulla possibilità di ritrovare l’amore per sé e la rivisitazione di una serie di problematiche che, in altri tempi, avrebbero avuto tutt’altro peso. E sto parlando della cellulite, tanto per fare degli esempi, o delle rughe, o dei capelli bianchi. E allora, come un urlo silenzioso ma potente, è partito un tam tam: basta trucco e correzioni a tutti i costi, basta nascondere delle pecche che hanno tutte, basta al photoshop, a quei cosmetici che promettono spettacolari miracoli! E basta alla preferenza per i fisici magri, al limite dell’anoressia, mentre le donne in carne continuano ad avere uno spazio limitatissimo nella pubblicità o nella moda. Una modella affetta da vitiligine ha osato esporre la sua drammatica diversità, un’altra, cicciona e di colore, che posava per alcuni brand

come Adidas si è vista rimuovere le sue immagini da Instagram salvo poi ricomparire immediatamente grazie all’incazzatura dei suoi fan. La mascherina obbligatoria ha mandato in crisi il mercato dei rossetti. Insomma, le donne si erano assoggettate alla schiavitù dell’omologazione del corpo. Semplicemente assurdo… E se questo virus ci ha riconsegnato consapevolezza e ironia, concediamogli un attenuante e affrontiamo la convivenza con lui consapevoli di una nuova forza: dietro ogni mascherina c’è una donna nuova, più bella e più forte di prima.

 

 

Folgorati sulla via di Zivago: apologo sulla coerenza

Avete presente quando, una ventosa mattina di marzo, Zivago va a trovare Lara, dopo averla veduta in biblioteca senza avere il coraggio di avvicinarla? Poco prima dell’infedeltà coniugale che tante angosce causa al povero Jurij per via dell’amore e della “venerazione” che prova per la moglie Tonia (per difendere l’onore ferito di lei “avrebbe fatto a pezzi con le sue mani chi le avesse recato offesa. E in quel caso si trattava di lui stesso”), Lara fa un famoso discorso sulla coerenza. E, parlando della Rivoluzione, dice: “Solo nei libri peggiori gli esseri viventi sono divisi in due campi ben delimitati e non si sfiorano nemmeno. Ma, nella realtà, tutto è così intrecciato! Che irrimediabile nullità bisogna essere per recitare nella vita un’unica parte. Occupare un unico posto nella società, significare sempre e soltanto la stessa cosa!”. Questo passaggio dev’essere stato la lettura estiva che ha folgorato sulla via del referendum costituzionale settembrino un po’ di parlamentari e i meglio commentatori di casa nostra. I quali dopo essersi per anni riempiti la bocca con la parola “governabilità” e con stupidi slogan tipo “la sera delle elezioni bisogna sapere chi ha vinto”, si scoprono all’improvviso numi tutelari del parlamentarismo. Dal 2006 abbiamo votato tre volte con una porcheria di legge elettorale (il calderoliano Porcellum) con liste bloccate e un premio di maggioranza abnorme e poi non abbiamo votato con una successiva legge elettorale (l’Italicum renziano) mai entrata in vigore perché, presentando gli stessi problemi di costituzionalità, è stata come la precedente bocciata in più parti dalla Consulta. A fronte di queste reiterate violazioni del patto di fiducia tra elettori ed eletti si ricordano solo critiche di parte: dei giornali di destra nei confronti dell’Italicum, di quelli di sinistra nei confronti del Porcellum. Ora la buona salute delle nostre istituzioni è diventata un imperativo categorico trasversalmente condiviso: non possiamo che gioirne (meglio tardi che mai) e dunque ben venga una discussione sulla centralità del Parlamento e sul suo eventuale dimagrimento. Basta che non ci sia chiesto di credere alla buona fede e va tutto bene. Compresi comici déjà-vu in cui si può incappare in queste settimane di caldo torrido: “Il referendum è su Conte, se vince il no cade il governo”, dice un titolo del Riformista sotto l’occhiello “la madre di tutte le battaglie”.

Detto ciò, i migliori testimonial della campagna per il Sì sono i parlamentari che dopo aver votato per il taglio ora sono per il No. La settimana scorsa è stata la volta della grillina Elisa Siragusa, ieri sul Corriere ha vinto il campionato di acrobazie Matteo Orfini, sentinella renziana di stanza nel Pd. Dopo aver votato tre volte no, il partito di Zingaretti l’ultima volta si è espresso in favore del taglio. Ma ora che si tratta di confermare con il referendum una scelta così sofferta, è di nuovo il No a tentare i dem. Dice Orfini: “Il sì è nato da una richiesta di Nicola Zingaretti basata su due fattori: quella era la condizione per far nascere il nuovo governo Conte; e tutti erano d’accordo a dare vita subito a una legge elettorale e a correttivi costituzionali che eliminassero gli effetti negativi di quella norma”. Tutto è davvero troppo “intrecciato”, come direbbe Lara. Il fatto è che non siamo in un paesino degli Urali, i turbamenti sentimentali e i tradimenti dei partiti non provocano in noi alcuna comprensione: le riforme costituzionali è bene votarle se si è convinti che siano valide, non per far nascere i governi. Stessa cosa per la legge elettorale (che è una legge ordinaria da sempre anche se i commentatori della domenica pare lo abbiano appena scoperto). Ora si cerchi di concepire un sistema di voto che abbia come scopo più la valorizzazione della rappresentanza che gli interessi dei partiti: dopo (forse) saremo più comprensivi.

 

“Sì” per rendere snella l’attività parlamentare

È da almeno mezzo secolo che si parla in Italia di ridurre il numero dei parlamentari e occorre ora un altro referendum costituzionale, dopo i precedenti del 2006 e del 2016, per scegliere tra il sì e il no. Basterebbe già questo per dire che sarebbe il caso di decidersi una buona volta e tagliare la testa al toro: cioè, a un ceto politico arroccato nella difesa del proprio potere e dei propri privilegi, dagli emolumenti alle doppie pensioni fino allo sconcio del bonus Iva di 600 euro per l’epidemia di coronavirus.

La Costituzione, per la verità, s’era limitata a prevedere l’elezione di un deputato ogni 80mila abitanti o per frazione oltre i 40mila, mentre a ciascuna regione veniva assegnato un senatore ogni 200mila abitanti o per frazione superiore a 100mila. Fu il IV governo Fanfani a stabilire nel 1963 che i deputati dovevano essere 630 e i senatori 315. Ma già dopo pochi anni, in seguito all’istituzione ufficiale delle Assemblee regionali e poi del Parlamento europeo, si constatò che il numero dei politici era aumentato eccessivamente e nella IX legislatura fu istituita una Commissione bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, per riportare i parlamentari alla media europea. Ma né il progetto di Massimo D’Alema (400-500 deputati e 200 senatori), né quelli successivi di Silvio Berlusconi, di Luciano Violante, di Enrico Letta e infine di Matteo Renzi incontrarono miglior fortuna.

Questa volta, però, non si tratta esattamente di decidere se vogliamo ridurre o meno il numero dei deputati e dei senatori. Si tratta, piuttosto, di approvare o bocciare la riforma già varata in via definitiva dalla Camera l’8 ottobre 2019 per ridurre da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori. Non a caso si chiama “referendum confermativo”, perché dobbiamo confermare o meno quello che è stato deciso dal Parlamento a larga maggioranza senza raggiungere al Senato la soglia dei 2/3 dei componenti richiesta dalla Costituzione.

Non è, dunque, il populismo dei Cinquestelle né la demagogia della propaganda anti-casta ad aver convocato questa consultazione popolare. A meno di associare a una tale corrente di pensiero tanti illustri e vari predecessori, tra cui i già citati Bozzi, D’Alema, Berlusconi, Violante e Renzi con la partecipazione straordinaria di Maria Elena Boschi, la non troppo compianta ex ministra per le Riforme costituzionali. In realtà, più che una riforma, la riduzione del numero dei parlamentari è il remake di un progetto all’ordine del giorno da mezzo secolo: con la differenza che questa volta, per merito o demerito del M5S, siamo arrivati finalmente dalle parole ai fatti.

È vero che tutto sommato il risparmio sarebbe minimo, un centinaio di milioni di euro all’anno, cinquecento in un’intera legislatura. Ma sarebbe pur sempre un “taglio” apprezzabile, a fronte comunque di uno snellimento delle procedure parlamentari e quindi di una maggiore intensità e tempestività della produzione legislativa. Ed è anche vero che questa riforma, senza i “correttivi” assicurati recentemente anche da Luigi Di Maio, rischierebbe di provocare alcune distorsioni riducendo la rappresentanza parlamentare, a danno soprattutto di alcune regioni come le Marche e la Basilicata (-60%) o anche la Puglia che perderebbe 22 parlamentari (da 42 a 27 deputati e da 20 a 13 senatori). Occorre perciò rivedere e correggere la distribuzione territoriale dei seggi, magari all’interno di una nuova legge elettorale. E possibilmente, sarebbe più che opportuno differenziare le funzioni delle due Camere per evitare una duplicazione di funzioni che è fonte di lentezze, ritardi, contrasti.

Il paradosso, tuttavia, è che in questo referendum d’autunno può votare Sì anche chi non condivide al cento per cento la riforma. E può votare No anche chi è favorevole alla riduzione del numero dei parlamentari e ha tuttavia qualche riserva sulla riforma. Ma un fatto è certo: a parte il rischio, in caso di vittoria del No, di delegittimare questo Parlamento che l’ha approvata, si può stare pressoché sicuri che se il referendum non passa sarà assai difficile riparlarne per i prossimi cinquant’anni. A ogni buon conto, è più probabile che si riduca il numero dei parlamentari mettendo mano ai “correttivi”, e forse anche alla legge elettorale, in caso di vittoria del Sì che non piuttosto nell’ipotesi contraria. Sarebbe uno stimolo, un pungolo, una sollecitazione. Altrimenti, tutto resterà come prima e chissà ancora quanto tempo.

 

Al referendum dico “no” per difendere la carta

Un’abbondante maggioranza assoluta di deputati e senatori, ma non i due terzi, ha votato a favore della riduzione di un terzo del numero di parlamentari in entrambe le Camere. Non importa sapere chi ha votato per convinzione e chi per convenienza, ma è legittimo chiedere ai parlamentare del Partito democratico perché, dopo tre voti contrari, hanno deciso di passare al voto favorevole. La risposta può benissimo essere che il governo è più importante di quel particolare elemento costituzionale che è il numero dei parlamentari. Potrebbero anche dire che si sono convinti che è opportuno risparmiare i soldi del contribuente. Ė Motivazione rispettabile anche se, naturalmente, criticabile: meno parlamentari non significa automaticamente parlamentari migliori. Potrebbero dire che meno parlamentari saranno più efficienti. Approveranno più leggi in tempi più brevi. Anche questa motivazione mostra la corda per due ragioni. Da un lato, tutti si lamentano che le leggi in Italia sono troppe. Dunque, non si capisce perché dovremmo volere un Parlamento snello che approvi più leggi. Dall’altro, è noto, o dovrebbe esserlo, che quasi il 90 per cento delle leggi approvate sono di origine governativa. Elevato o ridotto che sia, il numero dei parlamentari non fa differenza anche perché, comunque, il governo otterrà quello che vuole attraverso il ricorso alla deprecabile e deprecata decretazione d’urgenza sulla quale la riforma che procede alla riduzione del numero dei parlamentari non ha niente da dire.

In effetti, la semplice riduzione del numero dei parlamentari non implica praticamente nulla se non, ma qui il discorso diventa più complesso, qualche problema per due compiti che i “buoni” parlamentari dovrebbero svolgere: dare rappresentanza politica agli elettori, alle loro preferenze e esigenze, interessi e ideali, e controllare quello che il governo fa, non fa, fa male. Soltanto in piccola parte questi due compiti dipendono dal numero dei parlamentari, ma, certamente, un numero ridotto implica che molti parlamentari saranno più oberati da compiti che richiedono presenza, preparazione, tempo. Ci saranno aggiustamenti, annunciano i sostenitori della riforma. Dopo l’approvazione definitiva seguirà una nuova legge elettorale che consentirà, ma questo non lo dice nessuno, migliori modalità di elezione dei parlamentari. Di per sé, deve subito essere chiarito, non è affatto vero che qualsiasi legge elettorale risolva il rebus di una buona equilibrata capillare rappresentanza politica. Da quel che so non è la versione, cioè, lo stravolgimento, della legge elettorale tedesca di cui si discute, che produrrà rapporti migliori in termini di ascolto, di presa in considerazione, di apprendimento e, soprattutto, di responsabilizzazione (accountability) degli eletti e, di conseguenza, di aumento del potere degli elettori. Incidentalmente, la quantità e la qualità di questo potere dovrebbe essere il criterio dominante per valutare la bontà di una legge elettorale.

Infine, non è vero che siamo insoddisfatti soprattutto dal cattivo funzionamento del Parlamento italiano. Dovremmo, comunque, rinunciando all’antiparlamentarismo preconcetto, stilare dei criteri condivisi per dare sostanza al nostro scontento. Quello che ci preoccupa o dovrebbe preoccupare sono i cruciali rapporti fra Parlamento e governo (e viceversa). Se la riduzione del numero dei parlamentari avesse un senso forte, volesse davvero incidere sullo snodo più importante, decisivo delle democrazie parlamentari i suoi sostenitori dovrebbero affermare che con meno parlamentari quei rapporti migliorerebbero da tutti, o quasi, i punti di vista, in particolare: lealtà, disciplina, trasparenza, valorizzazione del ruolo dell’opposizione. Il silenzio su questi aspetti mi sembra molto inquietante.

Ancora più inquietante, mi è, però, parsa la motivazione del deputato del Partito democratico Stefano Ceccanti. Non ne ricordo il dissenso quando il suo gruppo parlamentare per tre volte votò “no”. Avendo acrobaticamente espresso il suo “sì” alla quarta votazione, Ceccanti ha prodotto come argomentazione dominante quella che, dopo tanto immobilismo costituzionale, la riduzione del numero dei parlamentari, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, aprirebbe una breccia (nella Costituzione). Più di trent’anni fa, fu il grande giurista e storico delle istituzioni, anche senatore della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, Gianfranco Miglio, a sostenere la necessità di uno sbrego alla Costituzione italiana. Poiché non gradisco gli sbreghi e non credo che sia opportuno sbrecciare la Costituzione italiana, meglio votare No.