Vaccino stagionale le regioni corrono

Anche quelle partite in ritardo si sono riallineate. Al 30 luglio la Lombardia ne aveva comprate solo 420 mila dosi. Ma “la campagna per le vaccinazioni antinfluenzali prenderà il via a ottobre in linea con le disposizioni del ministero della Salute – assicurava ieri l’assessore al Welfare Giulio Gallera –. Ad oggi abbiamo già acquistato 2,4 milioni di vaccini, l’80% in più dello scorso anno”. E a livello nazionale rispetto al 2019 gli ordini delle Regioni alle aziende sono aumentati del 40%. “Abbiamo risposto a tutte le gare – ha spiegato il presidente dei Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi – e siamo in grado di adempiere alle richieste”. Perché premunirsi in vista dell’autunno è la tendenza generale, in un 2020 segnato indelebilmente dal Covid-19. “Quest’anno il vaccino stagionale sarà di importanza fondamentale per due motivi – spiega Massimo Andreoni, professore ordinario di Malattie Infettive all’Università di Tor Vergata –. In primo luogo perché l’influenza potrà essere scambiati per il Covid-19. Quando una persona si presenterà in un presidio sanitario con i sintomi scatteranno tutti i meccanismi previsti in caso di sospetto Covid, dal tampone all’isolamento, e questo comporta il rischio di entrare in un vortice diagnostico quantomai complicato”. Con inevitabili ripercussioni sulla sanità pubblica: “Se anche solo una parte dei milioni di italiani ogni anno si ammalano di influenza arriverà negli ospedali per avere una diagnosi differenziale e la sicurezza che non si tratta di SarsCov2, il sistema rischierà di finire sotto pressione”. Secondo: “L’influenza è una malattia molto grave nei soggetti a rischio complicanze, perché colpiti da malattie croniche come il diabete o l’insufficienza renale. Anche il Covid ci ha mostrato come i fragili siano quelli più a rischio”.

Anticiparlo L’ordine del ministero

Per questo per Lungotevere Ripa la parola d’ordine è una: anticipare. “Vista l’attuale situazione epidemiologica relativa alla circolazione di SarsCov2 si raccomanda di anticipare la conduzione delle campagne di vaccinazione antinfluenzale a partire dall’inizio di ottobre”, stabilisce una circolare del 5 giugno, che ha anche abbassato da 65 a 60 anni l’età a cui l’inoculazione è raccomandata. “Lo scopo è prevenire il più possibile i primi casi, che si registrano già a partire da settembre – spiega Andreoni, che è anche direttore scientifico della Società Italiana di Malattie Infettive – Il Covid ce lo ha mostrato chiaramente: se ne si blocca la circolazione fin dall’inizio, si impedisce al virus di diffondersi. I primi casi creano dei mini-focolai che possono essere bloccati abbastanza facilmente. Quando, invece, se ne sono formati troppi è più difficile intervenire. La logica è sempre quella: ridurre al massimo gli episodi di influenza per rendere più semplice possibile riconoscere quelli di coronavirus”.

L’utilizzo “diagnostico” del vaccino influenzale è alla base dell’ordinanza con cui ad aprile il governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha reso obbligatorio il vaccino per over 65, medici e personale sanitario degli ospedali a partire dal 15 settembre. Un approccio che, però, non convince appieno Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene pubblica all’università di Pisa: “Questo discorso rischia di mortificare la vaccinazione – spiega l’epidemiologo –. Al cittadino bisogna dire che è importante vaccinarsi perché l’influenza è una malattia seria, che può fare male, e che una brutta stagione influenzale potrebbe causare più danni di quelli che ha fatto il Covid-19. Presentarla come strumento per aiutare i pronto soccorso ad avere meno casi di febbre sminuisce il valore dell’antinfluenzale, che dovrebbe essere fatta a prescindere”. Ma così non è.

IssNegli anni, la copertura aumenta progressivamente

Lo scorso inverno, dati dell’Istituto Superiore di Sanità, la risposta degli italiani è stata migliore che in quelli precedenti: nella popolazione generale le coperture vaccinali della stagione 2019/2020 hanno registrato un leggero aumento (16,7%, per un totale di 10.080.120 di persone, senza contare chi lo ha fatto privatamente) rispetto al 2018/2019 (15,8%). In quella anziana (gli over 65), poi, “da quella 2015/2016 si osserva un trend in costante aumento arrivando al 54,6% dell’ultima stagione”. Ben lontani, tuttavia, da quel 90% in su che gli esperti indicano come soglia ottimale per raggiungere l’immunità di gregge.

Firmata il 16 aprile (giorno in cui i ricoverati Covid-19 erano 26.893, quelli in terapia intensiva 2.936 e si registravano 525 morti in 24 ore), l’ordinanza ha retto a un ricorso al Tar e prevede anche sanzioni per chi deciderà di disobbedire: gli over 65 “ribelli” non potranno frequentare i centri anziani mentre i sanitari saranno temporaneamente inidonei a lavorare. “L’obbligo per medici e infermieri dovrebbe essere assoluto – argomenta Andreoni –. Chi lavora a stretto contatto con le persone fragili non dovrebbe avere dubbi nel farlo. Purtroppo i dati dicono che la loro copertura si aggira attorno al 10%. Ovviamente l’obbligo è sacrosanto anche per la popolazione generale: in termini di sanità pubblica dovrebbe essere considerato come un bene comune perché salvaguarda l’interesse della collettività”.

“L’influenza è una malattia seria, e come tale va trattata, ma non credo che l’obbligo sia la strada maestra – obietta Lopalco –. L’antinfluenzale ha un ruolo piuttosto dubbio nell’avviare l’immunità di gregge: per raggiungerla bisognerebbe vaccinare in un tempo limitato, due o tre mesi, un numero di persone tecnicamente impossibile da raggiungere. Diverso il discorso per il morbillo. Quando abbiamo assistito al calo drammatico delle coperture registrato in Italia non sono stato contrario all’obbligo”. Come accaduto nel 2017, quando il governo Renzi aveva aumentato da 12 a 14 le vaccinazioni obbligatorie tra le quali includeva il morbillo, che all’epoca aveva una copertura vaccinale dell’87% a livello nazionale, ben lontana dal 95% prescritta dall’Oms.

“Nel momento in cui l’obiettivo è quello di eradicare completamente il virus del morbillo, come accadde con il vaiolo, e le persone non si vaccinano le istituzioni possono obbligare il cittadino a raggiungerlo per il bene della comunità. Ma non si può fare con l’influenza”. Perché? “Quello del vaccino antinfluenzale è un obiettivo di limitazione del danno – spiega Lopalco –. L’influenza è un virus che ha il proprio serbatoio negli animali. Circola tra questi ultimi e poi viene trasmesso agli uomini, e ha un livello di mutazioni così frequente che l’effetto della vaccinazione spesso si perde anche tra una stagione e l’altra. Sarebbe impossibile vaccinare il 95% della popolazione ogni anno. Ecco perché si fa un’operazione di immunizzazione mirata ad alcune categorie”.

Su un aspetto i due professori sono allineati: la necessità di vaccinarsi. “Un’infezione influenzale provoca un abbassamento delle difese immunitarie – conclude Lopalco –. Di certo non mi piacerebbe avere un’infezione da Covid-19 dopo un’influenza. Già solo per questo mi vaccinerei”.

Dai dipendenti alla doppia diagnosi sbagliata di Zangrillo: cosa non torna

Sembra che le condizioni di Flavio Briatore, ricoverato da ieri al San Raffaele con il Covid (confermato per tutto il giorno dall’ospedale e dunque smentito in serata dalla Santanchè), siano stabili e giudicate buone. E chi scrive è felice per due motivi: il primo è che per quanto possa essere sgradevole e arrogante, auguriamo a Briatore salute, fortuna e gnocca in quantità e il più a lungo possibile. Il secondo è che ci deve spiegare un po’ di questioni e per farlo avrà bisogno di energie e lucidità, perché le cose che non tornano sono parecchie.

Sorvoliamo sulla quantità di sue ultime parole famose (“la movida non fa danni”, “chiedo scusa ai nostri dipendenti per essere amministrati da gente così”, “l’economia è trucidata da gente che non fa un cazzo nella vita” e così via) e passiamo alla faccenda più spinosa e cioè alla sua condotta. Al Billionaire, al momento, ci sono più di 60 persone positive tra i dipendenti. Le prime domande sono: erano tutti asintomatici? Possibile che nessuno avesse avuto mezzo sintomo? Venivano monitorati, vista la notevole quantità di dipendenti? E ogni quanto, dal momento che hanno avuto il tempo di contagiarsi in 60? Perché potrebbero esserci dei risvolti penali nella vicenda, a meno che non si dimostri di aver adottato ogni precauzione. E qui però sorge il dubbio. In un’intervista a Nicola Porro del 19 agosto, quindi due giorni dopo la chiusura delle discoteche e già in collegamento da Montecarlo, un infuriato Briatore spiegava “Io ho parlato stamattina con Zangrillo, mi ha detto: ‘È un raffreddore’. Io l’altro giorno ho avuto anche la febbre… era un raffreddore, non esistono più raffreddori, tumori e polmoniti, è tutto Coronavirus!”. Quindi Briatore in Sardegna ha avuto la febbre, ma ha continuato a fare vita sociale e viaggiare. E questo in virtù di una diagnosi telefonica del professor Alberto Zangrillo, quello che “il virus è clinicamente morto”. Si vede che il virus al Billionaire è clinicamente resuscitato. Sarà il Cristal.

Non solo. Briatore vola a Montecarlo ed evidentemente non sta ancora bene, per cui va a Milano per farsi controllare dal suo medico di fiducia Zangrillo, al San Raffaele. Quindi, con sintomi riconducibili al Covid, anziché starsene in isolamento e rivolgersi alla sanità sarda, ha continuato a frequentare locali e persone e ha viaggiato tra Sardegna, Montecarlo e Milano (con che mezzi?), facendo dirette dal suo locale di Montecarlo Crazy Pizza, quello con la pizza anemica.

Nel mentre, accusava politici, virologi e giornalisti di essere degli allarmisti un po’ coglioni che tenevano per le palle il paese. A tutta questa imbarazzante situazione si aggiunge il fatto che a marzo Briatore aveva raccontato in tv di aver avuto già il Covid perché a dicembre quando ancora non si parlava di Coronavirus era stato male e sempre Zangrillo, con senno di poi, lo aveva chiamato a emergenza scoppiata dicendogli: “Quello era sicuramente Covid”. Insomma, una seconda diagnosi telefonica sbagliata, questa volta pure retroattiva. C’è da chiedersi se Zangrillo operi via whatsapp, a questo punto. E c’è da chiedersi cosa dirà Briatore quando starà bene. Perché la medicina gli salverà la vita, per fortuna, ma a salvare la faccia dovrà pensarci da solo. E l’operazione potrebbe non riuscire, questa volta.

Contagi al lavoro: salgono in bar e alberghi, aspettando la scuola

“Sì, quei 50 o 60 del Billionaire sono nostri, ora dovrebbero arrivare le denunce”. All’Inail, l’istituto statale che assicura gli infortuni sul lavoro, non sono preoccupati, né sorpresi del focolaio di coronavirus nel locale sardo e il motivo è piuttosto semplice: meno esposta la sanità (che ha imparato a tutelarsi maggiormente), sanno che agosto è il momento in cui saranno ristorazione e accoglienza a dargli da fare quanto ai contagi sul luogo di lavoro. Dopo, a settembre-ottobre, toccherà alla scuola, il vero incubo con le sue decine di migliaia di “lavoratori fragili” e/o con più di 55 anni.

La tendenza è già osservabile dai dati parziali della prima metà di agosto, dicono: numeri generali in risalita e aumento delle denunce in settori fino a questo momento meno esposti. D’altra parte, quando nel pieno dell’emergenza si decise che il contagio sul lavoro sarebbe stato parificato a un infortunio, le tabelle dell’Istituto già classificavano bar, ristoranti, alberghi e quant’altro come settori “ad alto rischio”. Il 2,5% di denunce registrate finora dal settore è insomma destinato a crescere in modo significativo, stesso destino dello 0,9% che è il numero di quelle provenienti finora dalla Sardegna.

Per capirci, basterà rapportare i soli numeri registrati al Billionaire con l’ultimo bollettino dell’Inail sui contagi al lavoro: le denunce totali alla fine del mese scorso erano 51.363 (276 quelle “mortali”) per la gran parte riferite al periodo iniziale dell’epidemia, mentre le richieste di copertura assicurativa a luglio erano solo lo 0,7% del totale, vale a dire 360 infortuni denunciati (a giugno erano 873, più del doppio e l’1,7% del totale).

Numeri che seguivano ovviamente quelli generali della diffusione del Covid-19: ora il solo focolaio nel locale di Flavio Briatore (tra i 50 e i 60 contagiati) rappresenta il 15% circa delle denunce totali del mese precedente. E questo a non voler citare le notizie uscite in queste settimane sui contagi negli stabilimenti balneari o in altri locali (è di ieri la notizia della chiusura per coronavirus del Sottovento, discoteca/ristorante di Porto Cervo proprio come il Billionaire).

Ovviamente non di sola ristorazione vive l’epidemia nei luoghi di lavoro. Allo stabilimento agroalimentare Aia di Vazzola, Comune del Trevigiano, c’è uno dei maggiori cluster registrati in Italia dopo i mesi dell’emergenza: a ieri 182 persone risultavano positive sui 560 tamponi eseguiti negli ultimi giorni (tutti tranne due, a quanto riporta la stampa locale, sono senza sintomi) a cui vanno aggiunti quasi 40 contagiati tra i familiari dei dipendenti.

Nonostante la percentuale dei contagiati, però, dopo una riunione in prefettura a Treviso si è deciso di non chiudere la fabbrica, ma di dimezzare la produzione rispetto al solito. Un nuovo giro di tamponi – stavolta quelli “rapidi” – sarà effettuato la prossima settimana.

Scatta il panico ad Arcore “Ma Silvio è negativo”

“Il presidente come sta?”. Quando ieri mattina si è saputo che Flavio Briatore era risultato positivo al coronavirus, nel cerchio magico di casa Berlusconi per un attimo si è scatenato il panico. E i messaggi arrivati ad Arcore erano tutti dello stesso tenore: come sta Silvio, chi ha incontrato Silvio, dov’è ora Silvio. La risposta era sempre la stessa, in grado di tranquillizzare i molti interlocutori che temevano per la salute del capo: “Sta bene, ha fatto due tamponi ed è negativo”. Per tutta la giornata di ieri si sono rincorse voci e speculazioni visto che da metà luglio l’ex Cavaliere era sbarcato in Sardegna, dove oggi si contano decine di focolai, e visto che il 12 agosto aveva ricevuto a Villa Certosa proprio Flavio Briatore. “Sono venuto a trovare il mio amico presidente – diceva il manager in un video postato su Instagram – lo trovo in grande forma”. Quando però ha capito che in Sardegna era in pericolo, Berlusconi ha deciso di fare ritorno in Brianza il 16 agosto sottoponendosi a due tamponi, entrambi negativi, come hanno fatto prontamente sapere ieri fonti vicino all’ex premier.

Non solo: “Gode di ottima salute e lavora in vista delle elezioni regionali” è il messaggio fatto recapitare alle agenzie. La paura nelle stanze di villa San Martino però rimane: sia per l’età che avanza anche per lui (84 anni il prossimo 29 settembre), sia perché nelle ultime settimane Berlusconi ha ricevuto molte visite nella sua tenuta in Sardegna: prima il 7 agosto scorso ha incontrato tutti i maggiorenti di Forza Italia, da Antonio Tajani alle due capogruppo Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini fino a Enrico Letta, Adriano Galliani e Niccolò Ghedini. Poi il 12 agosto a Villa Certosa è arrivato Briatore ma sembra che in quel caso, come tutti gli ospiti di Berlusconi, il manager del Billionaire fosse negativo al tampone. I giorni di Ferragosto invece l’ex Cavaliere li ha passati con la nuova fidanzata Marta Fascina, con la figlia Barbara, i nipoti e, come anticipato dal Fatto, con la nuova assistente personale che dovrebbe prendere il posto di Licia Ronzulli: la showgirl di Mediaset, Giorgia Venturini.

Poi la fuga ad Arcore maturata dopo giornate di preoccupazione per i contagi che in Sardegna continuavano a crescere, anche per il mancato rispetto delle regole anti-covid di molti locali e discoteche frequentate dai più giovani.

D’altronde era stato proprio Berlusconi a fine febbraio a volare in esilio in Francia nella sua villa a Chateauneuf-de-Grasse, a 30 chilometri da Nizza, dove è rimasto fino a fine giugno.

Proprio a inizio marzo era arrivato il freddo comunicato di Forza Italia in cui si annunciava la fine della relazione durata dodici anni con Francesca Pascale: “Continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente Silvio Berlusconi e la signora Francesca Pascale, ma non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia” si leggeva nella nota. Quando la curva dei contagi è iniziata a scendere e con la riapertura delle frontiere, l’ex Cavaliere era tornato in Italia con Marta Fascina e si era sottoposto a una serie di esami di routine al San Raffaele di Milano. Poi il 19 luglio il settimanale Chi aveva pubblicato la foto dell’atterraggio di Berlusconi all’aeroporto di Olbia per la prima volta con la nuova fidanzata. Oggi sono tornati ad Arcore, ma la grande paura rimane.

“Noi lavoratori sardi impestati dai turisti senza mascherine”

“Il virus in Costa Smeralda? Non puntate il dito solo su Briatore, la situazione è andata fuori controllo un po’ dappertutto. I turisti non volevano saperne di mettersi la mascherina, ed ora a rimetterci sono i lavoratori della movida: sono loro le vere vittime, in gran parte ragazzi sardi che lavorano duro per portare a casa la stagione. E invece si son presi il Covid”. A parlare, sotto anonimato è un collaboratore del famoso locale di Porto Cervo. Anche lui, come molti altri, attende l’esito del tampone. “A colpire sono i 58 positivi fra i dipendenti del Billlionaire, ma lì viaggiamo sopra i 150 dipendenti, è un fatto statistico. Ad essere interessati sono un po’ tutti i locali della costa: il Country, lo Yachting Club, il Sottovento il cui proprietario è finito in ospedale a Sassari. Tutti impestati. A mio figlio è arrivato l’invito ad eseguire urgentemente il test, i pr dei locali li stanno inviando a tutti i clienti. Se qualcosa non ha funzionato, allora non ha funzionato dappertutto: basta vedere le immagini delle feste a bordo dei barconi a Palau, stracolmi di gente. Al Billionaire i camerieri dicevano alle persone di stare in sicurezza, attenendosi alle norme del locale, ma quelli se ne fregavano. Durante le ore di lavoro indossavano tutti la mascherina, poi non so cosa sia successo”.

Si parla a mezza voce di qualche malumore dei dipendenti, ancora ai primi di agosto le norme di distanziamento e le mascherine non c’erano sempre, nemmeno al Billionaire. Poi, pian piano, i dipendenti le hanno messe, i clienti molto meno. Così come in altri locali della zona, alcuni pittosto stretti. “Ma anche al Billionaire, al buio, con la musica alta, come fai a parlare con le persone se non ti avvicini?”, dice ancora il collaboratore della discoteca di Briatore. Lì, tra i positivi, oltre al patron ricoverato al San Raffaele di Milano c’è il manager, Roberto Petretto. E un barman è in gravi condizioni.

Ora tamponi a raffica in tutta l’isola: nell’ultimo aggiornamento dell’unità di crisi regionale si registrano 34 nuovi casi, che vanno ad aggiungersi ai 91 del 24 agosto. In totale sono stati eseguiti oltre 126 mila tamponi, con un incremento di 1.600 nella sola giornata di ieri. Un po’ tardi, secondo l’opposizione del Consiglio regionale che ricorda come il governatore Christian Solinas rivendicasse l’isola “Covid free” senza però testare i turisti in arrivo. “La situazione sta rapidamente rientrando”, assicura Stefano Vella, infettivologo , professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e componente del Comitato Scientifico che supporta la Regione nell’emergenza Covid in Sardegna. “La tracciatura dei contagi è chiara, si tratta di casi di importazione, provenienti da altri Paesi meta del turismo itinerante soprattutto giovanile: isole Baleari e Grecia, principalmente. Pochissimi i casi autoctoni in Sardegna. Non c’è da allarmarsi, ce lo aspettavamo”, prosegue Vella. “I viaggi e i maggiori contatti fra le persone sono uno dei vettori di rischio più importanti. Inoltre l’idea che la carica virale si fosse via via depotenziata ha fatto abbassare la guardia troppo in fretta, soprattutto ai giovani. In realtà è meno drammatica la gestione sul piano clinico, perché è cambiato il target: i più colpiti non più sono gli anziani, soggetti allo sviluppo di patologie gravi. Ora è importante intensificare l’esecuzione dei tamponi, per questo è auspicabile una collaborazione fra la Regione Lazio e la Sardegna con test alla partenza e all’arrivo. Ricordiamoci che questa è una pandemia globale, lavorare solo sul locale non ha senso. Bisogna rispettare il distanziamento e utilizzare le mascherine, anche in previsione dell’autunno. Ora a preoccuparci non deve essere la Sardegna, ma il rientro a scuola dei più giovani”.

Da B. al calcetto con Mihajlovic Poi Briatore è finito in ospedale

Da lunedì Flavio Briatore non posta nulla sulla propria pagina Instagram. Tra video, polemiche, jogging, calcetto, incontri e brainstorming per tutto il mese di agosto, ha intrattenuto i propri follower con scene di vita quotidiana. Domenica però è arrivata qualche linea di febbre e sintomi di spossatezza. Al San Raffaele di Milano ha scoperto, dopo i controlli, di essere positivo al Coronavirus. Non è in terapia intensiva, ora l’imprenditore si trova nel reparto solventi (dove può essere ricoverato anche un paziente non Covid). A lui, spiegano fonti del San Raffaele, sarebbe stata destinata una camera al sesto piano, la stessa occupata fino a qualche giorno fa da uno sceicco arabo. “Le condizioni sono stabili e buone”, fanno sapere dal suo staff. Anche se Daniela Santanchè (Fd’I) non deve essere troppo convinta: “Flavio è stato ricoverato per una recidiva di prostatite”, ha detto ieri ospite a In Onda. Intanto sono positivi anche 58 dipendenti del Billionaire, almeno uno è in ventilazione artificiale all’ospedale di Sassati, mentre ci sono altri due casi al ristorante Cipriani di Montecarlo (sempre di proprietà del manager), chiuso per precauzione. È la parabola dell’imprenditore per giorni in polemica con il governo sulle discoteche (“un provvedimento acchiappavoti”, “siete ridicoli”) e con una parte dei virologi. “Avete terrorizzato l’Italia”, diceva il 9 agosto. Il giorno dopo arriva in Sardegna. La sua pagina Instagram documenta chi ha incontrato e quando. Vediamo le ultime due settimane di Briatore.

12 agosto L’incontro con Berlusconi “in forma”

Il 12 agosto vede Silvio Berlusconi. “Una grande giornata – dice –. Oggi sono venuto a trovare il mio amico presidente. Gli voglio tanto bene, lo trovo in forma”. Berlusconi si porta avanti: “Grazie, auguri”. Anche l’ex premier si è sottoposto a un doppio tampone a distanza per il Covid-19: risulta negativo.

13 agosto Brainstorming e corse: “Non mi batterete”

Briatore non si ferma mai. Neanche ad agosto. Il 13 posta su Instagram: “Siamo al lavoro per il futuro dello Smeralda Dinner Show e di Ristori & the Portofinos”. E non rinuncia alla corsa. Il 14 agosto percorre oltre 8 chilometri: “C’è qualcuno che mi vuole battere… non ci riuscirai”.

15 agosto la partita con sinisa e Bonolis

A ferragosto, l’imprenditore partecipa pure a una partita di calcetto con Sinisa Mihajlovic e Paolo Bonolis. Il tecnico del Bologna, che nell’ultimo anno ha combattuto contro una leucemia, è risultato positivo ma sta “molto bene e non ci sono sintomi”, ha spiegato Gianni Nanni, medico sociale del Bologna. Bonolis e il figlio sono risultati negativi.

17 agosto La rubrica: “Giovani castigati”

Si inaugura la “rubrica Flavio Briatore”. Il primo episodio è dedicato alle discoteche. “In questi giorni hanno parlato tutti di discoteche – dice –(…) Anche la Bellonova (ministro delle Politiche agricole alimentari, ndr)… si occupa di discoteche, la madonna dei braccianti. Nel frattempo tutti gli extracomunitari vanno in giro senza nessun problema e i giovani dobbiamo castigarli”.

18 agosto Lo scontro col sindaco di Arzachena

Briatore torna a Montecarlo e chiude il Billionaire. E parte la polemica con il sindaco di Arzachena, Comune di riferimento della Costa Smeralda, colpevole di aver “reso più restrittivo il decreto Conte. (…) Che poi la situazione del virus in Costa Smeralda non mostra criticità” rispetto al resto d’Italia. Inizia una querelle che si protrae per giorni. Il 20 agosto Briatore torna in video. L’incipit: “Sono un leone stamattina”. Poi aggiunge: “Lui (il sindaco, ndr) non fa rispettare il decreto ministeriale”.

21 agosto i primi 6 positivi, altri in isolamento

Continua la polemica: “Ieri sera, abbiamo le prove visive, (…) che ballavano tutti sui tavoli”. Lo stesso giorno esce la notizia dei primi sei positivi al Billionaire.

Ciò che è avvenuto dopo è cronaca delle ultime ore.

Don Flavio

Ricordate don Ferrante, una delle figure più tragicomiche de I promessi sposi? La peste faceva strage, ma il governo spagnolo e la scienza al seguito la negavano o la minimizzavano. La gente la vedeva, se la buscava, ne moriva. Però don Ferrante, scienziato di regime, diceva che non era peste, ma una “fatale congiunzione di Saturno con Giove”. Scrive Manzoni: “Su questi bei fondamenti, don Ferrante non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”. Lungi da noi augurare – come fanno i soliti webeti – la stessa fine a Flavio Briatore, a cui anzi formuliamo i più fervidi auspici di pronta guarigione, come ai 60 e passa sventurati dipendenti del Billionaire. Il Covid non è la peste e Briatore non è uno scienziato, sebbene gli house organ destronzi lo tràttino come tale, anche perché non s’è mai capito esattamente cosa sia. Certamente è, o almeno era fino a ieri, uno degli spiriti guida della destra berlusconian-salviniana.

Poi, dopo mesi passati a raccontare la favola del Covid inventato dal governo comunista per metterci tutti ai domiciliari, imbavagliarci con le mascherine, abolire le elezioni, conservare il potere, distruggere l’economia e regalare soldi ai poveracci con le mogli cesse anziché ai ricchi con le donne fighe, quando bastava qualche pillola di “tachipirigna” (testuale), s’è scoperto che il Billionaire è più contagioso di Codogno, Vo’ e Alzano Lombardo messi insieme, anche se per lui chiudere le discoteche è roba da sfigati che “non fanno un cazzo nella vita”. L’anziano gagà cuneese aveva da giorni i sintomi del Covid ma, visitato al telefono dal professor Zangrillo (“Dica trentatré”), si diagnosticava un raffreddore e, anziché mettersi in quarantena, continuava a girare senza mascherina incontrando centinaia di persone senza mascherina, poi partiva per Montecarlo impestando un altro bel po’ di gente, infine si preoccupava e volava a Milano, perché lui le tasse le paga a Montecarlo ma si cura in Italia, e ora è ricoverato per Covid in un reparto non Covid del San Raffaele, completando la collezione di condotte vietate dalla legge. Quando tornerà in forma, sarebbe buona cosa se ammettesse di aver raccontato un sacco di frottole e suggerisse all’altro cazzaro, quello verde, che incredibilmente gli dà retta, di piantarla di raccontarne. Poi si farà l’inventario dei danni (morti e feriti) di questa demenziale campagna negazionista che rischia di riprecipitarci in piena tragedia. E magari i maître e le maîtresse à penser della cosiddetta destra risponderanno a una semplice domanda: B., Salvini, Bannon, Briatore… ma uno normale mai?

Per entrare da Raffaello, si suona (il campanello)

Din-don. Ci vogliono quindici campanelli per percorrere e ultimare la visita alla mostra Raffaello 1520-1483 alle Scuderie del Quirinale, a Roma. In questa settimana – l’ultima in cui l’esposizione rimarrà aperta senza proroga –, si è allungato al massimo l’orario di visite di sera e di notte: da ieri a giovedì il museo rimarrà aperto fino all’una di notte e, da venerdì, non chiuderà mai fino a domenica.

Ci siamo andati! È uno degli ultimi turni serali: din-don, si entra a gruppi di massimo otto persone, e abbiamo cinque minuti per essere istruiti sul da farsi e salire le scale che conducono al primo piano da cui accedere alla prima sala dove, con l’affabulante Autoritratto con amico, inizia una specie di recita a soggetto: bollini e linee a terra descrivono il recinto entro cui puoi muoverti per i prossimi cinque minuti fino a quando un nuovo campanello – din-don – ti avverte che puoi accedere al livello successivo… No, non siamo in un videogioco vintage, anche se ogni aspetto sconfina ironicamente nel surreale poiché sembriamo tutti telecomandati, quasi sorvegliati dentro le pagine di un romanzo di Orwell. Prima e dopo di noi, altri disciplinatissimi gruppi si muovono esattamente allo stesso modo: ci si tiene lontani, ci si sistema bene la mascherina, si sosta poco di fronte a un’opera per permettere a tutti di goderne prima del prossimo campanello. Quando suona, come obbedienti cani di Pavlov, sappiamo tutti cosa fare: din-don, anziché sbavare, avanziamo di cinque o sei passi per spostarci nel recinto successivo. Eppure, è solo così che una mostra così attesa e importante, che sulla carta poteva fare 400 o 500mila visitatori da tutto il mondo, ha già chiuso sold-out con più di 160mila biglietti staccati (anche qui, “staccati” è un prestito dal surreale dato che adesso senza prenotazione online, l’antica decisione dell’ultimo minuto – “Ehi, ma perché non andiamo al museo…” – non è nemmeno immaginabile).

Per fortuna, però, di nemmeno immaginabile c’è la poderosa bellezza di Raffaello che ti investe, la sola deputata a calmierare l’atmosfera da distopia: lo schianto con il rosso panneggiato del Ritratto Leone X, il candore La Velata, la sensualità de La Fornarina o la commossa perfezione della Madonna Tempi. All’ultima sala, un po’ immelanconito pure Raffaello, in quell’opera feticcio che è Autoritratto ci congeda: din-don.

A Chiaromonte mister Banfield non ha capito nulla

Su questo sperone di roccia che domina la valle del Sinni, prima che la Lucania divenga Calabria e la catena del Pollino unisca i corpi e i dialetti, da più di sessant’anni si patisce lo stigma dell’immoralità. Anzi, della “amoralità”. Da quando cioè, e si era nel bel mezzo degli anni cinquanta, un sociologo americano, Edward Banfield, approdò a Chiaromonte, grazie alle indicazioni della moglie, l’italiana Laura Fasano, e di alcuni amici, tra cui il meridionalista Manlio Rossi Doria. Venne per studiare l’Italia del sud, affamata dalla guerra. L’Italia contadina, nascosta e con la schiena piegata, lontana da Roma e lontanissima da Milano. L’Italia perduta. Tre anni di soggiorno, “ma senza mai imparare la lingua. Parlavamo, la moglie traduceva, lui appuntava”, ricorda Giovanni Percoco, il maestro del paese, la memoria colta e lucida, anche oggi che gli ottant’anni sono stati raggiunti, della comunità, “ma secondo me ci capiva poco”.

Quando Banfield tornò in America l’università dell’Illinois gli stampò la ricerca che poi venne tradotta in Italia: “Le basi morali di una società arretrata”. E nella ricerca quel concetto, appunto lo stigma, col quale bollò Chiaromonte, che nel libro chiamò Montegrano: “Il paese del familismo amorale”.

Non c’è senso comune del bene comune, non c’è responsabilità collettiva, ma solo interesse privato, solo custodia degli averi della propria famiglia. Anzi della supremazia della Famiglia. Oltre lo Stato, prima ancora dello Stato. Ogni regola piegata a questo principio, ogni azione a questa convenienza. Nessuna moralità pubblica, ma solo virtù privatissime e svergognate.

“L’abbiamo giudicata un’offesa gratuita, una prova ingiusta, un esempio di disonore che non meritiamo. Perciò da noi Banfield è un nome che non si ricorda con piacere” dice Gianpio Arcomano, 25 anni e una laurea in Giurisprudenza, il più votato nel consiglio comunale. Consesso che, come tutti i paesi della crosta interna, di quella dorsale appenninica che sparisce ogni giorno di più, è il rappresentante di una comunità che invecchia e si perde. Duemila sono oggi gli abitanti iscritti all’anagrafe, ma molti di essi vivono altrove. “Abbiamo appena fatto il censimento: delle 171 case di cui si compone il borgo 65 sono vuote”.

È questione nazionale quella della desertificazione demografica. L’Istat ci avverte ormai da tempo che saranno migliaia i comuni da qui ai decenni prossimi che morranno. Troppo lontani dalle aree metropolitane, troppo scarsi i servizi sociali, troppo rare le occasioni di lavoro. Chiaromonte paga il dazio allo svuotamento e, per soprammercato, al cattivo nome che si è conquistata grazie a Banfield.

Certo fa sorridere che proprio nei giorni in cui il Parlamento deve fare i conti con la pochezza morale di cinque suoi rappresentanti che hanno richiesto – benché indennizzati lautamente per il loro incarico pubblico – il bonus Covid di 600 euro in quanto titolari di partita Iva, la culla dell’amoralità debba essere questo paesino che si affaccia sul Sinni, dove la dieta naturale, il suo piatto prelibato, è una pasta di farina e acqua allargata quanto un orecchio, i raskatiell, conditi col “mischiglio”, un eccellente mix di cereali.

“La voglia di dimenticare Banfield e il suo scritto, quel timbro di infamia che insegue i miei concittadini più anziani, è reale ma io sento la necessità di dire che quello studio apre un tema nazionale e che Chiaromonte farebbe bene a sentirsi il luogo del confronto, anche della critica serrata”, dice Valentina Viola, la sindaca trentacinquenne.

Il paese ha goduto, sempre grazie o per colpa di Banfield, di una notorietà sicuramente rilevante nella piccola economia turistica. “Tanti vengono a curiosare, a indagare, a guardare. Molte tesi di laurea, molti ricercatori. Un filone significativo. In qualche modo Banfield è per Chiaromonte ciò che in grande Carlo Levi è stato per Aliano, il paese dei calanchi lucani”.

Digerire in qualche modo lo stigma – suggerisce la sindaca – e costruire sullo svantaggio morale, il paese dei “familisti”, un traino, un circuito di vita, una boccata d’aria a questo paese che ha bisogno di resistere.

“Se mi è permesso quel che manca qui da noi è proprio la cattiveria. I sentimenti sono prevalentemente positivi, solidali, poco antagonisti”, commenta Gianpio. Perciò brucia ancora la teoria americana. “Banfield arriva in Italia con l’idea di accollare a un luogo la sua tesi, anzi un pregiudizio che infatti non regge alla prova della ricerca scientifica perché è viziato dall’idea dal sapore etnico, dunque razziale, che l’arretratezza di un’economia conduca all’amoralità quando è chiaro, basta approfondire un po’, che questa società contadina si è retta grazie alla condivisione dei bisogni. Il cosiddetto ‘vicinato’ era il sistema in cui i problemi degli uni venivano assunti come propri dai vicini”, dice Isaia Sales, il meridionalista che con più rigore ha censurato le basi teoriche della tesi di Banfield: “L’accusa di familismo, così infondata, verrà poi indirizzata a tutto il Sud che subirà – per paradosso – la colpa di essere vittima dell’arretratezza”.

In effetti proprio Chiaromonte si trova in un distretto che negli anni del soggiorno di Banfield patisce il più basso numero di reati (è la Romagna invece a primeggiare per i delitti d’onore) e dove, ricorda la sociologa potentina Antonietta Di Lorenzo, negli ultimi tempi si è registrata la più alta percentuale per abitante di donazioni di organi post mortem, l’opposto della famiglia nucleare egoista e ossessiva nella difesa dei propri interessi.

Familismo amorale un corno, dunque. Da Chiaromonte è tutto.

“Conta solo il denaro”. Gli Stati Uniti di Oliver Stone

Ossessionata dal denaro, dalla guerra e dalla menzogna. A prescindere dall’appartenenza politica: questa è l’America oggi secondo Oliver Stone. E nessuno può dubitare sulla lucidità analitica rispetto a questi temi divenuti sintesi della sua vita e della sua arte. Perché quando l’America chiama, Oliver Stone risponde. Lo ha sempre fatto, nella gioia e nel dolore, in salute e malattia, proprio come in un matrimonio dove convivono amore e odio. In 50 anni di carriera, questo cineasta già Vietnam vet, si è incessantemente battuto per la verità più scomoda, puntando i fari sulle tenebre dell’insabbiamento e dell’ipocrisia.

Forse per questo ha voluto titolare l’autobiografia Chasing the Light, “inseguendo la luce”: in Italia, dove uscirà per La nave di Teseo il 27.9, ha assunto il titolo Oliver Stone – Cercando la luce, un po’ più soft, ma a lui non dispiace. “In fondo con l’età si diventa più indulgenti e il concetto di ricerca ha un valore più amplio e profondo rispetto a quello di caccia” dichiara con pacata saggezza. Nel Belpaese, il quasi 74enne Stone è in tour promozionale del suo libro partecipando – contestualmente – ieri all’inaugurazione della romana Timvision Floating Theatre voluta da Alice nella Città, oggi al Festival di Pesaro, nei prossimi giorni a Fano e a Bassano del Grappa per chiudere il 5 settembre alla Mostra veneziana dove riceverà il premio Kinéo New Generation. Di fronte agli spettatori-natanti sul laghetto dell’Eur, Stone ha introdotto ieri sera Wall Street, l’opera di fine 1987 a cui è legatissimo sia per ragioni familiari (il padre lavorava nella finanza newyorchese) che professionali, “si tratta del mio film-cesura tra l’indipendenza produttiva e lo studio system, essendo il mio primo a big budget finanziato dalla Fox” e per questo il punto di arrivo (o ri-partenza) di una carriera, ovvero quei primi 40 anni di vita che sono il cuore dell’autobiografia. Il testo, infatti, ripercorre ricordi personali e cinematografici fermandosi al trionfo con l’Oscar per Platoon a inizio 1987, quando il filmmaker utilizzò lo speech d’incoronazione a miglior regista per mandargliela a dire all’establishment americano come si legge a pg. 533 del libro: “Grazie per questo finale da favola, ma credo che con questo premio voi stiate rendendo omaggio al reduce del Vietnam, stiate dicendo che per la prima volta capite che cosa è successo davvero laggiù, e stiate dicendo che non deve succedere mai più nella nostra vita”.

Ovviamente non è andata così. Gli Stati Uniti hanno continuato sulla deriva degli affari sporchi, e Stone a denunciarli col suo cinema implacabile e coerente, almeno in termini tematici. “Il mio Paese è ossessionato dal denaro, ha iniziato palesemente ad adorarlo con la presidenza di Reagan: prima di allora, seppur fosse causa e obiettivo dell’American Dream, non entrava nei discorsi perché era ritenuto argomento volgare, oggi non se ne può fare a meno. Il peggioramento in atto è per me tangibile – il denaro governa l’American lifestyle – ma sono sicuro che se fate la stessa domanda a un millennial non si scandalizzerebbe, per lui sarebbe normale”. Parole ancor più pesanti le sue perché pronunciate dal figlio di un broker, morto prima che Wall Street diventasse quel capolavoro che conosciamo, forse troppo accecato dagli indici di Borsa per accorgersi della testa accesa del suo unico figlio, destinato a riportare sul proprio libro un aneddoto che la dice lunga sul rapporto padre-figlio Stone: “Una notte sognai mio padre. Seduto sul mio letto mentre dormivo, mi disse con il suo ghigno luciferino, un po’ voluto e un po’ no: ‘Eri l’ultima persona che pensavo potesse sfondare… stronzetto lunatico’”. E quello stronzetto lunatico, questo ex underdog ribelle e ostile ai compromessi, di Oscar ne ha vinti ben 3, sporcandosi le mani, leccandosi ferite (soprattutto di guerra), rispondendo a tono alle istituzioni che gli facevano le pulci sulle sacrosante verità che rivelava nei suoi film.

“Hanno negato il fuoco amico in Vietnam, il massacro di bambini e civili, la Cia si è indignata per averla coinvolta in JFK… ma è tutto vero! Il problema – s’infervora Stone – è che dall’11 settembre è tutto peggiorato, il dio dollaro è speso unicamente per la cosiddetta sicurezza nazionale, cioè per gli armamenti militari, dimenticando il benessere reale degli americani, la salute, le infrastrutture. Ormai vige la censura finanziaria anche sul cinema, io stesso ne sono vittima avendo dovuto finanziare i miei ultimi film con capitali stranieri: se osi mettere in discussione le loro verità – che sono bugie – Hollywood chiude cassa e stop. E questo parte dalla lettura governativa delle sceneggiature dalla quale si generano suggerimenti di modifiche: questa io la chiamo censura”. Purtroppo, secondo il regista, il processo è irreversibile e poco cambierà con la prossima (“auspicabile”) sconfitta elettorale di Trump: “Sia Repubblicani che Democratici sono così innamorati di guerra e denaro da aver dimenticato il senso della parola pace”.