Alla Costituente nessuno scandalo per quota 400

Iniziamo la pubblicazione di una parte del dibattito in Assemblea costituente che riguardò il numero dei parlamentari. Dibattito complesso che doveva fare i conti con una forma di governo e di Stato non ancora definite. Ma un dibattito la cui qualità può essere utile per affrontare il referendum guardando ai contenuti e non allo scontro politico.

Seduta del 4 Settembre ’46

CONTI, relatore Il Parlamento, quando sarà sgravato da tante competenze diventerà finalmente quell’alto consesso legislativo al quale accederanno i migliori del Paese e quindi si eleverà di tono.

Questo porta anche ad accennare alla necessità di ridurre al massimo il numero dei membri della prima e della seconda Camera. Tra tutte e due le Camere si dovrebbe arrivare a una cifra che equivalga a quella della Camera attuale (556, ndr). Cinque o seicento deputati e senatori in tutto…

La Camera dei deputati avrebbe il carattere di un organo rappresentativo della Nazione nella sua unità, cioè come collettività dei cittadini (…) Sarebbe composta di 400 membri e nominata per quattro anni (…) Il numero complessivo dei membri del Senato potrebbe essere fissato a 300.

Seduta del 13 settembre ’46

PRESIDENTE Apre la discussione sulla proposta concernente l’elezione di un deputato per ogni 150mila abitanti

NOBILE (PCI) si dichiara favorevole a una norma per la quale il numero dei deputati dovrebbe essere dirotto a circa 300. Ricorda in proposito l’interessante osservazione di uno statista inglese, il quale sosteneva che un’assemblea legislativa composta di 5 o 600 persone è troppo numerosa per essere un’assemblea e troppo poco numerosa per essere un comizio e che pertanto il numero giusto dei componenti un’assemblea legislativa dovrebbe essere di circa 250 persone.

CAPPI (DC) propone un emendamento così concepito: “Sarà eletto un deputato ogni 100.000 abitanti”. La sua proposta di accrescere il numero dei deputati trova giustificazione in due considerazioni: anzitutto dare una congrua rappresentanza regionale; in secondo luogo utilizzare con maggiore ampiezza le capacità.

CONTI invita i presenti a considerare che il numero dei componenti della Camera dei deputati dovrà essere commisurato alla struttura che dovrà assumere il corpo legislativo e alle funzioni che l’Assemblea dovrà svolgere. Si richiama a quanto giustamente ha osservato l’onorevole Lussu che, cioè, la nuova Camera dei deputati, se veramente si vuol dare al Paese la possibilità di un sano sviluppo legislativo, dovrà essere un consesso destinato alla trattazione dei più alti e ardui problemi (…) Pensa che, se si riuscirà a creare un’Assemblea di alta preparazione e competenza, sarà reso veramente un grande servigio al Paese. Ora le assemblee che rispondono meglio a quelle elevate funzioni cui sono chiamate, sono appunto quelle composte di un numero ridotto di elementi (…) Trecento deputati è un numero più che sufficiente.

Seduta 18 settembre 1946

PRESIDENTE ricorda che la Sottocommissione deve determinare il numero dei componenti della prima Camera. Secondo il progetto dell’onorevole Conti, dovrebbe essere eletto un deputato ogni 150.000 abitanti. La nuova Camera dei deputati, quindi, calcolata la popolazione del Paese in 45.000.000 di abitanti, verrebbe a essere composta di circa 300 membri. Ma si è accennato all’opportunità di elevare il numero a 400 o 450.

CAPPI ricorda che aveva proposto un deputato ogni 100.000 abitanti. Ne risulterebbe una Camera di 420-450 membri.

FUSCHINI (DC) Un deputato non riuscirà mai a soddisfare le necessità di una massa di 150.000 abitanti. Sarebbe quindi più opportuno fissare un deputato per non più di 80.000 abitanti, come è stato finora tradizionale nel nostro Paese.

La ROCCA (PCI) crede necessario fissare nella nuova Costituzione il numero dei deputati (…)

La tradizione, anche se a volte è una vis inertiae, non sempre deve essere trascurata. Il popolo italiano è avvezzo ad avere 500 e più deputati. Inoltre non è opportuno in regime democratico diminuire questo numero perché a tutti deve esser dato il modo di far sentire la loro voce. (…) In ogni modo non crede sia opportuno fissare una proporzione fra numero di abitanti e numero dei deputati: sarebbe meglio stabilire soltanto che la Camera bassa debba essere costituita da un numero di membri non minore di 500.

(1/continua)

Ultrà del PSG e casseurs mettono a fuoco Parigi

“Sono dei delinquenti che non hanno niente a che vedere con i tifosi. E bisogna trattarli come tali”, ha detto ieri il ministro dell’Interno, Gérard Darmanin, promettendo sanzioni, mentre Parigi si risvegliava dopo una notte di guerriglia urbana. Domenica sera, dopo che il Paris-Saint-Germain perdeva la finale di Champions contro il Bayern, a Lisbona, migliaia di delusi andavano a spaccare tutto sugli Champs-Elysées e intorno allo stadio Parc des Princes. Questo il bilancio della nottata: 151 fermati, di cui 49 minorenni, 16 poliziotti feriti, 12 negozi saccheggiati e una quindicina di auto date alle fiamme. Si aggiungono 404 multe a chi ha violato l’obbligo di mascherina. Vittoria o sconfitta, gli incidenti erano previsti: la prefettura aveva dispiegato tremila poliziotti, mille di più che per la finale del Mondiali 2018, vinta dai Bleus di Didier Deschamps. I primi scontri tra supporter e agenti si erano verificati intorno allo stadio anche prima del fischio di inizio. Poi la rabbia si è scatenata sugli Champs-Elysées, dove la gioielleria Burma è stata svaligiata e la boutique Sandro saccheggiata. La polizia ha risposto con i lacrimogeni. Chi sono questi violenti? Alcuni portavano la maglia del Psg, ma non tutti. Molti avevano il volto nascosto sotto il cappuccio come i soliti casseurs che da un paio d’anni devastano tutto a margine degli scioperi. Tremila in tutto nel momento di maggiore tensione, secondo i dati della polizia. Molti erano ragazzini venuti dalle periferie di Parigi. “Siamo fieri dei nostri colori. Non tolleriamo alcuna violenza”, ha scritto ieri il CUP, il Collectif Ultras Paris, prendendo le distanze dalle violenze. Ma gli ultrà del Psg sono da tempo guardati a vista dalla polizia. Venerdì sera alcuni membri del collettivo erano andati a tappezzare la capitale di striscioni per incoraggiare la loro squadra e c’erano state tensioni. Era finita con i lacrimogeni anche la vittoria contro il Lipsia, il 19 agosto.

Navalny come Skripal: trovate tracce di nervino

La conferma arriva da Berlino: “Quasi certamente” Aleksej Navalny è stato avvelenato. Lo riferiscono i medici dell’ospedale Charite nella Capitale tedesca, dove l’oppositore più famoso del Cremlino rimane in terapia intensiva. Il paziente russo è ormai una questione all’ordine del giorno al Bundestag: la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro degli Esteri Heiko Maas pretendono trasparenza e hanno chiesto ufficialmente al governo Putin di fare subito chiarezza e indagini: “I responsabili vanno puniti”.

La diagnosi sulle condizioni dell’oppositore è opposta alle “cinque diagnosi siberiane” stilate dai camici dell’ospedale di Omsk, dove era stato inizialmente ricoverato Navalny dopo l’atterraggio d’emergenza di un volo partito dalla vicina Tomsk: in tute e cinque i casi era stata negata l’ipotesi dell’avvelenamento. I laboratori tedeschi, dopo le analisi, avrebbero rivelato invece la presenza di tracce nel sangue di una potente neurotossina, un inibitore della colinesterasi, a cui manca però ancora un nome preciso.

La sostanza che è costata il coma al blogger è presente nel Sarin, ma anche nel Novichok, il gas divenuto noto dopo l’avvelenamento dell’ex spia dei servizi segreti russi Serghey Skripal e sua figlia Yulia in Gran Bretagna, un veleno prodotto in Unione Sovietica e spesso usato dal Kgb e dalla Gru per regolare i conti con dissidenti e traditori. L’oppositore rimane al momento sotto trattamento di atropina, l’antibiotico standard usato in questi casi, mentre sua moglie Yulia gira in occhiali scuri e mascherina nera tra le divise della polizei tedesca , che hanno adottato le “dovute misure di sicurezza”. La Germania ritiene che Navalny non debba essere più un bersaglio.

Secondo quanto riferito dal quotidiano russo Moskovsky Komsomolets, Navalny era stato pedinato e sorvegliato in Siberia, dove gli agenti dell’Fsb sarebbero riusciti a risalire all’indirizzo degli appartamenti in cui alloggiava grazie alle ricevute del ristorante per il sushi che acquistava online. I servizi di sicurezza, riferisce il giornale, “sono inclini a credere che se l’avvelenamento è avvenuto, ha avuto luogo all’aeroporto, perchè il resto dei suoi movimenti sono stati sotto osservazione”. La portavoce del blogger, Kira Yarmysh si è chiesta: “Perché hanno deciso di rivelare questi dettagli così casualmente? Ma non è una novità: i pedinamenti avvengono ovunque, qualsiasi cosa faccia Aleksej”.

“Il sospetto non è che Navalny si sia avvelenato da solo, ma che qualcuno lo abbia avvelenato e ci sono purtroppo un altro paio di esempi di questi avvelenamenti nella storia russa” ha confermato il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert. Come Aleksej, anche Petr, nel settembre del 2018. L’ex membro delle Pussy Riot – la punk band che scatenò le ire di Putin e della Chiesa ortodossa russa – Petr Vezilov, ha riferito di aver provato gli stessi sintomi del dissidente nel 2018, quando fu trasportato in Germania e salvato sul suolo tedesco dopo un avvelenamento che sembra simile.

Omsk, Berlino, Mosca: è la troika delle città dell’odissea medica dell’avversario russo del sistema Putin. Ma il suo destino non è una questione da Cremlino. “Putin non ha tenuto alcun incontro speciale, non rientra nelle prerogative del presidente. La questione è solo medica, connessa alla salute del paziente”, dicono dalla Capitale russa.

“Il tycoon affonda l’America: ci vorrebbe Martin Luther King”

“Chiamarle fake news è riduttivo: quello che ha fatto Trump è un disastro. Penso solo a quando il presidente ha detto che la pandemia sarebbe scomparsa o ha pubblicizzato farmaci che gli scienziati avevano accertato non fossero la cura giusta per il Covid-19. Con lui la vita delle persone è peggiorata, l’economia è al tracollo, sono tempi difficilissimi”.

Parla Dorothy Butler Gilliam. Nera, donna e giornalista: la prima della storia degli Stati Uniti e di una stampa esclusivamente bianca fino al 1963, quando, a 23 anni, ha cominciato a scrivere per il Washington Post.

Una parte della storia d’America è nera, ma le voci che l’hanno raccontata sono bianche. Oggi qualcosa è cambiato?

Assolutamente no. Il Paese non è ciò che dovrebbe essere e dobbiamo ancora spingere per migliorarlo. Qualcosa si muove dopo la morte di George Floyd. Ma rispetto al passato ci sono leader meno carismatici: quando coprivo la storia del movimento civile c’era un capo che si chiamava Martin Luther King.

Invece oggi?

Nel movimento Black Lives Matter una guida non esiste, ma ci sono sempre più americani, non di colore, che hanno capito di aver beneficiato di un sistema che va cambiato. Negli Usa è in aumento la povertà dei bianchi, il benessere è concentrato in poche mani. Per questo c’è anche la componente bianca nel movimento di protesta: temono che si smarrisca l’anima d’America.

Com’era raccontare la segregazione?

I reporter neri, della black press, stampa nera, entravano dove i giornalisti bianchi non andavano e nemmeno volevano andare. Travestiti con vecchi vestiti e con le bibbie sotto braccio: facevano finta di essere preti per documentare i linciaggi. Se gli sceriffi avessero scoperto la loro vera identità di giornalisti, li avrebbero ammazzati. Sentivano comunque la missione di rendere quelle storie pubbliche, di raccontare quelle morti che i giornalisti bianchi chiamavano cheap deaths, “morti da niente”.

Lei ha detto: “Non avrei mai creduto di vedere un presidente nero”. Che eredità ha lasciato Obama?

Il sistema sanitario. Non ha fatto tutto ciò che doveva, è stata una presidenza difficile ma significativa. Dopo 400 anni di schiavitù ha dimostrato che una persona di colore può diventare presidente: le leggi e la struttura del potere sono state configurate contro di noi affinché ne beneficiassero solo i bianchi. Lui ha aperto la porta a persone come la Harris.

Obama primo presidente nero della storia. Lei prima donna nera del giornalismo americano.

Non sentivo il peso del compito sulle mie spalle all’epoca. Sapevo solo di essere la prima e c’erano cose che non dovevo fare: non lamentarmi con il caporedattore perché non trovavo taxi per arrivare in tempo perché gli autisti non prendevano a bordo neri; non lamentarmi se non mangiavo perché al ristorante non potevamo sederci. In Mississippi, per seguire la storia del movimento civile afroamericano, sono andata a dormire dentro una cassa da morto. I miei colleghi del Washington Post se mi vedevano per strada, in pubblico, non mi salutavano. Ma dovevo fare quello che mi veniva richiesto senza tergiversare, per la prossima donna di colore che sarebbe arrivata, per lasciarle la porta aperta. Non ho detto che non mi è costato, anzi, mi è costato tantissimo.

E come ha fatto a sopportare tutto questo?

Mentre andavo a scuola i bambini bianchi mi tiravano le pietre. La mia insegnante ha speso davvero tanto tempo per convincermi che non dovevo tirarle a loro anche io. Il mio più grande risultato è stato non aver odiato. Sono chi sono, perché qualcuno mi ha amato.

One man show Trump, il palco è solo per lui

Una convention a misura di The Donald: formato reality. Se la convention democratica è stata virtuale, formato online, e un inno alla diversità, quella repubblicana vuole essere un po’ meno virtuale, un po’ più televisiva, e più in diretta, più movimentata, più ottimista. Ogni sera, però, serve lo stesso piatto forte: Donald Trump parla tutti i giorni; e ogni giorno c’è almeno un altro Trump. A casa, dei parenti, restano di sicuro Mary, la nipote, che ha scritto Troppo e mai abbastanza, e Maryanna, la sorella ex giudice, che sul fratello presidente ha idee chiare: un uomo “crudele”, “bugiardo”, “ipocrita”, “senza principi”, che “non legge”.

Dietro la regia dello show, ci sono due producer di The Apprentice, il reality che fece di Trump una star tv (“una presidenza da reality”, “inetta e pericolosa”, ha detto Barack Obama, la settimana scorsa, intervenendo alla convention democratica). Il magnate li ha voluti e ha curato con loro il copione fin nei dettagli: vuole rispondere alle accuse dei Democratici, esaltare i suoi successi, picchiare duro sulla Cina – TikTok, intanto, gli fa causa, contro la messa al bando – insistere sul binomio Law&Order, legge e ordine.

Alla vigilia, il presidente s’è giocato l’annuncio d’una asserita “grande svolta terapeutica” anti-virus per tentare di sottrarsi alle accuse di fallimento nella gestione della pandemia: la FDA, la Food and Drug Administration, l’Agenzia del Farmaco Usa, ha concesso l’autorizzazione all’uso d’emergenza del plasma di soggetti convalescenti nel trattamento anti-coronavirus. I due producer sono Sadoux Kim, a lungo vice di Mark Burnett, il creatore di The Apprentice, e Chuck LaBella, che si occupava della scelta dei talenti dello spettacolo. Entrambi hanno lavorato anche per il concorso di Miss Universo quando era di proprietà del magnate, il primo anche come giudice delle concorrenti. I due sono consulenti del team organizzatore e – scrive il New York Times, fornendo tutti questi dettagli – sono già stati retribuiti dal partito repubblicano rispettivamente 54mila e 81mila dollari. L’obiettivo è battere l’audience democratica: 122 milioni di spettatori in quattro giorni. Tutto è cominciato ieri a Charlotte in North Carolina, e tutto fa perno sul presidente candidato. Che è anche l’unica star del suo campo, perché i personaggi di una certa statura se ne tengono alla larga: non ci sarà l’unico ex presidente repubblicano vivente, George Bush, e non ci sarà l’unico altro candidato repubblicano alla Casa Bianca vivente, Mitt Romney. Rompendo il protocollo secondo cui il candidato fa una apparizione mondana a inizio kermesse, intervenendo solo alla conclusione per il discorso di accettazione della nomination, Trump vuole parlare sempre. Ieri, accolto da un’ovazione, è stato a Charlotte, insieme al suo vice Mike Pence, per salutare i 336 delegati protagonisti del roll call, cioè la chiamata Stato per Stato per attribuirgli la nomination. Di cattivo auspicio, però, la nascita, in coincidenza con l’avvio d’un evento senza contraddittorio, dei Repubblicani per Biden, un gruppo di ex senatori e deputati repubblicani ostili al magnate. Ci sono tre ex senatori – il più noto è Jeff Flake – e vari ex deputati: stanno con Biden, contestando “la corruzione di Trump, la distruzione della democrazia, il totale disprezzo per la decenza morale e l’urgente necessità di rimettere il Paese sul giusto binario”. Il tema della convention repubblicana è ‘Onorando la grande storia americana’. Ecco il programma. Ieri, è stata la giornata ‘Terra di promessa’: dopo il ‘roll call’ e la re-nomination, Trump, con Pence e il figlio Donald jr, ha salutato e ringraziato i delegati. Oggi è la giornata ‘Terra d’opportunità’: parla la first lady Melania dal Rose Garden della Casa Bianca, rinnovato per l’occasione (e ci saranno pure i figli). Domani è la giornata ‘Terra di eroi’ con Pence. Giovedì è la giornata ‘Terra di grandezza’: introdotto da Ivanka, Trump sarà live dal South Lawn della Casa Bianca; a fine discorso, fuochi d’artificio sul Mall, come il 4 luglio.

Ieri, appena salito sul palco, Trump ha giocato le carte che piacciono tanto ai suoi, quelle dei complotti degli avversari democratici: “Nel 2016 ci hanno spiato, stavolta l’unico modo in cui possono vincere è se le elezioni sono truccate; attenti al voto per posta”. E se dovesse vincere Biden ”gli Usa saranno controllati dalla Cina, loro vogliono aumentare le tasse, io voglio creare 10 milioni di posti di lavoro”. Sulla questione afroamericana: “Nessuno ha fatto più di me per loro”. E infine il grande classico, le armi e lo spauracchio che con Biden alla Casa Bianca sarà modificato il diritto di possederle: “Vi giuro che difenderò il secondo emendamento”.

Fondi “Sure”: all’Italia 27,4 miliardi

L’Italia avrà la fetta maggiore dei fondi del programma europeo detto “Sure”, sempre che la proposta della Commissione europea venga autorizzata dal Consiglio europeo (cioè i governi): si tratta di 27,4 miliardi su 81 totali deliberati dopo le richieste di 15 Stati europei (un terzo dell’intero stanziamento). Seguono Spagna (21,3 miliardi), Polonia (11,7 miliardi) e Belgio (7,8 miliardi).

Intanto va chiarito cos’è il programma “Sure”. In sostanza si tratta di prestiti a tassi agevolati che dovrebbero aiutare i Paesi dell’Ue che ne facciano richiesta ad affrontare gli aumenti di spesa pubblica, dovuti all’epidemia di coronavirus, per salvare quanta più occupazione possibile: in sostanza, quanto all’Italia, servirebbero per la Cassa integrazione Covid-19, ma anche per i vari bonus (dagli autonomi a quello baby sitter) utilizzati per venire incontro alle esigenze di dipendenti e imprese nella recessione innescata dal virus.

Insomma, non è un “aiuto” nel senso tecnico, ma un mezzo di finanziamento di spese comunque già fatte o già previste (in questo senso, e solo in questo, il discorso è molto simile a quello che si può fare per il famigerato “Mes sanitario”). La convenienza di ricorrere al programma “Sure”, in sostanza, è nel minor costo rispetto al normale ricorso al debito nazionale: il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha quantificato ieri in circa 5,5 miliardi di minori interessi il risparmio per l’Italia. Una cifra – molto teorica ancora – che va calcolata sulla scadenza minima dei prestiti (minimo 15 anni): fosse vero, ai rendimenti attuali si tratta di poche centinaia di milioni l’anno.

Il governo italiano, e in specie la sua parte targata Pd, ha festeggiato la proposta della Commissione con toni ispirati. “È l’Europa della solidarietà e del lavoro che prende forma”, ha scritto in una nota lo stesso Gualtieri. Se stia prendendo forma o si tratti di un intervento una tantum è parte di un dibattito che ieri ha spaccato in due lo stesso governo tedesco.

I fondi “Sure”, e ancor più quelli a venire di Next Generation Eu, saranno infatti girati ai Paesi europei dalla Commissione dopo che Bruxelles li avrà reperiti sul mercato: in questo senso si tratta – e ancor più lo sarà negli anni a venire – della prima emissione corposa di debito comune.

Una faccenda che in Germania nessuno prende alla leggera. Il vicecancelliere e ministro delle Finanze Olaf Scholz, che sarà il candidato socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, ha sostenuto in un’intervista che questo processo di comunitarizzazione “non è un fuoco di paglia” legato al Covid e anzi “deve avere continuità”: si tratta di “un autentico progresso da cui non si torna indietro”. Angela Merkel, il cui partito (Cdu-Csu) vede i debiti in comune come una bestemmia, ha fatto subito chiarire la questione al suo portavoce: i debiti in comune “sono chiaramente circoscritti” all’emergenza coronavirus. Insomma, stavolta e basta.

La rete unica non si unifica: Tim e Enel ancora in guerra

L’irrituale telefonata del governo al consiglio d’amministrazione di Tim per bloccare la decisione sull’ingresso in società degli americani di Kkr risale all’inizio di agosto: il mese di tempo accordato per trovare un’intesa che crei finalmente una società unica della rete (e magari crei anche la rete già che c’è) sta quasi per scadere, ma i protagonisti continuano a parlarsi – e a far finta di non capirsi – a mezzo stampa. E s’intende i manager, ma anche la maggioranza di governo: c’è una settimana di tempo e se qualcosa si muove si vedrà a brevissimo.

Breve riepilogo. La sciagurata privatizzazione di Telecom (Prodi e Ciampi, 1997) consegnò ai privati tanto l’azienda che la rete infrastrutturale: i grandi capitani di sventura da allora in poi hanno trasformato un gioiello in un’azienda piena di problemi e di debiti. La rete, nel frattempo, è divenuta via via obsoleta e quella nuova (la mitica fibra) avanza con esasperante lentezza. L’infrastruttura, però, per Tim è vitale: da un lato garantisce gran parte dei 31 miliardi e spicci di debiti lordi, dall’altro le consente di non essere una Vodafone con troppi dipendenti in Italia e scarsa presenza all’estero.

Qual è il problema? Si chiederà il lettore. Che l’Italia ha bisogno di una rete più moderna e finora l’ex monopolista non gliel’ha data. Qualche anno fa, in uno dei suoi momenti di massima inventiva, di fronte a questa constatazione Matteo Renzi decise di far fare la rete a Enel con l’appoggio di Cassa depositi e prestiti: nasce così Open Fiber che si mette a cablare la penisola in concorrenza con Tim. Ad oggi nessuna delle due sta rispettando gli obiettivi – e Open Fiber nemmeno quelli per cui ha vinto gare pubbliche (vedi la “Banda larga”) – e nessuna delle due ha grandi prospettive davanti: se della fu Telecom abbiamo detto, Enel e Cdp si ritrovano, spesi un bel po’ di soldi, ad avere in mano una società dal discreto valore (7 miliardi secondo il fondo Macquarie) ma che da sola non può reggere a lungo.

Siccome la cosa è nota a tutti da tempo, tutti da tempo hanno iniziato a pensare a come creare una società unica che costruisca e gestisca l’infrastruttura consentendo agli operatori parità di accesso. E qui si torna al punto di partenza: la società si può anche fare, ma Tim deve averne il controllo (il 50% più un’azione) in modo che la rete garantisca i suoi debiti; Enel non ci pensa nemmeno e chiede di ridiscutere tutto, tanto più che la quotazione teorica di Open Fiber è oggi quasi uguale a quella di Borsa di Tim. Cdp sta in mezzo perché , anche se pare incredibile, ha sì la metà di Open Fiber con Enel, ma pure una bella quota di Tim.

Dalla richiesta del governo di trovare un accordo erano passate quasi tre settimane quando l’ad di Telecom Luigi Gubitosi, mercoledì scorso, rilascia un’intervista a Repubblica per dire che loro la rete la faranno anche da soli: per questo stanno creando la nuova società FiberCop e facendo entrare gli americani di Kkr. Ieri l’apoteosi. Sempre su Repubblica, sotto un pezzo che riportava il tentativo di mediazione del ministro dell’Economia, c’era l’intervista del consulente dello stesso ministro, che però è pure presidente di Open Fiber, che bocciava la proposta del ministro: Tim ceda sulla proprietà o il governo – dice Franco Bassanini (sì, lui) – promuova una nuova società della rete con chi ci sta. La via della pace possibile è esplicitata senza infingimenti: nessun controllo a Gubitosi, ma Telecom può scaricare sulla futura società un po’ di debiti e un po’ di dipendenti.

Quest’ultima opzione, che comporta che nella futura società della rete il pacchetto di controllo sia di Cdp, è quella preferita da Beppe Grillo e dai 5 Stelle: Terna (la rete elettrica) è d’altronde un esperimento di successo. C’è sempre il problema che Tim non vuole e non può. E qui veniamo a Roberto Gualtieri, la cui proposta di mediazione – “chiaramente subottimale”, dice lui stesso – è la seguente e pare avere qualche chance: la nuova società resta a maggioranza Tim, ci entrano Enel, Cdp e tutti gli operatori e i fondi istituzionali interessati e si stabilisce che la governance sia blindata rispetto agli assetti proprietari. Cioè Tim ha il pacchetto di controllo, ma non il potere. Ora resta da capire, stante che Cdp è del Tesoro, se Bassanini parlava da solo o per conto dell’ad di Enel Francesco Starace. Si convincesse Enel, poi, dovranno dire sì pure gli azionisti di Tim: forse Vincent Bolloré – col 24% della sua Vivendi – ha anche altro da chiedere però…

A destra s’avanza lo scemo no-mask

“Noi le mascherine non ce le metteremo mai!”, seguono imprecazioni, parolacce e botte ai vigili urbani. È successo a Roma nei giorni scorsi e gli aggressori erano ragazzi giovani: un racconto che si ripeterà spesso, c’è da giurarci. Sì, perché in Italia – ma non solo – sta nascendo una nuova, miserrima figura, il “ribelle della mascherina”, ossia colui che sprezzante delle indicazioni dell’Autorità – e fiancheggiato dal politicume più bieco della Storia italiana – decide che no, lui non se la mette.

È bene ricordarlo, lo scorso 6 giugno l’Organizzazione mondiale della Sanità ha emanato le nuove linee guida: le mascherine vanno indossate nei luoghi pubblici “dove l’allontanamento fisico è difficile” da tutti e “non più solo da operatori sanitari” (tornando, dunque, addirittura sui suoi passi) perché “la pandemia sta accelerando”, parola del suo direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, il 7 luglio. E, purtroppo, aveva ragione: oggi i numeri ricominciano a essere preoccupanti. Ma non per loro, il popolo no-mask, che in ogni parte del mondo sta facendo proseliti sui social e nelle piazze: il leader – non ridete – sembra essere Miguel Bosé.

Che poi uno pensa: ma che problema c’è se per un periodo dovrò mettere una mascherina in presenza di altri, lavarmi le mani e tenere un amico appena distante? Certo non piace a nessuno portare un pezzo di carta davanti alla bocca, però per questi è peggio di un sequestro di persona.

Una figura, quella del no-mask, che fa il paio con un’altra, tanto in voga da noi: il no-tax, ossia l’evasore fiscale. Che in Italia, si badi, non è definito un criminale – se i posti in terapia intensiva sono meno è anche grazie a lui, non dimentichiamolo mai – e neanche un cretino come meriterebbe: no, qui da noi è un furbetto, quasi un ganzo. Invece è semplicemente un miserabile, uno che si alza da tavola dopo aver mangiato e lascia il conto da pagare agli altri (sempre). Uno che se la metafora diventasse realtà come minimo lo prenderemmo a calci nel sedere, altro che dargli del “furbetto” – Aldo Busi ha sempre ripetuto una cosa, come fosse un mantra: “Sa perché pago tutte le tasse? Perché è giusto e perché al primo che mi dice bau gli posso fare un culo così”. Parole sante. Ecco, il ribelle della mascherina è un po’ come l’evasore, un farabutto che si sente un furbo. E che con il suo comportamento meschino mette a repentaglio la salute di tutti. E, notate bene, è ben protetto da alcuni intellettuali (soprattutto de destra) che più volte sbraitano al riguardo. Più che altro scribacchini accostumati da secoli di servitù prezzolata e che da tempo versano il loro servile scherno addosso a chi non si ribella alle prescrizioni del governo (peraltro gridando oggi una cosa e domani il suo contrario, ma vabbè…). E allora vedi lo scrittore che invoca la rivolta contro la dittatura (ma per favore! Neanche Totò e Peppino…) o il saggista che si appella a Maria Vergine e Madre per (testuale) “proteggere il suo popolo”. Gentaglia che vuole solo appartenere alla parrocchia trionfante del momento (stando ai sondaggi) per poi, c’è da giurarci, pietire una prebenda qualsiasi al momento della futura riscossa.

Il più no-mask dei politici, neanche a dirlo, è Matteo Salvini: non la mette (o la abbassa) nelle piazze, la rifiuta in Senato, non la vuol far mettere alla figlia a scuola (confidiamo nella madre della piccola) e la rigetta nel suo orizzonte mentale: memorabile quella volta che ospite di Giovanni Floris disse: “Non posso abbassarmi la mascherina se parlo con una signora?!” con il conduttore che rispose in modo ancor più memorabile: “Eh no! Se non sta a un metro e mezzo, no!”. Cosa che, tra l’altro, sembra avergli fatto perdere consensi. Ma perché non glielo dicono? Si dirà, uno ha gli spin doctor che merita: se Alessandro Magno aveva Aristotele, Augusto aveva Virgilio, Nerone aveva Seneca e lui ha tal Luca Morisi, uno che di autodefinisce digital philosopher, qualcosa vorrà dire.

E i profeti della post-modernità grulla, quelli della peggior cultura d’accatto di cui sopra, diranno che va bene così: perché essere conseguenti in un ragionamento? Perché trovare un nesso, anche solo sintattico, in ciò che si dice? Tanto il voto è questione di quantità, non di qualità, quindi spariamola sempre più grossa. L’intellettuale no-mask ama molto politici come Trump, Johnson e Bolsonaro, perché, sostiene lui, sono uomini e che nella vita hanno praticato la politica “vera” o hanno “dato da mangiare” a tante famiglie (pietose metafore del “saper fare” molto in voga in questo circo sociale). Infatti si veda cosa hanno combinato, e stanno combinando, durante la pandemia. Il primo, all’apice del suo delirio, il 23 aprile ha quasi esortato gli americani a farsi iniezioni sperimentali di disinfettante, con le maggiori aziende produttrici costrette a pubblicare comunicati contro la pratica presidenziale. O Boris Johnson, che oltre a recitare l’Iliade a memoria in greco antico, sognava l’immunità di gregge: ha poi cambiato idea quando è finito all’ospedale con il Covid. Su Bolsonaro non vorremmo infierire come sulla Croce Rossa, come si dice, che oltre a dire scemenze una dietro l’altra e avere il Brasile in ginocchio, se lo è beccato anche lui – ma cosa aspettarsi da uno che qualche giorno fa ha preso in braccio un nano scambiandolo per un bambino?

Ma niente, i no-mask amano queste figure e odiano il premier Conte, che invece è stato il più serio a gestire l’emergenza (un modello per il New York Times, ndr). Però loro no, non lo amano. Neanche ad agosto, perché ha chiuso le discoteche – che strano premier, chiudere luoghi dove i ragazzi stanno appiccicati, ma come gli sarà venuto in mente?! Prendiamo la Sardegna, che da regione covid-free è diventata presto maglia nera di focolai. Ecco, qui si è arrabbiato molto Flavio Briatore, che ha intrapreso un aspro duello dialettico (vabbè) con il sindaco di Arzachena, reo secondo lui di aver inasprito troppo le restrizioni. Tuonava solo qualche giorno fa: “Non so come il sindaco possa collegare i decibel con il virus?!”. Tempo due giorni e hanno beccato un focolaio al Billionaire, con i dipendenti tutti in quarantena. D’altronde “un bel tacer / mai scritto fu”, sancì il poeta. Ma era durante il ritorno a Itaca, non al Billionaire.

 

Un sindacato stanco e afono ma. È ancora fondamentale

Sono un maestro con la tessera della Cgil da sempre in tasca. Non vi nascondo che ogni anno sono tentato di stracciarla, ma poi il ricordo di uomini come Giuseppe Di Vittorio o Placido Rizzotto, ucciso da Cosa Nostra il 10 marzo 1948, mi impediscono di passare all’azione. Negli anni scorsi sono stato membro del direttivo provinciale e regionale lombardo della Federazione dei lavoratori della conoscenza da cui me ne sono andato stanco di assistere a inutili riunioni tra dirigenti. Quando da precario feci lo sciopero della fame per denunciare la situazione il mio sindacato mi ammonì: “Ricordati che sei un dirigente e le decisioni non le puoi prendere da solo”. Peccato che a fare quello sciopero della fame o a scioperare contro l’Invalsi avrei voluto vedere proprio la mia organizzazione sindacale. Ernesto Galli della Loggia che probabilmente non ha mai avuto una tessera dei sindacati in tasca, sul Corriere della Sera in questi giorni ha parlato dello “strapotere dei sindacati della scuola”. Mi spiace deluderlo, ma non è così. In questi ultimi anni le organizzazioni sindacali hanno perso voce. In parte sono state zittite dalla politica e dai compromessi con i partiti in parte hanno perso la capacità di ascoltare i lavoratori che non si sentono più rappresentati dai sindacati. Detto ciò, abbiamo bisogno del sindacato, previsto tra l’altro dalla nostra Costituzione. Nella scuola la presenza di un organo intermedio è più che necessaria e in questi anni ha aiutato migliaia di docenti a difendere i propri diritti. Buttare fango sulle organizzazioni sindacali serve a poco anche se chi dirige queste organizzazioni forse dovrebbe battersi le mani al petto e scegliere la strada del rinnovamento. Serve un nuovo linguaggio. Serve ancor più professionalità. È necessario tornare ad ascoltare i lavoratori e non trincerarsi dietro gli sportelli.

Mail box

 

Musumeci le spara grosse per attirare l’attenzione

Il presidente della Sicilia Musumeci vuole chiudere gli hot spot che ospitano i migranti. Non ne ha la competenza (è dello Stato), ma fa niente: l’importante è sparare il petardo e far girare tutti per il botto. Al ministero dell’Interno gli fanno notare con garbo la gaffe, ma l’effetto c’è stato. Con tanto di applausi venuti da Salvini e con la Meloni che ha sfoggiato per l’occasione il suo “blocco navale”. Anche se non ha mai detto come possa funzionare, senza incorrere nei respingimenti in mare aperto vietati dal diritto internazionale, perché così la gente muore affogata. Musumeci voleva dare il suo contributo a criminalizzare i migranti come untori e – “mischino” (in siculo per “poveretto”) – ha fatto quello che ha potuto. Ma si merita lo stesso una menzione, anche se leggermente diversa da quella che ci sentivamo dire a scuola dai nostri insegnanti: si applica, ma non è intelligente.

Massimo Marnetto

 

La movida è pericolosa (anche da Briatore)

Dopo aver chiuso uno dei suoi più famosi locali, ora si scopre che diversi dipendenti dell’imprenditore Flavio Briatore sono risultati positivi al coronavirus. La conseguenza è che in molti sono finiti in quarantena. Una vicenda che deve fare riflettere soprattutto i negazionisti del virus. Occorre molta cautela e soprattutto bisogna evitare di sottovalutare l’emergenza sanitaria.

Gabriele Salini

 

Applicare anche alle navi le norme anti-Covid

Vorrei chiedere con urgenza se gli equipaggi dei traghetti sono stati testati. I traghetti per la Sardegna sono veicoli di contagio, molto più pericolosi di qualsiasi altra nave da crociera perché i passeggeri cambiano ogni dieci ore permettendo che anche il singolo viaggiatore positivo lasci la sua carica virale nel circuito chiuso di aerazione e climatizzazione per essere poi inalato dagli addetti ai lavori e dai successivi passeggeri. Chiedo a questo giornale di fare chiarezza, in modo tale da scongiurare la più inquietante delle ipotesi. Vorrei che il Fatto interrogasse gli organi statali preposti alla sicurezza e gli armatori sul perchè le navi non vengono sottoposte allo stesso trattamento che si riserva a qualsiasi struttura nella quale venga rinvenuto un passaggio del virus. Perché, dopo una rilevazione positiva, si chiude uno stabilimento balneare, dove si sta per lo più all’aperto, mentre una nave continua i suoi viaggi con un alternarsi massiccio di passeggeri e uno staff che respirano l’aria di tutti quelli che scendono e salgono?

Maurizio Contigiani

 

Ricalibrare la fiducia nella tecnologia è etico

Con lo straordinario progresso tecnologico degli ultimi decenni, ci aspettiamo, ai massimi livelli, praticamente la perfezione. Nel mondo delle moto, quando si parla di “Moto GP” si tratta del top del top, di più non ci può essere. Eppure, anche in questo ambiente di marziani super tecnologici, può capitare che un pilota, lanciato a quasi 300 all’ora, rimanga senza freni, proprio come capitava alle nostre sgangherate biciclette dell’infanzia negli anni 60. Quello che è successo a Viñales, per fortuna senza conseguenze, deve far riflettere sul rischio che comporta la continua corsa ad andare sempre più veloci, la tecnologia non è infallibile, basta un niente e dalla festa si passa alla tragedia.

Mauro Chiostri

 

I tormentoni estivi di una volta non ci sono più

J-Ax ha scritto l’ultimo disco nientemeno che sulla pandemia. E la sua canzone fa da colonna sonora all’estate 2020. Purtroppo, non esistono più le estati d’una volta, musicalmente parlando. Nell’estate del 1980, si ascoltava Sono solo canzonette di Edoardo Bennato e i pezzi di De Gregori e di Battiato. Ma i tempi sono quelli che sono. Dobbiamo accontentarci dei J-Ax, dei Fedez, dei Fabri Fibra.

Marcello Buttazzo

 

Gomez ha ragione: Dem e 5Stelle cooperino

L’accordo Pd-5Stelle, che era già da fare anche dopo il famigerato Rosatellum, è l’unico possibile tuttora, ma ha dei pericoli che incombono da entrambe le parti, soprattutto da parte di quelli del Pd che operano e operavano a favore dei Benetton e dei renziani. Ebbene Pd e 5Stelle non possono far altro che seguire il consiglio dato da Peter Gomez sul Fatto pochi giorni fa. Altrimenti, come lui paventa, vien fuori il pateracchio dei 5 a 1 a favore delle destre. E alle elezioni che seguiranno, dopo quelle regionali e/o comunali del prossimo mese, si avrà un avvio alla nuova balena, la balena nera.

Franco Paone

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo “Aspettando il Mose, San Marco è indifesa. Tre piani contro l’acqua alta, tutto bloccato” pubblicato sul Fatto Quotidiano del 25 agosto, precisiamo che il progetto dell’architetto Stefano Boeri è stato regalato alla città di Venezia, l’architetto ha ufficialmente rinunciato al compenso di euro 40mila.

Elettra Zadra
U. S. Stefano Boeri Architetti