Maturità? “Se la scuola si riduce ad azienda non serve a nessuno”

Gentile redazione, sui social si sprecano commenti sull’esame di maturità 2022: alcuni esprimono lo sgomento e il fervore di chi reputa gli esami degli ultimi due anni e anche il prossimo privi di quella “serietà” che ha caratterizzato la propria esperienza passata. Il “liberi tutti” all’ammissione agli esami dell’anno 2020 non è sicuramente espressione di un sistema meritocratico. Tuttavia, la situazione scolastica antecedente al virus non era così rosea come la dipingono i nostalgici.

Ho terminato gli studi superiori in un liceo classico meno di un lustro fa. Ho vissuto la scuola dall’interno delle sue mura con occhi infantili e adolescenziali, prima, e ho assistito ai vari cambiamenti apportati all’esame di maturità nel corso degli anni, dopo. Dalla mia esperienza, la scuola il merito non lo premiava neanche in precedenza, ben prima del 2020… A chi sostiene che con la Dad si perda moltissimo tempo e non si riesca a completare il programma, voglio dire invece che non è questa la causa dei loro mali. In primo luogo di tempo se ne perdeva anche in presenza. Tra assenze per malattia dei docenti, vari eventi a cadenza settimanale, lezioni intercalate da racconti di vita dell’insegnante, non posso dire di aver goduto effettivamente di tutto il tempo di cui avrei potuto disporre. Secondariamente, la Dad è uno strumento e come tutti gli strumenti necessita di qualcuno che ne faccia uso. In una fascia di età compresa tra i 14 e i 18 anni, può essere sfruttata sapientemente, nella consapevolezza che fare lezione e interrogare online non implicano necessariamente lo stravolgimento del proprio metodo didattico. Se l’occasione fa l’uomo ladro, è pur vero che ho conosciuto insegnanti, di ogni età, che sapevano come contrastare i furbi tentativi degli studenti. È compito dell’insegnante adattarsi ai tempi e alle circostanze, ma egli non ha quella capacità di muovere le coscienze, di stimolare il senso critico degli alunni, di trovare anche in materie come il greco antico implicazioni attuali, e finisce piuttosto con l’eseguire ordini superiori e condurre le solite spiegazioni e interrogazioni, la sua figura si esaurisce in una professione sterile, nel significato proprio del termine: non genera nulla. E poco importa lo strumento che si utilizza. Fin quando la scuola, come un’azienda, avrà come obiettivo la produttività, sfornando a tutti i costi diplomati, e fin tanto che ci saranno professori che penseranno che la massima soddisfazione derivante dall’insegnamento sia il voto alto che si staglia sulla pergamena del titolo conseguito dai propri alunni, la scuola non sarà mai scuola. Concludo chiedendomi e chiedendovi “se questa è Scuola”, parafrasando il titolo della celebre opera memorialistica di un autore che, ovviamente, per mancanza di tempo, non ho avuto occasione di studiare come avrei dovuto.

Stefano Vittorio Pruneri

Ciò che resta di noi dopo la pandemia

Nel 2017 un gruppo di ricercatori di Francia, Germania, Regno Unito e Usa, hanno dato inizio a un progetto che, esaminando una serie di parametri sociali, potesse essere d’aiuto per creare società più forti, unite e resilienti nei confronti delle minacce rappresentate dalla polarizzazione e dalle divisioni sociali. Lo studio è stato interessante e utile nella successiva valutazione del mutamento sociale dovuto alla pandemia. È stato valutato l’impatto sulla salute personale, la vita familiare, l’occupazione e la situazione finanziaria delle persone, ma anche le esperienze di condivisione, solidarietà, empatia e solitudine in un momento così difficile. Un altro aspetto considerato è stata la fiducia l’uno nell’altro, nel governo, nei media, nella scienza e negli esperti di medicina. Le prime valutazioni hanno messo in evidenza un generale impatto diretto di Covid-19 sulla vita di molti. Un terzo della popolazione esaminata ha dichiarato d’aver subito un significativo peggioramento della salute e della vita familiare. Ciò in un contesto finanziario che ha visto il 48% degli italiani impoveriti. La preoccupazione di perdere il posto di lavoro ha interessato il 42%, in un quadro di generale deterioramento della propria condizione finanziaria. Anche i rapporti sociali sono peggiorati: solo un italiano su due (52%) ha percepito solidarietà nei propri confronti. Sul rapporto con le istituzioni, media ed esperti, il calo della fiducia è andata di pari passo con il livello di stanchezza o di delusione, soprattutto al riacutizzarsi della pandemia. L’unico effetto positivo è stato una generale rivalutazione della vita personale, del tempo da dedicarsi. In molte si è avuta una revisione della priorità dei valori della vita. Non sempre, però, questo è stato un atteggiamento equilibrato. In alcuni casi si è arrivati persino ad abbandonare il lavoro, visto come ostacolo alla vita privata. Questo effetto è stato osservato anche negli Usa, dove si è avuto un 10% di incremento di cessazione volontaria del lavoro. Ciò che resta da comprendere è se gli elementi evidenziati saranno limitati al tempo della pandemia o si tratterà, anche in questo caso, di un “long Covid”.

 

Stile Arbasino: scarpe, camicie e pure mutande

Marchese. “Alla fine in Italia un critico letterario medio sa l’inglese peggio di un marchese coglione”.

Guardaroba. “Tieniti sempre alle stoffe ‘classiche’, quelle che hanno un nome, flanella, vigogna, grisaille, pied-de-poule, qualche raro prince-de-Galles, e quei bei ‘pettinati’ fuori dal tempo in ogni stagione. (Anche giacche di tweed). Non uscire, MAI (o poco), dal colore grigio (puoi andare dal chiarissimo cenere all’antracite). MAI i disegni ‘fantasia’. Raramente (poco anche di sera) il blu; e che per gli accessori, per esempio i pullover, sia il bleu-marine. Anche le calze saranno intonate all’abito (e non, tragico errore, alla cravatta), quindi generalmente grigie, e talvolta blu. In tinta unita, o con la loro baguette. Abbi calzetti scozzesi, ma bellissimi e pochissimi. Sempre alte le calze, quindi magari con le giarrettiere, non comprare neanche quelle basse per non aver la tentazione di metterle. Ti concedo che le scarpe non vanno comprate dal calzolaio, se le preferisci del genere boutique: ottimo, soprattutto per le più leggere; e ti troverai bene con le inglesi, specialmente quelle marron, da pioggia, con la mascherina a buchi a coda di rondine; mocassini, invece, americani, larghi di pianta e grossi” (L’Anonimo Lombardo, Einaudi, 1973).

Camicie. “Camicie invariabilmente bianche, anacronistiche, di popeline; ma, di mattina, stanno molto bene anche quelle a righine fittissime (naturalmente sul blu), fanno molto figlio-di-famiglia. Le uniche eccezioni siano di Oxford, ma possibilmente dilavatissimo” (Ivi).

Scarpe. “Le scarpe bianche ricordati che semplicemente non esistono” (Ivi).

Colori. “Esiste, certo, un ‘problema del marron’; fino alle scarpe, fino alla giacca ‘color bruciato’, ci arrivo. Per andare oltre, bisogna sentirsene straordinariamente sicuri” (Ivi)

Mutande. “Stai attento alla biancheria, va benissimo sempre magliette di lana, e slip di cotone di variabile peso in ogni stagione. Ma in casi di eccezionale bellezza, si perdona qualunque cosa, prima di tutto il nylon, e si approveranno anche le ‘vere mutande’; ma nessuna via di mezzo qui consentita: siano, o quelle dell’esercito, o finissime di batista. Sempre un po’ sporche: proprio così come non si portano le scarpe troppo nuove” (Ivi).

Papillon. Il papillon di Arbasino, vero, non pre-annodato, certificato dal presidente Pertini, che li controllava ad uno ad uno alle cene al Quirinale del suo settennato.

Ricette. “Ecco una ricetta di Stile ben poco italiana: trattare gravemente i temi leggeri, e leggermente i temi gravi” ( Repubblica, 27 gennaio 2003).

Vaffa. “A Roma ha quasi imparato a dir bene i loro ‘vaffa’ locali, come prima formula spontanea appena i rompi incominciano a rompere. E se insistono (come fanno) col ‘ci teniamo tanto, ci tiene il dottore, ci tiene la sora, ecc.’, allora un bel ‘cacciàtevelo in quel posto!’, come seconda battuta mai finora usata al Nord, ma qui preziosa perché così un dialogo fra rozzi difficilmente va avanti” (Fratelli d’Italia, Adelphi, Milano 2000).

Rauschenberg. “E Rauschenberg, l’ha conosciuto?”, chiede timidamente Masneri ad Arbasino, durante un viaggio in macchina dalle Marche a Roma. “Altroché conosciuto, l’ho proprio fatto”, la risposta.

Notizie tratte da: Michele Masneri, “Stile Alberto”, Quodlibet, 160 pagine, 14,5 euro

Il Di Maio di oggi non c’entra più nulla con i 5Stelle

Luigi Di Maio non è mai stato un “bibitaro”, un miracolato e un parvenu della politica. Quella era una propaganda cara ai giornaloni, alla “casta” e alla comicità paraculona e senza talento in stile Luca Bizzarri. Di Maio è nato per fare politica, che è un complimento ma pure una critica. Anche a inizio carriera, nel 2013, quando i 5Stelle erano pieni zeppi di scappati di casa (e lo streaming riprovevole con Bersani ne fu prova), Di Maio sembrava un alieno. Mai sopra le righe e sempre presente a se stesso, scaltro come vicepresidente della Camera come pure nei primi interventi in tivù. Ricordo come, otto anni fa, un nome potentissimo della tivù italiana mi avvicinò dietro le quinte, prima di un talk-show politico, e mi disse: “Questi 5Stelle sono degli incapaci totali, tranne Di Maio. È così furbo e scaltro da ricordarmi Pajetta”. Le elezioni 2018 furono stravinte dai 5Stelle per una serie di motivi, compreso il connubio perfetto tra il poliziotto “cattivo” Di Battista (che esaltava gli arrabbiati) e il poliziotto “buono” Di Maio (che convinceva i moderati). Ora stimato e ora picconato dal padre-padrone Beppe Grillo, Di Maio – bravissima persona e ragazzo corretto – è negli anni cresciuto. Sul selciato delle puttanate ha lasciato non poche impronte: dai congiuntivi sbagliati all’abolizione della povertà, dall’impeachment a Mattarella all’incontro coi gilet gialli. Tutti errori puntualmente amplificati da quegli stessi fenomeni che, ora, lo celebrano come nuovo Moro. In realtà l’errore più grave che Di Maio ha fatto, oltre a candidare i Carelli e Paragone, è stato fidarsi troppo di Salvini: quella doccia fredda lo ha cambiato irrimediabilmente, rendendolo più ponderato (è un bene) ma anche molto più subdolo politicamente. Ed eccoci al Di Maio attuale, che agli occhi della comunità 5 Stelle si è macchiato del reato più grave: il tradimento degli ideali antichi. L’elettore 5 Stelle è spesso iper-idealista e manicheo, fumantino e massimalista: non di rado talebano. L’esatto opposto del Di Maio post-Papeete, che appare come poltronaro, aduso alle congiure e disposto ad allearsi con tutti. Da bosco e da riviera. L’uomo che doveva aprire la scatoletta di tonno si è fatto scatoletta e pure tonno. Non è necessariamente un male: Di Maio è ormai un abile politico di professione. Per questo, non essendo più spettinato e passando il tempo a plaudire Casini e venerare Draghi, piace a giornaloni e potere. Lui stesso è Potere. Può iscriversi a qualsiasi partito: lo accoglieranno tutti a porte aperte. È bravo e capace. Ma nei 5Stelle non c’entra più niente. Di Maio è un politico famoso ma senza più consenso, e anche in questo (ahi) somiglia a Renzi. Di Maio ha scritto un (bel) libro che in pochi han comprato, Di Maio è sempre sui social ma le interazioni sono in picchiata (e quelle poche sono perlopiù insulti), Di Maio riempiva le piazze e oggi non riempirebbe neanche un monolocale. Con lui alla guida, il M5S rischierebbe di perdere pure con Calenda, cioè nessuno. La sua guerra santa a Conte, al netto dalle recenti mosse di (finta?) tregua, è una guerra personale. Di Maio non sopporta che, dalla pandemia in poi, lo sconosciuto che nel 2018 fu proprio lui (con Bonafede) a scegliere sia molto più amato di lui dagli italiani. È questo il punto: la politica non c’entra nulla, casomai c’entra il limite dei due mandati (ancora: la poltrona). Di Maio può stare dentro i 5Stelle di Conte giusto se si disinnesca al punto da tramutarsi in una sogliola morta, finendola di brigare ogni giorno contro il leader del suo stesso partito. Difficile da credere.

 

Csm, vanno sciolte le correnti e sorteggiati i membri togati

Nel suo intervento innanzi al Parlamento, in seduta comune, il Capo dello Stato, nel sollecitare l’ineludibile riforma del Csm, ha affermato che affinché tale organo “possa svolgere appieno la funzione che è propria si devono superare logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario”.

Ora, perché queste “logiche di appartenenza” cessino, solo due strade sono percorribili. La prima è lo scioglimento, da parte dell’assemblea degli iscritti all’Anm, delle correnti, cancro che ha invaso il Csm e parte della magistratura e che, ancora oggi, qualche utile idiota, anziché considerarle centri di indebito potere, le ritiene espressioni di “plurime e diverse sensibilità”. La seconda strada è il sorteggio (integrato) dei componenti togati. Un forte segnale in tal senso è venuto dal recente referendum cui sono stati chiamati gli iscritti: oltre 1700 di essi (sul 50% dei votanti) – e, quindi, presumibilmente oltre 3000 (se avesse votato il 100%) – si sono espressi favorevolmente per l’estrazione a sorte. Si tratta di un numero rilevantissimo se si considera che, ai tempi in cui questo giornale iniziò a proporre tale forma di nomina (articoli 23.1, 23.2.2016 e altri successivi), furono rarissime le voci favorevoli.

E, allora, se si vuole una vera riforma del Csm vanno approvati i seguenti punti: a) sorteggio integrato (estrazione a sorte) di un numero di magistrati cinque volte superiore a quello dei posti riservati a ciascuna categoria; b) aumento a 6 dei componenti provenienti dalla Cassazione poiché essi sono i più preparati e autorevoli e, in in un certo senso, meno pressati da logiche correntizie, quindi, meno manovrabili (tant’è che per tale motivo furono ridotti a 2); c) nomina del V. Presidente mediante estrazione a sorte tra gli 8 membri laici, onde sottrarre la nomina ad impropri accordi sottobanco tra capi-correnti e politici (come avvenuto per la nomina di Ermini che, per ciò stesso, avrebbe dovuto dimettersi); d) escludere che il V. Presidente presieda la sezione disciplinare e prevedere che il presidente di essa sia estratto a sorte tra gli altri membri laici; e) estrazione a sorte degli altri componenti la sezione con esclusione dei rappresentanti dei pm.; f) abolizione della esimente prevista dall’art. 5 n° 1/1983, scudo di abusi ed eccessi di ogni genere; g) prevedere l’ineleggibilità a membri laici di parlamentari (anche ex) e di rappresentanti del governo (anche ex).

Con successiva legge di rango costituzionale dovrà sottrarsi al Parlamento la nomina dei membri laici (avvocati e docenti universitari) e attribuirla a organi od organismi professionali (come il Consiglio nazionale forense e la Conferenza dei rettori) onde porre fine alla non meno disdicevole degenerazione partitica. Con la medesima legge dovrà essere abrogata la disposizione prevista dall’art. 104 della Cost. secondo cui “il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di Cassazione fanno parte di diritto del Csm”. Gli enormi poteri che derivano a costoro dalle rispettive cariche (il Primo Presidente è anche presidente del Consiglio direttivo della Corte mentre il Procuratore generale è titolare dell’azione disciplinare) rendono inopportuna la loro collocazione ai vertici del Csm e la loro stretta e continua vicinanza con i componenti dell’Organo (in particolare, il P.g. non dovrebbe avere alcun “contatto” con i componenti della sezione disciplinare).

Solo con una radicale riforma – (e non le inutili, inefficaci proposte della ex ciellina Cartabia, forse non molto esperta di ordinamento giudiziario) – il Csm sarà in grado di rispondere alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità, e sempre che nel contempo riemerga un imprescindibile rigore morale.

 

Afghanistan, sui talebani è uscita una serie di balle

Tutte le notizie negative che possono venire dall’Afghanistan devono essere pubblicate, enfatizzate e se possibile esasperate in senso ancor più peggiorativo. Questo è l’ordine di scuderia per dimostrare che i Talebani non sono in grado di governare il Paese che hanno riconquistato dopo vent’anni di lotta impari, kalashnikov contro missili e bombardieri, mettendo in precipitosa e disordinata fuga il potente esercito occidentale che li aveva invasi.

Secondo una responsabile delle Nazioni Unite, Isabelle Moussard Carlsen, 23 milioni di afghani, cioè più della metà della popolazione (38 milioni) sarebbe alla fame. Curioso. L’Afghanistan è per l’85 per cento del suo territorio un Paese rurale e i contadini a meno che non ci sia una carestia – ma carestia in Afghanistan finora non c’è stata – vivendo sulla terra di autoproduzione e autoconsumo non possono soffrire la fame. All’epoca del Mullah Omar, 1996-2001, nessuno in Afghanistan soffriva la fame, né gli adulti né tantomeno i bambini. Eppure anche quell’Afghanistan veniva da dodici anni di guerra, dieci contro gli invasori sovietici, due di conflitto civile fra “i signori della guerra”, cui pose fine proprio la presa del potere degli “studenti del Corano” guidati da Omar.

Comunque, quale che sia la verità, gli occidentali invece di piangere lacrime di coccodrillo sui bambini alla fame in Afghanistan farebbero meglio a restituire i 9,5 miliardi di dollari della Banca centrale afghana depositati nelle banche americane e da queste illegalmente sequestrati. In ogni modo si dimentica disinvoltamente che se l’Afghanistan è ridotto com’è ridotto è a causa di vent’anni di occupazione occidentale.

Si dice e si scrive che un “numero imprecisato” di membri delle “forze di sicurezza” del governo di Ashraf Ghani e prima di Karzai sia stato giustiziato. E vorrei ben vedere. Forse che in Italia alla fine della Seconda guerra mondiale non furono giustiziati i gerarchi fascisti?

Quando si scrive dell’attentato del 26 agosto al terminal dell’aeroporto di Kabul, che causò 90 morti, si sorvola sul fatto che fu opera dell’Isis e che in quel momento erano ancora gli americani a controllare l’aeroporto e non certo i Talebani. E tutti gli attentati successivi sono Isis perché i Talebani, arrivati al potere, hanno tutto l’interesse a mantenere l’ordine e non a fomentare il disordine.

Nell’ottobre del 2021 l’Independent diede con grande rilievo la notizia che una pallavolista afghana era stata decapitata dai Talebani. Questa fake fu smentita da una fonte insospettabile, il direttore di Tolo Tv, Miraqa Popal, che all’epoca in cui è collocata l’uccisione della ragazza era ancora direttore di Tolo e che non aveva nessun motivo di difendere i Talebani, perché proprio dai Talebani era stato cacciato e costretto a fuggire in Albania. Popal dichiarò che la ragazza si era suicidata dieci giorni prima della presa del potere da parte dei Talebani. E fermiamoci qui.

Anche ciò che di buono, in senso occidentale, fanno i Talebani è deriso. All’epoca del Mullah Omar, come si legge in un decreto della polizia religiosa, le donne quando dovevano uscire di casa “per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali” (istruzione, quindi non è affatto vero che lo studio fosse proibito per principio alle donne) dovevano essere accompagnate da un familiare. Adesso il nuovo governo talebano stabilisce che questo accompagnamento è obbligatorio se si allontanano dalla loro abitazione di 72 chilometri. A noi può far ridere, ma non possiamo guardare al mondo talebano-afghano con l’occhio di occidentali post Rivoluzione francese. I Talebani (non gli afghani in generale, i Talebani) per quanto questo possa apparire sorprendente hanno sempre avuto un grande rispetto per le donne. Certo ne limitano i diritti, ma le rispettano. Tutte le donne che durante vent’anni di guerra sono state prigioniere dei Talebani, dalla giornalista inglese Yvonne Ridley alla cooperante francese Céline, una volta liberate hanno dichiarato di essere state trattate con correttezza e avendo un particolare riguardo alle loro esigenze femminili.

La giornalista neozelandese Charlotte Bellis mentre era in Qatar si è accorta di essere incinta del suo compagno, il fotografo belga Jim Huylebroek. Poiché in Qatar è proibito avere un figlio senza essere sposati, la coppia ha cercato di rientrare in Nuova Zelanda ma non c’è riuscita per le rigide norme anti-Covid di quel Paese. La coppia è allora riparata in Belgio, ma non poteva restare nemmeno lì perché la donna non era residente. I due avevano i visti validi per l’Afghanistan dove avevano lavorato. Si sono allora rivolti ad alti dirigenti talebani che conoscevano. La risposta è stata: “Siamo felici per te, puoi stare qui, non avrai nessun problema. Non dire che non sei sposata, ma se lo si viene a sapere rivolgiti ancora a noi. Vedrai non ci sarà nessun problema”. Là dove non sono arrivate le stolte e disumane burocrazie occidentali sono arrivati i Talebani.

Questa notizia è stata riportata dall’Ansa, la nostra più autorevole agenzia d’informazione. Ma nessun giornale, almeno in Italia, l’ha ripresa. Perché non quagliava con l’immagine che ci siamo fatti dei Talebani che devono essere sempre “brutti, sporchi e cattivi” e comunque ostili alla donna.

 

La goffa genuflessione di “Fabiofazio” in tv al Santo padre Bergoglio

Ci sono battute definitive: fissano per sempre un personaggio come un insetto nell’ambra, consegnandolo, ridicolizzato nel suo tratto più emblematico, alla posterità. Il bersaglio ne resta impaniato in vita, e tutti, a ogni sua nuova impresa, ridono, colpiti dalla verità sempiterna di quella battuta. C’è quella di Dino Risi su Nanni Moretti: “Mi viene sempre da pensare: scansati e fammi vedere il film”. E quella di Antonio Ricci su Fabiofazio: “All’università noi eravamo di sinistra perché i professori erano di destra. Fazio era di sinistra perché i professori erano di sinistra”. Questo motto denuda la nevrosi primigenia di Fabiofazio, che lo portò a esordire nel mondo dello spettacolo come imitatore (bit.ly/3LfGv2f). Un tempo, a farci caso, si notava che, mentre l’intervistato rispondeva, Fabiofazio muoveva le labbra in sincrono con lui, deformazione professionale di chi per anni ha lavorato carpendo la parlata delle sue vittime. Oggi il suo regista evita con cura le inquadrature ravvicinate a due profili, che una volta permettevano di notare quel tic: chissà se ce l’ha ancora. Essere imitati è vissuto come una sciagura: è l’antico mito del Doppio foriero di morte (Rank, 1914), così presente nel nostro immaginario che Alberto Sordi, nell’ultima intervista, attribuì la sua malattia improvvisa all’imitazione (perfetta) di Max Tortora (bit.ly/3gwnESx, a 0.30’’). Per cui non mi sarei perso per niente al mondo l’incontro del papa con Fabiofazio. Niente inquadrature ravvicinate a due profili, peccato; ma la gara a chi sparava i prosperi più grossi è stata eccitante, una lunga giaculatoria contro la guerra, le ingiustizie e la plastica che inquina, ci facevamo i temini già alle elementari (vogliamo dirlo chi fece l’accordo sui migranti con la Libia? Se non tu, Fabiofazio, che hai tutto da perderci, almeno Bergoglio), e Fabiofazio, sempre in disaccordo (“Ha ragione, Santo Padre”), osava addirittura chiedergli perché si spaccia per rappresentante di Dio in Terra, che è come spacciarsi per rappresentante di Giove, con tanto di costume bianco (dopo la prima inquadratura, l’attento gesuita copre con la manica lo Swatch di plastica che ha al polso). Sovrumani, immagino, gli sforzi di Fabiofazio per trattenersi dall’imitazione del simpatico Bergoglio, la più facile del mondo dopo quella di Celentano: non sia mai che il papa muoia dopo un’imitazione portasfiga di Fabiofazio! (Ma gli scappa quella di Alberto Angela, attenzione.) Prima della pubblicità che precede l’evento col papa (niente pannoloni o adesivi per dentiere), Fabiofazio chiede ai giornalisti ospiti (di Repubblica, Stampa e Corriere: avete mai letto critiche a Fabiofazio su Repubblica, Stampa e Corriere? Sui suoi contratti in Rai, per dire, dove lo strapagano per interviste costantemente superflue, basterebbero due sedie? Ecco, appunto. Anzi, lavorano con lui. E se uno critica lui, rispondono loro), Fabiofazio dicevo chiede loro un giudizio sintetico sul papa. L’entusiasmo generale di quei professori di sinistra lo tranquillizza visibilmente: poteva riverire il papa come previsto. Appare il papa. Fabiofazio scatta in piedi, e il pubblico pure: siamo a messa. Domande sulla pedofilia nel clero e su Ratzinger, sulla gestione delle finanze vaticane e sulla furbata dell’8 per mille, sulle lotte interne alla Chiesa cattolica, sul maschilismo ecclesiastico, sulla selezione dei preti e sull’anacronistico celibato? Nessuna. Non un’intervista, insomma, ma un salmo responsoriale, con Fabiofazio a rispondere “Santo Padre” come le beghine un tempo ora pro nobis, ligio a domande che sarebbe stato inutile concordare prima (Amadeus avrebbe potuto fargliele a Sanremo, la sede più adatta, il papa seduto accanto a Orietta Berti). Insomma, cosa si aspetta a nominarlo gentiluomo del papa? Perché D’Alema sì e Fabiofazio no?

 

10mila vittime in un mese, però sono di serie b

Chiese: perché di noi diecimila e più deceduti causa pandemia dall’inizio del 2022, non parla nessuno? Mentre, due anni fa, quelle bare sui camion militari incolonnati suscitarono così tanta emozione? Non erano forse morti esattamente come siamo morti noi? Rispose l’infettivologo: non è detto. Si tratta infatti di aggiornare il computo statistico, poiché sono numerose le vittime per così dire abusive: chi, per esempio, non è sopravvissuto a un incidente d’auto ma che, nel contempo, è risultato anche positivo al contagio. Se ne deduce che i morti Covid da computare sarebbero in realtà molti di meno, e mi lasci dire sono soddisfazioni. Rispose il membro del Comitato tecnico-scientifico: la nostra precipua preoccupazione riguarda i numeri dei ricoveri in corsia e nelle terapie intensive, affinché possano essere progressivamente divulgati col segno meno per rafforzare la fiducia nel governo e nelle istituzioni. Come dice il saggio: chi muore giace, chi vive si dà pace. Rispose il politico (di unità nazionale): grazie alla poderosa campagna di vaccinazione che si appresta, nei tempi congrui, a debellare il morbo, gli estinti vanno considerati come incresciosi effetti collaterali su cui non soffermarsi per non scoraggiare lo slancio sanitario della popolazione. Rispose il politico (di opposizione): continuare a parlare dei morti da Covid è solo un modo per giustificare il protrarsi di misure restrittive, nonché anticostituzionali, che sbarrano la strada che conduce alla ripresa. Non si può morire di fame per non morire di virus. Rispose il sì-vax: le informazioni sulle vittime da Covid vanno date esclusivamente come monito quando si tratta di no-vax defunti a causa di un ostinato e persistente rifiuto della benefica siringa. Rispose il no-vax: in realtà voi non siete affatto morti bensì complici di un complotto globale attraverso il quale un normale raffreddore è sufficiente per manipolare un certificato di morte. Rispose il giornalista: è vero che alle prime vittime dedicammo paginate intere, con tanto di fotine, di interviste ai congiunti, di pensosi commenti sul significato del trapasso nell’epoca di Internet. Col tempo, tuttavia, l’assuefazione ha preso il sopravvento e anche quattrocento decessi al giorno finiscono nella contabilità ordinaria (purché sempre preceduti dall’avverbio “purtroppo”). Ma poi, diciamolo, si può morire tra un’elezione al Quirinale e il Festival di Sanremo?

Riecco renzi in camper: la benzina sarà gratis?

Nostalgia canaglia. Matteo Renzi riprende il camper come 10 anni fa, quando si sentiva giovane e bello, il futuro era ancora una tavolozza bianca. C’era la campagna delle primarie (quelle perse) contro Pier Luigi Bersani, il tour di “Adesso!”; c’era tutto un profumo di rottamazione, le camicie erano bianchissime, la chat su Whatsapp con lo spin doctor Giorgio Gori era rovente. Sembra passato un secolo e mezzo, invece che due lustri. Il tempo è come Attila. Matteo vuole riportare indietro le lancette, ritrovare la magia. Ecco quindi l’ideona: “Italia Viva c’è e ci sarà. Tutto ciò che andremo a fare lo faremo dal basso, macinando chilometri sulla strada col camper, esattamente come dieci anni fa”. Non rimane che attendere le date del tour. Sperando che non ricapiti come nel 2017, quando dopo la tranvata del referendum perso, girava l’Italia in treno per “combattere i populismi”, ma dopo le prime contestazioni aveva smesso di comunicare le fermate del suo pellegrinaggio. Il camper dà tutta un’altra libertà. Certo, magari non ha i comfort degli aerei di Stato o dei voli offerti dagli amici imprenditori, non sarà “una roba da seghe” come andare a Washington per parlare di Bob Kennedy, ma può fargli ritrovare lo spirito on the road e l’idea di frontiera. E la benzina non sarà mai un problema, con tutti quei nuovi amici nel Golfo Persico.

Davigo dal gup: “Ho rispettato la legge”

“Tutto quello che ha fatto, lo ha fatto nel pieno rispetto della legge”. A sintetizzare così le tre ore dell’interrogatorio di Piercamillo Davigo a Brescia, è il suo difensore, Francesco Borasi. Il magistrato ed ex consigliere del Csm è comparso ieri davanti al giudice dell’udienza preliminare Federica Brugnara, che dovrà decidere se accogliere o respingere la richiesta della Procura di Brescia (competente per le indagini sui magistrati milanesi) di mandare sotto processo Davigo e il pm di Milano Paolo Storari: i due sono imputati di rivelazione del segreto d’ufficio, con l’accusa di aver diffuso i verbali dell’ex avvocato esterno Eni Piero Amara che raccontava di una presunta loggia massonica chiamata Ungheria. Storari ha spiegato, nell’udienza precedente, di aver affidato a Davigo quei verbali per tutelarsi, in presenza di quella che riteneva una situazione di inerzia investigativa dei suoi colleghi della Procura di Milano, che a duo avviso tardavano a compiere atti d’indagine sulle dichiarazioni di Amara e a procedere con iscrizioni nel registro degli indagati.

Davigo ha sempre assicurato di aver agito come componente del Csm, a cui non è opponibile il segreto, e di aver parlato all’interno del Csm dei verbali in maniera informale, perché una denuncia formale avrebbe svelato l’indagine milanese a due consiglieri del Csm citati da Amara in quegli interrogatori. Ieri Davigo non ha chiesto, come invece ha fatto Storari, il rito abbreviato: non per scarsa fiducia nel giudice (che già gli aveva respinto la richiesta di udienza preliminare a porte aperte), ma per ottenere, con il rito ordinario, un procedimento che garantisca la massima trasparenza e la massima pubblicità del dibattimento, necessaria sempre, ma ancor più nel caso di una vicenda grave e complessa come quella dei verbali sulla loggia Ungheria. Storari invece ha chiesto il rito abbreviato.

Davigo ieri ha depositato al giudice alcuni documenti, meno corposi di quelli presentati da Storari nella scorsa udienza del 3 febbraio: si tratta del verbale di un’intercettazione in cui Luca Palamara (magistrato leader della corrente Unicost, protagonista dello scandalo della lottizzazione delle nomine per i vertici degli uffici giudiziari) parla con il collega Massimo Forciniti. Utile, secondo la difesa di Davigo, a spiegare il contesto in cui si sono svolti i fatti sotto esame. Forciniti, ex consigliere togato del Csm molto legato a Palamara, durante le grandi manovre dentro il Csm per nominare il procuratore di Roma, si era schierato per Giuseppe Creazzo, mentre Palamara spingeva per la nomina di Marcello Viola.

Il giudice Federica Brugnara ieri ha separato le posizioni dei due imputati: per Davigo l’udienza preliminare proseguirà il 17 febbraio, mentre lo stesso giorno per Storari comincerà, a porte chiuse, il processo in rito abbreviato da lui chiesto.

Nel procedimento è presente anche Sebastiano Ardita, consigliere del Csm un tempo molto vicino a Davigo, che si è costituito parte civile sostenendo di essere stato danneggiato ed emarginato dentro il Consiglio da Davigo, che raccomandava cautela nei suoi confronti poiché il suo nome era presente nei verbali di Amara come appartenente alla loggia Ungheria.