I Totti e Gente. Sbagliato pubblicare, ma ora stesso trattamento per tutti

Cara redazione, ho appena visto la copertina di “Gente” dedicata a Francesco Totti e a sua figlia 13enne, e qualcosa mi ha stonato. Ma non ho capito subito il perché. Poi ho pensato a mia figlia, e lì qualcosa si è chiarito: avere un genitore famoso non può sorpassare il rispetto per una adolescente, e in questo caso, credo, sia stato superato un limite non accettabile.

Gianni Cresci

 

Caro Gianni, le foto al mare di personaggi noti con i figli sono sempre uscite. Ricordo un servizio su un altro settimanale (Oggi) del 2011 in cui la Hunziker faceva il bagno al mare in Liguria con la figlia Aurora allora 15enne. Avevano lo stesso costume, per giunta e furono fotografate frontalmente, di spalle, di profilo. Molti siti azzardarono confronti, qualcuno scrisse anche che la ragazzina aveva la cellulite. Non ricordo mezza sollevazione, neppure un sopracciglio alzato. E non sono state certo le uniche foto di adolescenti svestite e note o “figlie di” sbattute sui giornali. Questa volta però sui giornali c’è finita la figlia di Totti e Gente è seppellito di critiche. Intendiamoci, io credo che Gente abbia sbagliato tutto. Credo che la foto del perizoma di una tredicenne andasse tenuta nel cassetto e possibilmente con un doppio lucchetto. Credo che scrivere che somiglia tanto a mamma Ilary con la foto del suo sedere in primo piano sia una scelta volgare, pericolosa e cretina. Quali sarebbero le affinità estetiche? Stesso culo ben tornito? Ed è il caso di puntare il faro sul culo di una tredicenne? Credo anche, però, che il caso sia diventato un caso perché la ragazzina è figlia di Totti e certe tredicenni sono più tredicenni di altre. Così come certe giornaliste sono più giornaliste di altre (se la Botteri non fosse stata la Botteri ci sarebbe stata una sollevazione popolare per quella battuta sui capelli?). E certi politici sono più politici di altri (a parità di battuta, difendiamo la Carfagna quanto la Bellanova?). Spero che l’apocalisse mediatica sulla figlia di Totti sia il segnale di una nuova e maggiore sensibilità e non la solita sensibilità “speciale” riservata al magico mondo dei calciatori. Intoccabili, privilegiati, idolatrati sempre e un po’ più degli altri, figli compresi.

Selvaggia Lucarelli

Santanchè-La Russa, il reale punto debole di Giorgia Meloni

Il vero problema politico di Giorgia Meloni, oltre a un tristissimo (per lei) appiattimento sui temi del mal sopportato alleato Salvini, è la classe dirigente. Al netto di esponenti preparati e amministratori capaci, Fratelli d’Italia – che continua a salire nei sondaggi – appare troppo spesso un coacervo di nostalgici fascisti, capibastone improponibili e personaggi diversamente immacolati. Per capire la penuria di figure credibili interne al partito, basta poi pensare ai volti che la Meloni deve diuturnamente mandare in tivù quando non può – o non vuole – andarci lei. Chi sono (al mattino e al pomeriggio: quasi mai in prima serata) gli onnipresenti catodici meloniani? Facile: Ignazio La Russa e Daniela Santanchè. E già questo, oltre a essere malinconico (per la Meloni), è tremendo (per noi): se la “nuova destra” deve convincere nel 2020 gli elettori con carampane (politicamente parlando) di tal levatura, tanto vale darsi fuoco tutti con la Diavolina.

Ignazio & Daniela sono da sempre legati, avendo la seconda esordito in politica come collaboratrice personale del primo. Daniela, nata (nel 1961) Garnero e ancora Santanchè sebbene divorziata da tempo, è ai margini del dibattito da sempre. Perfino quando – ebbene sì, lo è stata! – era sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio. Vantava però al tempo un cipiglio da guerrigliera del piccolo schermo: sorta di Ghedini al femminile, andava da Santoro come una Giovanna d’Arco disposta a tutto pur di difendere il Capo. Quel Capo che criticava per i modi machisti, al punto da contattare Di Pietro e ipotizzare di scendere in campo con l’ex pm, salvo poi divenire una delle più esaltate Farinacci del Caimano. Mai granché preparata e men che meno coerente, la sua “carriera” politica l’ha vista membra del Msi e poi di Alleanza Nazionale. Quindi La Destra e poi Mpl (che nessuno sa cosa sia stato). Poi Partito della Libertà e Forza Italia (dal 2010 al 2017). Tre anni fa l’approdo alla Meloni, dove ha ritrovato il suo ‘Gnazio e quel bell’ambiente fascio-nostalgico che tanto la inebria. Sotto il lockdown, la signora Garnero da Cuneo è uscita dai radar: avevamo già abbastanza disgrazie, verosimilmente. Poi, quando è arrivata l’estate, è stata una delle prime a minimizzare i rischi di un riacutizzarsi del contagio. Amica ed ex socia di Briatore, ne ha condiviso le intemerate per la “liberalizzazione delle discoteche”, che in tempi normali sono luoghi saturi di musica orrenda e che dentro una pandemia assurgono ad Armageddon Totale. Vestita di un imprecisato verde ramarro shocking, Garnero ha pure imbastito un sensualissimo balletto anti-Conte, la cui valenza erotica è parsa prossima (per difetto) a quella della Gegia in ciabatte e bigodini nei film anni 80. Quindi, in tivù, ha attaccato Crisanti sul Covid (?!?) e condiviso Calenda (che diceva l’esatto opposto di quel che asseriva lei). Poi, d’improvviso, il colpo di coda della Pitonessa che fu. Riporto testualmente il suo tweet: “Da madre mi terrorizza l’idea che se le discoteche vengono chiuse mio figlio possa rinchiudersi in case di amici senza distanziamento, senza mascherine e senza controlli. Basta prendersela con i locali dove ci si diverte in sicurezza!”. Capolavoro puro. Un po’ supercazzola, un po’ delirio, un po’ paraculata. E nel mezzo, sparsi a terra, i neuroni vilipesi sul selciato. Proprio come ai bei tempi (i suoi: i nostri no). Daje Garnero: il tramonto politico è prossimo, per non dire già in atto, ma c’è forse ancora spazio per qualche altro scampolo d’arrogante evanescenza. Ti sia dunque lieve quest’ultimo giro di valzer.

 

Un congresso Pd metterebbe a nudo i fiacchi oppositori ai 5S

Ho sempre auspicato l’intesa politica tra Pd e M5S sin dal giorno successivo alle elezioni del 2018. Ciò detto, sono convinto che la svolta che conduce da una collaborazione di governo a un’alleanza politica stabile e strategica esigeva ed esige da parte dei partner un serrato e aperto confronto interno di carattere congressuale. Che non c’è stato neppure da parte del Pd. Zingaretti assunse la guida del partito dopo la disfatta elettorale sull’onda di una pressante ma generica domanda di cambiamento grazie alle primarie, ma senza un confronto su identità e linea politica che elaborasse la discontinuità dalla stagione renziana. Dunque non hanno torto i suoi critici interni al Pd quando invocano qualcosa che somigli a un congresso per discutere e semmai deliberare tale alleanza strategica. Anche se tra chi lo invoca, vi è chi lo fa strumentalmente. Tipo gli Orfini, il poliziotto cattivo di Renzi, che recita la parte del gauchiste; o i Marcucci che ancora fanno eco a Renzi pur rivestendo incredibilmente il ruolo di capogruppo Pd al Senato. In una sede congressuale non sarebbe difficile confutare i deboli argomenti di chi dissente. Intanto, smontando la vacua retorica che fa perno sull’ambigua parola “riformista”. Una parola passepartout, sinonimo di moderatismo, mero spirito adattivo al paradigma neoliberale. Davvero possiamo replicare oggi le ricette blairiane e renziane nella fase nuova e problematica della globalizzazione, tanto più dentro e oltre lo choc della pandemia? Ancora: i critici, come una litania, lamentano l’asserito abbandono della “vocazione maggioritaria” del Pd. Di nuovo un equivoco. Che significa “vocazione maggioritaria”? Due cose: proporsi di interpretare e rappresentare non questa o quella parte della società, ma la società tutta; puntare a raccogliere un consenso largo, tendenzialmente maggioritario così da assurgere a responsabilità di governo. Con il suo attuale 20%, può riuscirvi il Pd in solitudine, dopo che per ben due volte, prima con Veltroni e poi con Renzi, con un Pd attestato su ben altri valori, ci aveva provato velleitariamente incassando sonore sconfitte? Oggi, la vocazione maggioritaria intesa come ambizione di governo passa solo attraverso una politica delle alleanze, come fu al tempo dell’Ulivo. Chi non lo comprende o finge di non comprenderlo in realtà coltiva una vocazione minoritaria. A Bonaccini, che gonfia il petto per avere sconfitto la destra senza il sostegno del M5S e al quale taluni guardano come a competitor di Zingaretti, merita segnalare due cose: l’Italia non è l’Emilia-Romagna e lui ebbe somma cura di “nascondere” simbolo e dirigenti Pd. Come si può immaginare, nella partita politica nazionale, di oscurare il Pd, di dissimulare l’appartenenza al campo del centrosinistra? Infine, trovo non solo curioso ma anche contraddittorio che quanti invocano la vocazione maggioritaria del Pd la scorporino dalla visione sistemica nella quale essa fu concepita. Intendo il bipolarismo, una sana democrazia dell’alternanza. Pur con le sue linee di frattura interne, il centrodestra è in campo e oggi favorito. Come sperare in una democrazia sanamente competitiva senza dedicarsi a organizzare un campo democratico largo muovendo da un esile 20%?

Chi rifiuta pregiudizialmente l’alleanza con il M5S cosa propone in positivo per non limitarsi a un ruolo testimoniale? Non mi pare che prospettive neocentriste, che inesorabilmente occhieggerebbero a FI, Iv e Calenda, abbiano grandi chance di successo, né che siano più conformi al gene del Pd quale partito di centrosinistra competitivo e alternativo al centrodestra. Dunque, Zingaretti accetti la sfida: non sarebbe difficile mostrare come i suoi avversari interni siano privi di argomenti e soprattutto non prospettino alcuna concreta alternativa.

 

Quel padrone di Bonomi pretende anche amore

Si torna dalle ferie e si respira quel clima di unità e solidarietà nazionale auspicato dal presidente Mattarella. Riassumiamo per i lettori l’intervista al capo di Confindustria Bonomi somministrataci ieri da La Stampa per rischiarare i cieli neri della crisi pandemica nel solco di quel monito ecumenico. Le quasi due paginone di randellate passivo-aggressive è una Summa Theologiae del pensiero confindustriale. I personaggi sono ritratti con pennellate nette, da fiaba di Esopo: ci sono i buoni (gli industriali e Mario Draghi) e i cattivi (il governo; il presidente dell’Inps Tridico; chiunque provi sentimenti anti-industriali). Questo perché c’è troppo “pregiudizio ideologico anti-industriale”, del tutto ingiustificato alla radice del fatto che la crisi sarà “irreversibile” e si perderanno “un milione di posti di lavoro”. Se questa può sembrare una minaccia (se ci imponete il blocco dei licenziamenti fino a settembre e lo smartworking senza contropartite, noi in autunno cominceremo a licenziare), in realtà Bonomi lamenta che i cattivi sono inetti: prova ne è che ad agosto (il mese del decreto agosto) Confindustria si ammazzava di lavoro mentre “la politica se n’è andata in ferie”: “Quel minimo di ripresa l’abbiamo generata noi imprenditori. Ci siamo rimboccati le maniche, come sempre. Noi ci siamo messi al lavoro…”. Vecchia storia: a garantire il fatturato non sono i lavoratori, costretti spesso a lavorare in precarie condizioni di sicurezza e in nero, prendendo solo una percentuale dello stipendio da aziende che hanno finto la Cassa Integrazione razziando soldi pubblici (234 mila secondo Tridico), ma i padroni in persona.

Finiti i tempi in cui dettavano le riforme ai governi e paventavano sciagure in caso di bocciatura popolare del referendum di Renzi (a proposito: non è che il Pil e l’occupazione scendono perché ha vinto il No?), i padroni hanno la loro testa d’ariete in questo signore che parla fuori dai denti, tanto da accusare il governo di “fare più danni del Covid”, in linea peraltro con la prestigiosa scuola di pensiero di Briatore. L’errore è nell’attuale assetto di aiuti: “Dobbiamo ragionare tutti insieme su una graduale exit strategy dall’economia assistita, e su un nuovo sistema di protezione sociale”. Occorre tradurre? Vogliono una più equa distribuzione delle risorse, dai poveracci alle aziende, dalle partite Iva in difficoltà ai “datori” di lavoro, dai disoccupati agli imprenditori. La crisi inedita che ha colpito l’intero pianeta ha un’unica soluzione, antica e collaudata: quando le aziende fanno utili, i soldi li intascano i padroni; quando le aziende perdono, anche in congiunture funeste come questa, paga lo Stato, quindi noi. È talmente primitiva, come strategia, che per non sembrare ingenui spostiamo la domanda: ma Confindustria, che non riesce a gestire nemmeno i conti del suo giornale, le cui perdite, qualcosa come 360 milioni in 10 anni, venivano occultate nel bilancio, a quale titolo fa la morale ai politici?

Se nella sostanza e nelle forme il padronato è rimasto uguale a cent’anni fa, retrocedendo anzi rispetto al tempo delle conquiste sindacali grazie al lavoro di solerti politici collaborazionisti (Jobs Act, abolizione dell’art. 18, contrattini a ore, voucher, etc.), a livello antropologico c’è stato un cambiamento epocale. Rivelatoria ne è l’ultima struggente frase che Bonomi consegna a La Stampa – che inspiegabilmente perde il 22,3% delle copie, in ciò non aiutata da Bonomi stesso, che ieri ha pubblicato l’intera intervista “in chiaro” sul suo profilo Twitter: “Noi imprenditori amiamo profondamente il nostro Paese: vorremmo solo essere ricambiati con lo stesso amore” (dev’essere questo il motivo per cui preferiscono delocalizzare e trasferire la sede fiscale in altri Paesi: carenza d’affetto).

Ecco l’antropologia: ai padroni di oggi non basta essere temuti, non gli basta comandare: vogliono essere amati. Come non avessero già abbastanza difensori, organi di stampa, lobbisti in Parlamento, gruppi di interesse e una bella scorta di malati di Sindrome di Stoccolma che salterebbero nel fuoco per loro. Le critiche sono “pregiudizi ideologici”. Se lo Stato dà soldi ai nullatenenti o ai pocotenenti, è assistenzialismo. Se li dà a loro, è exit strategy. Dicono di amare il popolo, ma detestano i suoi rappresentanti, soprattutto quando fanno qualcosa a favore del popolo. A scapito della loro fortuna di censo sono petulanti, scontenti degli effetti impopolari della loro forza economica (“Noi non siamo Poteri Forti”, dice Carlo); non hanno abbastanza polso per l’autonomia, quella lucente indipendenza che contempla la possibilità di essere detestati e malgrado questo proseguire verso la gloria, l’innovazione o almeno l’onesto lavoro. È una forma di impotenza, quell’impotenza dell’onnipotenza d’altra parte così comune presso un certo tipo di potenti complessati.

 

La cuoca cinese di mia zia cucina tipico pugliese e capisce molto di politica

Mia zia ha una cuoca cinese bravissima a cucinare pugliese, crede lei. Poiché è la nipote di Qing Jiang e Mao, di politica ci capisce, e quando ho dei dubbi le chiedo lumi. Stava arrostendo le bombette (involtini di capocollo di maiale ripieni di caciocavallo, prezzemolo, sale e pepe). “Come voteresti a questo referendum, Yu?”. Mi ha spiegato che la proposta Ferrara-Rodotà del 1985 (una sola Camera di 500 deputati eletti con una legge proporzionale) era perfetta: riaffermava la centralità del Parlamento contro la sua sudditanza ai governi che amano i decreti d’urgenza, e non creava scompensi come il taglio lineare ora in palio.

“Era simile alla riforma di Renzi?” “No, quella tagliava in modo da rafforzare il governo”. “Col taglio però si risparmia”. “L’argomento del risparmio è capzioso, sia per sostenere che il taglio è vantaggioso (al netto, 53 milioni l’anno), sia per sostenere che è poco vantaggioso (0,95 centesimi l’anno per ciascun italiano). Infatti nessuno ha proposto il taglio delle spese per il personale di Camera e Senato, 350 milioni l’anno. O quello degli assistenti parlamentari, cui va una fetta dei compensi annui di deputati e senatori. Con meno parlamentari, fra l’altro, gli assistenti dovranno aumentare per far fronte alla maggior mole di lavoro”. “Il taglio però migliorerà l’efficienza del Parlamento, no? O credi che peggiorerà la rappresentanza?” “Come diceva Confucio, mia nonna mi perdoni, occorre intendersi sui termini. Efficienza significa riuscire a fare più leggi nell’unità di tempo? Mica vero. Di Maio ha detto: ‘Con un numero minore di parlamentari la qualità delle leggi si alzerà’. Perché? È un mistero inesplorato. Quanto alla rappresentanza, c’è quella territoriale e quella politica. Rappresentanza territoriale: perché una Camera con un deputato ogni 96mila abitanti dovrebbe rappresentare meglio il Paese di una Camera con un deputato ogni 151mila? La Costituzione del 1948 prevedeva un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila, nel 1963 il loro numero fu fissato a 630 e 315. Negli altri Paesi le proporzioni sono diverse. Il nodo vero è la rappresentanza politica: coi tagli lineari, vengono penalizzati i partiti piccoli. Specie al Senato, poiché viene eletto su base regionale: quando i senatori vengono ridotti, la soglia naturale da raggiungere per avere un eletto al Senato si alza anche parecchio: in Basilicata diventa del 20%, ci arrivano solo due partiti”. “Quindi il Senato va eletto su base circoscrizionale?” “Certo, ma servirà un’altra riforma costituzionale. Purtroppo, c’è chi ha approfittato, anche a sinistra, del disincanto democratico e delle pulsioni populiste, un pericolo da cui Rodotà metteva in guardia nel 2014. Si tratta sempre e solo di scelte politiche. Meno parlamentari ci sono, per esempio, più sembra naturale il vincolo di mandato che piacerebbe a Grillo, dopo il quale nihil obstat a un sistema di decisioni rapide, prese col solo voto dei capigruppo, una vecchia idea di Berlusconi. Immagina un cursore che vada da 1000 parlamentari a zero: a che punto del cursore la democrazia finisce?” “Yu, cos’hai contro i grillini?” “Nulla, mi sono molto simpatici: sarebbero stati dei maoisti perfetti. E adesso mangia. Un sacco vuoto non sta in piedi”. E così, col coraggio di chi si butta da una Yamaha a 200 all’ora, ho ingoiato la bombetta.

 

Nuova Ipotesi mutazione: più contagi, meno danni

Il dibattito sul Covid che sembrava quasi diventato monotono, si è acceso qualche tempo fa quando il collega Zangrillo ha dichiarato, con una frase non perfettamente scientifica, che il virus fosse “clinicamente morto”. Boccone prelibato per i soliti soldati del web, pronti a sparare su tutto e tutti. Non solo, i soliti soloni presuntuosi, autodefinitisi giudici e possessori della vera scienza (non democratica, attenzione!), anche loro a criticare. Zangrillo, Bassetti, Clementi e io tacciati di negazionismo, solo perché in un convegno abbiamo descritto la cronaca degli ultimi mesi. Evidenza di quasi azzeramento di tamponi positivi, svuotamento delle terapie intensive. Fatti che non risultano graditi quando rivelano un andamento positivo, perché in questa pandemia ti salvi solo se sei catastrofista. Come farsi ragione? Inutile inseguire, rispondere. I soloni hanno blog, appoggi politici, appaiono facilmente in televisione con la complicità dei giornalisti (alcuni) che aprono gli studi più volentieri alle Cassandre, anche se non hanno mai analizzato un tampone o visitato un paziente, che ad esperti che sono veramente in prima linea. La tecnica vincente è il tempo. Ed ecco un’altra risposta scientifica, perché c’è sempre una spiegazione dietro a ogni fenomeno. Spesso ci vuole tempo per scoprirla, ma c’è.

È di qualche giorno il “Pre print” (pubblicazione in corso di essere accettata) su Nature di un gruppo di ricercatori della Florida, dal titolo The D614G mutation in the SARS-CoV-2 spike protein reduces S1 shedding and increases infectivity (“La mutazione D614G nella proteina spike SARS-CoV-2 riduce la diffusione di S1 e aumenta l’infettività”) che dimostra come SarsCoV2 presenti, rispetto al ceppo proveniente da Wuhan e circolato in tutto il mondo, una mutazione denominata D614G, che lo rende più contagioso ma poco aggressivo clinicamente. Questo nuovo virus sta sostituendo il precedente e questa è davvero una bella notizia, perché evidentemente ci spieghiamo il profilo clinico attenuato dei casi attuali e l’incremento dei positivi (non malati!) degli ultimi giorni. L’effetto (è solo un’ipotesi da provare) potrebbe essere una strada per arrivare all’effetto gregge senza pagare un prezzo alto.

La maggiore circolazione del virus potrebbe accelerare l’immunizzazione della popolazione (anche se ad oggi non si può avanzare alcuna ipotesi di tempo) e, perché no, farci guadagnare un minuto di silenzio dei soliti catastrofisti.

 

Viva l’eredità dei talk-show senz’applausi

Non ci si potrà mai abituare all’assenza di pubblico negli stadi, e in tutti gli impianti sportivi: il silenzio delle immense tribune deserte e le urla delle panchine amplificate dai microfoni direzionali sono stati la raggelante colonna sonora della pandemia e, temiamo, lo saranno ancora a lungo stante la ripresa dei contagi. Senza le folle del tifo passionale anche un match di assoluto prestigio come la finale di Champions, Bayern-Psg, è come un capolavoro in un museo dalle porte sbarrate. C’è il video ma dov’è l’emozione? Il problema della non presenza umana (alleviata nel migliore dei casi dal distanziamento sociale) ha riguardato in questi mesi ogni forma di spettacolo: dai teatri ai concerti, alla catastrofe dei cinematografi dove gli incassi sono crollati del 98% se confrontati con quelli dell’estate scorsa. È probabile che le regole imposte dal lockdown di marzo continueranno a imporre studi privi di pubblico anche nei dibattiti e talk-show televisivi. Però, a differenza di quanto fin qui detto, siamo davvero convinti che sia un guaio? Personalmente ho molto apprezzato la mancanza (per causa di forza maggiore) delle platee plaudenti, sia trovandomi al di qua che al di là del teleschermo. Come spettatore riesco a comprendere meglio le ragioni dei contendenti in studio senza essere continuamente disturbato dagli scroscianti battimani. Spesso scollegati dalla discussione in corso, quando non addirittura in palese contraddizione (si applaude tutto e il contrario di tutto). È un fastidioso rumore di fondo che finisce anche per condizionare gli ospiti, spesso più attenti ad assecondare gli umori della sala con qualche battuta a effetto che a spiegare e ad argomentare per meglio informare chi assiste da casa (parlo per esperienza personale). Sono, mi rendo conto, osservazioni che non saranno gradite al pubblico reclutato per l’evento, studenti, pensionati, casalinghe. Tutte simpatiche persone che tuttavia non sono sicurissimo condividano sempre l’ovazione quando è sollecitata dalla regia. E se il maledetto Covid suscitasse il ripensamento di questi format? Sempre talk ma più inchieste e meno show? Cosa ne pensano in proposito Corrado Formigli, Giovanni Floris, Myrta Merlino, Bianca Berlinguer e tutti gli altri conduttori che si apprestano a ricominciare la stagione televisiva? Che sarà accompagnata da una domanda d’informazione mutata dal virus: più desiderosa di competenze e giudizi equilibrati, meno di schiamazzi da cortile.

Il liberista all’amatriciana e la statalista Mazzucato

Uno spettro si aggira per l’Italia. È lo spettro dello statalismo. Blocco dei licenziamenti, nazionalizzazioni, sussidi: tutti segni della deriva venezuelana del Paese. O almeno è così per i liberisti all’amatriciana, impegnati in un’eroica crociata contro chiunque sostenga l’intervento statale. Sono, però, giorni duri: l’economista Mariana Mazzucato, il Saladino degli statalisti, ha appena ricevuto il prestigioso John von Neumann Award, un premio per le scienze sociali assegnato ogni anno dagli studenti del Rajk College di Budapest. Nell’albo d’oro ci sono studiosi del calibro di Blanchard, Duflo (premio Nobel) e anche Rodrik, che su Twitter si è complimentato personalmente con la Mazzucato.

Alcuni colleghi italiani non sono stati così eleganti. Il professor Riccardo Puglisi, assiduo frequentatore di Twitter, ha attaccato la giuria e cinguettato un eloquente “sta per esplodermi lo smartphone”. Per lui la Mazzucato non fa vera ricerca, ma narrazione di aneddoti. Il professor Fausto Panunzi è più delicato: a parer suo la Mazzucato è accademicamente di un altro livello (cioè inferiore) rispetto ai precedenti vincitori del premio, perché non pubblica sui top journal

. Il vero eroe della disputa è però il professor Michele Boldrin, pure lui grande twittatore nonché youtuber. Di fronte a una foto della Mazzucato e del ministro Provenzano a Stromboli, commenta: “Vite da proletari in lotta per il socialismo”. I veri statalisti, si sa, vanno solo in brutti posti.

Ma questo dileggio è giustificato? Guardando l’h-index

(che misura l’impatto scientifico), sembra di no: Panunzi ha un 16 e Puglisi un 14, Mazzucato 41. Solo un punto sotto Boldrin (42), che però ha 12 anni in più. Resta il fatto che “l’economista più sopravvalutata degli ultimi 190 anni” (Puglisi) si conferma una figura di primo piano nel dibattito economico. Quello internazionale e accademico, su Youtube o Twitter va meno…

“Mio padre uscirà, bella giustizia. Solo lui può aver ucciso Sarah”

Il 26 agosto 2010, nel profondo Sud Italia, veniva uccisa una ragazza di soli 15 anni. Il suo corpo verrà fatto ritrovare dopo 42 giorni dallo zio, Michele Misseri. Per il delitto di Avetrana (Taranto) finiranno in carcere, oltre allo “zio Michele”, condannato a otto anni per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove, anche sua moglie Cosima e sua figlia Sabrina, condannate all’ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. E anche Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato per concorso in occultamento di cadavere.

Il caso Scazzi, con rivelazioni e documenti inediti, è adesso al centro del libro Sarah (Fandango Libri) scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, i cui diritti sono stati acquisiti da Groenlandia di Matteo Rovere, che è già al lavoro per una serie televisiva e un doc. Oggi l’intera famiglia è dietro le sbarre, a eccezione di Valentina, sorella di Sabrina, che quel giorno era a Roma, dove vive da tempo, e che oggi rievoca quel giorno.

Sono passati 10 anni da quell’estate infernale, cosa ricorda di quel 26 agosto?

Se quel giorno in casa ci fossi stata anche io, sarei finita sicuramente in carcere. Anche se non avessi fatto nulla. Quel giorno lo ricordo bene, stavo aspettando la solita chiamata di mia madre, che però non arrivò. Così le mandai un messaggio e poco dopo mi telefonò dicendomi che era successa una cosa brutta. Non si trovava più Sarah. Ebbi subito la sensazione che fosse successo qualcosa di grave, un rapimento.

Come sta oggi?

Tutto sommato bene, ma è dura. Ogni giorno penso a mia madre e mia sorella in carcere e alle loro giornate infinite. Con questa storia, oltre a essere stata spezzata una vita, sono state distrutte tante famiglie. Fu indagata mezza Avetrana, ma il solo colpevole è mio padre.

È convinta dell’innocenza di Cosima e Sabrina?

Assolutamente sì. Anche rileggendo le carte processuali davvero non si riesce a capire come mia madre e mia sorella possano essere coinvolte nell’omicidio di Sarah. La verità è che stavano antipatiche a tutti.

A tutti chi?

A tutta Italia. L’opinione pubblica ha pesato sulla sentenza. Hanno detto che Sabrina era brutta, cattiva e invidiosa. Ma non è così. Mia sorella è una bella ragazza, era anche molto corteggiata e mia madre era una grande lavoratrice.

Oggi come stanno sua madre e sua sorella?

I primi anni nel carcere di Taranto sono stati i più duri. Oggi lavorano, cuciono mascherine e stanno meglio.

Le sente?

Sì, quattro volte a settimana tra chiamate e video chiamate.

E suo padre?

Sento anche lui. Non l’ho perdonato, ma non l’ho neppure abbandonato. Una famiglia è una famiglia nella buona e nella cattiva sorte.

Suo padre presto potrebbe uscire dal carcere, perché a settembre saranno maturi i tempi per fare richiesta di pene alternative. Cosa ne pensa?

Eh… bella giustizia! Non solo per mia madre e Sabrina che sono innocenti, ma soprattutto per Sarah. Solo la gente è stata soddisfatta, ha avuto i suoi colpevoli.

Nel libro Sarah – La ragazza di Avetrana racconta di un particolare episodio inedito legato a suo padre…

Ero una ragazzina e dovevo fare la doccia. Mi spogliai davanti a lui, ma non avevo nemmeno dieci anni. Una cosa normalissima. Ricordo come mi guardò e mi disse: ‘Non ti devi far più vedere così da me’. A ripensarci, mi ha fatto riflettere.

È successo altre volte?

Mai. È stato un padre perfetto con noi, certo con i suoi difetti, ma non ci ha mai maltrattate. Mia madre, invece, ha sofferto molto per lui.

Perché?

Per le sue bugie e i suoi comportamenti violenti. Una volta le diede uno scappellotto, lei cadde e svenne. Lui non le ha mai chiesto scusa e quella non è stata l’unica volta.

E con Sarah, quel pomeriggio, cosa è accaduto secondo lei?

Dai verbali ho letto una dichiarazione di mio padre che dice: ‘Non l’avevo mai vista con i pantaloncini così corti e il seno le stava sbocciando’. Una cosa che uno zio non dovrebbe neanche pensare di sua nipote. Credo che quel pomeriggio Sarah fosse scesa in garage per non suonare, perché sapeva che mamma a quell’ora dormiva, e che lui ci abbia provato. Lei lo ha respinto con un calcio e papà non ci ha visto più e l’ha uccisa.

Sempre nel libro di Piccinni e Gazzanni viene riportata una sua lettera a zia Concetta…

Spero che la legga. Purtroppo con zia non ci siamo più viste né sentite, ma vorrei tanto che andasse a trovare mia madre e mia zia in carcere e che ascoltasse la loro versione. Capirebbe che non c’entrano nulla e che noi abbiamo sempre voluto bene a Sarah.

Ad Avetrana ci torna mai?

Sì, per qualche settimana ogni anno, ma non esco mai. Se lo faccio è solo per fare delle commissioni e comunque non vado mai in giro da sola perché una volta sono stata anche minacciata.

E al cimitero ci è mai andata?

No, mai. Non ci riesco.

Dopo 10 anni cosa le resta?

Rabbia e delusione, ma anche speranza. Spero che vengano fuori nuovi elementi, che qualcuno che non ha parlato, parli. Per il resto ho rinunciato ad avere figli e vado avanti, sorrido ma non sono più quella di prima.

Perché questa scelta così forte?

Perché se dovessi avere un figlio avrei paura, una volta grande, di quello che la gente potrebbe raccontargli. O che qualche esaltato possa fargli del male per vendicarsi.

E a Sarah ci pensa?

Ogni giorno della mia vita. Guardo la sua foto e le do il buongiorno. Prima dicevo Dio aiutami, ora dico Sarah aiutami. Perché lei l’ho vista davvero e perduta davvero, Dio non l’ho mai visto.

Centro Italia, il ricordo a 4 anni dal sisma: ricostruzione ferma e in 40mila senza casa

“La ricostruzione è incompiuta e procede con fatica, tra molte difficoltà di natura burocratica”. Nel quarto anniversario del terremoto in Centro Italia – 299 le vittime, oltre 40 mila sfollati – Sergio Mattarella batte sul tasto più dolente. “Desidero ancora una volta esprimere ai cittadini di Amatrice, Accumoli, Arquata, Pescara del Tronto e delle altre zone colpite, vicinanza e solidarietà”, scrive in un messaggio il capo dello Stato. “Il pensiero va, anzitutto, alle vittime e ai loro familiari. E ai tanti che hanno perduto casa o lavoro – e spesso entrambi – in quella notte drammatica. La Repubblica – prosegue – deve considerare prioritaria la sorte dei concittadini colpiti da calamità naturali, recuperando, a tutti i livelli, determinazione ed efficienza”.

Dal 24 agosto 2016, il panorama al confine tra Marche, Lazio, Abruzzo e Umbria è immutato. Nonostante i quattro successivi commissari straordinari alla ricostruzione (l’attuale è l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini) poco più del 3% delle abitazioni dichiarate inagibili è oggi di nuovo utilizzabile. Le famiglie sfollate non hanno ancora avuto indietro una vera casa: alcune abitano in affitto grazie ai contributi statali, altre sono ancora stipate in soluzioni abitative d’ emergenza, alberghi e container. Dei 1405 interventi di edilizia pubblica finanziati, solo 86 sono giunti a termine. Non va meglio la ricostruzione del patrimonio culturale: 740 cantieri su 942 devono ancora iniziare. Senza contare che, causa emergenza sanitaria, tutti i lavori sono in stallo da più di sei mesi.

Ad Amatrice, il borgo dell’alto Lazio simbolo del disastro, ieri c’erano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il governatore Nicola Zingaretti, il capo della Protezione civile Angelo Borrelli e il commissario Legnini. Molti abitanti hanno fermato il premier per la strada lamentando i ritardi. “Le leggi per accelerare le abbiamo fatte, ma tra sei mesi o un anno non cambierà nulla. Il processo di ricostruzione è lungo e complesso”, ha risposto Conte, aggiungendo però che “il Recovery Fund potrà dare un contributo per integrare le risorse già stanziate”. Anche il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili – durante la messa in ricordo delle vittime celebrata nel campo sportivo del Paese – ha sottolineato “la lentezza non più sostenibile della ricostruzione”. Dopo la cerimonia, Conte ha incontrato nella palestra di Amatrice una rappresentanza dei familiari delle vittime del terremoto. Un’ora abbondante di confronto servita soprattutto per ascoltare le richieste degli abitanti, assicurando al tempo stesso che grazie ai decreti Semplificazioni e Agosto una svolta sui tempi di ricostruzione sarà possibile.