Muore Arrigo Levi: diresse. La Stampa e consigliò il Colle

Direttore de La Stampa, conduttore del telegiornale della prima rete, consigliere di ben due presidenti della Repubblica. Arrigo Levi, figura centrale del giornalismo italiano del ‘900, è morto a 94 anni nella sua abitazione romana. Nato il 17 luglio 1926 a Modena da famiglia ebraica, a 16 anni sbarcò con i genitori in Argentina per sfuggire alle leggi razziali. Si affacciò al mestiere proprio a Buenos Aires, collaborando con L’Italia libera, il giornale del Partito d’Azione.

Nel 1946 tornò in Italia e completò gli studi universitari laureandosi in Filosofia a Modena. Celebri i suoi resoconti da Mosca, nei primi anni’60, per il Corriere della Sera e il Giorno. Fu anche volto televisivo: nel 1966 passò alla Rai, dove condusse per due anni il notiziario del primo canale segnando una svolta: fino a quel momento, infatti, i telegiornali erano presentati da speaker professionisti e non da giornalisti. Poi il trasferimento alla Stampa, prima come inviato e poi (dal 1973 al 1978) come direttore. “Sarà mio impegno mantenere a La Stampa la sua chiara e forte fisionomia di organo indipendente, che con l’ampiezza dell’informazione vuole favorire la crescita di una società italiana illuminata e matura”, disse assumendo l’incarico.

Conclusa la carriera giornalistica, dal 1998 al 2013 è stato consigliere per le relazioni esterne del Quirinale, sotto le presidenze Ciampi e Napolitano. In un messaggio inviato alla figlia Donatella, il capo dello Stato Mattarella lo descrive come un uomo “colto e raffinato, direttore autorevole. Con i suoi libri, le sue corrispondenze dall’estero e le sue trasmissioni televisive, ha raccontato e acutamente interpretato i grandi sommovimenti dell’età contemporanea”. “Mise al servizio delle istituzioni repubblicane la sua vasta cultura e fervida attività, in un crescente rapporto di stima, fiducia e amicizia personale”, è invece il ricordo del presidente emerito Giorgio Napolitano.

Puglia ‘Muslim Friendly’, ma solo per poche ore

La Regione Puglia investe sul turismo Muslim Friendly. Anzi no. Dopo poche ore (complici le polemiche politiche a destra) ritira il bando ideato per sviluppare un’offerta turistica adatta ai viaggiatori che conducono uno stile di vita halal. Il Teatro Pubblico pugliese, promotore, ha spiegato che la cancellazione è dovuta solo al fatto che “è necessario sottoporlo a valutazione della Giunta regionale”.

Un dettaglio che nella conferenza mattutina di presentazione però non era stato detto. L’avviso pubblico prevedeva un budget complessivo di 90mila euro (risorse europee) per progetti di promozione da realizzarsi tra il primo ottobre e il 18 novembre 2020. Nel bando si invitavano gli albergatori e gli operatori del settore del turismo a porre attenzione poiché “la clientela musulmana è diffusa e facoltosa, provenendo da oltre 60 Stati, alcuni dei quali tra i più ricchi al mondo”. Un punto di forza secondo il Teatro Pubblico Pugliese è il cibo, “non tutti sanno che molti prodotti del made in Italy risultano prodotti secondo gli standard halal”, meno l’alcool: “Molti produttori hanno sviluppato delle linee di prodotti analcolici e si raccomanda di puntare solo su questo tipo di articoli per intercettare l’utenza musulmana, pubblicizzando l’assenza di sostanze proibite sempre attraverso una certificazione o altro sistema di tracciamento”.

Contro il bando sono arrivate le reazioni di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia: “Tra le prescrizioni ci sono piscine separate tra uomini e donne, babysitter e personale vestito in modo consono. Niente minigonna, meglio il burqa e una serie di altre regole imbarazzanti. Insomma, ora paghiamo pure con risorse pubbliche per farci islamizzare”. Anche Matteo Salvini della Lega è intervenuto sul tema sottolineando altre priorità a cui dare spazio come gli ospedali, l’agricoltura e i lavoratori in Cig.

L’incertezza, il mutuo e l’incubo lockdown: ristoratore si uccide nel suo locale a Firenze

Sabato pomeriggio, Luca Vanni, 44 anni, ha aspettato che i dipendenti del suo ristorante a pochi passi da piazza Santa Croce se ne andassero dopo il turno del pranzo e poi ha deciso di togliersi la vita. Un gesto disperato motivato dall’incertezza e dalla paura di non poter riuscire più a sostenere i costi del ristorante appena aperto. Vanni aveva comprato il nuovo fondo del ristorante, che ha aperto nel 1987, poco prima del lockdown con un mutuo consistente da pagare: nonostante la sospensione durante il periodo di chiusura “aveva lavorato poco come tutti noi” dicono i colleghi ristoratori di piazza Santa Croce. Così Vanni ha deciso di togliersi la vita. Il corpo è stato ritrovato dagli stessi dipendenti del ristorante nel turno serale: non ha lasciato biglietti e ora il pm Ornella Galeotti disporrà l’autopsia. “Il problema era l’incertezza del futuro – ha detto ieri a Italia7 Marco Vanni, fratello della vittima – non davano la certezza, si parlava di un nuovo lockdown, è questo che ha reso mio fratello fragile”.

Romana, 50 anni, testerà il vaccino: “Sono orgogliosa, spero anche utile”

La soddisfazione era palpabile ieri mattina, nel padiglione Alto isolamento dello Spallanzani. Alle 8,32 gli specialisti dell’Istituto nazionale delle malattie infettive hanno inoculato una dose del GradCov2 nel braccio della prima volontaria selezionata, una 50enne di Roma, dando il via alla sperimentazione sull’uomo del candidato vaccino prodotto dalla italiana Reithera. “Sono emozionata e orgogliosa, spero di poter essere utile”, le parole della signora riportate all’esterno della struttura dal direttore sanitario, Francesco Vaia. Che al termine delle quattro ore di osservazione a cui la donna è stata sottoposta ha spiegato: la signora “sta molto bene” e ora “verrà richiamata per essere poi osservata nel corso di 12 settimane. Mercoledì sarà la volta dei prossimi due volontari e a seguire gli altri nelle successive 24 settimane. Dopodiché, inizierà la seconda fase che non si terrà in Italia ma probabilmente in America Latina perché in Italia non c’è il numero di malati necessario per condurre la sperimentazione, mentre lì il virus è in crescita”. Una seconda fase “per la quale ci stiamo già preparando”, ha proseguito Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Inmi. Ma “giocare sui tempi non è utile – è l’avvertimento, e il pensiero corre all’annuncio del 12 agosto diffuso urbi et orbi dalla Russia –. L’Italia entra da protagonista nella guerra dei vaccini. È una guerra non per arrivare prima ma per arrivare meglio e mettere i Paesi in un sistema di parità, senza essere schiavi di altri Stati”.

Ma la corsa è iniziata da settimane. Il candidato di ReiThera è fra i 30 che nel mondo hanno raggiunto la fase della sperimentazione clinica secondo la lista aggiornata dall’Oms, e altri 140 circa sono in fase di test sugli animali. Tra questi ultimi c’è anche un altro progetto italiano, condotto dall’azienda biotech Takis. In competizione c’è anche un’altra azienda italiana, la Irbm di Pomezia, che partecipa con l’Università di Oxford alla messa a punto del vaccino di Astrazeneca, in sperimentazione da fine aprile in cinque centri di ricerca britannici.

“Le intelligenze e la ricerca del nostro Paese sono al servizio della sfida mondiale per sconfiggere il Covid”, ha commentato il ministro della Salute Roberto Speranza. Che è tra i firmatari – con il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, il Consiglio Nazionale delle Ricerche e lo Spallanzani – del protocolo alla base del vaccino, per la cui realizzazione sono stati stanziati 8 milioni di euro, 5 a carico della Regione e 3 del Miur.

A produrlo e brevettarlo è la società biotecnologica italiana ReiThera di Castel Romano, a pochi km dalla Capitale. Il suo utilizzo pratico prevede un’unica somministrazione e si basa su un virus che fa parte della famiglia degli adenovirus, la stessa del raffreddore, reso inoffensivo e incapace di moltiplicarsi, utilizzato come una navetta per trasportare nelle cellule l’informazione genetica che corrisponde alla proteina Spike. “Sarà pubblico – ha specificato il governatoreZingaretti – e a disposizione di tutti coloro che ne avranno necessità”.

Musumeci cerca lo scontro. Negativi i migranti sulla nave

Per il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, i numeri sono “impressionanti”. “Solo a luglio – ha detto ieri – sono arrivati 7.067 migranti; a metà agosto, oltre 3 mila. Lo scorso anno ad agosto i migranti sono stati in totale 1.268; a luglio, 1.088”. E tanto basta per avviare un braccio di ferro con il ministero dell’Interno sulla sua decisione di sgomberare gli hotspot presenti sull’isola. Uno scontro che al di là delle parole della politica (“Non c’è alcuno scontro politico tra Stato e Regione, perché lo Stato siamo noi”, ha detto il governatore), resta nei fatti con il Viminale pronto a impugnare l’ordinanza davanti al Tar. Di impressionante però sembra esserci ben poco, sia per quanto riguarda gli sbarchi che i contagi nei centri di accoglienza. “Da inizio pandemia sono complessivamente 603 i migranti positivi”, ha detto qualche settimana fa il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa, mentre il presidente del Consiglio superiore di sanità e membro del Comitato tecnico scientifico, Franco Locatelli, ha sottolineato che “il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% è positivo e una parte si infetta nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate”.

Poi ci sono i numeri sugli sbarchi, di molto inferiori rispetto a quelli di periodi di vera emergenza come il 2016-2017. Quest’anno ci sono stati 17.264 ingressi, in tutto il 2019 4.664 e nel 2018 19.445. Poca roba se si pensa agli oltre 119mila del 2017 e ai più di 181mila dell’anno precedente. Ma una parte della politica parla comunque di emergenza, con Salvini a fare da capofila. “Il governo è complice con un comportamento criminale e criminogeno, perché 11mila sbarchi in pochi mesi, nonostante il virus e la chiusura, significa essere complici dei trafficanti di essere umani e degli scafisti”, ha detto il 22 agosto. Ieri il leader della Lega ha espresso il proprio appoggio a Musumeci, il quale ha accusato il governo centrale di creare “campi di concentramento che chiamano tendopoli in un deposito militare a Vizzini, abbandonato da anni”. Se la materia dell’immigrazione appartiene allo Stato, ha ammesso il governatore, quella sanitaria “è in carico alla Regione. Non si può dire con un comunicato stampa – è il messaggio che manda al Viminale – che non abbiamo competenza sui migranti, questo lo sapevamo già. Io agisco come soggetto attuatore per l’emergenza Covid, quindi da un punto di vista sanitario e di salute pubblica”.

Ma quindi adesso cosa succederà? L’ordinanza verrà applicata? “Aspettiamo la mezzanotte – ha aggiunto Musumeci –. Se i soggetti che sono chiamati a dare attuazione alla mia ordinanza non dovessero farlo, a noi rimane solo una strada: rivolgerci alla magistratura. Se la competenza sanitaria è dello Stato, allora lo Stato è fuorilegge”. E mentre il governatore parlava, a Trapani faceva scalo la nave quarantena “Azzurra” con 602 a bordo, tutti negativi al tampone.

Infine, il governatore lascia uno spiraglio aperto: “Una task force della Regione sta verificando le condizioni igienico-sanitarie negli hotspot e nei centri di accoglienza: se dovessero risultare idonei, verrebbe meno la nostra ordinanza, se invece sarà confermato quello che abbiamo visto più volte con i nostri occhi, non si potrà consentire che in quelle strutture vengano ospitati esseri umani”.

Dal governo arriva la voce del ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che invita Musumeci al “decoro istituzionale: Musumeci ha il dovere di governare la Regione, non di aprire scontri istituzionali”. Deve “assicurare un numero di tamponi adeguato e far rispettare i protocolli di sicurezza”, e non “servirsene per fornire argomenti alla bieca campagna elettorale di Salvini”.

“Settimana cruciale: da mille a 4mila casi basta poco”

Ieri sono stati 953. Domenica 1.210. Sabato 1.071, venerdì 947. I nuovi casi di Covid-19 viaggiano da giorni attorno a quota mille.

Claudio Mastroianni, direttore delle Malattie Infettive del Policlinico Umberto I e ordinario alla Sapienza, è preoccupato?

Dobbiamo stare in allerta. Questa settimana sarà cruciale. Quello che ci ha riportato a quota mille casi è stato un aumento progressivo ma lento. Se la crescita continua non ci vuole nulla ad arrivare a quota due, tremila o quattromila, poiché come ci ha insegnato la Fase 1 i contagi sono soggetti a un forte effetto moltiplicatore. Ora gli italiani stanno rientrando dalle ferie e i prossimi giorni saranno fondamentali.

Il Lazio è una delle Regioni in cui i contagi sono in maggiore aumento.

La maggior parte delle nuove infezioni sono d’importazione, metà di queste arrivano dalla Sardegna. Aver intercettato tutti questi casi è stato fondamentale ed è ciò che bisogna continuare a fare: individuare tempestivamente i focolai, limitando il più possibile i casi di legati al rientro dei turisti.

Che spesso sono i più giovani, come accaduto proprio con la Sardegna.

Gli adulti e gli anziani sono attenti, essendo stati le fasce più colpite nella Fase 1. Ora l’obiettivo è evitare che i ragazzi portino l’infezione nelle loro famiglie. È fondamentale che chi rientra dalle ferie, se è stato in aree in cui si sono verificati molti casi e ha il sospetto di essere entrato in contatto con il virus, faccia il tampone. Al Policlinico abbiamo deciso che tutti gli operatori sanitari che rientrano dalle ferie devono farlo, per evitare criticità all’interno dell’ospedale.

L’impressione è che dopo il lockdown gli italiani si siano rilassati.

C’era giustamente voglia di estate. Probabilmente durante queste vacanze in alcuni casi le regole, in primis quella di evitare gli assembramenti, non sono state rispettate. Un aumento dei casi era previsto, ma non ci si attendeva quello che è accaduto in Sardegna.

Alcuni suoi colleghi ritengono che per far rispettare le regole servano sanzioni severe.

Sono decisioni che spettano alla politica, ma se ci sono ordinanze come quelle che prevedono la mascherina nelle aree più affollate bisogna farle rispettare come avveniva durante il lockdown. Ripeto, vediamo cosa accadrà a fine agosto, quando la maggior parte degli italiani saranno tornati dalle vacanze. L’appello è quello di applicare le regole di cui parliamo da mesi – distanziamento, mascherine e lavaggio delle mani – per evitare quell’effetto moltiplicatore che stiamo osservando in altri Stati come Francia e Spagna. E poi bisogna fare più test possibile.

Ieri sono stati effettuati 21mila tamponi in meno: 45mila contro i 67mila di domenica, già in ribasso rispetto ai 77mila di sabato.

Vero, ma ci sono Regioni che stanno facendo molto. L’attivazione dei check point negli aeroporti e l’utilizzo di test antigenici rapidi che permettono di avere i risultati in un paio d’ore come quelli usati nel Lazio sono un’opera notevole. Anche perché le persone che si sono infettate di recente hanno tutte una carica virale altissima e vanno intercettate e isolate il prima possibile.

Ci stiamo riuscendo?

Direi di sì. In questo momento poi la maggior parte dei positivi sono asintomatici. Significa che stiamo conducendo la battaglia prevalentemente sul territorio. È lì che dobbiamo tenerla per evitare che aumenti la pressione negli ospedali. Per ora lo stiamo facendo.

Nel frattempo si aspetta il vaccino. La sperimentazione di quello italiano è iniziata ieri. Dovrà essere obbligatorio?

Sicuramente alcune categorie come gli operatori sanitari, le forze dell’ordine e gli anziani con comorbidità dovranno farlo. Per tutti gli altri bisognerà valutare. Ma se vivessimo in un Paese con una cultura della vaccinazione basterebbe che fosse raccomandato. Il vaccino dovrebbero farlo tutti.

Il potere di periferia che ancora riesce a condizionare il Pd

Immaginiamo cosa sarebbe oggi il dibattito politico e mediatico in Italia se per le elezioni regionali in Campania ci fosse stato l’accordo Pd-5stelle, con la sostituzione di De Luca e il ridimensionamento della sua famiglia!

Lo si poteva fare? Certo, l’accordo era stato già concluso a gennaio e avrebbe rappresentato il più serio tentativo di dare forza strategica alla coalizione che regge il governo nazionale nella regione da cui provengono i due leader dei 5stelle, Di Maio e Fico, trasformando un’alleanza di necessità in una strategia delle alleanze. E allora perché non lo si è fatto? Secondo una certa vulgata, De Luca si sarebbe comunque presentato e avrebbe fatto perdere la coalizione Pd-5stelle. Una valutazione del tutto sbagliata: De Luca, abbandonato dal Pd, non sarebbe stato attrattivo per nessuno di quelli che oggi sono suoi alleati. Sarebbe avvenuto ciò che è successo con Renzi. E, poi, il ricatto è merce pagante nel partito di Zingaretti? La paura di perdere è più forte della necessità di cambiare?

Per come si sono messe ora le cose, alla guida della regione più grande del Sud ci sarà una vera e propria “gerontocrazia”. De Luca e i suoi alleati De Mita, Mastella e Pomicino fanno insieme 317 anni. Questi uomini condizioneranno la Campania nell’immediato futuro, avendola già condizionata nei decenni passati. L’esempio più clamoroso è rappresentato dal fatto che mentre il centrodestra non ripresenta il figlio di Luigi Cesaro (l’uomo politico che insieme a Cosentino ha rappresentato la compromissione della politica con i vertici della camorra) il centrosinistra candida alcuni uomini e donne a lui legati.

La principale questione, dunque, delle prossime elezioni regionali in Campania sta tutta qui: come un sistema di potere di periferia riesca a condizionare il gruppo dirigente nazionale del Pd.Zingaretti e la sua squadra non hanno avuto il coraggio di aprire una pagina nuova nel Sud. Si ripropone nelle prossime elezioni in Campania il rapporto tra consenso locale e strategie nazionali, affinché le modalità di procurarsi i voti non travolgano qualsiasi possibilità di mantenere un profilo progressista alla forza politica che si rappresenta.

È evidente, dunque, che la Campania è diventata il luogo dell’assoluta continuità con i sistemi di potere precedenti e della massima implosione del sistema dei partiti così come li abbiamo conosciuti nel Novecento. Niente ci è stato risparmiato. Come se qualcuno scientemente avesse deciso di dare vita alla distruzione sistematica di quel che resta del Pd come valori e passione. In questo senso De Luca è stato, ed è, più che un rottamatore, un vero demolitore nello stritolare, frantumare, lacerare, azzerare tutto ciò che ha rappresentato per un lungo tratto storico l’identità della sinistra italiana. È lui ad avere inventato la coalizione-bazar, un luogo dove trovi di tutto, dove la contrattazione al più basso prezzo è la regola, e dove puoi vendere e comprare quello che vuoi. E sullo stesso palco potresti incrociare un magistrato assieme a coloro che aveva fatto arrestare. Insomma, si ripropone una rifeudalizzazione della politica meridionale come unico metodo per contare a livello nazionale. Un feudatario politico sta condizionando il principale partito progressista della nazione.

Ma De Luca rappresenta anche uno spot permanente contro i meridionali, perché ne plastifica tutti i difetti e alimenta tutti i pregiudizi con ogni sua frase, ogni sua dichiarazione, ogni suo gesto, ogni sua decisione. Anche gli slogan più riusciti della Lega contro il Sud impallidiscono di fronte al beato e buffonesco elogio del clientelismo, del familismo, del trasformismo. Il passaggio da uno schieramento all’altro (in proporzioni che mai si erano viste) rappresenta il più grande spot contro il Sud che cambia. Se per Andreotti il potere logora chi non ce l’ha, per De Luca il potere logora chi non cambia schieramento.

L’altra faccia di Pomigliano: i renziani con Forza Italia

“Noi naturalmente non possiamo che essere alternativi a questo scenario” afferma il presidente di Italia Viva Ettore Rosato, motivando così il sostegno renziano alla candidata sindaco di Forza Italia a Pomigliano d’Arco, Elvira Romano. E qual è lo scenario al quale “essere alternativi”? Quello dell’alleanza Pd-M5S, benedetta da Rousseau e raggiunta dopo lunghi sforzi sul nome del papirologo Gianluca Del Mastro, in un comune sul quale si erano accessi riflettori da milioni di watt, perché Pomigliano è la città di Luigi Di Maio. Una Rignano dei 5 Stelle.

Rosato parla di “sfida politica” per giustificare un accordo tra renziani e berlusconiani che a sua volta evoca il patto del Nazareno. “A Pomigliano Italia Viva – scrive – sosterrà Elvira Romano con altre liste civiche, sfidando il candidato Pd-M5S Del Mastro. Da parte nostra è una sfida prima di tutto amministrativa, visto che Elvira Romano rappresenta un’amministrazione che ha lavorato bene, ma è diventata anche una sfida politica considerato che Pd e M5S hanno scelto questo comune, come laboratorio per i loro esperimenti di convivenza stabile. Noi naturalmente non possiamo che essere alternativi a questo scenario”.

Sarà per lo sforzo di sintesi suggerito dalla modalità social del messaggio, ma non è chiaro perché Rosato, ovvero Renzi, sia contrario sui territori allo stesso tipo di intesa che regge il governo Conte di cui Iv fa parte. E neanche perché a Pomigliano no e nella vicina Caivano, invece, sì: lì la coalizione guidata dall’ambientalista Enzo Falco va dalla sinistra al Pd ai Cinque Stelle. E Italia Viva partecipa persino col simbolo.

De Luca-Tribù: quindici liste per punire Zingaretti

La Sanità. La partita si torna a giocare lì: intorno al moloch che si mangia oltre il 60% delle risorse della Regione Campania. La Sanità che muove voti, clientele, prebende. La sanità uscita a dicembre dal commissariamento governativo grazie al pareggio per sei anni consecutivi dei conti di Asl e ospedali (tranne il deficit di 78 milioni di euro della Asl Napoli 1, sulla quale pende una richiesta di scioglimento per camorra misteriosamente ferma al Viminale), un risultato ottenuto però sacrificando 45mila posti di lavoro. La Sanità salita nei livelli di assistenza essenziale (i Lea) dagli scarsi 106 punti del 2015 ai 170 punti del 2019, ma siamo sempre penultimi, solo la Calabria è messa peggio. La Sanità che dovrà gestire il pozzo senza fondo dei finanziamenti per la gestione dell’emergenza Covid-19, alcuni già sotto inchiesta, come i 18 milioni di euro spesi per gli ospedali modulari tra Napoli, Salerno e Caserta. “Sarebbe interessante fare uno screening delle candidature al consiglio regionale collegate a interessi nella sanità, sembrano tantissime” commenta il sociologo esperto di camorra Marcello Ravveduto, secondo il quale “sui soldi dell’emergenza Covid sta avvenendo la ristrutturazione delle organizzazioni criminali più attente al mercato”.

I candidati sono gli stessi del 2015: il governatore uscente Vincenzo De Luca per il Pd e il centrosinistra, Stefano Caldoro per Forza Italia e il centrodestra, Valeria Ciarambino per il M5s (e De Luca e Caldoro c’erano pure nel 2010). Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, per mesi in predicato di guidare una coalizione che riunisse le anime della sinistra, si è tirato fuori dalla partita. Un paio di esponenti di DemA si candidano in ‘Terra’, movimento ambientalista guidato da Luca Saltalamacchia. In DemA uno ha fatto una scelta diversa: il presidente di municipalità Francesco Chirico è sceso in campo con De Luca, l’acerrimo avversario del primo cittadino.

A costruire in Campania l’intesa giallorosa, i dem e i pentastellati non ci hanno nemmeno provato. Sarebbe dovuta passare per la rinuncia di De Luca e la candidatura del ministro Sergio Costa. Il virus ha stravolto tutto. Il governatore l’ha cavalcato con spregiudicatezza, tra “lanciafiamme e guanto di velluto”, rimpolpando con fondi regionali le pensioni minime e distribuendo alle imprese soldi a pioggia in aggiunta ai bonus statali.

Gli indici di popolarità e consenso di De Luca sono così schizzati alle stelle. Altro che richiesta di passo indietro, che qualcuno in casa Pd, come Umberto Del Basso De Caro, aveva avanzato: è invece scattata la corsa a salire sul carro. Quindici liste partecipano alla coalizione del presidente uscente. Non si respira il sentimento della costruzione di un progetto politico. Semmai lo spirito di chi si siede a tavola per la spartizione di una torta. Tra i commensali ci sono ex democristiani che odorano di antico e che di solito sedevano dall’altra parte: Clemente Mastella, Paolo Cirino Pomicino, Ciriaco De Mita. L’ex premier irpino non aveva nomi sufficienti per fare una lista autonoma ed è ospitato in Fare Democratico, dopo aver smentito un accordo con Italia Viva di Matteo Renzi. Tra De Mita e Renzi l’antipatia reciproca è nota: sarebbe stata una notizia, era una bufala.

C’è chi offre una chiave di lettura diversa: De Luca moltiplica le liste per punire Zingaretti e il Pd che non voleva confermarlo. E infatti i suoi ‘uomini forti’ – tra cui Luca Cascone, indagato per il caso degli ospedali modulari – non si candidano nel Pd. Sono divisi tra ‘Campania Libera’ e ‘De Luca presidente’. All’abbondanza del centrosinistra fa da contraltare la penuria del centrodestra: sei liste per Caldoro, la cui civica ‘Caldoro presidente’ si è fusa con l’Udc per essere riempita. In Forza Italia si respira un’aria mesta. Non è stato digerito l’ordine della Lega di Matteo Salvini, che per accettare l’azzurro Caldoro ha chiesto la testa del campione di preferenze Armando Cesaro, il figlio del senatore plurindagato Luigi ‘a purpetta Cesaro. In uno sfogo sul Mattino Cesaro jr. ha fatto capire che non muoverà un dito in campagna elettorale. “Sono deluso da Caldoro che non mi ha difeso”. Mentre in Fratelli d’Italia ci sono indagati e condannati, senza proteste.

De Luca è dipinto come un vincitore annunciato. Condannato, però, a rimanere un capo tribù. Impossibilitato al ritorno a una dimensione ‘nazionale’ sfiorata qualche anno fa con il ruolo di viceministro delle Infrastrutture, ricoperto mentre era sindaco di Salerno. Il perché può essere ricavato dalle parole dell’economista Mariano D’Antonio: “La cifra personale e politica di De Luca è quella di un accentratore che non vuole collaboratori ma esecutori: se qualcuno tira la testa fuori dal sacco lui gli dà una botta per ricacciarlo indietro”. D’Antonio snocciola esempi di imprese e attività che De Luca avrebbe frenato per carenza di modernità: “Penso al mancato sviluppo delle Zes nei porti, al mancato sostegno delle idee innovative di Luciano Stella nel settore del cinema e dell’animazione, penso all’Apple a San Giovanni a Teduccio, una dinamica che ha visto la Regione completamente assente”.

Ed eccoci al tema del ‘Salernocentrismo’ imposto da De Luca, che ha spostato nella sua città tutti gli assi decisionali. “È forse la ragione principale della mancanza di modernità di De Luca, piccolo dittatore di provincia estraneo al flusso di idee e di esperienze della grande area napoletana. Ha preferito creare una dinastia familiare (il riferimento è ai figli, uno deputato e uno già assessore a Salerno, ndr). Le pare una mentalità del 21esimo secolo, quella di tramandare a figli e sodali il potere?”. Sulla questione ha qualcosa da dire il segretario generale Cgil Campania Nicola Ricci: “Il salerno-centrismo e la competizione miope tra De Luca e De Magistris hanno rovinato la situazione dei trasporti pubblici. Servirebbe sinergia”. Ricci però apprezza il buon lavoro di De Luca per uscire dal commissariamento della sanità “anche se ne è uscita penalizzata la medicina territoriale, lasciandoci eccellenze ospedaliere che però le periferie non riescono a utilizzare”. Secondo i calcoli del sindacato, da qui a dicembre pioveranno in Campania 4 miliardi di fondi europei in aggiunta al miliardo stanziato durante l’emergenza. Sui quali c’è il rischio che De Luca, parole di Ricci, lavori come “un uomo solo al comando. Dovrebbe avere il coraggio di dare delle deleghe, cosa che in settori come i trasporti e l’agricoltura non ha fatto”.

Il virus che non si ferma: 38 cambi pure nel 2020

L’ultima in ordine di tempo è stata Maria Teresa Baldini, deputata lucchese che a discapito dei sondaggi ha deciso di abbandonare Giorgia Meloni per andare a rimpinguare il quarto gruppo parlamentare più numeroso a Montecitorio: il Misto. Prima di lei, a inizio agosto, c’era stato Enrico Costa che da pasdaran iper-garantista berlusconiano aveva tradito il capo per salire sul carro di Carlo Calenda, la moglie di Mastella, Sandra Lonardo (anche lei da FI al Misto ma al Senato), e Paolo Lattanzio, che ha lasciato il M5S per il mancato sostegno di Michele Emiliano in Puglia. L’emergenza coronavirus non ha fermato il valzer dei cambi di casacca in Parlamento. Anzi, li ha moltiplicati.

Da inizio 2020 i trasformisti in Parlamento sono stati 38, di cui gli ultimi 12 sono tra luglio e la prima settimana di agosto. Una media di quasi 5 passaggi di gruppo al mese tra gennaio e giugno, mentre con la ripartenza del Parlamento il mercato delle vacche è aumentato ancora: in soli cinquanta giorni, i passaggi di gruppo tra Camera e Senato sono stati 12, uno ogni quattro giorni. E con ogni probabilità l’estate si concluderà con altri tre cambi, stavolta obbligati: quelli che riguardano i tre parlamentari – Andrea Dara ed Elena Murelli (Lega) e Marco Tizzone (M5S) – che hanno chiesto e ottenuto il bonus da 600 euro e per questo sono stati sospesi dai propri partiti. Il dato diventa ancora più preoccupante se allarghiamo il quadro alla legislatura in corso (la XVIII) in cui si nota la netta differenza tra le due maggioranze Lega-M5S e Pd-M5S entrambe guidate dal premier Giuseppe Conte. Secondo i dati forniti da Openpolis, nei primi mesi di legislatura i cambi di casacca erano arrivati a 29 (poco più di 2 al mese) mentre da quando si è insediata la maggioranza giallorosa, è stata tana libera tutti: ad oggi il numero dei trasformisti si è assestato a quota 100 con una media di 10 cambi al mese.

Se prendiamo in considerazione la legislatura in corso, ci sono stati circa 5 cambi di casacca al mese: più di uno a settimana. Media più alta rispetto alla XIV legislatura (2001-2006) con 1,35 cambi al mese e alla XVIII (2008- 2013) con 4 passaggi ogni 30 giorni, ma ancora lontana da quella della scorsa che ha fatto registrare il record: dal 2013 al 2018 hanno cambiato gruppo 566 eletti, uno su tre. Durante la legislatura in corso – escludendo il passaggio in massa dal Pd a IV – il gruppo che ne ha più risentito è stato il M5S che ha perso ben 34 parlamentari (21 a Montecitorio e 13 a Palazzo Madama) mentre Forza Italia è stata abbandonata da 18 eletti. Il gruppo che ha guadagnato di più invece è il Misto con +35 parlamentari. Le perdite del M5S riguardano soprattutto i dissidenti passati al Misto (28). E, dopo il voto su Rousseau sull’alleanza col Pd, una nuova emorragia interna rischia di far tremare la maggioranza.