“Va bene un patto stabile con i grillini. Ma a Raggi dico no”

Pierfrancesco Majorino, eurodeputato, volto storico del Pd milanese. I 5Stelle aprono esplicitamente a un’alleanza organica di centrosinistra. Voi che rispondete?

È utile che il Movimento abbandoni l’idea dell’isolamento anche nei territori e guardi al centrosinistra come alleanza di prospettiva. Il loro confronto interno su questo tema va rispettato.

Di Maio ha fatto una proposta chiara: un tavolo per le Comunali del 2021.

Bene, ma i candidati sindaci non si possono decidere ai tavoli romani, con logiche spartitorie. In ogni città bisogna vedere se ci sono le condizioni. Si può fare, purché non sia solo un discorso strategico.

A Roma il Pd ha già chiuso la porta alla Raggi. Non è un grande inizio, no?

Non sono romano, ma capisco molto bene gli argomenti dei dem sulla Raggi. In alcune città non si può mica azzerare tutto con una mossa di palazzo.

Lo stesso discorso vale per la Appendino?

L’unico discorso che vale è che i candidati locali non si decidono a Roma. Non per un dispetto ai 5Stelle, ma perché la cultura dell’autonomia e del governo delle comunità è quella su cui si deve fondare qualsiasi processo politico.

Patuanelli va oltre Di Maio: vuole “un’alleanza organica, un progetto di lungo periodo con dei valori comuni, magari con Conte come leader”.

È importante che il Movimento 5 Stelle scelga da che parte stare.

Anche voi però…

Se il M5S fa una scelta chiara è un fatto positivo. Ma a Patuanelli e Di Maio consiglio di non diventare come le macchiette politiche che hanno sempre detestato: non si fanno alleanze solo sulla base delle geometrie politiche. Ci vuole un confronto serio.

E su Conte leader che pensa?

Sta facendo bene il premier. Ora non mi pare il momento di tirargli la giacchetta.

Pure il Pd dovrà rinunciare a qualcosa. Per esempio, lei va a votare il referendum sul taglio dei parlamentari?

Penso che si stia trattando la questione nel modo peggiore possibile.

Mi pare di capire che voterà “no”.

Sul tema sono molto tiepido.

Insomma, questo incontro con i Cinque Stelle su che basi si può fare?

Intanto servono tre cose. Primo: via i decreti Sicurezza di Salvini, ci vuole un cambiamento radicale nell’approccio all’immigrazione. Secondo: il Reddito di cittadinanza non può essere considerato un totem intoccabile. Ero uno dei pochi nel Pd che pensava fosse una misura nella direzione giusta, però va migliorato molto. Terzo: non si può essere europeisti a giorni alterni.

Sono tutte “abiure” che chiede ai grillini. Proposte comuni?

Le politiche ambientali: credo sia naturale un incontro sulla svolta green. Poi una grande piattaforma sul lavoro e contro la povertà, a partire da un nuovo reddito di cittadinanza. Ci sono da gestire le risorse del Recovery fund. E poi il rilancio della sanità pubblica.

Nel 2021 si vota anche a Milano. Lì una mano ve la date?

Se si ricandida Sala – e sono convinto di sì – avremo un compito più semplice: è una figura molto forte. Ho stima dei consiglieri comunali dei 5S, penso ci si possa confrontare. Anche sulla Lombardia, Fontana per me non dura fino al 2023.

Ora Sala piace anche a Beppe Grillo, pare. Ma non a molti grillini milanesi. Per loro, magari, è più facile appoggiare la candidatura di Majorino.

(Ride) Il problema non si pone.

I 5Stelle si preparano all’alleanza nei Comuni, ma si turano il naso

Roma chiama e i territori rispondono. Ma non con l’entusiasmo che vorrebbero i vertici del M5S: se ci saranno accordi con il Pd nei Comuni nel 2021, vorrà dire che i consiglieri comunali li appoggeranno turandosi il naso. Nei giorni scorsi, con due interviste al Fatto, Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli hanno dato seguito al voto su Rousseau con cui gli attivisti hanno detto “sì” alle alleanze locali proponendo un “patto con il Pd nei Comuni” a Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna, ma nei 5Stelle delle città in questione c’è molto meno entusiasmo: “Fosse per me non farei l’alleanza con i dem – dice il consigliere comunale M5S a Milano Gianluca Corrado – ma non possiamo nemmeno ignorare il voto su Rousseau. Spero ci ascolteranno”. L’ipotesi di mancata ricandidatura del sindaco Giuseppe Sala aprirebbe praterie per un accordo giallorosa, almeno su un nome terzo. Ma Corrado resta freddo: “Noi dobbiamo portare la nostra idea di città, poi decide Rousseau…”. Chiude ogni porta invece la sua collega Patrizia Bedori, che risponde direttamente alla proposta di Patuanelli che chiede al Pd di sostenere la Raggi a Roma in cambio di un appoggio a Milano e Torino: “Sono basita, non so come si possa fare una campagna elettorale insieme al Pd dopo che li abbiamo combattuti per cinque anni. Forse a Roma non sanno che a Milano il Pd ha tolto 11 ettari e mezzo di verde pubblico per cementificare”.

Anche Torino, dove Chiara Appendino è scettica sul secondo mandato, la strada per un accordo sembra in salita: “Io ho votato sì su Rousseau – spiega Valentina Sganga, capogruppo M5S in Comune – perché penso sia giusto evolversi, però a Torino il Pd per cinque anni ci ha osteggiato su tutti i temi, non sarà facile parlarci”. Da qualche settimana, per il post-Appendino, gira l’ipotesi del rettore del Politecnico Guido Saracco, in quota dem ma stimato anche nel mondo grillino: “È presto per parlare di nomi”, conclude Sganga.

A Roma, invece, la sindaca Virginia Raggi ha anticipato tutti annunciando la sua ricandidatura ma c’è chi, nel Movimento, non l’ha presa benissimo: la sua nemica storica, Roberta Lombardi, ieri a Repubblica ha auspicato un passo indietro della Raggi per trovare un nome condiviso con il Pd: “Virginia ha governato bene – commenta il consigliere capitolino Paolo Ferrara – non le chiederei un passo indietro, ma casomai due passi avanti. Noi dobbiamo scrivere il programma, poi se il Pd vorrà sostenerci nell’ambito di un accordo più generale, ben venga”. Dove si giocheranno due partite molto diverse invece è a Bologna e Napoli. Nella città emiliana il sindaco Virginio Merola non si ricandida e molti elettori M5S hanno già sostenuto Stefano Bonaccini in chiave anti-Salvini alle Regionali di gennaio. I giallorosa proveranno ad arrivare a un’alleanza più organica: “Bisogna trovare una persona valida, che abbia voglia di portare avanti certi temi – dice la consigliera pentastellata Elena Foresti – da scuola e sanità pubbliche a un cambio di passo sulle infrastrutture”. Chi invece chiude ogni porta a un dialogo con i dem è Matteo Brambilla, ex candidato sindaco dei 5 Stelle a Napoli: “Non sono d’accordo né con Patuanelli né con Di Maio: escludo ogni alleanza con il Pd perché in questa città, sulle periferie e su Bagnoli, abbiamo idee opposte”. I papabili candidati giallorosa potrebbero essere due ministri napoletani: Gaetano Manfredi (Università) e Vincenzo Amendola (Affari europei). Ma per Brambilla “un conto è il governo nazionale, un conto sono i territori dove siamo lontani anni luce. Se i vertici faranno l’accordo con il Pd a Napoli, sarà contro il volere della maggioranza degli attivisti e se ne assumeranno la responsabilità”. Non proprio la reazione che si aspettavano Di Maio e Patuanelli.

Il partito preferito da Lorsignori? Azione di Calenda

Pensare a lungo termine, sostengono i manuali di finanza, è uno dei principi cardine per chi investe i propri risparmi. Per questo tutti gli indizi portano a pensare che sia Carlo Calenda l’uomo su cui hanno puntato i grandi poteri economici italiani, o almeno quelli rimasti. Non tanto per gli endorsement ricevuti dall’ex dirigente di Confindustria, quanto per le donazioni arrivate al suo neonato partito. I sondaggi gli accreditano un 3% e al momento Azione può contare solo su una manciata di eletti. Eppure, le casse del partito sono continuamente rifocillate da donazioni a quattro o cinque zeri. L’ultimo bonifico, per dire, è arrivato dalla Fondazione Giovanni Arvedi: 100mila euro regalati a giugno dall’omonima famiglia cremonese che controlla uno dei più grandi gruppi siderurgici italiani.

Coincidenza vuole che proprio quest’estate il nome della Fondazione sia finito nelle carte di un’inchiesta della Procura di Cremona. Una storia di soldi raccolti per aiutare ospedali in difficoltà con l’emergenza Covid, e che invece sarebbero stati in parte usati per fini personali. Accusato di aver beneficiato di questo denaro è Renato Crotti, per anni addetto alle relazioni esterne del gruppo. La famiglia Arvedi lo ha subito sospeso da tutti gli incarichi precisando che la Fondazione “è del tutto estranea ai fatti addebitati” a Crotti e, nel caso in cui le accuse dei magistrati venissero confermate, “non esiterà a dichiararsi parte lesa”.

Di certo gli Arvedi sono entrati nella pattuglia di quelli convinti che investire su Calenda si rivelerà redditizio. Nei primi sei mesi del 2020 Azione è il partito che ha raccolto più donazioni private, oltre 350 mila euro. Soldi che vanno ad aggiungersi al milione di euro incassato nel primo anno di vita, il 2019. Al fianco degli acciaieri cremonesi, tra i finanziatori più recenti di Azione ci sono altri nomi del gotha economico. Spiccano i 50mila euro targati Gianfelice Rocca, presidente della multinazionale Techint, un gruppo da oltre 20 miliardi di fatturato annuo, controllato dalla holding lussemburghese San Faustin attraverso un’intricata ragnatela di società offshore e trust. Più modesti, invece, i contributi di altri nomi noti come Carlo Pesenti e Pier Luigi Loro Piana, Luciano Cimmino di Yamamay e l’ex presidente di Federmeccanica Fabio Storchi.

D’altra parte, già l’anno scorso, Calenda aveva dato prova di poter attirare l’aiuto delle grandi aziende incassando, tra le tante, le donazioni di gente come Luca Garavoglia (Campari) e Alberto Bombassei (Brembo). Lo scontro politico ingaggiato con Matteo Renzi per egemonizzare il centro ha permesso a Calenda di superare il capo del governo di cui fu ministro. Se il sorpasso politico non è ancora ufficialmente avvenuto, quello finanziario ormai è evidente.

Rispetto a Italia Viva, che sta in piedi con i contributi dei suoi parlamentari, Calenda basa tutto sulle donazioni degli imprenditori. Ed è riuscito a strappare a Renzi anche qualche storico sponsor, come il finanziere Davide Serra o Lupo Rattazzi, erede Agnelli. L’ultima conquista del più feroce critico del sovranismo viene però proprio da quel mondo. A marzo di quest’anno, Azione ha infatti ricevuto 10mila euro da Cremonini Spa, gigante italiano della carne e proprietario di marchi come Chef Express e Roadhouse. Lo stesso Cremonini che fino a prima dello sfaldamento del governo gialloverde aveva sostenuto finanziariamente la Lega di Salvini. Un ulteriore indizio del fatto che le grandi imprese italiane oggi puntano su Calenda.

 

 

In 10 milioni senza contratto: anche gli “eroi” del lockdown

In pieno lockdown c’erano i cosiddetti “eroi” che, a grande richiesta delle aziende, hanno continuato a lavorare e permesso al Paese di restare a galla. Nella sanità, nell’industria alimentare, per le strade e nelle fabbriche. Oggi invece, ci sono milioni di lavoratori che fanno una grossa fatica a ottenere il rinnovo del contratto collettivo scaduto e un piccolo aumento di stipendio. Sono le stesse persone di prima, solo che nel giro di pochi mesi sono passati da “eroi” a gente che deve ringraziare se prende uno stipendio.

La lotta per aggiornare i contratti interessa dieci milioni di addetti. I sindacati l’hanno messa in cima all’agenda del rientro dalle ferie. Alla finestra c’è chi opera nei settori definiti essenziali a marzo e aprile, quando a tutti era imposto di restare a casa. Ecco perché ci si aspettavano meno resistenze a concedere il ritocco all’insù in busta paga.

Molti dei 400mila addetti dell’agroalimentare sono in sciopero da ieri. A fine luglio, Flai Cgil, Fai Cisl e Uila hanno convinto solo tre associazioni di imprese su tredici a rinnovare il contratto: le altre, su volontà della Federalmentare – quindi Confindustria – si sono tirate fuori da un accordo che riconosce 149 euro (lordi) in più al mese. “Insostenibile”, per i vertici della categoria. Non solo: per Confindustria, quel contratto non rispetterebbe il “patto di fabbrica”; il segretario Flai Giovanni Mininni si dice pronto a dimostrare il contrario. Difficile calcolare quanti potranno avere l’aumento da gennaio. Hanno firmato Unionfood, Assobirra e Ancit: la prima, cui appartengono Ferrero e Barilla, copre 65mila persone; la seconda 140mila – cifra che contiene però l’indotto – la terza qualche migliaio. Elena Venucci lavora il pomodoro nello stabilimento Petti di Venturina, dove è rappresentante Uila: “Ci sentiamo lavoratori di serie B. Siamo tutti stati attivi in un periodo molto sacrificante, non si capisce perché qualcuno debba avere l’aumento e altri no”. Marco Parisi è delegato Flai alla Levoni: “Siamo stati considerati angeli, un gradino sotto i medici. Le richieste sindacali non erano così spaventose per le aziende. Non vedo come Federalimentare possa opporsi”. Nemmeno il colosso Coca Cola, socio di Assobibe, riconoscerà l’aumento ai suoi 1.900 dipendenti: “Da noi – spiega Alessandra Montani, anche lei rappresentante Flai – si è fermata solo la parte commerciale e solo per un mese. Gli altri sempre operativi”.

Ritardo record per i 100mila lavoratori della sanità privata: contratto scaduto dodici anni fa. A giugno era stata raggiunta una pre-intesa su 154 euro in più, poi è saltato tutto per il veto delle imprese. Il pretesto è che mancano garanzie sul contributo delle Regioni.

Le trattative per i metalmeccanici, Ccnl scaduto a fine 2019, si svolgono al Cnel. Tante industrie italiane, pur se non inserite nell’elenco delle essenziali, hanno continuato a operare in piena emergenza Covid “per salvare le esportazioni”, dicevano i datori. Fiom, Fim e Uilm vogliono l’8% in più sullo stipendio. Federmeccanica finora non si è sbilanciata, ma i riferimenti al difficile scenario che abbiamo davanti generano pessimismo.

Scarse prospettive anche per i 150mila lavoratori del legno. Secondo Federlegno, le richieste dei sindacati “non tengono conto del periodo storico derivante dalla pandemia”.

Chi non deve rinnovare ma deve firmare il primo contratto della storia sono i rider. Nunzia Catalfo ha convocato al ministero sindacati e Assodelivery, che riunisce i big delle consegne a domicilio. La ministra proporrà un lodo, ma sarà difficile farlo accettare a imprese che finora hanno imposto “flessibilità” – cioè i pagamenti a cottimo – e hanno a disposizione un sindacato pronto ad accontentarle (l’Ugl). Se già le imprese rimaste attive durante il lockdown non fanno concessioni, figuriamoci quelle della moda che sembrano essere tra le più colpite dalle chiusure. I sindacati hanno messo sul tavolo un incremento di 115 euro; Sistema Moda Italia ha lasciato intendere che non se ne parla.

Bonomi “chiagni e fotti”: batte cassa, ma vuole far fuori Conte

Matteo Salvini, da buon populista, ha introdotto nel sistema politico il modello del vittimismo a prescindere. Lagnarsi, lamentarsi, gridare allo scandalo per emergere e darsi un tono. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, adotta lo stesso modello.

In un’intervista monstre concessa ieri a La Stampa, ha mescolato cospicue dosi di vittimismo – “Non ci vogliono mai ascoltare, abbiamo presentato piani che non vengono letti, le nostre proposte giacciono nei cassetti” – con una poco commendevole richiesta finale: dateci un tavolo in cui anche noi possiamo contare, ergo “un patto per l’Italia”.

La modalità di Bonomi non è nuova, semmai lo è la virulenza con cui presenta ogni sua nuova incursione.

L’intervista concede molto alla demagogia spicciola: “Il governo ha varato le misure anti-crisi, ma mancano oltre 400 decreti attuativi”; ovvio, le misure risalgono a poche settimane fa. “Ci avevano detto che ad agosto avrebbero lavorato alla stesura del piano di riforme per il Recovery fund e invece è tutto fermo”: neanche per sogno, il governo ha istituito l’apposito comitato istituzionale presieduto dal ministro Vincenzo Amendola e a settembre si vedranno i primi risultati. Ancora: “Ci avevano detto che avrebbero presentato progetti per il Mes e l’emergenza sanitaria e invece è tutto fermo”. Sarebbe interessante sapere chi gliel’aveva detto, visto che il governo non ha, al momento, intenzione di ricorrere al Mes, come è noto.

Ma Bonomi è imperterrito e mette sul tavolo la vera pistola carica di cui dispone: “Un milione di posti di lavoro bruciati resta un numero purtroppo molto credibile”. Capito? Quello che ha il potere, via imprese, di mettere per strada un milione di lavoratori “avverte” il governo che la cosa potrebbe succedere. Non a caso sul divieto di licenziamento nel “decreto Agosto” si è sviluppata una lotta interna in cui il M5S ha cercato di estendere la protezione dei lavoratori mentre tutti gli altri hanno provato ad abolirla.

Lamentarsi (senza argomenti), minacciare i licenziamenti (con un chiaro ricatto) per chiedere un banale “patto per l’Italia” cui solo i sindacati più accondiscendenti possono abboccare. E sciorinando tre punti che, come sempre, vengono definiti “essenziali”: “Un piano di riforme strutturali” (che vuol dire?); “Un piano di politica industriale di mercato rinunciando a ogni disegno statalista” (questo si capisce, lasciateci fare i fatti nostri in pace); “Terzo punto: operazioni di fiducia sulle imprese”, cioè, fateci fare i fatti nostri.

L’arroganza si mescola alla spocchia, perché Bonomi è convinto che la parziale ripresa economica, in gran parte dipesa dalla manifattura, sia stata “generata da noi imprenditori che ci siamo rimboccati le maniche”. Nella sua visione delle cose i lavoratori non esistono. E da questo punto di vista “padronale” prova a mettere in riga il governo che, evidentemente, non deve ascoltarlo troppo.

Confrontando l’intervista al resto della rassegna stampa si coglie il parallelismo tra l’insofferenza confindustriale e i ripetuti appelli affinché il Pd molli i 5Stelle. “Il Pd deve valutare se stare al governo sia una ragione sufficiente per deflettere dalla propria identità” (Claudio Tito su Repubblica); “Un partito che coltiva l’orticello di sinistra rischia di essere non tanto una roba vecchia, ma una roba poco utile” (Claudio Cerasa sul Foglio: il partito centrista, invece è stato utile); “Prima di avventurarsi a costruire un’alleanza organica con il M5S dovrebbe essere in grado di diventare un riferimento stabile per la sinistra di LeU e Italia Viva, ma anche per le formazioni guidate da Carlo Calenda e Emma Bonino” (Paolo Mieli sul Corriere della Sera: hai detto un prospero, si dice a Roma). L’ipotesi di un “nuovo centrosinistra” M5S-Pd non piace alla stampa liberal e non piace a Confindustria. Uniti come non mai.

Arrendetevi

Ricordate lo scandalo dei 5 deputati e dei 2mila amministratori comunali e regionali che hanno chiesto, e in gran parte ottenuto, il bonus da 600/1.000 euro per partite Iva in difficoltà? L’ha svelato Repubblica il 9 agosto. L’11 il Fatto ha chiesto all’Inps e al Garante della Privacy l’accesso agli atti per sapere i nomi di quelli che non sono “furbetti”, ma – salvo qualche caso sparuto di politico locale sottopagato – ladri legalizzati. Lo stesso giorno il Garante comunicava che “la privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati relativi ai beneficiari del contributo laddove, come in questo caso, da ciò non possa evincersi, in particolare, una condizione di disagio economico-sociale dell’interessato… a maggior ragione rispetto a coloro per i quali, a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono, anche per effetto dei più incisivi obblighi di pubblicità della condizione patrimoniale”. Poi però provvedeva a intimidire l’Inps, annunciando “una istruttoria sulla metodologia seguita dall’Inps nel trattamento dei dati dei beneficiari e alle notizie diffuse”. Come se l’Inps dovesse giustificarsi per aver scovato gli accattoni o perché qualcuno ha fatto sapere che esistevano (i pochi nomi poi trapelati non li ha diffusi l’Istituto: sono stati loro a confessare, con le scuse più pittoresche e vergognose).

Il 14 agosto il presidente Pasquale Tridico è stato audito dalla commissione Lavoro della Camera perché facesse i nomi. Ma il centrodestra, inclusa Italia Viva, ha processato lui: come se la colpa non fosse dei furbastri, ma di chi li aveva scoperti. Così Tridico i nomi non li ha fatti, anche perché il Garante gli ha inviato una seconda delibera, tanto pilatesca quanto minatoria: “Spetta all’Inps verificare caso per caso, previo coinvolgimento dei soggetti controinteressati, la possibilità di rendere ostensibili tramite l’accesso civico i dati personali richiesti, valutando anche la diversa posizione”. Traduzione: Tridico può diffondere solo i nomi di chi lo autorizza a farlo (cioè nessuno), dopodiché il Garante potrà pure punirlo. Tridico è subito sparito dai radar, così come lo scandalo dai giornali, tutti impegnati nella battaglia per il No al referendum sul taglio dei parlamentari e terrorizzati che parlarne ancora favorisca la vittoria del Sì. Intanto la nostra petizione ha superato le 76mila firme (continuate ad aderire!). Quindi lorsignori si scordino che ci scordiamo di loro: l’Inps ha 30 giorni dall’11, cioè altre due settimane, per risponderci con la lista completa. Se dirà di no, ricorreremo al Tar e al Consiglio di Stato per sapere ciò che i cittadini hanno il diritto di conoscere. Il conto alla rovescia è partito: arrendetevi, siete circondati.

Ma mi faccia il piacere

Il Verano Illustrato. “La grande rimozione. La pandemia negata. I morti dimenticati… L’emergenza sociale, i rischi per l’ordine pubblico, il caos sul ritorno a scuola. Le istituzioni sotto assedio”. “Prima che si apra la voragine. L’emergenza economico-sociale, i cittadini nell’incertezza, i partiti in disarmo. E il voto del 20 settembre: una breccia che può portare le istituzioni nel baratro… Una crisi di sistema”. “Rientro da paura. Arriva la resa dei conti. E crescono i timori per l’ordine pubblico… malcontento e tensione”. “Una minaccia chiamata Recovery”. “Fase tre: si muore in fabbrica”. “Sparatorie a New York: +72 per cento”. “La morte di Sarah Scazzi è ancora una giungla di verità” (titoli dall’ultimo numero de l’Espresso, 23.8). Allegria: quando c’è la salute, c’è tutto.

Testa o croce. “In Toscana la sinistra si gioca la testa” (Susanna Ceccardi, Lega, candidata a presidente della Toscana, Verità, 17.8). Lei per fortuna non ha di questi problemi.

Polifonia. “Referendum truffa a cui dire No” (Marco Damilano, direttore Espresso, 28.6). “Non c’é una riforma sistemica, complessiva, nessuna idea per adeguare ai tempi il funzionamento della macchina legislativa” (Mattia Feltri, direttore Huffington Post, 8.8). “Votare No al referendum” (Maurizio Molinari, direttore Repubblica, 20.8). “Il referendum e la deriva confusionaria.”, “Saremo costretti a scrivere un altro ‘no’…” (Massimo Giannini, direttore La Stampa, 23.8). Tutto si può dire del gruppo Fca-Elkann, tranne che al suo interno manchi un ampio e articolato dibattito.

Fiat Dux. “Il Meeting di Rimini nel segno di Draghi: ‘Può indicarci la via’” (Repubblica, 18.8). Duce, tu sei la luce.

Congiuntivite. “Non possiamo tollerare che arrivano dei migranti positivi e vadino in giro liberamente” (Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, 9.8). Fantocci, batti lei!

Fate con comodo. “Mai con Raggi. Il Pd avrà un suo candidato, ma senza fretta” (Giulio Pelonzi, capogruppo Pd in consiglio comunale a Roma, Foglio, 19.8). Diciamo, per le comunali del 2025.

Fermate le rotative. “Treu (Cnel): ‘Sto con Draghi’” (Messaggero, 21.8). Mo’ me lo segno.

Chi può e chi non può. “Zingaretti a Raggi: ‘Sei il problema principale della città’” (Repubblica, 21.8). Io invece di tutta la regione, tiè!

L’elogio funebre. “Lo dice la sinistra: ‘Il meglio a destra è Berlusconi’” (Giornale, 21.8). Pensa gli altri.

Fantacronache. “La magistratura accusa Romiti di aver truccato i bilanci per creare fondi neri e finanziare la politica. Romiti viene condannato in via definitiva in Cassazione nel 2000. La sentenza verrà modificata tre anni dopo perché nel frattempo la legge era cambiata e le somme che il manager era stato accusato di non aver messo a bilancio erano troppo basse per configurare il reato” (Paolo Griseri, neo-vicedirettore La Stampa, 19.8). Mamma mia quanta vaselina. Romiti fu condannato per falso in bilancio e finanziamento illecito ai partiti, poi B. depenalizzò i falsi in bilancio, compresi quelli di Romiti. Per ulteriori informazioni, lo smemorato autore può consultare il libro Il processo (Editori Riuniti, 1997) di Paolo Griseri, Massimo Novelli e Marco Travaglio.

Esercitazioni. “La domanda è partita per errore. Ho un’attività, la mia fidanzata è una consulente fiscale. Da sempre si occupa lei della mia contabilità e in quei giorni ha utilizzato sia la mia partita Iva sia la sua per esercitarsi nella richiesta di rimborsi” (Diego Sarno, consigliere regionale Pd in Piemonte, Repubblica, 12.8). Suvvia, chi non ha una fidanzata che si esercita?
Delitto di cronaca. “Dal popolo dei fax ai 25mila del Fatto che gridano ‘fuori i nomi’. Storia di una marea nera che ha distrutto diritto e politica” (Maurizio Crippa, Foglio, 13.8). Incredibile: 28 anni dopo, c’è ancora gente che vuol sapere la verità.

Magari. “Terremoto bonus, clima da monetine… Vincono loro, i ragazzi di Travaglio. E’ peggio del ’93, l’anno delle monetine a Craxi” (Piero Sansonetti, Riformista, 12.8). Lo prendiamo come un augurio, benchè troppo ottimistico: questi le monetine si chinerebbero subito a raccoglierle.

Giorgio Covid. “Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori si rivolge al suo partito: ‘Ma al Pd interessa il Nord? Siamo attestati solo sulla difesa di pensionati e dipendenti pubblici invece di rappresentare i ceti produttivi’” (Foglio, 13.8). Quelli che “Bergamo non si ferma” e “Bergamo is running”. Praticamente, le pompe funebri.

Vittorio virgola Feltri. “Travaglio mi dà dell’ignorante perchè ho scritto questa frase; chi di spada ferisce, di spada perisce. Che è esatta. Ma lui non lo sa al punto che segnala: la virgola tra il soggetto e il verbo non ci va. Ma chi ce l’ha messa la virgola tra il soggetto e il verbo? Lui pensa che ferisce non sia un verbo” (Vittorio Feltri, Libero, 18.8). No, stellina: il soggetto di “perisce” è “chi di spada ferisce”, dunque la virgola non ci va. Punto.

Il titolo della settimana. “Se i guai di Grillo ce l’avesse Berlusconi, sai quanti titoli…” (Riformista, 18.8).
Uahahahahahahahah.

“Alleanze col Pd: noi 5 Stelle dobbiamo fare una scelta di campo”

Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo Economico e volto del Movimento dal lontano 2005, non ci gira tanto intorno e va dritto al punto: “Il Movimento 5 Stelle deve fare una scelta di campo precisa: un’alleanza organica con il Pd che non si fermi a singoli accordi sui territori per vincere solo le elezioni, ma un progetto di lungo periodo con dei valori comuni, magari con Conte come leader”. Ieri mattina il ministro Patuanelli ha letto l’intervista al Fatto di Luigi Di Maio che auspica “un patto con il Pd sui comuni nel 2021” e la commenta così: “Sono d’accordo al 100% con quello che dice Luigi ma io vado oltre…”.

Ovvero, ministro Patuanelli?

“Penso che fare un accordo nelle singole regioni e nei comuni di volta in volta non basti. Il futuro del M5S passa dalla scelta di campo da fare: dovremo mettere in piedi un progetto organico che si basi sui temi e non sull’obiettivo di vincere le elezioni. Un progetto politico comune sull’innovazione, sui diritti sociali e sulla sostenibilità ambientale”.

Di Maio non è molto d’accordo con l’idea di un’intesa strutturale ma pensa più a un patto sui territori.

Provo a spiegarla così: se l’esperienza di governo con la Lega era un unicum che non poteva essere replicato nel tempo e nei territori, con il Pd dobbiamo costruire un campo progressista e riformista. Se il ragionamento è: dobbiamo fare le alleanze solo dove i nostri territori ce lo chiedono, poi magari ti ritrovi un comune in provincia di Milano dove il M5S si allea con la Lega solo perché lo vogliono 40 attivisti. Ma noi dobbiamo decidere prima con chi stare e con chi condividere un percorso insieme. Questo governo ha un senso se si riesce a portare lo stesso progetto anche sui territori.

È favorevole a un’alleanza col Pd solo per rafforzare il premier Conte?

Conte non ha bisogno di essere rafforzato perché ha gestito bene due governi molto diversi e una fase incredibile come la pandemia con una capacità non comune. Non ha bisogno di essere rafforzato: il suo ruolo è quello del leader di una coalizione anche in vista delle prossime elezioni.

Insomma Conte leader di Pd e M5S?

Beh, deciderà lui cosa fare…

Volete fare l’alleanza con il Pd ma in passato per voi era “il partito di Bibbiano” o “la piovra”. Avete esagerato?

Sta parlando con uno dei più moderati nel Movimento ma penso che generalizzare sia sempre sbagliato: quando lo abbiamo fatto, abbiamo esagerato ed è stato un errore.

Tra poco si vota alle regionali: in Puglia e nelle Marche non avete fatto un accordo e adesso rischiate di perderle. Come mai?

Da una parte non c’è stato il tempo sufficiente, dall’altra perchè il Pd non fatto un passo indietro sui propri candidati. Poi è stata anche colpa nostra perchè ci manca una governance ma in Campania avevamo proposto Sergio Costa e ci hanno detto di no e lo stesso è avvenuto in Puglia e nelle Marche. Non fare l’alleanza secondo me è stata un’occasione persa ma il M5S in futuro non potrà accettare solo nomi del Pd: in una trattativa ognuno deve fare un passo indietro e in questo caso sarebbero stati dei candidati terzi.

Se finisse 4 a 2 per il centrodestra, il governo rischia?

No, dobbiamo metterci d’accordo: o si stabilisce che ogni due anni e mezzo vanno al voto tutte le regioni e allora potrebbe essere anche un voto intermedio sul governo oppure non è che siccome ogni anno ci sono le elezioni in 4-5 regioni deve essere sempre un voto politico.

E se perdete ci sarà il rimpasto?

È un tema che non mi appassiona, abbiamo governato bene e siamo stati elogiati da tutti per la gestione della pandemia.

Poi si apre la partita nei comuni nel 2021: Roma, Bologna, Napoli, Torino e Milano. Siete per un accordo col Pd?

Sì, dobbiamo fare un accordo complessivo con il Pd nelle città e questa volta possiamo riuscirci.

Il Pd deve sostenere Virginia Raggi in cambio di un vostro appoggio a Torino o a Milano?

È prematuro ma mi devono spiegare perché Virginia Raggi non deve essere il candidato al comune di Roma: dopo vent’anni la città ha un bilancio sano, i servizi sono migliorati e le opere si fanno con gara. Quindi chiediamo al Pd di sostenerla nell’ambito di un accordo complessivo. Noi siamo pronti ad appoggiare un loro candidato in un’altra città.

“I parlamentari sono troppi il Sì ai tagli è nel nostro Dna”

“Dobbiamo dirlo onestamente e mi rivolgo anche ai miei colleghi nel Pd che sono contrari alla riforma: 945 parlamentari sono troppi e il Parlamento deve essere in grado di autoriformarsi”. Maurizio Martina, 42 anni da Calcinate (Bergamo), in vista del referendum invita i suoi compagni di “Base Riformista” (Lotti, Guerini, Gori, Nannicini &co.) a ripensarci sul “no” al taglio dei parlamentari: “Lo dice la nostra storia: le nostre riforme costituzionali lo prevedevano e non si può dire no oggi solo perché l’hanno voluta i 5 Stelle”.

Onorevole Martina, quali sono le ragioni del suo “sì”?

Il mio sarà un voto favorevole e anti-populista. Penso che tagliare il numero dei parlamentari sia utile. É un’occasione unica per dimostrare che il Parlamento si può autoriformare. Per me la crisi della rappresentanza parlamentare si è alimentata anche dalla irriformabilità delle istituzioni. Io che invece credo fortemente nel ruolo del Parlamento, penso che avere meno deputati e senatori dia a questo ruolo una maggiore autorevolezza. Novecento sono troppi e noi da anni sosteniamo l’esigenza di ridurre il numero. Poi ben venga anche il risparmio ma questa riforma è solo il punto di partenza…

Ovvero?

Io avrei preferito una soluzione in grado di toccare anche il bicameralismo ma penso che la riforma attuale debba essere accompagnata con tre correttivi: l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, l’adeguamento della rappresentanza regionale nell’elezione del Presidente della Repubblica e il superamento della base regionale del Senato. In più dobbiamo approvare una legge elettorale proporzionale come prevedono gli accordi di maggioranza.

In molti dicono che il taglio dei parlamentari porterà a meno rappresentanza. Condivide?

No, non è così. Come spiegano bene dei noti costituzionalisti, con questa riforma ci adeguiamo ai parametri di riferimento di altri grandi paesi europei nel rapporto tra parlamentari, seggi e popolazione. Questa riforma non stravolge niente e non c’è nessun rischio democratico. Faccio l’esempio della mia provincia, quella di Bergamo: oggi per un milione di abitanti ci sono 20 tra deputati e senatori, mentre se vincesse il “sì” passerebbero a 12. Posso assicurare che 12 sono più che sufficienti per un territorio di un milione di abitanti: io per esempio alcuni colleghi del mio stesso collegio faccio fatica a riconoscerli. Significa che sul territorio non ci stanno poi così tanto.

Orlando dice che il Pd voterà Sì, ma i dem non hanno ancora una posizione chiara sul referendum. Come voterà il partito?

Io credo che il Pd debba discutere al proprio interno per darsi una linea: io spero che tutto il Pd voti unito per il “sì”. Abbiamo votato la riforma solo in quarta lettura ma solo perché nelle precedenti la maggioranza gialloverde aveva impedito di discutere i nostri emendamenti ma se andiamo a rivedere le sedute parlamentari precedenti, si può notare che il Pd non era mai contrario nel merito alla riforma.

Nel Pd cresce la fronda del “No”: Nannicini, Gori, forse anche il ministro Guerini. Sostengono che è una riforma populista che fa il gioco del M5S. Che ne pensa?

Ho sempre sostenuto che un grande partito riformista e progressista come il Pd non possa avere l’ossessione di doversi distinguere da qualcuno ma debba avere la forza di portare avanti la sua proposta. E in questo caso la nostra storia dice che siamo sempre stati favorevoli al taglio dei parlamentari: oltre alle riforme costituzionali – dalla “Bozzi” alla “Iotti” fino alla “Renzi” – nel 2008, il Pd presentò al Senato una proposta di legge costituzionale identica a quella attuale: 400 deputati e 200 senatori. Io quindi non ci sto a piegare tutto questo alla polemica politica.

Il Pd potrebbe tirarsi fuori dalla partita: non rischiate di perdere in ogni caso?

Per come potrò, lavorerò in questo mese per un “sì” riformista. Vedremo se fare un comitato. Una cosa è certa: porterò le ragioni del “sì” tra il nostro popolo, a partire dalle feste dell’Unità.

Scuola, la nuova guerra sui recuperi a settembre

Come se non bastasse dover assicurare il “dove” e il “come” sulla riapertura della scuola a settembre, in questi giorni è nato un nuovo fronte critico che riguarda il “quanto”, ovvero quanto saranno pagati in più i docenti che dal primo di settembre dovranno occuparsi delle lezioni di recupero per gli studenti che hanno avuto insufficienze a fine anno. Di nuovo, insomma, a pochi giorni dalla prima campanella post Covid si discute di un tema caro ai sindacati, che sostengono siano lezioni da pagare “extra” e che, diversamente, gli insegnanti non dovrebbero tenere.

É l’ultimo fronte in un ritmo ormai fitto: un altro c’era stato pochi giorni fa quando la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, in una intervista aveva parlato di tentativi di “boicottaggio” da parte di alcuni elementi dei sindacati: a tenere banco, qualche ora prima, la responsabilità civile e penale dei dirigenti scolastici che temevano potesse ricadere su di loro la colpa di un eventuale contagio. Il ministero aveva quindi dovuto pubblicare una nota per spiegare che, diversamente da quanto stesse circolando in quelle ore, qualora la scuola applichi indicazioni e misure previste, il dirigente è assolto da ogni responsabilità. Sul “boicottaggio” non si erano fatte attendere le reazioni dei rappresentanti dei lavoratori, offesi dalle parole della ministra: una “polemica fuori luogo” secondo Maddalena Gissi, segretaria Cisl Scuola” mentre per Pino Turi, della Uil, la ministra “non tollera la critica e chiama sabotaggio tutto ciò che non coincide con un suo desiderio” fino a Sinopoli (Flc Cgil) che aveva parlato di “accuse gratuite, infondate e offensive”.

Chiarito quello, oggi, dopo poche ore, un’altra battaglia sul fronte del pagamento dei docenti e su quanto le attività extra si allontanerebbero dal loro contratto nazionale: “Il recupero dovrà essere concepito come attività extracurriculare e la retribuzione andrà equiparata – ha spiegato la segretaria Snals Cofsal, Elvira Serafini -con l’emergenza sanitaria è cambiata la tempistica ma non la tipologia d’intervento”. Le attività di recupero delle materie con l’attivazione degli sportelli scolastici, infatti, durante l’anno sono di solito retribuite in più.

Dal ministero spiegano invece (la Azzolina lo aveva detto anche in una intervista al Fatto) che le ore di recupero dal primo al 14 settembre rientrano nell’attività ordinaria dell’insegnante. I docenti di norma prendono infatti servizio proprio a inizio settembre e quindi – è il sottotesto – anche se l’attività didattica inizia più tardi sono a disposizione della scuola e oltre a fare riunioni e a organizzare il nuovo anno possono occuparsi del recupero per gli studenti che ne hanno bisogno. In viale Trastevere sembra un punto fermo per tutelare studenti e famiglie (ma anche i docenti stessi da una narrazione distorta sulla loro professionalità), ma si vedrà nelle prossime ore se ci dovesse essere una trattativa. Di certo, a quanto risulta al Fatto, a fronte anche degli avvertimenti che starebbero arrivando ai presidi sul non far lavorare i docenti senza soldi in più, il ministero oggi invierà una nota a firma del Capo dipartimento Istruzione in cui in sostanza, si ricorderà alle scuole che il recupero delle lacune accumulate dagli studenti nel corso dei mesi di sospensione delle attività didattiche è un’attività “ordinaria”, doverosa, che il personale docente dovrà intraprendere a partire dal primo settembre.