Un tempo, prima della guerra civile, era “la Svizzera del Medioriente”: un’isola di stabilità e ricchezza in una regione martoriata dai conflitti interni. Il Libano non è più da decenni il Paese in cui il jet-set internazionale e le stelle del cinema andavano ad assaporare il lato meridionale della “dolce vita” e ora l’esplosione al porto di Beirut ha distrutto uno dei motori più importanti della già malandata economia libanese: è già partita la corsa più o meno interessata a fornire aiuti internazionali, con la Francia in prima linea. Ma gli aiuti esteri non basteranno a risollevare il Libano, mentre le piazze – come da mesi – sono piene di gente che protesta, in larga parte contro una politica corrotta e clientelare.
Crollo del prodotto e disoccupati ovunque
L’economia del piccolo Paese mediorientale si sta sgretolando. Le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale vedono un Pil in calo del 13,8% nel 2020. L’inflazione è al 17% e metà della popolazione è sotto la linea di povertà. I dati sulla disoccupazione sono disastrosi: secondo le stime del Financial Times ben un libanese su tre è senza lavoro.
E non è finita qui. La lira libanese ha perso l’80% del suo valore da ottobre e ha costretto la banca centrale a sussidiare le importazioni di beni di prima necessità usando le riserve di valuta estera per evitare una crisi umanitaria. La svalutazione ha reso più costosi i beni stranieri, che costituiscono gran parte dei consumi locali. La bilancia commerciale (la differenza fra esportazioni e importazioni) negli ultimi anni è stata sempre in profondo rosso: nel 2019 il saldo negativo era pari quasi a un quarto del Pil.
Tradotto: l’economia libanese non è capace di creare un settore industriale forte e di produrre beni appetibili sui mercati esteri. Negli ultimi anni il Libano ha cercato di ovviare a questa debolezza affidandosi ancor più che in passato a turismo e servizi finanziari, entrambi in grande difficoltà in questo momento.
Il debito è altissimo e al 33% in dollari
E poi c’è il debito pubblico: è uno dei più alti al mondo, pari al 175% del Pil e in aumento. Il problema principale del Libano, però, non è tanto la dimensione del debito pubblico, quanto che per un terzo sia denominato in dollari (secondo le stime precedenti alla svalutazione). In soldi, fanno circa 30 miliardi di dollari: pochi per i nostri standard, un macigno per un piccolo Paese che non produce abbastanza ricchezza. Ovviamente lo Stato libanese non può stampare valuta estera: a marzo, perciò, il governo si è trovato costretto a dichiarare default su questa parte del debito, innescando una serie di trattative per la sua ristrutturazione.
Come si è arrivati a questa situazione? La risposta più comune in questi giorni è che gran parte della colpa è dello Stato. Senz’altro il settore pubblico, disfunzionale e ostaggio di una politica settaria, è parte del problema. I leader dei vari gruppi etnici e religiosi hanno “catturato” le istituzioni, istituendo un sistema basato sul clientelismo e sulla corruzione. Tuttavia, è errato sostenere che lo Stato abbia un peso eccessivo nell’economia. La spesa pubblica libanese è infatti pari al 29% del Pil, non molto superiore alla media del mondo arabo (26%) e a quella mondiale (27%). Ma soprattutto è nettamente inferiore ai valori che si registrano in Europa, se pensiamo che la media dell’Ue è del 36%. Il problema, semmai, è stata l’assenza di investimenti pubblici e di una politica economica degni di questo nome. Come sostiene il professor Ramzi Mabsout dell’American University di Beirut, “negli ultimi vent’anni l’unica cosa che abbiamo fatto è stata tamponare i problemi, da una crisi all’altra”.
Mille errori, uno fondamentale
Altri fattori che contribuiscono alla crisi sono le grandi disuguaglianze, l’evasione e l’elusione fiscale e lo stato disastroso delle infrastrutture. La mancanza di trasparenza e di una giustizia indipendente di certo non incoraggiano l’attività economica, mentre la continua tendenza a cercare di costruire governi di unità nazionale impedisce il corretto funzionamento del sistema politico.
Tuttavia, la radice del problema economico è altrove, nella dollarizzazione dell’economia. Per anni il sistema bancario libanese ha offerto sui depositi tassi di interesse altissimi (sull’ordine del 15-20%), attraendo ingenti flussi di dollari dall’estero. Questi soldi non sono stati investiti nell’economia reale, bensì sono stati re-immessi nel circuito finanziario per sostenere il tasso di cambio fisso fra lira libanese e dollaro.
Un tasso molto sopravvalutato per l’economia locale, che ha avuto due effetti. Il primo è stato garantire alla popolazione importazioni a basso costo e permettere ampi deficit commerciali. Ma ogni medaglia ha due facce: la valuta troppo forte ha danneggiato l’industria locale, penalizzando la sua competitività sui mercati internazionali.
Le rimesse degli emigrati per pagare beni importati
Il sistema si è potuto reggere a lungo perché l’economia libanese esporta persone per importare dollari. Come sottolinea il professor Mabsout, le prestigiose università del Libano immettono sul mercato giovani preparati e competenti, che però non trovano lavoro in patria e sono costretti a emigrare. Basti pensare che all’estero vivono più libanesi che nei confini nazionali e che le rimesse ammontavano nel 2017 al 13% del Pil.
I libanesi producono all’estero e mandano dollari in patria, che servono a sostenere i consumi locali. Ma a essere acquistati sono in buona parte beni stranieri e ciò porta a un sempre maggiore indebitamento estero. Mantenere l’economia sottosviluppata in realtà la teneva in vita, perché faceva emigrare persone che avrebbero mandato dollari in patria. Una situazione insostenibile nel lungo termine, uno schema Ponzi di cui buona parte della popolazione ha beneficiato finché sono continuati ad affluire dollari. Ma prima o poi il cambio sopravvalutato sarebbe dovuto collassare: lo ha fatto a ottobre, quando sono finiti i dollari con cui era tenuto artificiosamente alto.
La crisi è di ottobre 2019: i controlli sui capitali
Le banche hanno perciò introdotto controlli informali ai movimenti di capitali e limiti ai prelievi. Gran parte dei depositi bancari dei libanesi è in dollari, ma questi dollari in realtà non esistono più. Si può prelevare solo in moneta locale, ormai svalutata: è lì che sono nate le proteste di piazza che durano ancora oggi.
Secondo il professor Mabsout, “ognuno è colpevole e coinvolto nella crisi”. Il funzionamento dell’economia è da ripensare completamente, fuori dai vecchi schemi di finanziarizzazione e assegnando un ruolo nuovo allo Stato.