A parole Draghi mette tutti d’accordo, ma c’è chi aggiunge incertezza

 

NON CLASSIFICATI

Tutti insieme, appassionatamenteMatteo Salvini, segretario della Lega: “Draghi ha contestato le regole dell’Europa, ha detto che bisogna cambiarla. Gli manderemo la tessera della Lega”. Andrea Marcucci, capogruppo partito democratico: “Importanti le parole di Mario Draghi a Rimini. La sua ricetta caratterizzata da pragmatismo e flessibilità ispiri Parlamento e governo”. Teresa Bellanova, ministro dell’Agricoltura in quota Italia Viva: “Pragmatismo, responsabilità e saggezza: ecco cosa ho trovato nelle parole di ieri di Mario Draghi”. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria: “Al meeting20 ho constatato che Mario Draghi ha espresso con conoscenza e coraggio quello che Confindustria sostiene da tempo: la politica dei sussidi grava sul futuro dei giovani e dell’intero Paese”. Annamaria Furlan, leader della Cisl: “Ha pienamente ragione Mario Draghi: bisogna mettere al centro della ricostruzione dell’Europa e del nostro paese il futuro dei nostri giovani, investendo in maniera massiccia in istruzione, formazione delle nuove competenze, innovazione, ricerca, digitalizzazione dell’economia”.
A giudicare dal plauso unanime al discorso di Mario Draghi, viene difficile credere che il Paese, durante la gestione Covid, abbia sofferto per la mancanza di spirito di unità nazionale. Se Confindustria applaude insieme al sindacato e la Lega si trova d’accordo con il Pd, i significati possibili sono due. Primo: un governo a guida Mario Draghi avrebbe davvero messo tutti d’accordo; secondo: finché qualcuno non ha ruolo, e magari ha molto prestigio, dargli ragione non costa nulla. Noi propendiamo per la seconda.

voto NC

 

BOCCIATI

Di virus e di coccio Dalla scienza non si pretende destrezza comunicativa, ma che dopo mesi e mesi d’interviste, ospitate televisive e comunicazioni pubbliche, un consulente del governo ancora non abbia imparato le regole base della comunicazione è piuttosto grave. Walter Ricciardi, interrogato sulla concretezza del rischio che la riapertura delle scuole e le elezioni regionali possano non avere luogo, ha risposto così: “Se la circolazione del virus riaumenta ci troveremo nelle condizioni in cui la riapertura delle scuole e le votazioni sono messe a rischio”. Qualche ora dopo, a polemiche già esplose, è arrivata la rettifica: “Non ho mai detto che riapertura delle scuole ed elezioni sono a rischio in Italia. Parlavo di altri Paesi dove la curva dei contagi si è rialzata in modo preoccupante”. Di stalle scientifiche chiuse quando i buoi hanno già raggiunto l’equatore, nel corso di questa epidemia, ne abbiamo viste troppe: possibile che non sia ancora chiaro che in un momento di estrema confusione generale, in cui le polemiche spuntano come funghi su qualsiasi cosa, ogni esternazione vada soppesata con religiosa attenzione, per non aggiungere incertezza all’incertezza per dirla con Draghi? Che il Paese abbia superato la fase 3 e l’ars oratoria di certi esperti sia ancora agli albori della fase 1, certamente, non aiuta.

voto 4

 

Certe invettive d’agosto tra le corna vintage e le discoteche chiuse

 

BOCCIATI

Adulterata. Naike, figlia di Ornella Muti, ci dà sempre grandi soddisfazioni, anche a Ferragosto quando le notizie latitano. Ce ne “rilascia” una lei, insualmente con gli abiti addosso, dal suo account Instagram frequentatissimo dagli utenti ma assai di rado dalla grammatica. Riguarda Adriano Celentano, che nel 1980 ha avuto con la sua mamma una relazione extraconiugale. Che ha fatto il Molleggiato, oggi 85enne? Nel 2014 ha rivelato l’amore peccaminoso. Il casus belli? L’ennesima messa in onda de Il bisbetico domato, immortale pellicola nella quale i due recitano insieme. “Sgarbato, maleducato egoico, egocentrico”, sono le parole più gentili. “Ci sono Famiglie storiche italiane (come le dimore) che si credo onnipotenti, e cercano di gestire il paese, fingendo rose e fiori, quando dietro le quinte si nascondo i mostri. Tutte persone che si credono intoccabili anche nei loro soprusi”. La catilinaria non è finita qui: “Mi sento di aggiungere, caro Adrian, invece di sputare tristi affermazioni sul passato, perché non ringraziare la mamma, che grazie ai quei due film che hai fatto assieme a lei, sei diventato famoso come attore in tutto il mondo”. Come se non avesse recitato in quel film sconosciuto del 1960 … La dolce vita di Federico Fellini … in cui Celentano interpretava se stesso …

Sei fuori? Dopo Londra e Porto Cervo, uno degli eroi di questa rubrica, Flavio Briatore, ha aperto a Monte Carlo il terzo negozio della sua catena Crazy Pizza, ove si può gustare, udite udite, “Una nuova interpretazione della classica Pizza con tutta la passione e lo spirito dell’Italia”. Non è andata molto bene perché le foto pubblicate sui social della sottilissima “nuova interpretazione” hanno suscitato commenti disgustati da parte degli utenti (gentilmente definiti dall’interessato “stronzi da tastiera”), nonostante la benedizione del locale da parte di un sacerdote. I prezzi non sono proprio popolari: una margherita costa 13 sterline a Londra, 15 euro a Monte Carlo, 25 euro a Porto Cervo. A proposito di Costa Smeralda: Briatore ha dovuto chiudere in anticipo il Billionaire, causa Covid. Lui se l’è presa con l’ordinanza del sindaco di Arzachena, Roberto Ragnedda, “un altro grillino contro il turismo” che non ha mai fatto un cazzo nella vita (manco il latitante, per dire). Mitica la video risposta del sindaco: l’ordinanza vuole “tutelare i cittadini e gli ospiti, soprattutto gli anziani come lei”. Poi, venerdì, si è coperto che al Billionaire c’è un focolaio e 50 dipendenti sono stati messi in quarantena. Contrappassi.

 

PROMOSSI

Memorandum Linus, direttore di Radio Deejay, è stato assai criticato per un post su Facebook in cui aveva dato degli ubriachi a quelli che avevano deciso di riaprire le discoteche. Ha poi spiegato al Corriere che non era un attacco alle discoteche “se mai una loro difesa, pensando anche ai gestori che sono stati lasciati a metà del guado: a un certo punto è stato detto loro “aprite”, ma buttandogli addosso tutte le responsabilità”. E poi: “Se prima queste potevano essere opinioni, adesso iniziano ad essere numeri. Sono il primo a dire che non si deve vivere in uno stato di polizia o, comunque, con il terrore continuo. Cerco di fare una vita abbastanza normale, non ho paura di andare al mare o al ristorante, ma era doveroso eliminare tutte le situazioni esageratamente affollabili”. Siccome la coerenza non è virtù comune, ci permettiamo di ricordare che Linus decise, ben prima del lockdown, di annullare la Festa di Radio Deejay prevista il 25 febbraio, quando i politici organizzavano aperitivi.

Discoring, part II. Pentimento lento di Elettra Lamborghini che dopo le polemiche per una sua esibizione in un locale di Gallipoli, ha deciso di cancellare tutti i concerti “vista la situazione Covid… riconosco che non è il momento”. Meglio tardi che mai, dai.

 

Israele. I ministri rabbini contro Gamzu, lo zar anti-Covid

Israele non riesce a contenere il dilagare della pandemia del Coronavirus. Nonostante i suoi ospedali di eccellenza, il coinvolgimento di strutture altamente efficienti – anche se come lo Shin Bet o l’Home Front Command, sono nate per altre esigente legate alla sicurezza e alla minaccia militare esterna – le sue tecnologie e le sue App per il controllo della popolazione, i contagi aumentano così come le vittime. Numeri spaventosi per un piccolo Paese come Israele. Il governo e il suo “eterno” premier Benjamin Netanyahu non sembrano in grado di affrontare i pericoli della seconda ondata della pandemia, già approdata in Terra Santa. Sono i ministri espressione dei tre partiti religiosi – senza i quali Netanyahu non avrebbe la maggioranza – a guidare la fronda contro lo zar per la lotta al virus, il professor Ronni Gamzu. Le sue proposte per contenere la pandemia sono state ancora una volta bocciate dal Gabinetto. L’obiettivo del suo piano è ridurre il tasso di infezione a 400 nuovi casi al giorno in quattro settimane. Se il tasso di infezione non verrà rallentato entro il 10 settembre, nuove restrizioni potrebbero entrare in vigore durante il mese delle festività ebraiche a partire da Rosh Hashanah, il 18 settembre, fino all’11 ottobre, dopo la festa di Sukkot.

La normativa proposta prevede, nelle aree “rosse” con alti tassi di infezione, un limite massimo di 500 metri dalla propria abitazione; limitare le riunioni ai familiari stretti; chiudere il sistema educativo e anche la maggior parte del trasporto pubblico.

In altre zone la chiusura di centri commerciali, mercati, ristoranti, eventi e spettacoli. Misure che sono viste dai rabbini come un attacco alla religione, una bestemmia insopportabile. Ecco perché i ministri ultra-ortodossi Aryeh Deri e Yaakov Litzman si oppongono nettamente al piano del professor Gamzu. Porre un limite ai festeggiamenti del “Natale ebraico” – senza le preghiere collettive nelle sinagoghe, i riti dello Yom Kippur, le cene collettive, le visite ai parenti – sarebbero un attentato allo Stato. E il premier al momento tace.

 

Spiriti mafiosi. Tutt’altro che “meridionale”, la storia di un potere antico quanto il mondo

“Chi sono dunque i mafiosi?” Si domanda Federico Varese, professore di Criminologia a Oxford e autore del nuovo e sorprendente testo Vita di Mafia, (in Italia edito da Einaudi). Perché sorprendente? Perché date le credenziali (giovane, accademico noto e ammirato) sarebbe naturale attendersi un ponderoso e documentato saggio. Varese invece si è confrontato con la vita di mafia e con la domanda “chi sono i mafiosi?” Come avrebbero fatto Dickens o il Mario Puzo del “Padrino”: scegliere fatti, gruppi, famiglie, individui, per andarli a incontrare di persona. In modo da poter narrare invece che argomentare temi e problemi. Questo modo, unico, finora, di affrontare un vasto fenomeno sociologico e storico, ma anche accurata e intelligente esplorazione di comportamenti e di vita interiore, conduce i lettori a fare la conoscenza profonda, da vicino e da dentro. Ma subisce una ulteriore dilatazione che ci rivela molto della personalità dell’autore. Aggiunge il senso della storia e si muove nel lungo orizzonte della cultura. La mafia, nell’ampia ricerca e riflessione di Varese non può essere liquidata come una variabile criminale. È un volto della storia umana in cui l’associarsi per certi fini e certi scopi acquista la complessità e persino la dignità di molti altri comportamenti umani come il governo, la guerra, la colonizzazione e la ricerca di trattati. L’esercizio del potere non toglie nulla alla rivelazione e alla condanna, ma aggiunge molto – in un faccia a faccia senza precedenti tra il lettore e la materia, non solo alla conoscenza e alla esperienza (si è già detto, ogni parte del libro è vissuto come esperienza dell’autore) ma anche alle dimensioni molto grandi e tutt’altro che locali, tutt’altro che “tipicamente italiani” e tutt’altro che “tipicamente meridionali”. In questo libro il fenomeno mafia appare nella sua vastità internazionale, nella sua potenza virale di reagire, riapparire, ricominciare, senza alcuna dipendenza dalla efficacia di iniziative o azioni di polizia e di governo. È esente da ogni vaccino di civiltà. Sopravvive o torna a sopravvivere con una straordinaria capacità di rigenerarsi. Federico Varese va in Sicilia e a Hong Kong, nel Nord disinfettato e nel mondo postsovietico infetto. Si muove fra Paesi con una economia del futuro, e la mafia bene organizzata della povertà estrema.

Il suoi capitoli (dall’amore alla morte, dalla ricchezza possesso alla gestione della ricchezza, dalla immagine di se stessi al rapporto con la politica) sono un grande pannello ricco di materiale di prima mano (non citazione ma esperienza dell’autore) che diventa una grande e inedita narrazione, un “patchwork” di personaggi e racconti. Diventa il romanzo (il solo romanzo che ha per protagonisti personaggi veri e documenti veri) della mafia nella sua essenza e nei suoi protagonisti. Non stupisce, alla fine la dedica insolita e bella che si trova all’inizio del libro: (pag. 23) : “A Claudio Varese e Giorgio Bassani che mi hanno insegnato che la cultura è l’antitesi dell’ingiustizia. Gli anni che stiamo vivendo ci fanno tornare alla mente l’Italia del fascismo e delle leggi razziali che essi hanno vissuto. Il coraggio intellettuale e civile che mostrarono allora vale per l’oggi e non possiamo permetterci di dimenticarlo”,

Vita di Mafia Federico Varese – Pagine: 264 – Prezzo: 19 – Editore: Einaudi

Scaramanzie. Ingraziarsi la sorte in scena: va bene adeguarsi, ma attenti a crederci

Mai vestirsi di viola nei pressi d’un palcoscenico o nelle vicinanze dei teatranti, colore quaresimale che sanciva la chiusura dei teatri e proibiva l’espressione degli artisti; mai canticchiare quella canzone o citare quell’autore disgraziato, oppure dimenticarsi di appendere il porta fortuna allo specchio del camerino, o peggio che mai, non battere il copione caduto a terra accidentalmente per tre volte. Un mio collega dalle mani molli batteva a terra di tutto, pacchetti di sigarette, merende pomeridiane, assegni scoperti, qualunque cosa cadesse lui la sbatteva. Una volta è caduto lui e scherzando per sbattersi tre volte a terra sì è procurato una frattura del coccige. Ma anche dire “ Merda” in ogni momento a ricordo dell’abbondanza di carrozze e cavalli davanti ai teatri. Una variante sul tema è il tastamento reciproco dei sederi poco prima del sipario, con l’aggiunta per alcuni dello sputazzo sui legni del retropalco e l’auspicio irriguardoso di estendere a dismisura il didietro anche del pubblico…” Glie famo un cu…grosso così”. C’è anche il toccamento delle parti intime, proprie e altrui. Insomma quella di chi fa teatro è una tribù primitiva che esagera in gesti e riti scaramantici degni dell’altissimo medioevo. Ma non tanto per ingraziarsi la Fortuna, dea imperscrutabile, quanto per allontanare la cattiva sorte. Ci credo? Diciamo che mi adeguo, per abitudine più che per convinzione. Del resto lo sappiamo “ Non è vero ma ci credo” famosa commedia di De Filippo, la dice lunga. C’è un fatto che però mi rende furibonda. Quando la mala sorte viene identificata con qualcuno, donna o uomo. Ho visto carriere finite, vite schiantate, gente suicidata per questo. Il destinatario della “patente di sfiga”, è per lo più ignaro di ciò che lo marchia e quando se ne accorge o lo viene a sapere spesso è troppo tardi. A volte non bastano neanche il talento smisurato e la forza del carattere per uscirne. Io sto accanto a ognuno di loro.

 

 

L’ultima partita di Silvio: salvare Mediaset dal futuro

Come farà Mediaset a uscire dall’angolo? Una parte della risposta è arrivata nientemeno che da Silvio Berlusconi. “L’idea di un polo televisivo europeo rimane con assoluta determinazione nell’orizzonte di Mediaset”, ha detto Sua Emittenza in un’intervista ferragostana al Giornale di famiglia, chiarendo che gli incidenti di percorso non cambiano la strada segnata per Cologno Monzese, vale a dire uscire dal provincialismo nazionale. Come? Unendo le attività italiane ed estere in un’unica società internazionale in grado di competere per dimensioni con la concorrenza.

L’impresa, però, è meno facile del previsto specie ora che il Biscione naviga in acque infestate di guai. Forse non è un caso che nella stessa intervista ci siano parole distensive, il fu Caimano usa parole gentili verso il governo. A Mediaset manca solo un governo ostile, d’altronde, mentre è assediata dai francesi di Vivendi che hanno trovato sponda in Spagna. E in patria, con lo sviluppo della banda larga, si stanno materializzando nuove forme di concorrenza nella raccolta pubblicitaria. Il tempo stringe, perché i conti di Cologno – pure quelli preCovid – mostrano che tempo da perdere non ce n’è più.

Liberarsi di Vivendi sarebbe stata la manna. Il gruppo francese che 4 anni fa avrebbe dovuto togliere le castagne dal fuoco a Mediaset, diventando un affidabile socio e partner industriale, si è rivelato l’esatto opposto: l’alleanza è saltata, il socio ha provato senza successo a scalzare i Berlusconi e non ha tolto il disturbo. Anzi, con una mano cosparge l’Europa di cause per bloccare i piani di crescita di Cologno, come avvenuto con successo in Spagna nei giorni scorsi. Con l’altra si difende dal contenzioso miliardario intentatogli da Mediaset per il mancato perfezionamento degli accordi del 2016.

Resta il fatto che la via europea è l’unica possibile per il gruppo tv, che ora deve fare i conti con la brusca frenata al progetto messo in campo da Fedele Confalonieri. Su impulso dei francesi, il tribunale di Madrid ha confermato la sospensione della delibera di fusione di Mediaset Espana in MediaForEurope, il contenitore che rappresentava “il primo step verso una più ampia integrazione paneuropea”. Così il piano del Biscione per aggregare gli asset italiani e spagnoli nella nuova holding olandese è bloccato e con lui le nozze previste per il 2 ottobre.

B. non si da per vinto, ma è stato un brutto colpo. A peggiorare la situazione, c’è il fatto che mentre Mediaset si è rimessa al lavoro per trovare strade alternative, il governo ha iniziato a stringere sulla creazione di una società unica della rete digitale che annulli la concorrenza tra Telecom e Open Fiber, fondendo le reciproche infrastrutture. Che c’entra con Canale 5? Si chiederà il lettore. C’entra in molti modi: intanto tra i protagonisti della partita c’è la solita Vivendi, che è socia anche di Tim e quindi ha modo di mettere pressione sul governo. E poi internet più veloce per tutti vuol dire anche più “tv via internet” e dunque più soggetti a spartirsi l’attuale non astronomico mercato pubblicitario.

Non è un caso che da un anno il titolo Mediaset perda quota (ormai vale poco meno di 2 miliardi) e la controllante Fininvest nel 2019 abbia registrato un calo dei ricavi di gruppo del 12,3% a 3,88 miliardi. “Una flessione da attribuire in gran parte al venir meno per Mediaset dei ricavi pubblicitari legati ad alcuni eventi sportivi (Mondiali di calcio) e allacessazione dell’attività di pay-tv”, ha spiegato la holding. Niente che abbia impedito a Fininvest, che non vive di sola Mediaset e ha chiuso l’anno con 220 milioni di utili, di staccare dividendi per 84,2 milioni. Tuttavia in assenza di una decisa sterzata il futuro non appare roseo. Lo sanno bene in azienda: “Lo scenario macroeconomico in cui si è svolto l’esercizio 2019 ha molte delle criticità già emerse negli anni precedenti, evidenziando soprattutto un calo dei consumi che ha penalizzato in modo particolare il settore dei media e i ricavi pubblicitari. E questo in attesa dei risultati 2020, in cui si avrà sui conti l’effetto della pandemia di cui non è ancora “possibile stimare con precisione l’evoluzione”. Per ora si sa solo che nel primo trimestre Mediaset ha visto il fatturato calare del 5% e i profitti dimezzarsi a 14,6 milioni.

La sentenza spagnola lascia ora Mediaset in un pericoloso limbo, tanto più che la pace con Vivendi – necessaria – non pare alle viste. Dice Berlusconi: “Abbiamo subito un torto che in tutte le sedi giudiziarie ci verrà sicuramente riconosciuto (la richiesta è 3 miliardi, ndr). Di un eventuale progetto industriale futuro si potrà parlare solo quando ci verranno riconosciuti e risarciti i gravi danni che abbiamo subito. Chi parla di pace senza risolvere prima questo punto è fuori dalla realtà”. Formalmente Vincent Bolloré ha teso una mano all’ex amico, ma fonti parigine spiegano che non c’è alcuna intenzione di scucire un euro. Anzi.

“Milano è ‘città aperta’: il modello messo in crisi dal Covid ora va salvato”

È il notaio dell’alta finanza che ha visto quasi tutto: presidente del patto di sindacato di Mediobanca, membro del cda di Bpm e Generali, vicepresidente di Saipem, diversi incarichi in Rcs. Ma soprattutto Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione Corriere della Sera, è nato e vissuto a Milano: per questo lo abbiamo interpellato nel cuore dell’estate che prelude a un autunno incerto per la città e per l’Italia tutta.

Professore, si dice che il “modello Milano” ha perso: è vero?

Bisogna mettersi d’accordo su cosa s’intende per “modello Milano”. Se pensiamo a una città aperta, che accoglie, che stimola, allora dobbiamo ammettere che la crisi Covid ha per forza segnato una battuta d’arresto per Milano. Ho condiviso molto di quel che dice Beppe Sala nel suo pamphlet uscito per Einaudi, che s’intitola Società per azioni nel senso di una società e di una città fondate sulle infinite risorse delle persone che vi partecipano. Qualunque cosa accada sul piano della pandemia si dovrà fare di tutto perché quel modello che promuove l’accoglienza, la convivenza e la valorizzazione delle diversità non vada perduto. E quindi lotta alla povertà educativa, difesa del lavoro, inclusione delle periferie… Se dovessero continuare le misure di distanziamento bisognerà trovare il modo di non perdere di vista le priorità che ho appena elencato.

Molti sono preoccupati dalle ricadute di un protrarsi dello smart working, sia in termini di diritti dei lavoratori che di impatto su città come Milano, che è un grande hub di servizi.

Accanto allo smart working metto anche l’insegnamento a distanza: entrambi sono stati utili nell’emergenza, ma non possono diventare la regola. Non credo che possano rappresentare il futuro, anzi intravedo pericoli che vanno oltre la pur preoccupante ipotesi di desertificazione urbana in zone come CityLife o Porta Nuova. A mio parere il problema è l’organizzazione del lavoro. Qualcuno grida ai furbetti che hanno approfittato dello smart working per lavorare di meno; non dimentichiamo però che questo assetto può dare il destro per precarizzare e svilire ancora di più il lavoro dei dipendenti. Vedo il pericolo dell’offuscamento dei diritti sotto forma di contratti di consulenza. C’è poi una questione culturale: non credo che si possa chiamare società quella formata da singoli che lavorano nella solitudine delle loro case. Temo rigurgiti d’individualismo, separazione, incomunicabilità e l’ulteriore affievolimento della coscienza collettiva: un terreno fertile per nazionalismi e populismi. La scuola a distanza, aggiungo, forma persone con questo abito mentale, oltre ad acuire disuguaglianze sociali già allarmanti.

Sua figlia è docente di malattie infettive: anche la sanità lombarda è finita nel mirino.

Milano ha alcune eccellenze che però non possono sostituirsi alla sanità di base: è qui il problema. Durante le fasi acute della pandemia i medici di famiglia lavoravano senza protezioni, la medicina di base è andata in tilt in molte zone non solo della Lombardia. Il lavoro enorme che c’è da fare riguarda la riorganizzazione dei presidi sul territorio: sono stupito che non ci sia ancora un grande piano, noto e condiviso del governo per la riforma sanitaria. I soldi del Mes, che sono utilizzabili per la sanità, andrebbero presi al volo.

Che pensa dei parlamentari che hanno preso il bonus e degli imprenditori che hanno approfittato della Cig pur non avendone bisogno?

L’utilizzo indebito dei contributi messi in campo per l’emergenza è la punta dell’iceberg della mentalità della scorciatoia. Non vorrei passare per moralista, ma basta pensare alla diffusa, cronica e indegna, evasione fiscale. Questi comportamenti non portano solo discredito morale verso i responsabili , ma anche un danno di reputazione all’intero Paese.

L’introduzione della fiscalità di vantaggio per il Sud nel “dl Agosto” è stata letta da alcuni come un siluro al Nord. È d’accordo?

Non in termini così radicali. Però un qualche sentimento ostile al Nord, durante i mesi bui dell’emergenza, si è avvertito. Una politica per il Sud è necessaria e non da oggi, ma non può ridursi allo strumento fiscale, utile ma non sufficiente. Esiste anche una “questione del Nord”. Così, ad esempio, si deve sostenere il tessuto delle piccole-medie imprese, architrave della nostra economia e che si trova in gran parte al Nord: le reazioni politiche e sociali a un sentimento di abbandono possono portare a conseguenze gravi.

Che pensa della polemica sul prestito garantito dallo Stato a Fca, impresa americana con domicilio fiscale a Londra e sede legale ad Amsterdam?

Non ho nulla in contrario, a patto che facciano investimenti, tutelando l’occupazione e la produzione nel nostro Paese, che non può essere considerato una mucca da mungere senza dare niente in cambio.

Ultima: lei ha votato contro la vendita della sede del Corriere di via Solferino, che oggi è al centro di un contezioso giudiziario tra Rcs e il fondo Blackstone che ha acquistato l’immobile.

L’ho sempre rivendicato: la vendita della sede a mio avviso avrebbe recato un pregiudizio, anche d’immagine, al gruppo. Non conosco le carte dell’arbitrato e dunque non azzardo pronostici. Mi limito ad augurarmi che il Corriere riesca a mantenere il livello di un’informazione approfondita e seria a servizio dei lettori. In questi tempi di chiusura – anche metaforica – è più che mai fondamentale.

Perché il Libano è in default: la corruzione c’entra ben poco

Un tempo, prima della guerra civile, era “la Svizzera del Medioriente”: un’isola di stabilità e ricchezza in una regione martoriata dai conflitti interni. Il Libano non è più da decenni il Paese in cui il jet-set internazionale e le stelle del cinema andavano ad assaporare il lato meridionale della “dolce vita” e ora l’esplosione al porto di Beirut ha distrutto uno dei motori più importanti della già malandata economia libanese: è già partita la corsa più o meno interessata a fornire aiuti internazionali, con la Francia in prima linea. Ma gli aiuti esteri non basteranno a risollevare il Libano, mentre le piazze – come da mesi – sono piene di gente che protesta, in larga parte contro una politica corrotta e clientelare.

Crollo del prodotto e disoccupati ovunque

L’economia del piccolo Paese mediorientale si sta sgretolando. Le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale vedono un Pil in calo del 13,8% nel 2020. L’inflazione è al 17% e metà della popolazione è sotto la linea di povertà. I dati sulla disoccupazione sono disastrosi: secondo le stime del Financial Times ben un libanese su tre è senza lavoro.

E non è finita qui. La lira libanese ha perso l’80% del suo valore da ottobre e ha costretto la banca centrale a sussidiare le importazioni di beni di prima necessità usando le riserve di valuta estera per evitare una crisi umanitaria. La svalutazione ha reso più costosi i beni stranieri, che costituiscono gran parte dei consumi locali. La bilancia commerciale (la differenza fra esportazioni e importazioni) negli ultimi anni è stata sempre in profondo rosso: nel 2019 il saldo negativo era pari quasi a un quarto del Pil.

Tradotto: l’economia libanese non è capace di creare un settore industriale forte e di produrre beni appetibili sui mercati esteri. Negli ultimi anni il Libano ha cercato di ovviare a questa debolezza affidandosi ancor più che in passato a turismo e servizi finanziari, entrambi in grande difficoltà in questo momento.

Il debito è altissimo e al 33% in dollari

E poi c’è il debito pubblico: è uno dei più alti al mondo, pari al 175% del Pil e in aumento. Il problema principale del Libano, però, non è tanto la dimensione del debito pubblico, quanto che per un terzo sia denominato in dollari (secondo le stime precedenti alla svalutazione). In soldi, fanno circa 30 miliardi di dollari: pochi per i nostri standard, un macigno per un piccolo Paese che non produce abbastanza ricchezza. Ovviamente lo Stato libanese non può stampare valuta estera: a marzo, perciò, il governo si è trovato costretto a dichiarare default su questa parte del debito, innescando una serie di trattative per la sua ristrutturazione.

Come si è arrivati a questa situazione? La risposta più comune in questi giorni è che gran parte della colpa è dello Stato. Senz’altro il settore pubblico, disfunzionale e ostaggio di una politica settaria, è parte del problema. I leader dei vari gruppi etnici e religiosi hanno “catturato” le istituzioni, istituendo un sistema basato sul clientelismo e sulla corruzione. Tuttavia, è errato sostenere che lo Stato abbia un peso eccessivo nell’economia. La spesa pubblica libanese è infatti pari al 29% del Pil, non molto superiore alla media del mondo arabo (26%) e a quella mondiale (27%). Ma soprattutto è nettamente inferiore ai valori che si registrano in Europa, se pensiamo che la media dell’Ue è del 36%. Il problema, semmai, è stata l’assenza di investimenti pubblici e di una politica economica degni di questo nome. Come sostiene il professor Ramzi Mabsout dell’American University di Beirut, “negli ultimi vent’anni l’unica cosa che abbiamo fatto è stata tamponare i problemi, da una crisi all’altra”.

Mille errori, uno fondamentale

Altri fattori che contribuiscono alla crisi sono le grandi disuguaglianze, l’evasione e l’elusione fiscale e lo stato disastroso delle infrastrutture. La mancanza di trasparenza e di una giustizia indipendente di certo non incoraggiano l’attività economica, mentre la continua tendenza a cercare di costruire governi di unità nazionale impedisce il corretto funzionamento del sistema politico.

Tuttavia, la radice del problema economico è altrove, nella dollarizzazione dell’economia. Per anni il sistema bancario libanese ha offerto sui depositi tassi di interesse altissimi (sull’ordine del 15-20%), attraendo ingenti flussi di dollari dall’estero. Questi soldi non sono stati investiti nell’economia reale, bensì sono stati re-immessi nel circuito finanziario per sostenere il tasso di cambio fisso fra lira libanese e dollaro.

Un tasso molto sopravvalutato per l’economia locale, che ha avuto due effetti. Il primo è stato garantire alla popolazione importazioni a basso costo e permettere ampi deficit commerciali. Ma ogni medaglia ha due facce: la valuta troppo forte ha danneggiato l’industria locale, penalizzando la sua competitività sui mercati internazionali.

Le rimesse degli emigrati per pagare beni importati

Il sistema si è potuto reggere a lungo perché l’economia libanese esporta persone per importare dollari. Come sottolinea il professor Mabsout, le prestigiose università del Libano immettono sul mercato giovani preparati e competenti, che però non trovano lavoro in patria e sono costretti a emigrare. Basti pensare che all’estero vivono più libanesi che nei confini nazionali e che le rimesse ammontavano nel 2017 al 13% del Pil.

I libanesi producono all’estero e mandano dollari in patria, che servono a sostenere i consumi locali. Ma a essere acquistati sono in buona parte beni stranieri e ciò porta a un sempre maggiore indebitamento estero. Mantenere l’economia sottosviluppata in realtà la teneva in vita, perché faceva emigrare persone che avrebbero mandato dollari in patria. Una situazione insostenibile nel lungo termine, uno schema Ponzi di cui buona parte della popolazione ha beneficiato finché sono continuati ad affluire dollari. Ma prima o poi il cambio sopravvalutato sarebbe dovuto collassare: lo ha fatto a ottobre, quando sono finiti i dollari con cui era tenuto artificiosamente alto.

La crisi è di ottobre 2019: i controlli sui capitali

Le banche hanno perciò introdotto controlli informali ai movimenti di capitali e limiti ai prelievi. Gran parte dei depositi bancari dei libanesi è in dollari, ma questi dollari in realtà non esistono più. Si può prelevare solo in moneta locale, ormai svalutata: è lì che sono nate le proteste di piazza che durano ancora oggi.

Secondo il professor Mabsout, “ognuno è colpevole e coinvolto nella crisi”. Il funzionamento dell’economia è da ripensare completamente, fuori dai vecchi schemi di finanziarizzazione e assegnando un ruolo nuovo allo Stato.

Il signor Pil non vuol crescere: basta mediare, la politica scelga

Il signor Pil da anni non vuol crescere. Risente di una malattia chiamata depressione psico-sociale e di un’economia smarrita. Si deduce in particolare dal bassissimo livello occupazionale: nel 2019 lavorava il 59% della popolazione compresa tra i 14 e 65, ovvero il 39% della popolazione totale. Pochi paesi occidentali fanno peggio di noi. Le cause economiche vanno cercate principalmente nella bassa domanda interna e nella bassa produttività.

È noto il rimedio keynesiano per contrastare la bassa domanda interna: incrementare la spesa in consumi e investimenti, promossa dallo Stato. Gli effetti variano però molto a seconda del tipo di spesa, cognizione che non sembrerebbe percepita da un governo che insiste su opere civili poco adatte a promuovere occupazione e produttività, soprattutto nel breve/medio periodo. È noto che per sostenere la produttività, ossia il futuro dei giovani, si devono riformare le istituzioni obsolete, promuovere la formazione, il progresso tecnologico e le innovazioni. C’è più politica nelle riforme che in Keynes. Il successo delle riforme presuppone il coinvolgimento di contrastanti interessi e una saggia, per quanto complessa, mediazione tra crescita di produttività e occupazione, che sono di per sé obiettivi che tendono a confliggere.

Si ripete da decenni che le barocche procedure della Pubblica amministrazione, le lentezze della giustizia civile e amministrativa, oltre che la confusione legislativa del Parlamento, frenano l’ammodernamento dell’economia. Non sorprende che non si facciano passi in avanti: gli interessi di pochi e la logica del Gattopardo impediscono quello di cui tutti noi abbiamo bisogno, ossia uno Stato adeguato ai nostri tempi. Si ripete da decenni che si deve spendere di più in formazione, ma oggi s’intende con questo l’aumento del numero dei docenti o cambiare i banchi. Ci vuole ben altro: motivare, formare e aggiornare gli insegnanti, rinnovare i modelli d’insegnamento e programmi scolastici, offrendo anche competenze socio-economiche, e finanziare programmi di ricerca aperti alla competizione internazionale. È però ingenuo attendersi vere riforme stante l’inconsistenza dei ministeri responsabili e il generale e cinico disinteresse della politica.

Politicamente meno complessa dovrebbe essere la promozione del progresso tecnologico e delle innovazioni. Vi è generale consenso sulla necessità di elevare l’attuale bassissimo livello di informatizzazione, investendo nella rete nazionale di fibra ottica e nella formazione. Qui è utile l’intervento pubblico diretto. Ha invece meno senso pensare allo Stato quale motore del progresso tecnico. Mariana Mazzucato suggerisce di seguire l’esempio virtuoso degli Stati Uniti, ma lo Stato italiano non è mai stato un committente di qualità. Vi sono strumenti più appropriati. L’esperienza del Progetto 4.0 e quella passata del Progetto Italia 2013 è stata positiva: introdurre forti incentivi fiscali per gli investimenti tecnologici orientati su specifici obiettivi, come l’automazione, la green economy, i beni culturali, la salute. Questi investimenti, che il sistema delle imprese è in grado di fare, promuovono la produttività, ma incentivano anche la domanda interna, se attuate con la dovuta sollecitudine.

Più difficile è sciogliere il nodo aggrovigliato della bassa produttività dei servizi, che sono stati in passato il “rifugio occupazionale”. Una maggiore produttività, grazie all’aggiornamento tecnologico, mette in discussione questo ruolo. Esperienze storiche passate, indicano però con chiarezza che la soluzione del dilemma non sta nel frenare la produttività, unica via per sostenere la crescita e per aiutare seriamente le future generazioni. Una risposta potrebbe essere l’apertura di nuovi scenari geografici per gli investimenti, mediante il potenziamento di grandi distretti di servizi, oggigiorno potenti motori di crescita ovunque. Lo sono soprattutto le città, del Nord e potenzialmente del Sud, sempre dimenticate dalla politica nazionale: lo slogan “smart city” dovrebbe diventare il principale programma nazionale, valido anche in una prospettiva post Covid-19 di maggiore decentramento. E questo slogan oggi non coincide necessariamente con contesti ad alta densità: la Silicon Valley è una regione a densità bassa, ma fortemente interconnessa, cioè con un mercato del lavoro altamente qualificato ma soprattutto unitario.

È dunque possibile uscire da questa particolare forma di depressione, ma è necessario fare scelte precise e condivise. Il ruolo della politica non è solo quello di mediare, ma anche di guardare avanti, come fecero con successo i padri del “miracolo italiano”.

Sanatoria flop. Solo 30mila le regolarizzazioni nei campi, mai pubblicato il decreto sui costi

Passato Ferragosto, il bilancio di fine stagione dice che i raccolti estivi sono stati salvati, frutta e verdura non sono mancate e non c’è stata una crisi alimentare. Catastrofe evitata, ma non grazie alla sanatoria dei braccianti stranieri introdotta nel decreto Rilancio e presentata come salvifica da una commossa ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova.

Sono state appena 30 mila le emersioni in agricoltura e hanno riguardato prevalentemente albanesi, marocchini e indiani. Le aspettative erano ben altre dato che, nella narrazione padronale, la carenza di manodopera – causata dal Covid – raggiungeva i 300 mila. Unica categoria a beneficiare della regolarizzazione è quella di colf e badanti, con 176 mila domande. La maggioranza delle imprese agricole l’ha ignorata. Gli invisibili dei campi, che vivono nei ghetti fatiscenti, lavorano per tre euro l’ora spesso sotto caporalato, sono rimasti tali anche se la norma era stata pensata per loro. Diversi i motivi del flop. Il più clamoroso: non è mai stato pubblicato il decreto ministeriale per quantificare i costi della sanatoria per i datori. La legge parlava di 500 euro come somma forfettaria e di una cifra aggiuntiva “a titolo retributivo, contributivo e fiscale” che doveva essere indicata con un provvedimento dei ministeri di Lavoro, Economia, Agricoltura e Interno. Approvato in Consiglio dei ministri l’8 luglio – già in ritardo con la finestra per la sanatoria partita il 1° giugno – è passato agli organi di controllo, dove si è arenato. Il 15 agosto sono scaduti i termini, ma il decreto ancora non c’era. Le imprese non sapevano quanto sarebbe costata l’emersione; quelle che l’hanno chiesta hanno fatto un salto nel buio. Per il lavoro domestico era più semplice fare i calcoli, meno nell’agricoltura. La possibilità di regolarizzare i lavoratori in nero è stato un regalo a metà per le aziende e un’illusione per i lavoratori.

“I numeri – dice Jean René Bilongo, presidente dell’osservatorio Placido Rizzotto (Flai Cgil) – non ci soddisfano. Speravamo almeno 160 mila emersioni, 30 mila è un fiasco di cui è responsabile la sciatteria delle istituzioni e dei datori di lavoro. La verità è che non era la stangata a preoccupare, il lavoro nero conviene a tutti”. Questa è la seconda ragione del fallimento: le imprese mal sopportano non solo i costi connessi strettamente alla sanatoria, ma anche quelli legati ai contratti di lavoro regolari da applicare, in un settore in cui il nero raggiunge il 36% del lavoro subordinato (dato Istat).

Oltre ai 30 mila emersi “grazie” ai datori di lavoro, ci sono quasi 13 mila stranieri – prevalentemente richiedenti asilo – che hanno presentato autonomamente la domanda per un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. L’unico sistema che non richiedeva l’intercessione delle aziende, ma che rischia di tramutarsi in un’illusione: terminati i sei mesi, chi non avrà trovato un posto tornerà irregolare. A garantire le raccolte è stato pure questa volta un esercito di irregolari. Una manodopera che non manca mai, nonostante le lamentele delle imprese agricole che, con l’obbligo di quarantena per chi proviene da Romania e Bulgaria, hanno già lanciato un nuovo allarme per la vendemmia. Una nuova scusa per chiedere il ritorno dei voucher in agricoltura.