“Clearview AI”: tutti schedati dall’hacker estremista nero

Venerdì 14 agosto Tech Inquiry, una ONG che denuncia gli abusi in campo tecnologico, ha rivelato che il software di riconoscimento facciale più liberticida mai progettato, immaginato dalla destra americana più radicale, è stato adottato dai servizi di immigrazione americani: un contratto da 224 mila dollari, per la durata di un anno, è stato firmato il 12 agosto scorso tra il Dipartimento della sicurezza interna per conto dell’Immigration and Customs Enforcement e la società Clearview AI. Eppure, dopo rivelazioni del New York Times del 18 gennaio, in cui si accusava la società di violare le regole dei social network per recuperare le foto degli utenti, Clearview AI sembrava navigare in cattive acque. Il dispositivo che la società ha messo a punto è di una semplicità sconcertante: basta scattare la foto di una persona con lo smartphone e l’app Clearview AI cerca le corrispondenze nel suo gigantesco database.

Le immagini trovate vengono visualizzate sul telefono con i link dei siti da cui sono state raccolte. In questo modo è possibile conoscere in pochi secondi il nome di una persona che si incrocia per strada e ottenere tutte le informazioni disponibili su di lei online. L’efficacia di Clearview AI risiede nel suo algoritmo estremamente potente e nella sua immensa banca di immagini, ottenuta indicizzando illegalmente tutte le foto postate dagli utenti di Facebook, Twitter, YouTube o LinkedIn. Con circa 3 miliardi di immagini, il database di Clearview AI è sette volte più grande di quello dell’FBI e cresce proporzionalmente al numero di utenti dei social: appena si scatta una foto, questa viene caricata sui server di Clearview AI. Il primo cliente ufficiale di Clearview AI è stata la polizia dello Stato dell’Indiana nel febbraio 2019. Al suo primo utilizzo, la app aveva permesso di risolvere in soli venti minuti il caso di un litigio scoppiato tra due uomini in un parcheggio, durante il quale uno dei due era rimasto ferito. Dal video dell’alterco postato da un passante sul web, è stato possibile caricare la foto del sospetto nel software, che ha subito trovato una corrispondenza: un video pubblicato su un social in cui apparivano il volto e il nome del sospetto. Hoan Ton-That, fondatore di Clearview AI, aveva assicurato in un primo tempo che il suo software sarebbe stato riservato “esclusivamente alle forze dell’ordine statunitensi e canadesi”. Ma a febbraio degli hacker sono riusciti a entrare nei server di Clearview AI e a trovare la lista completa dei suoi clienti. Essa include i nomi di “2.200 servizi di polizia, agenzie governative e società private in 27 paesi”, ha spiegato il sito BuzzFeed, che ha potuto consultare l’elenco. Vi figurano l’Immigration and Customs Enforcement e la Customs and Border Protection, la polizia di frontiera, ma anche 200 aziende, grandi magazzini come Macy’s, casinò, teatri, banche, scuole, membri dell’FBI, Interpol e “centinaia di dipartimenti di polizia locale”. Queste rivelazioni hanno valso a Clearview AI una valanga di denunce negli Stati Uniti, ma anche in Australia, nel Regno Unito e in Francia. L’azienda mantiene una certa opacità sulle sue attività e sulle sue origini. Il 7 aprile, l’Huffington Post ha pubblicato una lunga inchiesta. Il fondatore di Clearview AI, Hoan Ton-That, 31 anni, è un hacker cresciuto in Australia e poi stabilitosi a San Francisco nel 2007. Nel 2009 ha fatto parlare di sé per aver sviluppato un virus informatico destinato a recuperare gli username degli utenti Gmail.

Non è mai stato condannato. Secondo l’Huffington Post, Hoan Ton-That fa parte del movimento neo-reazionario “Nrx”, chiamato anche “Dark Enlightenment”. Un “gruppuscolo geek dell’estrema destra razzista e misogina presente nei circoli libertari della Silicon Valley da più di dieci anni”, spiega il giornale online. Sin dal 2015 Hoan Ton-That ha cominciato a collaborare con alcune figure note dell’”alt-right” statunitense in vista dell’elezione di Donald Trump, tra cui il complottista Mike Cernovich, l’hacker neonazista Andrew Auernheimer e il fondatore del sito web WeSearchr, Charles C. Johnson, coinvolto nella diffusione di numerose fake news su Twitter e bandito dal social dal 2015. Secondo l’Huffington Post, Charles C. Johnson avrebbe partecipato attivamente alla creazione di Clearview AI. La sera del ballottaggio delle elezioni presidenziali Usa, l’8 novembre 2016, Johnson, Hoan Ton-That e il suprematista bianco Pax Dickinson erano insieme a New York per celebrare la vittoria di Trump. La loro presenza era stata confermata dal quotidiano britannico The Sun che aveva pubblicato una foto poi ripresa sul profilo Facebook di Jonhson con il commento: “I miei associati sono sul Sun”. Il 20 gennaio 2017, lo stesso Johnson aveva postato sempre su Facebook un messaggio in cui affermava di “lavorare su algoritmi per identificare i migranti illegali per le squadre di deportazione”. Era il periodo in cui nasceva Smartcheckr, la prima versione del software di riconoscimento facciale poi battezzato Clearview AI. Diverse personalità del movimento “neo reazionario” e membri del gruppo Wesearchr hanno lavorato per Clearview AI fino a tempi recenti. Tra loro Marko Jukic, autore di testi razzisti, antisemiti e sessisti. Durante l’inchiesta dell’Huffington Post, Clearview AI ha cercato di separarsi dei collaboratori più scomodi. La vicinanza con l’”alt-right” ha permesso a Hoan Ton-That di stringere legami anche con personalità un po’ meno controverse, come Richard Schwartz, un consigliere dell’ex sindaco di New York incontrato nel 2016 al Manhattan Institute, un think tank conservatore. Schwartz è diventato un socio ufficiale di Hoan Ton-That e risulta co-fondatore di Clearview AI. Il progetto ha ottenuto anche il sostegno del potente miliardario Peter Thiel, co-fondatore di PayPal e della società di sorveglianza Palantir, membro del consiglio di amministrazione di Facebook e vicino a Trump, che ha investito nella società 200 mila dollari. Malgrado tutti questi sostegni, Clearview AI ha faticato a trovare il suo mercato. Il 6 marzo, il New York Times ha scritto che nel 2018, per sondare potenziali clienti, la società ha distribuito degli accessi gratuiti a uomini d’affari e personalità. Per alcuni mesi Clearview AI è stato “un giocattolo segreto per ricchi”, una sorta di gadget high-tech di cui i membri della jet-set potevano vantarsi ai cocktail.

Nel settembre 2019, l’attore (e investitore) Ashton Kutcher, che ha interpretato Steve Jobs al cinema, ha affermato di avere “un’applicazione sul telefonino per il riconoscimento facciale. Basta metterla davanti alla faccia di una persona – aveva detto – e si può sapere esattamente chi è. È terrificante”. Il miliardario, proprietario della catena di negozi Gristedes, John Catsimatidis, amico di Richard Schwartz, ha raccontato di aver potuto verificare l’identità del nuovo fidanzato di sua figlia per “assicurarsi che non fosse un ciarlatano”. L’uomo d’affari ha poi firmato un contratto per attrezzare i suoi negozi. La firma del contratto tra Clearview AI e i servizi d’immigrazione è un sogno che si avvera per gli hacker neo-reazionari. Come speravano, il loro algoritmo sarà utilizzato per “identificare i migranti illegali”. Resta da vedere se le molteplici procedure giudiziarie avviate contro la società potranno bloccarne l’attività. Hoan Ton-That non sembra pronto a mollare. Su CBS, il 5 febbraio, ha spiegato che le foto sono pubbliche e che il diritto di usarle rientra nel primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce la libertà di espressione. Secondo il Wall Street Journal, durante l’epidemia di Covid-19, Clearview AI ha continuato a offrire i suoi servizi alle agenzie governative per proporre soluzioni di tracciamento dei pazienti. L’azienda si prepara a contrattaccare sul piano giudiziario: l’11 agosto, Clearview AI ha annunciato di aver ingaggiato il prestigioso studio di Floyd Abrams, famoso avvocato specializzato in casi legati al primo emendamento.

 

Politica o letteratura? “Petrolio” rinnova l’enigma

Il virus Pasolini contagia ancora gli amici che lo hanno conosciuto e che non si rassegnano al mistero di quell’atroce fine, cercando di svelare anche la complessità del suo corpus poetico. Si avvicina a grandi passi il centenario della nascita di quel grande, che cade nel 2022 e tanti amici e non si preparano a celebrarlo fin d’ora. Questa estate ho potuto leggere due dei lavori in corso, destinati a far discutere anche il pubblico dei social, dove non è mai stato dimenticato. È in arrivo la prossima primavera per Garzanti una nuova edizione di Petrolio voluta fortemente da Walter Siti, amico di Pasolini fin da quando era studente universitario ed esimio curatore dei Meridiani pasoliniani. Sarà un’edizione illustrata dalle foto di Dino Pedriali dell’autore nudo nella torre di Chia, forse prevista, con l’aggiunta di prose scartate dalla prima edizione einaudiana. La postfazione è intitolata “Non doveva finire così” e inizia con l’analisi dei saggi di Carla Benedetti e Giovanni Giovanneti. Frocio e basta, dove si sostiene polemicamente che Petrolio è un romanzo politico sul Potere, e di Emanuele Trevi che invece in Qualcosa di scritto lo vede come un romanzo “d’iniziazione”.

Siti dichiara che hanno ragione entrambi e aggiunge note inedite sia per l’ipotesi dell’assassinio dovuto alle scoperte pasoliniane sulla morte di Enrico Mattei e su Eugenio Cefis, suo successore all’Eni, sia all’idea di Trevi che si tratti di un romanzo d’iniziazione. Walter si sofferma sul viaggio a Siracusa dove Carlo, protagonista dell’opera, cerca disperatamente una donna, forse Elsa Morante, alle prese con un bambino sfortunato. Vorrebbe rivelarle un mistero tremendo, tutto italiano, ma Elsa non lo ascolta. Si trattava non del pettegolezzo del figlio nascosto di Elsa, come Nico Orengo adombrò.

Secondo Siti, Pasolini avrebbe scoperto la presunta responsabilità sulla morte di Mattei del democristiano Graziano Verzotto, il quale era salito e subito dopo disceso dall’aereo che esploderà in volo nel 1962, uccidendo Mattei. Verzotto e Cefis, poi, avrebbero avuto a che fare anche con l’assassinio del fratello del linguista De Mauro, Mauro De Mauro, che aveva appena collaborato al Caso Mattei di Rosi.

Il saggio di Trevi è invece “la cronaca in presa diretta di un’iniziazione, una macchia calda di sperma contro la faccia del mondo. Di Cefis dunque non gli importava nulla, se le notizie provenivano da giornali e libri”.

Il secondo “lavoro in corso” che ho potuto leggere è quello di Giorgio Manacorda, che presentò a Pasolini il Cristo del suo Vangelo. È intitolato Pier Paolo poeta e analizza una per una le poesie delle massime raccolte, da quelle friulane che ritiene appartenere al lirismo puro, le cui scaglie ricerca anche nei testi italiani. Il lavoro di Giorgio assomiglia a un thriller e inizia con la morte del fratellino di Pier Paolo, che è visto come un tradimento della madre. Sarà proprio quella morte a fondare la poesia che seguirà, a volte troppo intrisa di estetismo e di decadentismo. A Manacorda non piace la “poesia che pensa”, quella del progetto ideologico, è contro la poesia intellettuale che cancellerà il lirismo originario fino a sotterrarlo in Trasumanar e organizzar. Manacorda è stato in silenzio a lungo sull’amico che pubblicava le sue poesie su Nuovi Argomenti. Commosso dalla sua ansia, un giorno gli presentò uno psicanalista che Giorgio frequentò a lungo. Quando poi divenne assessore alla cultura dell’Università di Cosenza, Pasolini pensò che era colpa dell’analisi. Mentre Siti scrisse romanzi pasoliniani e la famosa introduzione a tutte le poesie raccolte nei Meridiani, litigando con Laura Betti che la considerò una stroncatura, Giorgio si limitò ad approntare una pièce dove sono proprio io a ricordargli la sua intensa amicizia con l’autore di Petrolio.

Per il centenario aggiornerò il mio Pasolini ragazzo a vita, partendo dalle polemiche sulla statua milanese di Montanelli che ha coinvolto ancora una volta i nemici di Pasolini. All’appello della postfazione di Siti mancano: Ordine nuovo, che la Betti credeva responsabile di quell’orrendo assassinio; i suoi amici di sempre, che aveva beneficiato per una vita, diventati feroci delinquenti e presenti quella notte all’Idroscalo, e l’ipotesi di Nico Naldini che ha sempre sostenuto si trattasse di una faccenda tra froci.

Il virus Pasolini ancora contagia molti e non solo italiani. Di sicuro per il centenario e già l’anno prossimo, prepariamoci a leggere un fiume di libri sull’autore di Ragazzi di vita, proprio come per il quarantennale.

“Disastro Bolsonaro, in Brasile pure il popolo della torcida lo rifiuta”

Se c’è qualcuno che continua l’attivismo di “Democracia Corinthiana” in Brasile, è Juka Kfouri. Il popolare commentatore sportivo prosegue oggi il cammino di Socrates, Wladimir, Casagrande e Zenon, i calciatori-simbolo del Corinthians che, negli anni della dittatura militare, hanno osato creare un movimento ideologico e politico nel mondo sportivo brasiliano. Assieme ad altri esponenti del gruppo “Esporte pela democracia”, Kfouri si è esposto firmando una richiesta d’impeachment nei confronti del presidente Bolsonaro.

Il bolsonarismo come raggruppamento politico si è impadronito dell’immagine simbolica della maglia verde-oro della nazionale brasiliana: qual è l’origine di questa associazione?

In realtà si tratta di un fraintendimento. All’inizio quella maglia è stata indossata durante i cortei a favore del- l’impeachment della presidente Rousseff. Tutti hanno una maglia della nazionale in casa, ed era comodo così. Nella testa di queste persone, indossarla, era una maniera per esprimere nazionalismo e lotta contro la corruzione, anche se la gente non rammenta che quella maglia è stata proprio un simbolo della corruzione della Cbf, la Federcalcio brasiliana che ha avuto i suoi ultimi tre presidenti indagati dalla giustizia. La maglia è poi divenuto d’uso comune tra i sostenitori di Bolsonaro.

La tifoseria calcistica è scesa in campo, promuovendo manifestazioni contro il presidente. Possiamo dire che la torcida è contro il presidente?

Sappiamo che oggi la maggioranza dei brasiliani è contro di lui, quindi, anche molti torcedores. Sono state le tifoserie del Corinthians e del Flamengo che si dichiarano antifasciste a organizzare le manifestazioni, altri club non hanno aderito.

Che previsioni fa sul destino politico di Bolsonaro?

Credo che avrebbe dovuto essere da tempo sotto impeachment, poiché il presidente ha commesso tutti i crimini possibili e immaginabili quando il Brasile si accinge a raggiungere la cifra di 100 mila morti per la pandemia. Non ho dubbi che Bolsonaro, un giorno, sarà processato per genocidio da tribunali internazionali; purtroppo bisogna dire che mantiene ancora parte del favore popolare che gli consente di resistere al potere. Inoltre, il mio timore più grande è che i movimenti democratici non sapranno gestire la situazione e potrebbero perdere le presidenziali del 2022.

C’è stato un periodo in cui si temeva persino un golpe…

Ho meno paura oggi che due mesi fa. Credo che l’arresto di Fabricio Queiroz (braccio destro del clan Bolsonaro, ndr) ha disarticolato l’intenzione di Bolsonaro, che aveva iniziato a tenere discorsi di fronte alle caserme, con l’appoggio della polizia militare.

Bolsonaro ha emesso un provvedimento che permette ai club di trattare la vendita della trasmissione televisiva delle loro partite, come principali titolari dei contratti. Lei ha scritto che Bolsonaro distrugge il calcio brasiliano, perché?

Tutte le misure antimonopolio hanno il mio appoggio, a condizione che non siano motivate da obiettivi meschini. Bolsonaro ha emesso questo provvedimento solo per creare un danno a Tv Globo; mi sorprende che il network non abbia percepito che poteva finire nel mirino del presidente. A Tv Globo pensavano di poter mediare con Bolsonaro, ma lui nel frattempo aveva già fatto alleanze con la Tv Record del leader neo pentecostale, Edir Macedo.

Possiamo dire che in una nazione come il Brasile il detto latino di Giovenale panem et circenses – regalie di cibo e giochi allo stadio – continua a essere valido per distrarre la popolazione dai veri problemi del Paese?

Non concordo. Credo che il calcio è fattore più di aggregazione che di alienazione sociale, solo che bisogna sapere come interagire. Difendo fino alla morte il diritto dei calciatori, d’esprimersi politicamente. Quest’opinione che la politica non debba mischiarsi con il calcio è una stupidaggine, anzi è quello che permette la peggiore politica; basti pensare a João Havelange, affermava che la Fifa non era di parte ma andava sottobraccio con i dittatori e ha organizzato la finale del Mondiale a cinquecento metri dall’Esma, la scuola superiore della Marina militare argentina, dove si torturavano gli oppositori al regime militare di Videla.

Dopo gli scandali, è cambiato qualcosa nella federazione brasiliana Cbf e nella Fifa?

Non è cambiato nulla, basta vedere qui in Brasile, dove Rogerio Caboclo, attuale presidente della Cbf, era il braccio destro di Marco Polo Del Nero, l’ex responsabile. E via così. Non ho dubbi, la Fifa è una grande multinazionale dove proseguono episodi di corruzione; e alcuni dei suoi affiliati riproducono gli schemi già visti.

Pace, guerra, X: il mondo arabo resta alla finestra

A parole tutti si dicono sollevati dal cessate-il-fuoco in Libia annunciato venerdì. Il governo di Tripoli guidato da Farraj al-Sarraj e quello che fa riferimento al Parlamento di Tobruk, che ieri per voce del suo presidente Aguila Saleh si è espresso per un processo costituzionale e nuove elezioni politiche nel prossimo marzo. Se si cercano reazioni sui media arabi e del Medio Oriente, si resta senza grandi risultati. Libya Observer, sito web vicino al governo di Tripoli, fino a ieri aveva un titolo principale esplicito: gli ufficiali di Sarraj non si fidano delle milizie del generale Haftar. Il Jerusalem Post dedica un articolo a ciò che la Turchia potrebbe ottenere dalla pace in Libia. Il profilo Twitter di SMM Libya si limita a rilanciare la soddisfazione dei paesi arabi: sauditi, Emirati, Kuwait, Bahrein. Tutti sono alla finestra: va da sé che parlare di Costituzione in un Paese governato prima da un sovrano inetto come Idris, poi da un dittatore come il colonnello Gheddafi per quasi 40 anni e che dopo la sua morte nel 2011 è precipitato in una disastrosa guerra civile, è come proporre a chi sa appena leggere di iscriversi alla facoltà di ingegneria.

Manca poi un tassello fondamentale. Il generale Khalifa Haftar, 77 anni, già sodale del raìs Gheddafi, un tempo collaboratore della Cia è scomparso dai radar. È presto per dire se l’uomo che veniva ricevuto dal presidente egiziano al-Sisi come un “collega”, che telefonava al capo di Stato francese Macron, che veniva visto dalla Russia come un solido alleato, che alla conferenza di Berlino ha sbattuto i pugni sul tavolo facendo fare all’Ue la figura del fesso, abbia compiuto la sua parabola. Certo il fatto che il cessate-il-fuoco sia stato annunciato da Saleh e che l’Egitto si sia subito felicitato per gli sviluppi diplomatici della crisi sono elementi che indicano l’appannarsi della sua stella. Persino il Consiglio di Cooperazione del Golfo, con gli Emirati Arabi Uniti in testa si sono sentiti sollevati dalla dichiarazione di Serraj e Saleh. Gli Emirati hanno speso miliardi di dollari per sostenere Haftar, pagando i 3.000 mercenari sudanesi che combattevano per lui, sistemi missilistici e i droni cinesi per aiutarlo a conquistare Tripoli e sbaragliare così il governo di Sarraj riconosciuto dall’Onu. Nella “guerra per procura” in Libia con lui erano schierati i 1.000 mercenari russi della Wagner e persino il traballante regno di Giordania. Che ancora mantengono un riservato (e imbarazzato) silenzio sugli sviluppi della crisi.

L’emergere come figura del presidente del Parlamento di Tobruk non deve ingannare. Saleh non ha forze militari ma gode di un ampio sostegno tribale nella Libia orientale, dove ha la reputazione di abile uomo politico. I funzionari occidentali e delle Nazioni Unite, tuttavia, hanno accusato Saleh di opportunismo per aver rinnegato troppo spesso le promesse fatte nei precedenti sforzi di pace. Dall’altra parte della guerra Ibrahim Kalin, portavoce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan – che con il suo sostegno militare a Sarraj ha rovesciato l’esito della guerra – ha espresso sostegno al cessate il fuoco. La Turchia ha schierato i propri droni, così come i mercenari prelevati dai campi profughi in Siria e spediti nel deserto libico a sostegno di Tripoli. Il Qatar ci ha messo i suoi petro-dollari. Ankara è intervenuta in Libia a fianco di Sarraj solo dopo aver firmato un accordo marittimo con il governo di Tripoli che rafforza la sua rivendicazione dei diritti di perforazione nel Mediterraneo orientale. Così come la Russia che ha inviato i mercenari di Wagner, dopo un accordo con Haftar per avere una base militare navale sulla lunga costa libica. Se pace sarà, i negoziati saranno guidati anche dai complessi interessi degli sponsor stranieri della guerra.

Navalny rischia ancora, i medici: dobbiamo fare ancora analisi

Le foto del suo corpo racchiuso nello scafandro bianco, in partenza dalla Siberia. Poi quelle del suo volto coperto dalla mascherina chirurgica blu, dopo essere atterrato a Berlino. Sono le ultime immagini di Aleksej Navalny che circolano sui quotidiani russi e tedeschi, che in coro informano che “il paziente” ha raggiunto l’Europa. Dopo l’approvazione per l’evacuazione dal reparto di terapia intensiva di Omsk, firmata dal dottore Anatoly Kalinichenko, l’oppositore del Cremlino è atterrato in Germania nella notte, due giorni fa, per essere curato nell’ospedale Charite, una clinica “di prima classe, dove verrà seguito al meglio”.

“È stabile ed è una buona notizia, ma non c’è niente da festeggiare, la sua condizione rimane molto preoccupante” ha comunicato lo sloveno Jaka Bizilj, a capo dell’organizzazione Cinema for Peace, che si è occupato del volo e dell’organizzazione del trasporto di Navalny dalla Siberia alla Capitale tedesca in elicottero. I dottori “sono stati molto chiari: se Aleksej non fosse atterrato a Omsk sarebbe morto”. In attesa di nuove diagnosi dopo accurate analisi, – che i camici bianchi tedeschi non promettono brevi –, le prime informazioni riferiscono che si tratterà di “un lungo ricovero”. Il blogger dissidente si trovava in Siberia per un tour di supporto ai suoi candidati indipendenti che sfidano alle urne parlamentari, previste a settembre, gli uomini di Russia Unita, il partito del presidente Vladimir Putin, e ha avuto un malore dopo essere decollato da Tomsk, lo scorso 20 agosto.

Dopo essere tornata ad accusare il Cremlino di aver atteso abbastanza a lungo da far sparire le tracce di veleno che Navalny avrebbe ingerito insieme al tè al bar Vienna dell’aeroporto della città siberiana, la portavoce del blogger anti-corruzione Kira Yarmysh ha chiosato su Twitter: “La lotta tra la vita e la morte di Aleksej sta solo cominciando, c’è molto ancora da superare ma il primo passo è stato fatto”.

“Stop a Lukashenko, non a Putin”

“Preferiamo non comunicare la nostra posizione per ragioni di sicurezza”: lo dicono in coro gli Tsepkalo, marito e moglie, coppia di oppositori in esilio scappata dal tentato arresto della polizia del presidente Aleksandr Lukashenko. Ora si sono riuniti dopo la fuga. Parlano forse da Mosca, dove è fuggita Veronika dopo le elezioni del 9 agosto scorso. O forse rispondono da Kiev, dove era fino a pochi giorni fa Valery. Lei è una delle tre “fidanzate combattenti” di cui si è innamorata la stampa internazionale; suo marito, ex ambasciatore bielorusso in Usa, è un imprenditore che sogna di rendere Minsk la nuova Silicon Valley.

“In tutta Europa il dittatore ormai è persona non grata, non è più un leader legittimo, lo dimostrano le sanzioni. Farà la fine dei dittatori sudamericani, potrebbe scappare in Venezuela da Maduro, suo grande amico”. I due vogliono tornare in patria: i loro figli, che per brevi attimi appaiono mentre i genitori parlano di geopolitica su Zoom, chiedono ogni mattina la data di ritorno a Minsk, la città dove Lukashenko ha oscurato il web e ha ordinato la chiusura delle fabbriche che rispondono all’appello di Svetlana Tikhanovskaya. La sfidante ha invitato i suoi concittadini, – da Vilnius, Lituania, dove si è rifugiata –, a prolungare proteste e scioperi e a partecipare alla grande marcia che si terrà oggi nella Capitale.

Come tutti gli altri candidati dell’opposizione gli Tsepkalo non hanno ancora un programma politico preciso da presentare: “Non c’è ancora motivo di farlo, tutti i nostri sforzi sono concentrati nel cacciare Lukashenko”. Svetlana è la presidente legittima fino a nuove elezioni, ma “non vogliamo Maidan nel nostro Paese, non desideriamo uno scenario alla Kiev: l’Ucraina era divisa tra est e ovest anche prima della guerra, quando andava al voto. Invece in Bielorussia non c’è differenza nelle varie regioni, siamo un Paese unito”.

“Guardate la nostra bandiera: è quella che si usava nella nostra nazione prima dell’Unione Sovietica, non ci sono simboli di altri Paesi”. La coppia in lotta contro il presidente d’epoca sovietica sogna neutralità per la patria: “Possiamo essere uno Stato che mette in comunicazione Mosca e l’Europa, sarà meglio per l’Ue se saremo una democrazia. Ma la Bielorussia, una piccola nazione tra est e ovest, rimarrà indipendente, non entrerà nella Nato”. Con le proteste russe in corso a Khabarovsk – o le manifestazioni di massa a Mosca della scorsa estate, scoppiate quando il Cremlino fu accusato di manipolare le elezioni – i due ribadiscono che non ci sono da tracciare paralleli: “In Russia la presidenza di Putin è stata comunque spezzata da quella di Medvedev, Lukashenko è al potere da 26 anni da solo”. Ribadendo che Mosca è un “alleato chiave che giocherà un ruolo cruciale nella storia del loro Paese”, gli Tsepkalo promettono due cose: lavoreranno per creare la “Nuova Bielorussia”, un Paese che sarà “amico di tutti gli Stati suoi vicini”.

Sono nata sulle punte

Totò, modestamente, principe della risata lo nacque; e senza falsa modestia, paragoni, giustificazioni, magari il buon rifugio del “se lo dicono gli altri”, anche Alessandra Ferri individua nei geni la grazia della sua vita: “Da sempre penso solo alla danza. Da sempre. (Abbassa leggermente il tono) Io sono nata ballerina e quando da bambina arrivava l’estate, aspettavo sotto l’ombrellone la fine dei giorni di vacanza per poter tornare a indossare le scarpette e ritrovarmi sulle punte”.

E così già ragazzina entra alla Scala; già adolescente lascia Milano per la Royal Ballet School di Londra; già diciannovenne diventa prima ballerina; già 22enne si trasferisce all’American Ballet Theatre di New York, sotto il consiglio di sua divinità Mikhail Baryshnikov.

È tutto un già.

Anche quando parla sembra tutto semplice, naturale, senza trucco dentro e fuori (“li utilizzo solo in scena, altrimenti preferisco stare senza”); quando parla preferisce guardare negli occhi l’interlocutore, danzare con chi ha davanti, capire se il partner dell’occasione è affidabile o meno, quindi rifiuta il semplice telefono anche se vive a Londra (“Almeno in video…”), altrimenti non è a suo agio.

Come va in Inghilterra?

Sono tornata da poco, prima stavo a Milano; comunque qui è strano, c’è una grossa differenza, prendono tutto alla leggera, le persone non vivono la nostra paura.

Mentre in Italia…

Sono arrivata il 20 marzo nel pieno dell’incubo, e attrezzata: vista l’incertezza sul prossimo futuro, avevo imbarcato la sbarra, solo che me l’hanno persa e poi ritrovata. Meno male.

Quante ore si allena al giorno?

In casa almeno due ore, due ore e mezza; poi da giugno ho avuto accesso a una sala di danza, e per fortuna sono riuscita a mantenermi, soprattutto sul piano mentale.

Cosa temeva?

Di perdere la motivazione quotidiana: quando ti annullano la stagione, e non mi era mai successo, è faticoso trovare i giusti stimoli.

Ci vuole disciplina…

Per me è una passione, non un lavoro; (cambia tono) il talento è composto da vari tasselli, come la predisposizione fisica e psicologica, o l’umiltà davanti al proprio talento, per mantenere lo “strumento” accordato.

Quindi?

La disciplina ci vuole, ferrea, come la capacità di focalizzarsi, però rientra all’interno della passione, senza pensare solo al risultato finale, che è lo spettacolo.

Quotidianità…

È un rapporto che sviluppi con te stessa; è estremamente difficile ballare la danza classica, non molti si rendono conto delle difficoltà, e forse l’unico metro per spiegare quanto è impervio il percorso, è l’età: è fondamentale iniziare da giovanissimi.

E…

Quando sono entrata alla Scala avevo dieci anni e all’audizione siamo passati in dodici su duecento, e appena in due siamo arrivati in compagnia; (sorride) poi per raggiungere il mio livello parliamo di una scrematura su migliaia di ballerini. (Pausa) Chi arriva è perché vive la passione per la danza non per lo spettacolo.

A quindici anni ci vuole carattere per lasciare la Scala…

È vero, e non è stato facilissimo, soprattutto lasciare la mia famiglia, ma ho seguito il mio sogno; già d’allora e anche dopo, non mi sono mai fermata a uno stadio, mai adagiata.

I suoi amici?

Erano tutti nell’ambito della danza, sono cresciuta dentro la Scala.

A 10 anni, oltre a danzare, cosa?

(Sorride) Non ho hobby; se uno ha una passione così grande, diventa la tua vita: quando me ne distacco, soffro, sto male, sento sacrificata un’enorme parte di me.

Sì, ma a 10 anni?

Volevo ballare, le mie energie erano su quello: quando chiudeva la scuola e seguivo mia mamma a Milano Marittima, non ne potevo più, stavo sul lettino e immaginavo balletti.

La sua prima coreografia.

A 3 o 4 anni mamma metteva i dischi, Giulietta e Romeo o Il lago dei cigni, e io ballavo sotto a un tavolo, creavo delle storie, magari diventavo la principessa; quando si parla di destino e indole, è vero: sono nata con un qualche cosa dentro, da sempre, non ho mai voluto impegnarmi in altro e la mia famiglia non era neanche particolarmente interessata alla danza o al teatro.

Però a un certo punto ha smesso.

E per tanto tempo mi sono chiesta “come mai?”.

Risposta?

Tanti motivi: un po’ ero stanca, il mio corpo sentiva il bisogno di uno stop, e in quegli anni non mi sono mai allenata.

Mai?

Per me ballare è qualcosa che trascende, non perché mi piace muovermi, ma come assoluta esigenza interiore; danzare in casa diventa deprimente, un livello amatoriale che non mi appartiene, e ho ceduto solo in questi mesi per il Covid; (ci pensa e sorride) mi correggo: anni fa ho ballato in casa con le mie figlie, ma erano piccole, oggi mi manderebbero a quel paese.

Ha sperato seguissero la sua strada?

No, assolutamente. Ripeto: o hai la passione e devi farlo, sei costretto, o meglio evitare, non le avrei volute come saltimbanchi.

Secondo alcuni i talent hanno permesso ai ragazzi di avvicinarsi alla danza, per altri l’hanno svilita…

Sono vere entrambe le tesi: è reale il coinvolgimento di tanti giovani, ma la danza è un’arte molto raffinata, e non basta sapersi muovere; (resta in silenzio) in inglese distinguono tra entertainment e art, e questi programmi puntano solo sull’intrattenimento, per me è arte e va celebrata solo in un tempio, che è il teatro, e in un certo modo e a un certo livello.

Primo articolo della Costituzione secondo Alessandra Ferri.

Il rispetto; (ci pensa) l’uguaglianza e il rispetto.

Litiga mai?

Raramente, molto raramente: non mi piace, mi spaventa.

Tra odio e indifferenza?

L’odio lo tengo lontano, preferisco osservare e prendere le distanze.

Per molti attori il palco allevia o annulla ogni dolore fisico e mentale.

Ho visto artisti malati di Parkinson salire su quelle assi e per un’ora annullare il tremolio. Si trascende. (Sorride, lieve) Ho una caviglia che mi dà molti problemi, mancano due legamenti e la cartilagine, e i fisioterapisti si stupiscono anche solo nel vedermi camminare.

Oltre i limiti.

Adesso per il Covid non si potrà più ballare se c’è la febbre, ma veramente ho assistito a delle magie, con ballerini doloranti, malati, anche solo raffreddati, salire sul palco e non sentire altro che l’arte pervadere le loro emozioni.

Ha danzato con Baryshnikov.

Misha è stato per me un grandissimo maestro, il più grande al mondo, e ho toccato con gli occhi la sua serietà, cosa si aspettava da se stesso, la perfezione; quando l’ho conosciuto io avevo 21 anni e lui 36…

Ed era bellissimo.

Lo è tuttora, poi è affascinante; guardando lui ho compreso che non basta il solo talento.

L’ha stupita quando è diventato una star della serie tv “Sex and the city”?

No, perché era già una star di Hollywood, aveva girato Due vite, una svolta, era inserito in quella dimensione; lui è sempre stato così.

Lei nella New York anni ’80, così giovane.

Non mi sono trovata subito bene, provenivo da una situazione molto protetta come quella londinese, dove ci conoscevamo tutti sin da quando eravamo ragazzi; quando sono arrivata negli Stati Uniti, sia la città che la compagnia, erano porti di mare, un caos pazzesco, con colleghi che provenivano da ogni lembo del pianeta.

Altra filosofia.

Per loro c’era un’idea di selezione naturale: chi è bravo regge, lo spettacolo poteva andare bene o male, senza alcuna seconda chance.

Scuola dura.

Durissima, e pure New York adottava la stessa filosofia: la gente viveva solo per lavorare, per riuscire, per raggiungere il proprio obiettivo, era più importante sopravvivere che vivere.

E lei?

È stato più duro il passaggio da Londra a New York che da Milano a Londra, e nonostante l’età; (cambia tono) e poi, a quel tempo, la Grande Mela era pericolosa, specialmente dove era la sede della compagnia.

Ha mai rischiato di perdersi?

Verso i 23 o 24 anni ho cominciato a sentire la pressione rispetto alle attese; da me si aspettavano sempre qualcosa di speciale e ho iniziato a perdere la consapevolezza.

Quale consapevolezza?

Che devo ballare perché è una mia esigenza, e non per la carriera o gli altri. Ed è stato pericoloso, andare in scena era diventato angosciante, non credevo possibile soddisfare le attese di tutti e mi sono sentita sola.

Come l’ha superato?

Molto mi ha aiutato l’incontro con Fabrizio (Ferri, celebre fotografo e suo ex marito); la nostra unione, le nostre figlie, mi hanno permesso di liberarmi degli altri.

Come ha vissuto la gravidanza?

È stato interessante perché ho una padronanza incredibile del mio corpo, sono in grado di comandare qualsiasi muscolo, anche il più piccolo e nascosto; invece in quel momento mi era impossibile. Comunque è il post-gravidanza la fase più dura per una ballerina.

Cosa c’è sempre nella sua valigia?

Le scarpette da punta, senza mi sento persa.

Un personaggio letterario che ama.

Carmen e per la sua indipendenza, pure davanti la morte.

Legge l’oroscopo?

Non più, me ne sono liberata: preferisco credere di potermi creare la quotidianità.

Un vizio.

Sono un po’ pigra; se non ballo, posso stare ore in casa a bere tè e leggere.

Scaramanzia.

Davanti al gatto nero mi fermo sempre, e pure le scale, non ci passo sotto; mentre a teatro non lo sono, altrimenti è un inferno.

Lei chi è?

Una donna autentica nella sua forza e fragilità, e voglio essere entrambe.

(Canta Fiorella Mannoia in “Quello che le donne non dicono”: “Siamo così, dolcemente complicate, sempre più emozionate, delicate…”)

 

Dall’Inter fino ad Allegri: tutti appesi all’“io” di Conte

“Devo pensare alla mia famiglia”. I comizi di Antonio Conte sono torrenziali, si piace così, gli piacciono così. Il tocco al focolare, però, mancava: retaggio probabile di lettere minatorie, di atmosfere noir. Rimane la sindrome del “Padreternismo”: colpa nostra. Abbiamo trasformato gli allenatori in entità talmente superiori da declassare i giocatori al rango di burattini. Romelu Lukaku si mangia il gol del 3-2 e confeziona l’autorete del 2-3? Farina del mister, sempre e comunque: nel caso specifico, se mai, ha avuto il torto di ritardare i cambi che la pandemia aveva moltiplicato, come i pani e i pesci del vangelo, da tre a cinque. Conte. L’Inter. L’Europa League tornata, per la sesta volta, al Siviglia degli scarti, Ever Banega ex Inter e Suso ex Milan. Eppure il bilancio proprio da buttare non è: bocciatura in Champions, semifinalista di Coppa Italia, secondo posto in campionato, finalista in Europa League. I cinesi di Suning versano ad Antonio 12 milioni netti l’anno: scadenza, fra due stagioni. Nessun dubbio che si tratti di un signor tecnico. Non certo di un tecnico signore. L’Inter si fa rimontare a Dortmund, nel girone di Champions, e lui comincia: “Mi avevano promesso determinate cose, mi ero fidato, ho sbagliato; non posso pretendere la luna da ragazzi che arrivano da Cagliari (Nicolò Barella) o Sassuolo (Stefano Sensi)”. Sognava Arturo Vidal, Edin Dzeko. Gli hanno dato Christian Eriksen. Sconfitto da Maurizio Sarri sia a San Siro sia allo Stadium, tirò una riga: “Il campo non mente, Juventus ancora di un altro pianeta”. Ma il record l’ha battuto la notte di Bergamo, dopo la lezione inflitta ai “dentisti” dell’Atalanta. Ultima di campionato: se non c’era nulla da celebrare, c’era poco da censurare. Invece: “Questi 82 punti sono solo miei e del gruppo. Qualcuno è salito sul carro e non doveva”. I bersagli? La società, il mercato, le talpe che tramano, film già visti all’epoca di Luciano Spalletti. Nomi, meno di zero. Con Beppe Marotta, fra parentesi, aveva lavorato alla Juventus. Steven Zhang lo affronterà martedì. Non ne può più. Di licenziarlo non se ne parla: mica fesso. Pace, dimissioni o transazione. Marotta tiene in caldo Massimiliano Allegri, come nel 2014, quando il salentino aveva piantato la squadra all’alba del ritiro. Distratto ai tempi del ciclone scommesse di Bari e Siena. Bravo nel domare le ruggini del lockdown. Apriscatole. Rompiscatole. Un’ira di “io”.

Gli imboscati

Ogni tanto, ciclicamente, Maria Etruria Boschi comunica a un pubblico sempre più esiguo e disinteressato che suo padre è stato assolto da tutto. Poi frigna perché nessuno chiede scusa. L’ha ridetto l’altroieri dopo l’archiviazione del babbo Pier Luigi in uno dei vari filoni d’indagine aperti dalla Procura di Arezzo sul crac di Banca Etruria, di cui il genitore fu consigliere d’amministrazione e vicepresidente. “Chissà –ha trillato la spensierata deputata italoviva– dove sono coloro che in questi anni ci hanno insultato, offeso, minacciato… La verità è più forte del fango”. A darle manforte, la meglio stampa di destra: Sallusti chiama “vigliacchi” i presunti persecutori dei Boschi; Libero vaneggia di “torture inflitte alla famiglia Boschi”; il Foglio se la prende col Fatto per “l’indegna gogna”. Ora, è noto che i destronzi e i renziani hanno della verità un concetto piuttosto elastico. Ma non dovrebbero abusare della smemoratezza della gente, perché qualcuno che ricorda bene e non ci casca è rimasto.

Intanto il babbo martire resta imputato per bancarotta, rinviato a giudizio il 29 dicembre con altri 13 ex dirigenti per le consulenze milionarie concesse per trovare un partner a Etruria (Pier Luigi ci provò pure col bancarottiere fraudolento Flavio Carboni: il socio ideale). E Bankitalia lo ha già multato per la mala gestione di Etruria, che è ormai un fatto assodato, a prescindere dagli eventuali reati. Dunque non si capisce chi e per cosa dovrebbe scusarsi con i Boschi, visto che le polemiche sul caso non riguardavano aspetti penali (gestiti fra l’altro da un procuratore che era consulente del governo Renzi-Boschi e fu poi cacciato dal Csm per questo). Ma – per il padre – il disastro gestionale e – per la figlia – il conflitto d’interessi, che lei negò alla Camera nel dibattito sulla mozione di sfiducia, smentendo sdegnata di essersi mai occupata della banca paterna. Poi purtroppo in Commissione Banche vari testimoni la sbugiardarono, raccontando che da ministra delle Pari Opportunità e Riforme, senz’alcuna delega finanziaria, si era occupata forsennatamente di Etruria (e non degli altri istituti decotti). Cioè aveva incontrato il vicedirettore di Bankitalia, Panetta; il presidente di Consob, Vegas; il n. 2 di Unicredit, Ghizzoni; e aveva partecipato a un vertice con il padre, il presidente di Etruria, Fornasari, e l’ad di Veneto Banca, Consoli. Quindi, se c’è qualcuno che deve scusarsi per qualcosa, sono proprio i due Boschi. Lui per avere così ben gestito la banca che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori (uno si suicidò). Lei per le panzane che raccontò al Parlamento e continua a raccontare ai cittadini. In ottima compagnia.

Salvini è rimasto al 2019: vuol dare ordini alla Polizia

“No, adesso mi incazzo, non voglio un poliziotto in spiaggia, capito!”. Il volto di Matteo Salvini è tirato e nervoso mentre si rivolge alla sua security, convinto di avere la meglio. Siamo sulla terrazza dello stabilimento balneare Picchio Beach di Falconara Marittima, il Papeete delle Marche trasformato in bolgia da stadio dal leader della Lega in un sabato agostano rovente. L’ordine viene ripetuto un paio di volte ma non sortisce gli effetti sperati. Il servizio d’ordine, gestito da un funzionario esperto e molto capace della questura di Ancona, Luigi Di Clemente, non arretra di un centimetro e le misure restano ferree: nessuno si deve ammassare sotto il palco e tanto meno provare il blitz sulla terrazza.

Sembra passata un’era geologica dai tempi in cui Salvini gestiva con disinvoltura i rapporti con le forze di polizia, indossando felpe griffate o facendo fare un giro in moto d’acqua con gli agenti a suo figlio. A quel tempo Salvini si trovava dall’altra parte della barricata. Ora le chiavi del Ministero dell’Interno sono nelle mani di un ex prefetto, Luciana Lamorgese, che certo non avrà gradito – pur non rilasciando alcun commento – l’atteggiamento del suo predecessore.

Perché dopo che il servizio d’ordine organizzato dalla questura di Ancona si è rifiutato di allontanarsi, il leader della Lega ha reso ufficiale il suo pensiero via microfono: “È roba da matti, per motivi di sicurezza hanno transennato la spiaggia e fanno sbarcare migliaia di clandestini balordi. Ringrazio le forze dell’ordine, ma non c’è bisogno di loro per tenere a bada due figli di papà che rompono le scatole. Invito la polizia ad andare ad occuparsi di cose più serie che due sfighè”. L’applauso al termine del proclama è fragoroso e Salvini sente il profumo della vittoria: “Nelle Marche l’aria è buona, il 20 e 21 settembre si va a vincere, perché la sinistra ha distrutto la sanità, chiuso gli ospedali e i punti nascita” poi però elogia il governatore uscente, Luca Ceriscioli: “Ha fatto bene ad attivare il Covid Hospital di Civitanova Marche, meglio prevenire e avere posti in terapia intensiva qualora la situazione sfugga di mano”, memore del flop in fotocopia del centro sanitario eretto da Guido Bertolaso e dai Cavalieri di Malta alla Fiera di Milano.

Per lui l’emergenza Covid-19 non esiste. Anche a quasi mille contagi quotidiani resta dello stesso avviso: “I contagiati di oggi non sono persone ammalate, la potenza del virus oggi non è la stessa di marzo, lo dicono i medici, lo dice la scienza. Tutto questo non giustifica il terrore e la paura diffusi dal governo. Prorogare l’emergenza non ha senso”. Infine l’accenno a una delle sue figure di riferimento, Steve Bannon, finito nei guai per una vicenda legata ai fondi per la costruzione del muro anti-migranti in Messico: “Bannon mi considera uno dei politici migliori al mondo assieme a Bolsonaro? Lo ringrazio. Non conosco il suo caso giudiziario, ho già tanti problemi io con la giustizia”.