L’amica di Minetti ad Arcore. Da Tiki Taka all’agenda di B.

Guerre tra bande, liti fratricide nell’ex cerchio magico berlusconiano (tutti contro Licia Ronzulli) e il caos sui territori dove molti coordinamenti regionali si stanno ribellando ai vertici sulla composizione delle liste. La crisi di Forza Italia e del berlusconismo non riguarda solo i consensi – ormai risicati – ma anche un pesante clima da tutti contro tutti. Tant’è che Silvio Berlusconi, stanco delle diatribe interne e di farsi tirare per la giacchetta dai suoi fedelissimi, avrebbe deciso una mossa a sorpresa che rimanda ai periodi d’oro delle feste eleganti di Arcore e del partito al 30%: nominare l’ex igienista dentale e showgirl Giorgia Venturini come sua assistente personale al posto di Ronzulli, ormai diventata il bersaglio principale dei big forzisti.

Venturini è nota nel mondo Mediaset per la sua stretta amicizia con un’altra igienista dentale, croce e delizia dell’ex Cavaliere: Nicole Minetti. Le due si conoscono da una vita proprio per aver fatto la stessa professione ma poi Venturini ha fatto il grande salto che non è mai riuscito, anche per ragioni giudiziarie, all’amica Nicole: la carriera in Mediaset. Da un anno e mezzo è commentatrice fissa insieme alla moglie di Mauro Icardi Wanda Nara a Tiki Taka, il programma calcistico del lunedì sera di Pierluigi Pardo, e conduce anche un segmento su “Radio Monte Carlo”, l’emittente della famiglia Berlusconi. La pulce nell’orecchio all’ex Cavaliere l’avrebbe messa Marco Bestetti, coordinatore nazionale dei Giovani di Forza Italia e suo stretto collaboratore, e l’ex premier si è convinto: vorrebbe affidare alla starlette televisiva la gestione della sua agenda personale. “Guardi come siamo ridotti…” sbuffa un esponente di peso di Forza Italia.

Tutto questo mentre in molte zone d’Italia il partito è in preda al caos dopo la presentazione delle liste in vista delle regionali. Su tutte la Toscana dove ieri il coordinamento di Forza Italia si è auto-azzerato dopo le dimissioni di venerdì sera del segretario regionale Stefano Mugnai in protesta contro la decisione calata dall’alto della coppia Tajani-Ronzulli di candidare capolista a Firenze Marco Stella, consigliere regionale che può godere di molti voti nel capoluogo toscano ma che negli ultimi mesi è stato oggetto di veleni interni per i suoi flirt prima con Italia Viva e poi con la Lega di Matteo Salvini. Il passaggio di Stella al Carroccio era a un passo, ma poi i vertici di FI hanno fatto rientrare tutto, candidandolo al primo posto in lista a Firenze. E così ieri hanno lasciato anche il capogruppo a Palazzo Vecchio Jacopo Cellai, il suo vice Mario Tenerani e il capo dei dipartimenti Claudio De Santi. Dinamiche simili stanno avvenendo anche in Trentino dove il coordinatore regionale Giorgio Leonardi (uomo di Tajani) sta facendo fuori molti ex della vecchia guardia tra cui il capogruppo forzista a Trento Cristian Zanetti passato con FdI, in Veneto dove al posto di candidare i consiglieri locali Berlusconi ha deciso di far correre la conduttrice tv Katia Noventa e in Puglia dove è esploso il caso di Michaela Di Donna, cognata del sindaco di Foggia Franco Landella, che è stata fatta fuori dalle liste nonostante il suo bacino di voti. Ora il sindaco potrebbe passare con Salvini e la cognata con la Meloni.

“M5S cresca, da soli non si vince: patto col Pd sui sindaci del 2021”

Il tempo passa, anche per i Cinque Stelle. Così secondo Luigi Di Maio il M5S deve cambiare, ancora: “Attualmente non governiamo in nessuna Regione e abbiamo l’1 per cento dei sindaci. Ma io voglio favorire la nascita di una generazione di amministratori del M5S che sappiano governare anche in coalizione, e allora serve un tavolo nazionale con il Pd per ragionare sulle Comunali del 2021”.

Niente accordo con i dem nelle Marche e in Puglia, nonostante i suoi appelli e quelli del presidente del Consiglio Conte.

Innanzitutto va ricordato che si sono stretti diversi accordi a livello comunale. Io ho lavorato sul mio territorio, ed è arrivata a un’intesa a Pomigliano d’Arco (la cittadina dove Di Maio è cresciuto, ndr). In Puglia e nelle Marche i territori hanno dato una indicazione diversa, che va rispettata, e dico sin d’adesso che farò campagna per i nostri candidati.

Come mai non avete convinto i vostri a ritirarsi? Perché non avete persuaso il Pd a convergere su un terzo nome?

Non credo molto ai candidati terzi. In fondo nelle Marche il Pd non ha ripresentato il governatore uscente, e in Puglia era quanto mai difficile pensare di far ritirare un candidato a ridosso della presentazione della liste. Bisognava muoversi prima, ma se non c’è un coordinamento nazionale è difficile. Non abbiamo mai fatto una proposta complessiva. Andavano proposti candidati 5Stelle sostenuti dagli altri, e candidati degli altri sostenuti da noi.

Un bel fendente al capo politico reggente Crimi.

Niente affatto, Vito ha fatto l’impossibile e il ragionamento riguarda anche me. Anche io da capo politico, quando pensavo a questa tornata di Regionali e amministrative, non vedevo le condizioni sui territori per accordi. Se vogliamo fare un salto non dobbiamo più scandalizzarci se avremo dieci liste a sostegno di un nostro candidato.

Ma nelle Regioni…

Non siamo mai entrati in partita, perché siamo in una fase di transizione. Però in Campania stavamo facendo un’operazione per candidare il ministro dell’Ambiente del M5S, Costa, ma il Pd non ha avuto il coraggio di mettere da parte De Luca.

Ora come si riparte?

Sostenendo i nostri candidati. Ho sempre detto, anche a Michele Emiliano, che in Puglia sarebbe stato complicatissimo fare un accordo, vista anche la posizione in primis della nostra Antonella Laricchia, per cui ho profondo rispetto. Ma il M5S deve crescere. Per le Comunali del prossimo anno serve un ragionamento complessivo sulle città, partendo da Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna.

Nelle Regioni non auspica il voto disgiunto dei vostri?

Ho detto che sosterrò i nostri candidati.

Per il segretario dem Zingaretti Virginia Raggi “è il problema principale” a Roma.

Ho visto che in questi giorni si sta andando contro Raggi e Chiara Appendino, ed è profondamente sbagliato. Le sindache hanno fatto il massimo che potessero fare, mettendo a posto i bilanci e rilanciando le città dopo anni di torpore.

Il Pd chiederà di rimettere in discussione la candidatura di Raggi, mentre pare che Appendino non voglia ripresentarsi…

Non penso che debbano fare un passo indietro, e non mi pare che ci sia una folla di candidati eccelsi pronti a sostituirle. Le persone e le loro capacità contano: uno vale uno, ma uno non vale l’altro

Parlando di accordo per il 2021 auspica un’alleanza strutturale con il Pd, un nuovo centrosinistra. O no?

Non mi interessa parlare di intesa strutturale. Il M5S deve mantenere la propria autonomia al di fuori delle coalizioni tradizionali. Ma c’è una generazione di eletti che ci chiede di fare accordi sui territori, e ci sono sindaci che vanno appoggiati. Modificando la regola sui due mandati abbiamo evitato di sacrificarli. Il modello di governo nazionale va replicato dove è possibile a livello locale. La sera in cui M5S prese il 33 per cento alle Politiche del 2018, pensai subito che gli elettori ci chiedevano di dialogare con altre forze. Lo abbiamo fatto, e ciò ci ha permesso di scegliere come premier Giuseppe Conte, uno dei migliori a livello internazionale nella pandemia.

E se il centrodestra vi offrisse accordi?

Non sarebbe possibile. Matteo Salvini, con cui non parlo dall’anno scorso, ha dimostrato di non essere serio. Basta guardare la sua campagna elettorale, dove viola tutte le regole anti-Covid.

Lei evoca un tavolo nazionale. Ma l’autonomia dei territori non era un vostro pilastro?

Le ricadute dei risultati elettorali ricadono sulle leadership nazionali sia di governo che delle forze politiche. E la prossima leadership del M5S, che io auspico sia collegiale, dovrà innanzitutto fare i conti con le prossime amministrative.

In diversi nel Pd sospettano che lei faccia il doppio gioco sulle alleanze, e che in realtà non le voglia, per affossare Conte.

Ho un rapporto leale con Zingaretti, e mi ha detto di non condividere certi retroscena.

Crimi ha detto che su Bibbiano e i dem forse avevate esagerato. La frase “il Pd è il partito di Bibbiano” è sua, Di Maio.

Non voglio pensare al passato, ma al futuro. La gente non si preoccupa di queste cose, bensì della situazione economica.

Molti nel M5S chiedono che la piattaforma Rousseau passi sotto il controllo del Movimento. Lei?

Su questo deciderà la nuova leadership del M5S. Rousseau deve cambiare in base alle esigenze del Movimento, e seguirà queste decisioni come sempre è stato.

Davide Casaleggio non pare dell’idea.

Rousseau evolverà in base all’evoluzione del Movimento. Il M5S deve decidere cosa fare da grande. Il resto verrà da sé.

Da Bozzi alla Iotti a Renzi: quelli che il taglio era bello

Da decenni il sistema politico e istituzionale italiano riflette su come tagliare il numero dei parlamentari. Eppure, nonostante lo sforzo continuo e reiterato di Bicamerali, singoli schieramenti e gruppi di tecnici, il progetto è sempre fallito. Ora il 20 e 21 settembre si vota il referendum confermativo per di ridurre di circa un terzo il numero dei parlamentari. Alla Camera da 630 a 400 e al Senato da 315 a 200.

Il dibattito è entrato nel vivo: con il fronte del No sono schierati molti costituzionalisti.

Un excursus sui precedenti lo fa Carlo Fusaro (costituzionalista del Sì per Renzi, che dirà Sì anche stavolta) nel suo memorandum. La Commissione Bicamerale Bozzi prevedeva un taglio variabile, da 945 parlamentari a circa 720 (480 Camera, 240 Senato); la seconda Bicamerale (De Mita-Iotti, 1992-1994) ipotizzò un ridimensionamento simile all’attuale (400 Camera, 200 Senato). Ripreso più o meno negli stessi termini dalla terza Bicamerale (la D’Alema: 400-500 deputati e 200 senatori). Nel 2005 il Parlamento, dominato dal centrodestra approvò una riduzione minore, con un totale di 760 componenti (518 + 252), che poi non passò con il referendum. Anche nel 2007, la Commissione Affari costituzionali della Camera ipotizzò una Camera da 512 componenti e un Senato da 186 (la bozza Violante); poi, il Senato nel 2012 varò una riduzione a 758 (Camera 508, Senato 250) senza seguito. Infine, nella penultima legislatura, i saggi di Napolitano suggerirono una Camera da 450- 480 e un Senato da 150/200. Mentre la riforma Renzi (bocciata con il referendum del 2016) prevedeva 630 deputati e 100 senatori di cui 95 eletti fra i consiglieri regionali.

A cosa si devono le alzate di scudi? Emanuele Rossi, professore della Scuola di Sant’Anna che ha curato un volume “Meno parlamentari, più democrazia?”, con le ragioni del sì e del no, scrive nel suo intervento, come nessuna di quelle proposte si limitava al taglio, ma la riduzione si accompagnava “o a una differenziazione delle funzioni tra i due rami del Parlamento oppure a una revisione dei criteri di composizione della seconda Camera”. Dettaglia così Carlo Di Marco, costituzionalista a Teramo: “Questo progetto di revisione costituzionale è avulso dalla visione d’insieme. Gli altri avevano la riduzione dei parlamentari, ma in un quadro complesso e organico. Per quanto fossero anche essi discutibili”.

Qualche esempio: la riforma Bozzi prevedeva una nuova organizzazione del bicameralismo, con la funzione legislativa affidata prevalentemente alla Camera. La Iotti-De Mita – oltre a un’ampia riforma del rapporto Stato-Regioni – prevedeva una forma di governo con investitura del premier direttamente dalle Camere e la sfiducia costruttiva. La Bicamerale di D’Alema ipotizzava l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e un forte cambiamento del Rapporto Stato-Regioni. La riforma Berlusconi aveva vari elementi che collegavano il bicameralismo riformato con il ruolo preminente del governo e un premierato forte. Quella di Renzi interveniva sul bicameralismo perfetto, con un Senato sbandierato per “regionale”. Entrambe cambiavano i criteri dell’elezione al Colle. Da notare che nel 2008 il Pd del Senato presentò un disegno di legge costituzionale con il solo taglio dei parlamentari (a 400 deputati e 200 senatori). Dice Stefano Ceccanti, costituzionalista, deputato dem: “Prima ci sono state riforme più organiche che collegavano riduzione dei parlamentari e riforma del bicameralismo ed erano criticate, secondo me a torto, perché troppo ampie, ora ce n’è una chirurgica, che si limita al solo numero ed alcuni, talora gli stessi, dicono che è troppo poco. Ma lo status quo è indifendibile. Meglio votare sì per aprire la breccia anche ad altre riforme”. Come dire: da qualche parte bisogna cominciare.

35 anni fa Rodotà aveva già capito la crisi democratica

La proposta costituzionale firmata nel 1985 da Stefano Rodotà e Gianni Ferrara fa parte dell’ampio novero delle occasioni perse a sinistra. Già 35 anni fa, infatti, c’era chi aveva colto il problema della mancanza di legittimazione della democrazia parlamentare e già allora proponeva il monocameralismo (soprattutto questo), il referendum propositivo o la riduzione del numero dei parlamentari.

La fase era segnata dalla “Grande riforma” craxiana finalizzata a introdurre il presidenzialismo che, come diceva Bettino Craxi, “può essere considerato una superficiale fuga verso una ipotetica Provvidenza, ma l’immobilismo è ormai diventato dannoso”. Il fedele Giuliano Amato si spingeva oltre e, alla elezione diretta del capo dello Stato, aggiungeva anche il rafforzamento della figura del presidente del Consiglio.

A questa offensiva la Sinistra “indipendente” (parlamentari eletti nelle liste del Pci), presieduta da Rodotà e di cui facevano parte nomi come Andrea Barbato, Franco Bassanini o Vincenzo Visco, opponeva una concezione basata soprattutto sul monocameralismo come passaggio chiave per ribadire “la forma parlamentare di governo”. Soltanto “attraverso un organo unico” era possibile che “la proiezione nell’indirizzo di governo della volontà e degli obiettivi dell’istanza rappresentativa sia diretta, unitaria, effettivamente vincolante”.

La riproposizione “convinta” della soluzione monocamerale era finalizzata, però, soprattutto “alla rilegittimazione democratica delle istituzioni”: “Le istituzioni centrali in Italia – scrivevano Rodotà e compagni – hanno urgente necessità di recuperare una loro autenticità democratica, un’immediatezza espressiva”. Il punto sembra oggi essere eluso dalla sinistra mentre al tempo risentiva molto dell’influenza di Pietro Ingrao il quale per dare “centralità al Parlamento” era convinto che occorresse seguire “la via limpida e ragionevole del monocameralismo e della riduzione del numero dei parlamentari”. Non a caso queste posizioni vengono ricordate oggi dal Centro per la riforma dello Stato (di cui Ingrao è stato presidente) che sul referendum, a sinistra, ha una posizione più articolata.

Quel monocameralismo non c’entrava nulla con le idee di Matteo Renzi e già allora prendeva adeguatamente le distanze da “proposte attraverso cui si tenta di mantenere il bicameralismo fornendogli una giustificazione e una base nuova”. Tipo la Camera delle Regioni o cose analoghe.

Quell’analisi aveva una sua robustezza per cui si poteva permettere di proporre anche il “referendum propositivo”. Lo stesso che, su iniziativa M5S, è stato approvato in prima lettura alla Camera e che costituisce un tassello del pacchetto di riforme istituzionali: “Aprire le istituzioni alla partecipazione popolare, dicevano i giuristi della Sinistra indipendente, è un’esigenza indubbia” che “deve essere raccolta armonizzando al massimo le forme della democrazia rappresentativa con quelle della democrazia diretta”.

La riduzione del numero dei parlamentari appariva scontata, faceva parte di obiettivi “che sembrano quanti mai commendevoli anche al di là del risultato già conseguibile con l’introduzione del sistema monocamerale”. Così si “tende a realizzare una riduzione del numero complessivo dei parlamentari molto consistente (500 deputati in una sola Camera, ndr), molto opportuna e, tuttavia, non tale da precludere la rappresentanza delle forze politiche anche minori”.

Infine, la vera intuizione, animata di garantismo democratico e parlamentare: “La scelta unicamerale, da una parte, la riduzione del numero dei parlamentari, dall’altra, impongono, per ragioni intuibili e confluenti, che i principi e le finalità della rappresentanza parlamentare vengano sanciti in Costituzione”. Così, l’articolo 59 della Costituzione veniva riscritto: “La legge elettorale si ispira ai principi della rappresentanza proporzionale e ne attua le finalità”. Se si volesse dare seriamente seguito alla riduzione dei parlamentari, dopo aver perso 35 anni, si potrebbe ricominciare da qui.

Premiata Fondazione Einaudi: il frittomisto del Fronte del No

Ci sono ex ministri, magistrati e giornalisti. Tutti insieme in nome dei “valori liberali” e, da qualche mese, del No al referendum sul taglio dei parlamentari. Dopo trent’anni di Prima Repubblica come costola – per la verità autonoma – del Partito liberale e dopo altri trenta da pensatoio di destra, la Fondazione Luigi Einaudi è tornata d’improvviso di moda nelle cronache politiche quando lo scorso autunno si è fatta promotrice dei comitati “noiNo” in vista del referendum sulla riduzione del numero degli eletti, intestandosi poi anche la battaglia sulla trasparenza riguardo ai verbali del Comitato tecnico scientifico durante l’emergenza Covid.

Due occasioni di popolarità che meritano un approfondimento su chi guidi, coordini o amministri la Fondazione. Anche perché spulciando nei suoi organi direttivi si trovano parecchi volti noti.

Il presidente è Giuseppe Benedetto, già consigliere e assessore in Abruzzo con Rocco Salini all’inizio degli anni 90. Il suo vice è Davide Giacalone, che sul suo sito si definisce “giornalista, scrittore e saggista” senza però fare giustizia a un passato politico che fa rima con Partito repubblicano e che a un certo punto, da consigliere del ministro delle Poste Oscar Mammì, incrociò la coda lunga di Tangentopoli. Accusato con altri di aver favorito la Fininvest e altre due emittenti col piano frequenze del 1991, Giacalone fu assolto nel filone maggiore dell’inchiesta e prescritto in uno minore, anche se il gup lasciò agli atti il suo legame con Giuseppe Parrella, il tramite per l’imprenditore Remo Toigo: per sbloccare gli appalti al ministero, Parrella si rivolse a Giacalone e questi, “evidenziato che (…) le dazioni di denaro dovevano essere versate a esso quale rappresentante del Pri, si informò sull’entità complessiva delle tangenti in questione, rappresentando l’esigenza di soddisfare anche la Dc e il Psi”. Con gli anni sarebbero arrivate la consulenza in Fininvest, la collaborazione con Libero e la nomina, col governo Berlusconi, a presidente di DigitPa.

Accanto a Giacalone, nel cda di Fondazione Einaudi c’è poi l’ex magistrato Carlo Nordio. Anche lui non è estraneo alla politica: nel 2002 il leghista Roberto Castelli, all’epoca ministro della Giustizia di B., lo chiamò a presiedere una commissione ad hoc per riformare il codice penale. Negli anni 90 era stato Nordio a indagare su due dei più importanti esponenti post-comunisti, ovvero Achille Occhetto e Massimo D’Alema, accusati di presunti illeciti con le coop rosse. Dopo tre anni d’indagine il pm chiese l’archiviazione e nel 2000 il gip dispose la restituzione degli atti alla Procura di Venezia (quella di Nordio) perché li trasmettesse a Roma, competente per l’archiviazione. Il fascicolo fu però dimenticato per 4 anni in un cassetto e a Roma arrivò solo nel 2004, un ritardo che tenne Occhetto e D’Alema inutilmente sulla graticola per anni, tanto che lo Stato dovette risarcirli con 9 mila euro ciascuno.

Curioso è poi il caso di Gippy Rubinetti, altra consigliera della Fondazione. Il suo nome è nelle carte dell’inchiesta sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara perché, come ha raccontato La Verità, nell’aprile 2019 a casa dell’avvocata Rubinetti (non indagata) si ritrovarono a cena lo stesso Palamara, l’ex sottosegretario renziano Cosimo Ferri e il magistrato Luigi Birritteri, a cui l’incontro – stando alle intercettazioni – doveva servire come “sponda” per le proprie ambizioni.

Ma pure il comitato scientifico della Fondazione offre nomi illustri. A partire da Guido Alpa, avvocato pluri-decorato, mentore di Giuseppe Conte. Oltre a professori universitari come Lorenzo Infantino e Dominick Salvatore, c’è l’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata: agli Esteri con Monti, passò poi a Fratelli d’Italia e al Partito Radicale Transnazionale. Nell’area “Giustizia” compare Bartolomeo Romano, eletto al Csm nel 2010 in quota Pdl, cioè Berlusconi. Lo stesso B. che nel 2015 si mise a capo di una cordata per acquistare la Einaudi, sommersa dai debiti, con l’obiettivo di farne un think tank di Forza Italia. “Sarebbe la morte della Fondazione”, sentenziò Roberto Einaudi, il nipote di Luigi. E per sua fortuna, l’affare sfumò.

Il governo chiede a Crisanti un piano per i 300 mila test

Il governo chiede aiuto al professore dei tamponi. A giorni Andrea Crisanti, il direttore della Microbiologia e Virologia dell’università di Padova, manderà a Palazzo Chigi la sua proposta per moltiplicare per quattro i tamponi che si fanno oggi. L’idea nasce dall’interlocuzione con il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, che con Crisanti ha avuto numerosi colloqui, anche per l’ipotesi (poi sfumata) di candidatura del professore alle suppletive per il seggio senatoriale di Verona. Ora la proposta dell’accademico veneto verrà esaminata dal ministro della Salute Roberto Speranza, insieme al premier Giuseppe Conte ed eventualmente dal Comitato tecnico scientifico. Dal gennaio scorso Crisanti, romano, 65 anni, rientrato in Italia dall’Imperial College di Londra, batte sul potenziamento della capacità di individuare i positivi. “La sfida è creare sistema di sorveglianza attiva capillare e omogenea su tutto il territorio, che ci permetta di tornare a lavorare, a votare, ad andare a scuola. Per questo dobbiamo portare la nostra capacità giornaliera di effettuare tamponi dai 70 mila attuali a circa 250-300 mila tamponi al giorno”, ha detto ieri al Fatto Quotidiano. E secondo Crisanti deve farlo il governo: “Serve un piano nazionale di sorveglianza. Questa attività strategica per il nostro Paese non può essere lasciata in balìa delle diverse impostazioni delle Regioni”.

La preoccupazione cresce. I mille contagi al giorno, destinati ad aumentare, non sono un problema in sé finché prevalgono gli asintomatici o i paucisintomatici per lo più individuati con le attività di screening, gli infetti sono sempre più giovani – l’età mediana si avvicina ai 30 anni, circa la metà dei 62 della prima terribile ondata – e non c’è segno di sovraccarico degli ospedali. Tutti si domandano però cosa succederà con la riapertura delle scuole e di altre attività, milioni di persone sui mezzi pubblici e la moltiplicazione dei contatti tra giovani e meno giovani. “Abbiamo 30 giorni per far sì che le lezioni riprendano in sicurezza e 60 per evitare che questo inizio di scuola si risolva in un drammatico fallimento”, sostiene Crisanti.

Siamo in una situazione simile a quella di gennaio-febbraio scorso, quando il virus circolava tra persone sane che non andavano in ospedale. Sono passati 20 giorni tra la dichiarazione dello stato d’emergenza e il primo caso italiano conclamato del Mattia di Codogno (19 febbraio) ma l’epidemia c’era già. Oggi certamente i positivi si possono intercettare. Ed è bene ricordare che l’Istat, in base ai dati della mortalità, nei mesi scorsi calcolava 1,5 milioni di contagiati, molti di più dei 258.136 casi confermati fino a ieri. Il peso degli asintomatici nella trasmissione lo dimostrò proprio Crisanti con lo studio su Vo’ Euganeo (Padova), il paesino investito dai primi casi noti negli stessi giorni di Codogno. Da mesi tutti dicono che ha “salvato” il Veneto ma all’inizio dovette scontrarsi anche con il direttore della Sanità regionale, Domenico Mantoan, che non voleva finanziare troppi tamponi.

Al momento il governo non ha un’ipotesi di incarico per Crisanti. Gli ha solo chiesto un contributo. Diversi suoi colleghi lo guardano con diffidenza. Quando il viceministro della Salute, professor Pierpaolo Sileri, ha chiesto di integrare il Comitato tecnico scientifico con lui, Matteo Bassetti del San Martino di Genova, Massimo Galli del Sacco di Milano e Alberto Zangrillo del San Raffaele sempre di Milano, lo stesso Cts ha risposto di no. Alcuni di loro, si legge nel verbale del 24 luglio, erano ritenuti “manifestamente avversi al consesso”.

Scuola: l’incubo assenze (dei prof) sulla riapertura

C’è un enorme non detto nella sacrosanta quanto difficile riapertura delle scuole del 14 settembre e riguarda l’età media del personale della scuola: grazie a un decennio di blocco del turn over e allungamenti dell’età pensionabile è la più alta tra i Paesi Ocse. Un dato statistico che potrebbe non essere senza effetti col coronavirus in giro nelle dimensioni che vediamo in questi giorni. Tradotto: una quota rilevante – oltre il 40% – dei docenti e del cosiddetto “personale Ata” (amministrativi, tecnici e ausiliari) appartiene a una categoria a rischio Covid e al ministero dell’Istruzione si aspettano una quota monstre di assenze (giustificate) alla ripartenza, cosa che finirà per mettere ancor più in difficoltà presidi e provveditori. Per capirci: solo quanto alle scuole pubbliche parliamo di oltre 300mila insegnanti (su 730mila) e di circa 90mila unità (su 200mila totali) quanto al personale non docente.

Per avere chiaro il problema serve rimettere in fila alcune informazioni. Gli studi e l’evidenza clinica ci dicono che questa epidemia è pericolosa soprattutto per le persone più anziane o che soffrono di altre patologie (e le due platee sono spesso coincidenti), mentre è statisticamente irrilevante sotto i 50 anni d’età. Per questo fin dal documento Inail allegato al verbale del Comitato tecnico scientifico (Cts) del 9 aprile si raccomanda una “sorveglianza sanitaria eccezionale” per i “lavoratori fragili” ovvero quelli “con età superiore a 55 anni” o con “condizioni patologiche” che li mettano particolarmente a rischio. Il documento arrivava a proporre di “valutare con attenzione la possibilità di esprimere un giudizio di ‘inidoneità temporanea’ o limitazioni dell’idoneità” se le condizioni di lavoro dovessero esporre troppo queste persone al rischio di contagio.

È a partire da qui che l’articolo 83 del decreto Rilancio (emanato il 19 maggio e poi convertito dal Parlamento, dunque tuttora in vigore) stabilisce che “fino alla data di cessazione dello stato di emergenza per rischio sanitario sul territorio nazionale, i datori di lavoro pubblici e privati assicurano la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età (corsivo nostro, ndr) o della condizione di rischio derivante da immunodepressione (…)”.

L’ultima circolare del ministero della Salute e dell’Inail chiarisce, è vero, che il solo criterio dell’età non basta per rientrare nella “sorveglianza sanitaria eccezionale” e il decreto Agosto ha stabilito anche per la scuola la fine del cosiddetto “lavoro agile”, eppure la legge in vigore è ancora quella (si sta valutando se modificarla) di maggio e lo stato d’emergenza è stato prorogato almeno fino al 15 ottobre: molte decine di migliaia di lavoratori della scuola, insomma, si troveranno nelle condizioni di poter presentare un certificato medico che li esenti dal presentarsi in un luogo di lavoro classificato “ad alto rischio”.

Per stare ai docenti (dati Miur del 2018), oltre i 54 anni ce ne sono 33mila nella scuola dell’infanzia, 86mila alle elementari, 64mila alle medie e 116mila alle superiori, dove gli over 55 rappresentano quasi la metà del corpo insegnante. Al ministero, come detto, si aspettano una mareggiata di certificati: “Alla fine vincerà la paura”, è la previsione.

Una probabile ondata di assenze complicherà ancor di più la (sacrosanta) riapertura delle scuole per 8,4 milioni di studenti e relativi genitori. La ritirata di molti “lavoratori fragili” andrà infatti ad aggiungersi alle molte altre difficoltà oggettive di cui si è parlato nei giorni scorsi: organico all’osso nonostante le (promesse) assunzioni, spazi e attrezzature inadeguate, procedure complicate, poca chiarezza sulle tutele concesse alle famiglie in caso di positività di uno studente. Questo a non voler considerare “l’inaccettabile ricatto del sindacato che minaccia di paralizzare la ripresa scolastica”, cioè la frase con cui Lucia Azzolina s’è alienata la simpatia di buona parte del mondo che dovrebbe guidare.

Più di mille casi in un giorno. Tornano le liti tra governatori

Superata quota 1.000 contagi in un solo giorno, come non succedeva dallo scorso maggio, i Governatori ostentano calma ma si scontrano con il ‘collega’ campano De Luca. “A fine agosto la verifica, se i contagi aumenteranno, chiederemo limitazioni al Governo”. Con un post su Facebook il presidente della Campania Vincenzo De Luca fa il punto sulla situazione e ribadisce di non escludere alcuna possibilità, persino una chiusura della Regione. “L’operazione di controllo e di filtro per i rientri dall’estero sta procedendo bene. Nelle regioni del Nord il numero maggiore dei rientri si avrà proprio entro fine mese: numeri di contagi alla mano, se avremo dati preoccupanti, chiederemo al Governo di ripristinare la limitazione della mobilità interregionale. E lo faremo con grande determinazione”.

Dichiarazioni che hanno scatenato le reazioni, indispettite, di molti Governatori.

In primis Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna: “Non in questo momento, dopodiché si segue sempre l’evoluzione del virus e poi si discute tra Regioni e Governo. Bisogna sempre tenere monitorata la situazione perché quelli che parlano il giorno dopo mi hanno sempre fatto abbastanza pena”. Bonaccini invita alla prudenza ma “per ora mi pare che la situazione, pur in crescita, sia ancora sotto controllo. Rispetto agli altri Paesi europei, siamo il Paese che sta arginando meglio la pandemia”. Se Bonaccini, anche in virtù del suo ruolo di presidente della Conferenza delle Regioni, cerca di abbassare i toni la polemica viene invece rinfocolata da Stefano Caldoro, candidato a presidente della Campania per il centrodestra: “De Luca vuole chiudere la Campania? Sarebbe meglio ‘chiudere’ De Luca, che prima non fa i tamponi a chi arriva a Capodichino e poi minaccia di isolare la Regione. È in evidente stato confusionale, ora sparge paura e diffonde allarmismo per fini elettorali, mentre fino a ieri non ha fatto alcuna prevenzione. In tal modo mette in pericolo la salute dei cittadini e l’economia regionale. Va rimosso il prima possibile”.

L’idea del blocco della mobilità interna non piace neppure al governatore ligure Giovanni Toti: “Non ritengo vi sia una emergenza clinico-sanitaria tale da presupporre o fare presagire ulteriori chiusure. Stiamo attenti, teniamo la mascherina, facciamo tutto quello che dobbiamo fare ma evitiamo di tornare a terrorizzare questo Paese che non ne ha bisogno”.

Se i governatori cercano di mantenere la calma, preoccupano i nuovi dati sul Coronavirus in Italia:1.071 i nuovi casi registrati nelle ultime 24 ore. Era dal 12 maggio che non si superava quota mille, e il trend continua a suscitare non pochi interrogativi, anche in vista della riapertura delle scuole confermata per il 14 settembre. A far risalire i contagi sono i rientri dalle vacanze, in Italia con il caso Sardegna (da ieri sono attivi i box di controllo con tampone anche al porto di Civitavecchia, interscambio per l’isola sarda) e dall’estero. È il Lazio la regione che registra il maggior numero di nuovi infetti (215) e di ricoverati con sintomi (265) superando la Lombardia. Secondo il Ministero della Salute i contagiati in isolamento domiciliare sono 825, dato che rappresenta anche l’incremento degli attuali positivi (17.503).

La seconda ondata e gli ospedali: ecco i rischi

Siamo andati a vedere in alcuni ospedali del Nord come è andata dopo l’emergenza Covid, in quale misura sono riprese le attività ordinarie sospese nel pieno della pandemia e quali problemi incontreranno nel malaugurato caso di una seconda ondata di rilievo.

 

Bergamo, tra il 60 e l’80% dell’attività ordinaria

A una prima occhiata, l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo oggi sembra tutto tranne una struttura che è stata investita in pieno dallo tsunami del Covid-19. Oggi regna la relativa calma di agosto. L’attività ambulatoriale è ripresa il 4 maggio scorso e rapidamente è tornata, secondo la Direzione sanitaria, al 70/80% di operatività rispetto ai mesi pre-Covid, anche se fra i medicina generale si dice che siamo più vicini al 60%.

I ritardi, però, non sono dovuti a problemi strutturali o a carenze di personale, ma al rigoroso rispetto delle norme di distanziamento e sanificazione. L’accesso è ancora vietato a volontari e visitatori, mentre quello dei parenti dei ricoverati richiede un’autorizzazione.

Dal 1° luglio il pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII non registra accessi Covid (ci sono pazienti positivi, ma sono ricoverati per altre patologie) e gli 80 letti di terapia intensiva sono Covid-free. Chi ne ha bisogno per Covid è dirottato in altri ospedali lombardi, proprio per mantenere le Ti “pulite”. “Tutti i pazienti con classe di priorità A (i più urgenti) sono stati riprogrammati e dal mese di maggio abbiamo saturato tutti gli spazi operatori a disposizione per i pazienti sospesi”, rende noto la Direzione Sanitaria. Se non è la normalità, ci si avvicina.

La carta vincente è stata la decisione di spostare controlli e visite dei pazienti covid (2.172 da febbraio scorso) all’ospedale da campo costruito dagli Alpini alla Fiera di Bergamo, a pochissimi minuti di distanza. Circa 800 i casi seguiti. Le potenziali fonti di infezione rimangono lì. È ciò che non si è voluto fare nella vicina Milano: nel pieno della crisi, mentre a Bergamo i 70 letti tra intensiva e subintensiva hanno salvato persone lavorando a pieno ritmo, al Portello l’Astronave era ancora in costruzione. Passata la fase acuta, a Bergamo hanno riutilizzato gli spazi per il follow-up dei pazienti e per smaltire le liste d’attesa, mentre a Milano si chiudeva tutto e si discuteva, bocciando proposte come quella raccontata dal Fatto del dottor Giuseppe Torgano del Policlinico di Milano che andava proprio nella direzione di usare la Fiera come hub per tutti i pazienti covid. Così la Fiera bergamasca è una risorsa, mentre l’Astronave un peso. Inoltre, il Giovanni XXIII riesce anche ad assicurare un servizio di tamponi drive-in: 100 esami al giorno. “Ma facilmente arriveremmo a 250”, assicurano. Una risorsa più che utile considerati i ritardi della Lombardia anche sugli sbarchi dai Paesi a rischio. Ma l’assessore Giulio Gallera ha preferito affidando i tamponi dei passeggeri del vicinissimo aeroporto di Orio al Serio al gruppo privato San Donato.

 

Verona, resta il nodo della formazione covid

Verona è stata la provincia veneta più colpita dal Covid. L’azienda ospedaliera ha dovuto affrontare, nei mesi più critici, un grande afflusso di pazienti all’ospedale di Borgo Trento e al policlinico universitario di Borgo Roma. L’attività ordinaria sospesa durante il lockdown è stata gradualmente riattivata dal 4 maggio. I contagi ospedalieri – secondo la Funzione Pubblica della Cgil di Verona – hanno interessato il 3,9% dei dipendenti e sono stati più significativi nei reparti non direttamente coinvolti nella cura dei pazienti Covid: il cluster più importante in Geriatria a Borgo Trento, dove a metà marzo la presenza di una trentina di operatori sanitari positivi ha determinato la trasformazione forzata in reparto Covid. Nella fase iniziale, le linee guida regionali (mutuate da un rapporto dell’Istituto superiore di sanità) prevedevano per i sanitari l’utilizzo di mascherina chirurgica (non adatta a prevenire il contagio in entrata) per gli operatori non direttamente coinvolti in manovre a rischio di sviluppare aerosol. A marzo per l’Ospedale di Verona è stato approvato un piano assunzioni straordinario per circa 100 operatori sanitari, la maggior parte infermieri. Secondo il sindacato, il problema resta la formazione dei sanitari all’utilizzo corretto dei dispositivi di protezione, per la quale non c’è stato aggiornamento.

 

Genova, San Martino chiuso il reparto trapianti

Secondo il direttore generale Giovanni Ucci, nel maggiore ospedale della Liguria “tutte le prestazioni interrotte sono riprese. Al momento ci sono alcuni reparti chirurgici chiusi e una riduzione dell’attività del 30% circa, ma dovuta alle ferie. La situazione è indistinguibile da un qualsiasi agosto pre-Covid”. A smentire questa versione, però, c’è il professor Enzo Andorno, chirurgo epatobiliare e responsabile del reparto di Chirurgia dei trapianti, chiuso per il Covid e mai più riaperto da marzo. “Comprendeva 24 letti e 2 sale operatorie. Hanno portato via persino gli arredi. Il team di infermieri specializzati è stato disperso in altri reparti”, spiega Andorno al Fatto. “Negli scorsi mesi abbiamo eseguito trapianti delicatissimi in sale operatorie obsolete, improponibili. I pazienti sono tuttora ricoverati un po’ dove capita e seguiti da infermieri di altre specialità, non formati nell’assistenza post-trapianto. I miei trapiantati di fegato, ad esempio, stanno in urologia. Le operazioni si sono fatte in ritardo o non si sono fatte, e i pazienti tumorali nel frattempo si aggravavano, con ciò che ne consegue”.

Pochi giorni fa, Andorno è riuscito a far destinare ai trapianti 2 delle 10 nuove sale operatorie appena inaugurate. Ma il suo reparto resta chiuso. La direzione ha promesso che sarà riaperto il 7 settembre, ma con 14 letti e non più 24. E ancora non si sa se verrà ripristinato il team infermieristico. “Gli infermieri mancano perché non li si vuole assumere – dice Andorno – così c’è sempre qualche buco da coprire. Mancano i soldi, si dice. Ma i soldi per i super-premi ai dirigenti della sanità ligure (fino a 20 mila euro per la gestione dell’emergenza, ndr) a quanto pare li hanno trovati”.

In vista di un’eventuale seconda ondata, invece, “l’ospedale è pronto”, dice il professor Matteo Bassetti, primario di Malattie Infettive. “La nostra capacità è quasi raddoppiata, abbiamo oltre 70 posti in terapia intensiva a fronte, al momento, di un solo ricoverato Covid-positivo. Non si accede ai reparti senza tampone negativo e i nostri laboratori ne analizzano fino a 1.500 al giorno”.

 

Emilia-Romagna, le visite si recuperano nel privato

Già da fine aprile, in tutta l’Emilia-Romagna, si cerca di recuperare i ritardi. L’Ausl bolognese ha accumulato circa 250 mila prestazioni di cui circa 100 mila sono già state smaltite. A Reggio Emilia le prestazioni specialistiche del periodo marzo-giugno 2020 ammontano a 147.000, il 39% delle quali riguarda esami di laboratorio e il 30% le prime visite. Rispetto al totale, comprensivo del regime istituzionale, sono state sinora ricollocate 65.000 prestazioni. “Rispetto al periodo preCovid-19, inevitabilmente l’offerta di prestazioni sarà quantitativamente ridotta – dichiara Mirco Santini, Asl di Ferrara –. Le principali criticità sono legate all’elevato numero di prenotazioni sospese, circa 84 mila per Ferrara a fronte di una logistica completamente rimodulata durante l’emergenza. A questo si aggiunge la necessità di assicurare il rispetto delle norme igienico-sanitarie per prevenire il contagio di operatori e cittadini, che comporta un inevitabile allungamento dei tempi”. Così anche all’Ausl Romagna, spiega Pierdomenico Lonzi: “Sono 240mila prestazioni, tantissime, le recupereremo gradualmente mettendo in campo un grande sforzo organizzativo, con i professionisti dei nostri ospedali, i colleghi della specialistica, il privato accreditato”. Già il privato. Come sottolinea il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami lo “smaltimento’ degli esami e visite saltate sta avvenendo indirizzando gli utenti verso il privato convenzionato. “Gastroenterologia, otorinolaringoiatria, oculistica, per fare un esempio, stanno venendo spostate in cliniche private. Il punto è che per definizione il privato lavora sui margini di profitto, una cosa assolutamente legittima, ma che pone delle domande. Mentre in altre regioni il rapporto pubblico/privato è quasi paritario, in Emilia-Romagna no, saremo in grado di smaltire tutto prima di una eventuale seconda ondata? Ho i miei dubbi”. Per il timore di una possibile recrudescenza del virus le Aziende sanitarie hanno però mantenuto almeno il 30% dei letti che sono stati aggiunti nei reparti di Terapia intensiva a inizio emergenza.

“Sulle terapie intensive le Regioni sanno cosa devono fare”

I contagi sono in aumento e l’autunno, stagione che si teme possa portare con sé una nuova ondata, è alle porte.

Massimo Antonelli, direttore del Dipartimento di Anestesiologia e Rianimazione del Policlinico Gemelli e membro del Comitato tecnico-scientifico. Qual è la situazione delle terapie intensive in Italia?

Relativamente tranquilla. Rispetto a giugno abbiamo qualche paziente in più, ma l’aumento è proporzionale alla crescita dei contagi. E in tutta Italia siamo nell’ordine di poche decine. Numeri compatibili con le risorse a disposizione. In più c’è stato un ampliamento dei posti, perché quelli creati in emergenza ora si stanno consolidando. Il dl Rilancio del 19 maggio prevede un passaggio da 5.300 a circa 8 mila letti. Quindi partiamo da una situazione migliore. Abbiamo messo in atto quella che in inglese si chiama preparedness, cioè siamo più preparati da un punto di vista logistico.

Per le rianimazioni il governo ha stanziato 1,4 miliardi, ma le Regioni, che quei posti dovrebbero crearli, sembrano in ritardo. A inizio agosto quelli disponibili erano 6.570, il 27% in più dell’era pre-Covid, ma ancora lontani dagli 8mila previsti.

Non ho la fotografia puntuale Regione per Regione. In virtù della loro autonomia quelle più colpite, pur di concerto con il governo, già hanno agito prendendo decisioni autonome. L’ampliamento è legato a due fattori: i provvedimenti che i singoli governatori possono adottare, visto che l’indicazione dal governo c’è, e la curva epidemiologica. Le necessità non sono identiche ovunque: ci sono Regioni che hanno un numero di casi elevato e di conseguenza un maggior bisogno di posti e altre in cui l’Rt è praticamente uguale a zero e si registrano pochi contagi. Quindi cambiano le esigenze a livello ospedaliero e la necessità di risposta. In questo momento un allarme sulle terapie intensive non c’è.

La situazione la fa stare tranquillo, quindi.

Per il momento direi di sì. Le faccio un esempio: i Covid Hospital restano attivi. Noi al Gemelli abbiamo un corpo di rianimatori disponibili 24 ore su 24 allo scopo di rendere utilizzabile la struttura al 100% in 40 minuti. Solo per restare a Roma, anche lo Spallanzani non si è mai fermato.

I contagi intanto continuano ad aumentare.

C’è stato uno spostamento d’età. Mentre durante il picco l’età media dei malati era intorno ai 63 anni ma con una fascia cospicua tra i 70 e gli 85, ora è tra i 40 e i 60, più vicina ai 40. Anche i pazienti in rianimazione sono più giovani.

Fino a che punto può tranquillizzarci questo dato? Gli italiani stanno tornando dalle vacanze, le scuole riapriranno, gli anziani che finora sono stati molto accorti nei comportamenti torneranno a vedere i nipoti.

C’è una diversa consapevolezza. L’aumento dei contagi è in parte dovuto al rientro dai luoghi di villeggiatura. La Regione Lazio segnalava che oltre il 50% dei suoi casi sono legati al ritorno dei turisti. Grazie a un accurato contact tracing e alla rete territoriale ora un soggetto postivo viene riconosciuto e messo in quarantena assai più facilmente e rapidamente di quanto non accadesse prima. E questo attenua i rischi per le persone più fragili.

Quanto influirà la riapertura delle scuole?

I casi aumenteranno, è inevitabile. La Germania ne ha chiuse 41. Ma, ripeto, abbiamo costruito un percorso che facilita l’identificazione dei casi. E stiamo cercando di migliorare ancora.

In che modo, professore?

Quest’anno, di concerto con il Miur, è stato aumentato tra il 40 e oltre il 50% il numero dei posti per la specialità di Anestesia e Rianimazione allo scopo di formare personale competente che possa gestire i posti letto creati. Alla Cattolica, ad esempio, sono state assegnate 46 borse quando lo scorso anno erano 25. A Milano, poi, ce ne sono ben 84. È un investimento sul futuro.

Il primo problema da affrontare?

Per quel che riguarda le scuole si sta prendendo in esame la questione del trasporto. Le variabili di cui tenere conto sono numerose e di diversa natura, ma si cercherà di riaprire nella massima sicurezza possibile.