Cartabia scade, per la presidenza il nome di Amato

Cambio al vertice della Corte Costituzionale tra poche settimane. Marta Cartabia, la prima donna a essere stata eletta presidente l’11 dicembre 2019, deve lasciare il Palazzo della Consulta perché il prossimo 13 settembre scade il suo mandato di giudice che – come prevede la Carta – dura 9 anni. Docente di diritto costituzionale a Milano, fu nominata giudice della Corte costituzionale nel settembre 2011 dal presidente della Repubblica. Alla stessa data deve lasciare il vicepresidente Aldo Carosi, mentre l’altro vicepresidente, Mario Morelli, deve andare via a fine anno.

Quindi, tra settembre e dicembre la Corte Costituzionale avrà tre nuovi giudici e un nuovo presidente. Al posto della professoressa Cartabia, che sogna il Quirinale, come presidente, se sarà rispettata la tradizione di nominare il più anziano, potrebbe andare l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro socialista Giuliano Amato. Il “dottor Sottile”, classe 1938, professore emerito di Diritto pubblico comparato, è stato nominato alla Corte Costituzionale dal Presidente della Repubblica il 12 settembre 2013. Ha giurato 5 giorni dopo. Dunque, il suo mandato scade a settembre 2022. In realtà c’è anche un giudice costituzionale più anziano di Amato di 8 mesi, ma anagraficamente più giovane: Giancarlo Coraggio, presidente del Consiglio di Stato, classe 1940, eletto il 29 novembre 2012. Ha giurato il 28 gennaio 2013.

Quanto alle sostituzioni come giudici di Cartabia, Carosio e Morelli, ci saranno nomine diverse. Al posto di Cartabia deve andare un altro giudice scelto sempre dal presidente della Repubblica, mentre Carosi, magistrato contabile, presidente di sezione, verrà sostituito da chi sarà eletto dalla Corte dei Conti così come i magistrati di Cassazione dovranno eleggere il successore di Morelli, presidente di sezione della Suprema Corte.

Aspettando il Mose, San Marco è indifesa. Tre piani contro l’acqua alta, tutto bloccato

La Basilica di San Marco a Venezia sarà indifesa dalle acque alte d’autunno. Non è bastata la marea del 2018 e nemmeno quella di novembre, che ha ricoperto i preziosi mosaici fino a 70 centimetri di altezza, per avviare i lavori di prevenzione. Ci sono tre progetti, ma finora nessun intervento. L’ultimo progetto è di pochi giorni fa. Il commissario del Mose, Elisabetta Spitz, e il provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Cinzia Zincone, hanno interpellato la Procuratoria di San Marco, chiedendo di posizionare paratie ai portali, come fanno i negozi veneziani. Parere negativo, vista la delicatezza che richiedono pavimenti e colonnine di San Marco. A febbraio era stato approvato un progetto degli ingegneri Rinaldo e Semenato e dell’architetto Marco Piana, proto della Basilica. Ma nonostante fosse già finanziato (30 milioni di euro) è stato bloccato dalla richiesta dell’architetto Spitz all’archistar Stefano Boeri, che ha ideato un sistema di paratoie in vetro (40 mila euro) per consentire la vista delle strutture architettoniche. Non se n’è fatto nulla.

Ventotene, fermi i 70 milioni per il carcere borbonico: 1,6 usati solo per la cerimonia

I 70 milioni sono fermi lì. Messi a disposizione dalla delibera del Cipe numero 3, pubblicata in Gazzetta ufficiale l’8 agosto 2016. Il governo di Matteo Renzi li aveva stanziati per riportare a nuova vita il carcere borbonico di Santo Stefano, luogo simbolo della lotta per la libertà di pensiero. Quattro anni dopo sono stati spesi solo 1,6 milioni: sono serviti a costruire un eliporto, inaugurato il 2 agosto 2017 dall’allora sottosegretaria alla Presidenza del consiglio Maria Elena Boschi e dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e mai più utilizzato.

Dall’alto del suo scoglio, il carcere in cui passarono tra gli altri Luigi Settembrini, Umberto Terracini, Silvio Spaventa e Sandro Pertini guarda verso l’isola di Ventotene, lì dove il pensiero che portò alla nascita dell’Ue aveva mosso i primi passi. Renzi puntava a farne una scuola di politica destinata a “formare l’elite della classe dirigente che governerà l’Europa nei prossimi decenni”, spiegava l’allora premier il 30 gennaio 2016, considerandolo uno strumento per rilanciare la propria narrazione europeista contro quella sovranista che di lì a poco avrebbe invaso il dibattito pubblico. A maggio il Comitato interministeriale per la programmazione economica stanziava i fondi: 25 milioni per la messa in sicurezza della struttura da anni soggetta a crolli, il resto da investire nella rifunzionalizzazione, il suo futuro utilizzo. Al momento, tuttavia di concreto si è visto poco. Anzi, una sola cosa: l’inaugurazione dell’unica opera realizzata, un’elisuperficie costruita dal Genio militare lì dove un tempo sorgeva il campo da calcio. “Da questo carcere Altiero Spinelli immaginò il progetto di un’Europa libera e unita”, aveva sentenziato la Boschi inaugurandola di fronte ai microfoni. “In realtà Spinelli era stato confinato a Ventotene dove aveva scritto il Manifesto alla base della nascita dell’Unione, ma nel carcere non aveva mai messo piede – spiega Massimo Garavoglia, presidente dell’Associazione Per Santo Stefano Onlus, che da anni pungola le amministrazioni sul tema del recupero. Franceschini aveva parlato di “una sfida che vinceremo in un tempo quanto più breve si possa pensare”. Invece l’eliporto “è rimasto l’unica cosa realizzata, e da allora non è stato più utilizzato – conclude Garavoglia -. Ora l’importante è impegnare questi fondi, perché si rischia di perderli”. Il compito è affidato a Silvia Costa, eurodeputata del Pd nominata commissario a febbraio, che è riuscita a rinnovarne l’utilizzo anche per il 2021 e a riportare al tavolo tutti gli attori impegnati: Palazzo Chigi, il ministero dell’Ambiente, il Mibact, il Demanio, la Regione Lazio, il Comune di Ventotene, la direzione della riserva naturale e Invitalia. La corsa contro il tempo prosegue.

Viaggio al termine del Molise: esiste e sembra un po’ Narnia

Tutto ha avuto inizio con una battuta durante il lockdown. Il Governo aveva appena concesso il permesso di uscire per andare a comprare il pane in quanto spesa necessaria e io ho scritto sui social “Ok, vado a comprare il pane in Molise”. Non lo avessi mai scritto: nel giro di poche ore mi sono ritrovata con inviti in ogni panetteria del Molise, naturalmente a quarantena finita. Inviti a cui ho risposto sì, ma con la vaghezza a cui si risponde agli amici che ti chiedono quando ci vediamo e tu dici “prestissimo, dopo le feste” ed è il quindicesimo Natale in cui rispondi così. L’idea però ha continuato a frullarmi per la testa. Guardavo le foto delle vacanze d’agosto dello scorso anno in Cina, mi dicevo che sono andata fin lì per capire qualcosa del paese più enigmatico al mondo ma che in fondo nessuno dubita dell’esistenza della Cina. L’esistenza stessa del Molise è invece fonte di dubbi sarcastici da decenni e in fondo, anche se sai che esiste, magari pensi come Giovanni Toti che sia terra di laghetti e fumiciattoli, un specie di Pufflandia, senza neppure il mare. Alla fine, in Molise ci sono andata davvero in vacanza. E ho scoperto che gli aggettivi più abusati per descrivere il Sud che resiste, qui non c’entrano nulla. Non è quel Sud fiero, orgoglioso, che alza la voce quando il resto del paese se lo dimentica.

C’è, in Molise, la diffusa rassegnazione di luogo lasciato solo, in cui chi è rimasto ha imparato a bastare a se stesso. È così poco raccontato, il Molise, che il Molise stesso ha perso la capacità di raccontarsi. Per arrivare nel sito archeologico più importante della regione, Sepinum, un’incredibile area archeologica di origine romana, non si trovano indicazioni lungo la strada. Ci siamo fidati del navigatore, ma la strada pareva portare dritta nella cascina di un contadino o a Narnia, non certo in un sito che sembra Pompei, ma immerso nel verde delle campagne molisane, in un silenzio suggestivo, tra pochi visitatori che non pagano neppure un biglietto. I cartelli stradali che indicano “Sepinum” dovrebbero iniziare al casello di Milano Sud, e invece non ci sono neppure in Molise. “Sei sicuro che sia la strada giusta?”, in effetti, è la frase che si pronuncia più spesso girovagando per la regione. Perché per andare da un comune all’altro spesso ci si ritrova ad attraversare boschi fittissimi, a percorrere 7 km in 30 minuti, a immaginare scenari drammatici in cui si buca una ruota, il segnale del telefono sparisce e tu entri a far parte di una comunità di lupi, finendo sulla copertina di National Geographic 20 anni dopo. I paesaggi, però, sono una meraviglia. E capiamo quanto di inesplorato c’è in Molise quando arriviamo in un paese di mille abitanti che si chiama Carpinone. A Carpinone ci sono due cascate stupende a dieci minuti dal centro del paese che alcuni ragazzi, appunto, hanno scoperto e reso accessibili ai turisti un anno fa. Ho chiesto a qualche anziano di Carpinone se quelle cascate le ha mai viste e mi ha detto di no.

Non immaginate le cascatelle con un rigagnolo e una pozza d’acqua torbida in cui galleggia del verde muschioso. Sono cascate con un salto di metri e un lago cristallino in cui fare il bagno, che fino a ieri non esistevano neppure sulle guide. Ed è stato bello, quasi commovente, vedere questo paesino con un centro affollato di turisti che erano lì per andarle a scoprirle. Non solo. Carpinone stesso ha un borgo bellissimo, in cui nessuno vive più. È uno dei tanti borghi spopolati del Molise in cui se vuoi ti compri una casa con 5.000 euro. La signora Elena è rimasta sola, a vivere su nel borgo. La incontro mentre annaffia le piante. Mi mostra una casa in vendita, accanto alla sua. Su un vecchio tavolo, accatastati l’uno sull’altro, ci sono delle immagini religiose impolverate della via crucis. Le chiedo di chi siano, vorrei comprarle. “Le ha lasciate qui il prete che se ne è andato anni fa”. E qui inizia una trattativa che neppure per l’acquisto di Ronaldo. La signora dice che potrei fare un’offerta alla chiesa e prenderle, ma prima vuole avvisare il sacerdote. Il sacerdote filippino arriva dopo un po’ e scopre questi quadri di cui non sapeva nulla. Dice che me li darebbe ma saranno nel registro della chiesa e se me li vende finisce in galera, e per un attimo vedo la situazione da fuori: sono in una casa abbandonata in Molise che cerco di corrompere un integerrimo sacerdote filippino perché mi venda immagini di una via crucis. Realizzo che è tutto incredibilmente surreale e lascio lì la via crucis, per poi entrare nel castello abbandonato del paese che però ha un citofono e nessuno del mio gruppo ha ancora capito chi ci abbia aperto. E sono tanti, in Molise, i borghi meravigliosi in cui non vive quasi più nessuno. Il Molise in cui ho visto indossare le mascherine in paesi di 200 abitanti, che tu non sai se si proteggono dal virus o se hanno paura di ingoiare un insetto, per sbaglio. E quasi ti commuovi. Il Molise in cui dopo aver fatto visita a Trivento una macchina ci ha inseguito sulla statale, lampeggiandoci e facendoci accostare perché secondo l’amabile signore eravamo andati via senza assaggiare le specialità del posto. (aveva ragione lui, ma ho pensato a un’esecuzione).

Il Molise di Bagnoli del Trigno o Duronia in cui le vie d’estate sono invase da taxi romani e sembra una visione onirica, invece scopri che i tassisti romani sono in buona parte molisani e ad agosto tornano qui. Il Molise delle morge cenozoiche, questi giganteschi massi sputati fuori dalla terra quando il Molise era mare, pieni di fossili e conchiglie, sui quali spuntano chiese e campanili. (Pieracupa e Salcino, che meraviglia). Il Molise che quando arrivi in un posto la gente ti guarda come fossi pazzo, come se davvero tu avessi sbagliato strada e fossi finito lì per caso. Per poi raccontarti la sua storia, la storia di questa terra, con la gentilezza modesta e luminosa dei molisani, che tanto ho amato in questo viaggio. E il segno che il Molise sia tutto da scrivere e da raccontare è nell’ultimo mio incontro prima di partire. Girovagavo tra i resti dell’anfiteatro romano di Larino con la valigia già in macchina e inciampo in quella figura mitica e misteriosa che è colui che scrive le guide Lonely Planet. Mi spiega che sta scrivendo la guida del Molise. “Sai che qui esistono delle cascate bellissime e sconosciute fino a ieri?”, gli dico. Il tizio tira fuori un taccuino, e prende appunti. Io penso che vorrei essere lui e ricominciare il giro daccapo, avere il privilegio di svelare la regione che non forse non sa abbastanza di esistere. Nel frattempo, so che il mal di Molise esiste.

Peter Sellers stile pianta, B. piazzista e poi… antani

Nella puntata precedente, abbiamo visto esempi divertenti di metabole linguistiche: metaplasmi (figure formali), metagrafi (metaplasmi sul piano grafico), metatassi (figure sintattiche), metasememi (figure semantiche) e metalogismi (figure del pensiero). Proseguiamo la visita all’esposizione di feti in conserva.

Metalogismi. Per aggiunzione: iperbole (ho un cazzo che è la scatola del tuo); litote iperbolica (“Sono solo un povero peccatore” detto dal corruttore di minorenni); ripetizione iperbolica (“Non mi convinci neppure se mi convinci” dice Cremilo nel Pluto di Aristofane); pleonasmo (ACANTIONE: “Ma quel porco ha cominciato a palpeggiarla.” CARINO: “Santo cielo! A lei?”. ACANTIONE: “Volevi che palpeggiasse me?” scrive Plauto nel Mercante).

Per sostituzione: ironia (per esempio, il biasimo sotto forma di lode: “Professore, lascio l’università.” “Eh, sono sempre i migliori quelli che se ne vanno.”); asteismo o contro-ironia (la lode sotto forma di biasimo: “Ti sei laureata con lode? Vergogna!”); antifrasi (Bella figura! per definire una topica); litote da doppia negazione (Mica scema); preterizione (dare rilievo a qualcosa dicendo che non la si vuole nominare: “Per non parlare dimonsignor Marcinkus e delle trame che legavano lo Ior alla mafia, a Sindona e alla P2.”); epanortosi (sostituire una parola con un’altra che si giudica più adeguata: “Berlusconi non è un politico, è un piazzista” mi rispose Claudio Martelli a Barracuda, frase che poi Fatma Ruffini tagliò al montaggio senza dirmelo); denegazione (dire ciò che si è, dicendo ciò che non si è: “Perché dovrei lodare il Pd? Non sono Grillo.”); paradosso: per esempio, la scritta Questa non è una pipa nel dipinto di una pipa (Magritte); il coltello senza lama a cui manca il manico (Lichtenberg); BORIS: “Mio fratello è stato ucciso a baionettate da un obiettore di coscienza polacco” (Woody Allen). Sono metalogismi anche l’eufemismo (cavaliere invece di pregiudicato); l’allegoria (“Per una mezzana, l’innamorato è come il pesce: se non è fresco, puzza. Fresco, è gustoso, saporito, puoi cucinarlo come ti pare, in umido o alla griglia, puoi rivoltarlo come ti piace” dice Cleareta nell’Asinariadi Plauto); la parabola: “Il leone e il vitello giaceranno insieme, ma il vitello non dormirà molto” (Woody Allen); e la favola (come quella inventata dall’Iraq Group di Karl Rove per vendere all’opinione pubblica occidentale la guerra coloniale, criminale e illegale di Bush, Blair e Berlusconi in Iraq). La non-pertinenza relazionale fra elementi correlati crea un effetto comico, come nelle metafore miste (il carro dello Stato naviga su un vulcano) o nella commedia di Tardieu Un mot pour un autre, dove le cose sono nominate con parole diverse dalle abituali: una sostituzione sinonimica (metasemema) con mantenimento della sintassi normale e della prosodia colloquiale. Per esempio: “Mi distolgo a quanti di noi, come te, non riescono a provinciare bene le carriole. Le carriole, quelle che vescovo dalla doccia quando tarliamo.” Un procedimento simile è quello degli sproloqui comici per beffare l’interlocutore, come in Boccaccio, Rabelais, Swift, e in tutta la letteratura nonsense. Ne è un epigono moderno la supercazzola resa celebre da Ugo Tognazzi in Amici miei (sceneggiatura di Benvenuti, De Bernardi, Pinelli, 1975):

Mascetti:Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?

Vigile: Prego?

Mascetti: No, mi permetta. No, io… scusi, noi siamo in quattro. Come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribàcchi confaldina? Come antifurto, per esempio.

Vigile: Ma che antifurto, mi faccia il piacere! Questi signori qui stavano sonando loro. ’Un s’intrometta!

Mascetti:No, aspetti, mi porga l’indice; ecco lo alzi così… guardi, guardi, guardi. Lo vede il dito? Lo vede che stuzzica? Che prematura anche? Ma allora io le potrei dire, anche con il rispetto per l’autorità, che anche soltanto le due cose come vicesindaco, capisce?

Vigile:Vicesindaco? Basta ’osì, mi seguano al commissariato, prego!

Il nonsense può diventare satirico, per esempio usandolo in funzione anti-religiosa come fa il Perozzi (Noiret) durante la confessione in punto di morte. L’utilizzo di parole senza significato, simili a quelle di uso comune, in un testo che conserva le regole grammaticali e sintattiche, come nel Jabberwocky di Lewis Carroll (1871), è detto metasemantica (Fosco Maraini, 1998).

Con permutazione: inversione logica (Infilo la lingua nella sua bocca, poi mi infilo in questa lingua.); inversione cronologica (come fanno Vonnegut in Mattatoio n.5 e Pinter in Tradimenti); fusione: in “Non è vero ma ci credo” (1959), Peppino De Filippo racconta al medico un incubo: “Io l’ho seguito, e mentre lo seguivo questo signore con la barba si è trasformato in mia moglie. O mia nonna? Mi è parso fosse mia moglie travestita da mia nonna. Quella è capace di tutto.”.

Metabole del destinatario.Per sottrazione: per esempio, quello che finge di non esserci, oppure cerca di mimetizzarsi con l’arredamento, come Peter Sellers in Hollywood party.

Per aggiunzione: il tipo nascosto nell’armadio; quello che si unisce, non invitato, alla conversazione; il passante cui si chiede un giudizio; lo spermatozoo di colore che, in mezzo a spermatozoi bianchi, si chiede “Cosa ci faccio qui?” In Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso di Woody Allen; l’aggiunta di un terzo livello come nell’episodio di Friends dove Rachel e Monica si scambiano l’identità, e a un certo punto litigano, in una gara a dire di sé (cioè dell’altra) cose turpi (Rachel: “Al liceo ero una vacca.” Monica: “Io mi pisciavo a letto.”) Rachel e Monica sono al primo livello, i presenti (che ignorano lo scambio di identità e le ascoltano allibiti) sono al secondo livello, il pubblico tv (che sa dello scambio) è al terzo livello.

Per sostituzione: animato/inanimato (come in Chi ha incastrato Roger Rabbit? e in Transformers); umano/animale (ogni antropomorfizzazione animale, da Esopo a Disney fin al film Ted e alla sit-com Wilfred; il prete in una scuola di campagna che spinge fuoridall’aula una gallina intrusa dicendole: Fuori, gallinella, questa è l’ora di religione; adulto/bambino (per esempio, il presentatore tv che chiede a un piccolo ospite: Sei sposato?); stile adeguato/stile inadeguato (per esempio, la spiegazione farlocca di Woody Allen che si finge esperto di clonazione ne Il dormiglione); destinatario 1/destinatario 2 (dire a nuora perché suocera intenda; l’a parte; l’autorità al posto di se stessi, come fa Woody Allen tirando fuori McLuhan in Io e Annie); livello 1/livello 2 (dialogare fingendo di citare un libro, come in un episodio di Better Off Ted: LEI:“Con vero piacere!, aggiunse lei.”LUI:“Benissimo, disse lui.”).

(18. Continua)

Il quadro che rubò l’anima alla giovinetta innamorata

Il castello di cui il mio valletto aveva osato forzare l’ingresso pur di non permettere che, gravemente ferito com’ero, io passassi la notte all’aperto, era uno di quegli edifici, tetri e grandiosi insieme, che da gran tempo ergono la loro aggrondata mole frammezzo agli Appennini, non meno nella realtà che nei fantastici scenari di Mrs Radcliffe. Stando a ogni apparenza, era stato abbandonato temporaneamente e da non molto. Noi ci insediammo in una delle stanze più piccole e meno sontuosamente arredate, sita in una torretta fuori mano. Gli addobbi erano di pregevole fattura, ma logori e segnati dall’usura del tempo. Alle pareti tappezzate di arazzi erano appesi trofei e panoplie d’ogni genere e forma, nonché un’infinità di originalissimi quadri moderni dalle ricche cornici dorate di stile arabesco. Questi, quadri, che rivestivano non solo le superfici principali dei muri, ma le innumerevoli nicchie imposte dalla bizzarra architettura del castello – questi quadri, dicevo, avevano destato in me un profondo interesse, determinato forse dal mio incipiente delirio; cosicché ordinai a Pedro di chiudere le massicce imposte della stanza (infatti era già notte), di accendere i bracci di un alto candelabro posto a capo del mio letto e di scostare, aprendole quanto più poteva, le frangiate cortine di velluto nero che lo avvolgevano. Volevo che così fosse fatto perché, se non potevo abbandonarmi al sonno, desideravo almeno dedicarmi all’alternata contemplazione dei quadri e alla lettura di un volumetto trovato sopra il guanciale, che, a quanto sembrava, dei quadri offriva e la critica e la descrizione.

A lungo, a lungo lessi – e religiosamente, devotamente contemplai; le ore volarono rapide e gloriose, e giunse la profonda mezzanotte. La posizione del candelabro mi disturbava, e stendendo la mano con difficoltà per non destare il mio valletto assopito, lo collocai in modo che i raggi cadessero in pieno sul libro.

Ma quest’atto produsse un effetto assolutamente imprevisto. I raggi delle numerose candele (poiché ve n’erano molte) penetrarono in una nicchia che una delle colonne del letto aveva fino a quel momento tenuto nell’ombra più fitta. Scorsi così nella vivida luce un quadro che prima m’era affatto sfuggito. Era il ritratto di una fanciulla, tenera eppur rigogliosa, quasi donna ormai. Diedi al quadro un’occhiata frettolosa, e poi chiusi gli occhi. Perché lo facessi, neppure io, dapprima, riuscii a comprenderlo. Ma mentre le mie palpebre restavano chiuse, analizzai rapidamente la ragione per cui le tenessi serrate a quel modo. Era stato un moto impulsivo per guadagnar tempo e pensare: per accertarmi che la vista non mi avesse ingannato; per acquietare la mia immaginazione, prima di volgere un altro sguardo, più calmo e sicuro. Di lì a pochi momenti ripresi a fissare il quadro.

Che ora vedessi giusto non potevo né volevo dubitare; poiché il primo bagliore delle candele su quella tela pareva aver dissipato il sognante stupore da cui i miei sensi erano posseduti, riportandomi di colpo alla lucidità del reale.

Il ritratto, l’ho detto, era quello di una fanciulla. Solo la testa e le spalle, eseguite, per usare la denominazione tecnica, alla maniera di “vignette” molto simile allo stile delle teste predilette da Sully. Le braccia, il seno, fin le punte dei capelli irraggianti si fondevano impercettibilmente con l’ombra vaga ma densa che faceva da sfondo. La cornice era ovale, riccamente dorata e filigranata alla moresca. Come opera d’arte, nulla poteva essere più ammirevole del dipinto in quanto tale. Ma non era pensabile che a destare in me un’impressione così subitanea e violenta fosse stato l’alto livello dell’esecuzione o l’immortale bellezza del viso. E ancor meno era ammissibile che la mia immaginazione, strappata dal dormiveglia, avesse scambiato la testa per quella di una persona viva. M’avvidi subito che le peculiarità del disegno, della tecnica pittorica e della cornice non potevano non dissipare immediatamente tale idea, impedendomi di indulgervi sia pure per un istante. Riflettendo intensamente su questi punti, rimasi per forse un’ora un po’ seduto, un po’ sdraiato, con gli occhi inchiodati sul ritratto. Infine, scoperto il vero segreto del suo effetto, mi abbandonai supino sul letto. Avevo scoperto che l’arcana magia del dipinto stava nell’espressione così vivida, così perfettamente conforme alla vita stessa che mi lasciò dapprima sbalordito e infine confuso, soggiogato, sgomento. Con profondo, reverente timore, rimisi il candelabro nella primitiva posizione. Sottratta così alla vista la causa del mio intenso turbamento, cercai ansiosamente il volume che trattava dei dipinti e della loro storia. Apertolo al numero che designava il ritratto ovale, lessi le vaghe e strane parole che seguono:

“Era una giovinetta di rara beltà, non meno leggiadra che colma di gaiezza. E funesta fu l’ora quando ella vide, e amò, e sposò il pittore. Era costui uomo dominato da un’unica passione, studioso, austero, e che nella sua Arte già aveva una sposa; ed ella era fanciulla di più che rara beltà, non meno leggiadra che colma di gaiezza; tutta luce e sorrisi, e giocosa come un giovane cerbiatto: piena d’amore e di tenerezza per tutte le cose, odiava solo l’Arte che le era rivale; temeva solo la tavolozza e i pennelli e gli altri fastidiosi strumenti che la privavano del volto dell’amato. Fu dunque cosa terribile per questa dama sentir parlare il pittore del suo desiderio di ritrarre la giovane moglie. Ma ella era umile e obbediente, e docilmente, per molte settimane, sedette nella buia sala della torre, dove solo dall’alto la luce filtrava sulla pallida tela. Ma il pittore si gloriava dell’opera sua che procedeva ora dopo ora, giorno dopo giorno. Ed era uomo di passioni, stravagante, forastico, perduto in un suo fantasticare; così che non volle vedere che la luce spettrale che cadeva in quella torre solitaria inaridiva salute ed animo della sua sposa, la quale andava illanguidendo in modo visibile a tutti, tranne che a lui. Ma ella sorrideva sempre, sempre: senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore (di cui grande era la fama) traeva da quel suo impegno un piacere fervido e ardente, e giorno e notte lavorava per ritrarre colei che tanto l’amava, e che tuttavia di giorno in giorno diveniva più languida ed estenuata. E, in verità, alcuni che avevano visto il ritratto parlavano sommessamente della sua somiglianza come di meraviglia grande, prova non meno dell’arte del pittore che del suo profondo amore per colei che così mirabilmente andava dipingendo. Ma alla fine, avvicinandosi l’opera al suo compimento, a nessuno fu più concesso di accedere alla torretta; poiché il pittore, invasato dall’ardore della sua creazione, di rado alzava gli occhi dalla tela, fosse anche per guardare il volto della sposa. E non voleva vedere che i colori che stendeva sulla tela erano tratti dalle guance di colei che gli sedeva accanto. E quando molte settimane furono trascorse e pochissimo restava da fare ancora – solo una pennellata sulla bocca e un tocco di colore all’occhio, lo spirito di lei guizzò ancora come la fiamma entro il becco di una lampada. E la pennellata fu data, e fu applicato il tocco di colore; e, per un attimo, il pittore ristette rapito davanti all’opera che aveva portato a termine; ma un attimo dopo, mentre ancora la contemplava, tremò e impallidì e inorridito, esclamando: ‘Questa è proprio la Vita!’ bruscamente si volse a guardare l’amata: Ella era morta!”.

Le sudamericane non sono più quelle di una volta

Nell’estate del 1990 si concludeva su Rete 4 la telenovela venezuelana Topazio. Un successo di ascolti che sublimava allo stesso tempo l’apice e la crisi di questo genere televisivo. Un’onda cominciata sulle reti private negli Anni 80 quando il pubblico, svezzato dagli sceneggiati Rai, si lasciò sedurre da un intrattenimento senza più mire pedagogiche. La schiava Isaura, Dancin Days, Anche i ricchi piangono furono una specie di seconda vita parallela per milioni di spettatrici. I personaggi, seguiti fedelmente lungo decine di puntate a cadenza quotidiana, diventarono a tal punto familiari da entrare in concorrenza sentimentale con i congiunti reali. La trama sempre centrata su una donna a cui tocca macinare ostacoli prima di coronare il suo sogno d’amore.

Se Dickens prendeva i lettori “a bambini morti”, il teleromanzo sudamericano prendeva i telespettatori “a bambini in cerca di genitori”. Sì, perché oltre alle disavventure di cuore non mancavano mai orfani, bambini adottati o scambiati nella culla. Proprio come in Topazio. Lei è una ragazza cieca e povera che conquista Gianluigi Sandoval, rampollo di una famiglia di Caracas. Quando i due si sposano, il padre di lui condanna l’unione. Ecco che la governante di casa rivela che Gianluigi è in realtà un figlio di contadini e Topazio la vera erede. Fu lei a scambiare i due neonati perché Sandoval bramava un maschio. Un altro topos ineludibile prescrive che la protagonista sia sempre dimessa e dal cuore puro e l’uomo che se ne innamora ricco, avvenente e un po’ cinico. In effetti in Topazio la regola si conferma con accenti parodistici. Lei vive in una capanna di bambù; lui ha l’aria sazia di chi è padrone del proprio spicchio di mondo. La povertà è sempre sinonimo di virtù, la ricchezza una colpa imperdonabile.

Paradigma rovesciato nelle eterne soap Usa dove al contrario il benessere è un valore morale. Come in Beautiful che prendeva il via proprio mentre finiva Topazio, quasi in un passaggio di testimone. Al tramonto delle telenovele sono subentrate, sempre nella lingua di Cervantes, le serie gemelle spagnole. I cliché restano gli stessi. Buoni e cattivi come nei fumetti. Vedi Il Segreto su Canale 5. La differenza è che non c’è più un perenne affresco con i kleenex pronti all’uso ma numerosi intermezzi da commedia. Dramma e levità si alternano e si confondono. Forse un segno dei tempi.

Ricorda con rabbia: quanta fatica avere vent’anni

E c’è una voce che mi urla corri. Corri, non voltarti indietro, che perdi terreno. Pure quando senti le lame nel fianco, continua a correre e non girarti mai.

Ci siamo rivoltati nella sabbia come due cani. Puzzavamo di alghe fradice e cacca di gabbiano. Mica lo so perché. Dovevamo fare questa gara. Non era una scusa per scopare. Non scopavo da tre settimane. Non mi veniva voglia, non me ne fregava più. A vent’anni. Che cazzo. Poi siamo tornati a Roma. Guidava Eli. E io dormivo. Mica stavamo insieme io ed Eli. Troppo figlia di mamma. Pure la macchina era di mamma. Non la mia, la sua. E gliel’abbiamo ridotta una merda. I sedili pieni di sabbia e fango. Una puzza dentro che stavi male. Io c’ho pure vomitato mi sa. Non mi ricordo.

L’avete mai visto mio padre quando va a lavorare? Si lava, si pettina poi esce. Sempre alla stessa ora. Dice sempre le stesse cose. Quando morirà, non se ne accorgerà nemmeno. Si pettinerà, uscirà e rientrerà a casa. Fino a quando uno gli dirà: Aldo guarda che sei morto, dove vai? E lui si metterà steso sul letto con le braccia sul petto e chiuderà gli occhi.

Eli s’è fatta un cane. L’ha preso al canile. È uguale davanti e di dietro. Non si capisce qual è la lingua e qual è il culo. Che te lo sei fatto a fare ’sto cane? Lei mi dice per andarci in giro. E poi? E poi basta. Che ti serve un cane? Mi piace. Questo cane ti piace? Sì mi piace. Questo cane che sembra un pugile col naso rotto e non riesce a respirare? Sì. Fa dei rumori strani. Lo so, mi dice lei. Mica ha una belle espressione. Lo so, a me piace, mi dice. Ma dopo che l’hai portato fuori? Lo riporto a casa. E che c’è di bello? Niente però a casa lo accarezzo, mi dice. Puzza. Mi lavo le mani. Ma ti lecca in faccia? Sì mi dà i baci. Lo sai che i cani si leccano il culo, poi te la passano la lingua in faccia? Non ci avevo pensato, mi dice. Pensaci e vedi se conviene tenersi un cane.

Ci penso spesso. Se uno va in televisione a fare il coglione lo pagano. Lo fotografano e gli regalano macchine e vestiti. Va in giro con le fiche vere pure se è frocio. Devo solo capire come si fa a stare in televisione. O a inventarsi una cosa che tutti useranno e diventi ricco sfondato. Tipo quello che ha inventato i computer. O il lenzuolo con gli angoli elastici.

A Eli gli è scappato il cane dal guinzaglio, è finito sotto un Suv. Quando il Suv se n’è andato, Eli m’ha detto che per terra c’era una chiazza di sangue col pelo. Non sembrava manco un cane. Poi m’ha chiesto se il cane secondo me ha sofferto. Io gli ho detto di no. Che neanche se n’è accorto. Eli m’ha detto che aveva tre anni. Ha campato solo tre anni. Per sette, gli ho detto io. Ogni anno di un cane vale sette. È morto a 21 anni. Che non è poco. Considerando il fatto che io a 20 mi sono già rotto il cazzo.

Mica sono un tossico di merda. Lo shaboo me lo fumo. E lo posso fare quando mi va. Sennò no.

Poi la mattina ti chiama una, che è un’amica di Eli, dice Eli ha fatto una cazzata. Vai a casa sua. Trovi tutti a piangere. Mica capisco. Che è successo? La madre m’abbraccia. Puzza. Non s’è lavata. Allora? Eli s’è buttata di sotto. Ha fatto un volo di venti metri e s’è stampata sull’asfalto. Mica lo so perché. Perché? Non lo so, non lo so, dice la madre e piange, dimmelo tu. E che cazzo, se non lo sai tu che sei la madre! Me la stacco che non la reggo proprio.

Esco dalla casa di Eli e guardo per terra, dove s’è spiaccicata. C’è segatura. Qualche chiazza, mi sa sangue. Eli è tutta lì. Come il cane che gli era finito sotto un Suv. Alla fine Eli = cane. Invece di andare a casa vado da Geco che sta alzato tutta la notte di guardia alle macchine in un garage. Porto da bere. Finiamo la bottiglia. Prendo un mazzo di chiavi e parto con una Bmw. Geco mi insegue, ma cade e non mi riesce a prendere. La Bmw è una spada. Mi faccio Roma Ostia in diciotto minuti.

Poi la vedo. Brucio i copertoni e la vetrina della banca si avvicina come quando sogni che cadi dall’alto. Un botto mai sentito. Vetri, fanali, metalli. Due airbag scoppiano. Io esco dalla macchina, una sirena urla che sembra pazza. Vaffanculo, un male agli zigomi e alla fronte. Mi tocco. La mano è rossa. Schiaccio i vetri ed entro nella banca. La sirena strilla e luci si accendono e si spengono. Sembra di stare fatti in mezzo a una pista. Ballo come un deficiente. Poi le sirene diventano tante. Arrivano dalla strada. Ce l’hanno con me sicuro. E c’è una voce che mi urla corri. Corri, non voltarti indietro, che perdi terreno. Pure quando senti le lame nel fianco, continua a correre e non girarti mai. Poi le gambe diventano pesanti. Non riesco a staccare i piedi dalla strada. Non vedo più bene. In bocca mi viene su una cosa che c’ha un sapore di miele e di vomito. La devo sputare. È rossa. È sangue, mi esce il sangue dalla bocca. E ce l’ho pure sulla pancia, il sangue. Che mica capisco da dove viene. La camicia è tutta sporca. Poi sento un ferro rovente nella schiena. Mi si piegano le ginocchia. La terra diventa cielo e sto con la faccia sull’asfalto. Piedi che s’avvicinano. Lontano un cane s’è messo ad abbaiare. Mi voglio girare e guardare il cielo. Forse respiro e ci sono le stelle che cadono. Faccio uno sforzo che il corpo mi sembra di cemento. Il cielo è buio, e le stelle non si vedono. Per terra non si sta neanche tanto male. Mi viene da chiudere gli occhi, sono stanco. Per fortuna st’estate è finita. Mi devo ricordare di portare i fiori a Eli. Mo’ dormo, che non dormo da tanto.

 

L’America riscoperta da Colombo con Kennedy e Joan Baez

Non basta un libro, romanzo o saggio che sia, a raccontare la vita di Furio Colombo. Forse meglio una serie tv con tante puntate quanti sono stati gli incontri, le situazioni, le imprese culturali e collettive a cui ha partecipato in una vita caleidoscopica.

Siamo di parte nello scrivere queste note: Colombo è tra i fondatori di questo giornale e uno dei nostri maestri. Ma, ancora una volta, nel leggere La scoperta dell’America (Aragno), raccolta di articoli che ne costellano la lunghissima carriera, anche noi ne scopriamo un pezzetto inedito, come in un viaggio tra matrioske inesplorate e impreviste.

Lui, che ha fatto il liceo con Edoardo Sanguineti, che poi è assistente universitario di Giovanni Conso, che vince insieme a Gianni Vattimo e Umberto Eco il primo concorso per giornalisti Rai sorseggiando l’aria di una Milano densa di vita e di cultura: il Piccolo Teatro, Giorgio Strehler e Paolo Grassi, la musica sperimentale di Luciano Berio, l’amicizia con Goffredo Parise, che gli farà incontrare Eugenio Montale, Elio Vittorini. Con Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani e moglie di Ottiero Ottieri, conosce Pier Paolo Pasolini, Guido Piovene, Alberto Moravia ed Elsa Morante.

A 25 anni viene ammaliato da Adriano Olivetti che lo manda a scoprire l’America: “Cerchi giovani come lei, umanisti, non tecnici, al resto pensiamo noi”, gli dice Olivetti mandandolo a dirigere la Underwood, la più grande fabbrica di macchine da scrivere appena rilevata. E a New York diventa amico di Ted e Robert Kennedy, Martin Luther King e Allen Ginsberg, Joan Baez e Franco Modigliani. In America capisce che il giornalismo è il suo mestiere e da lì consegna i racconti rinchiusi nel libro in cui – nelle interviste a Eleanor Roosevelt o Mohamed Ali, nei racconti della morte di John Kennedy o di Martin Luther King, nella carrellata di dialoghi con le eccellenze del tempo, Andy Wharol, Artur Schlesinger, Tom Wolfe, Arthur Miller, Susan Sontag, Bob Dylan – esprime l’amore per un’America complessa, fitta di scontri, in cui si respira il vento della liberazione e dei diritti civili.

Un’America riassunta dal volto di Robert Kennedy che “quando non lavorava taceva, non triste ma assorto. Nessuno, nel secolo, aveva avuto in America quel carisma, neppure suo fratello, neppure Roosevelt. Forse sarebbe stato un momento intenso e di breve durata, forse era il frutto di un’ossessione, la ricerca di un leader, che sembrava smuovere l’America, traversata dal tam tam incessante della gente giovane”.

L’America del Vietnam che viene fuori dalla lettera che gli rivolge Joan Baez dal carcere, arrestata per avere guidato una dimostrazione contro la guerra davanti al distretto militare di Oakland. “Joan Baez era in punizione, nessuna visita era possibile (tranne che per il padre, la domenica) e il telegramma inviatole per Capodanno da Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi e Federico Fellini era ancora nella sua casella, in attesa, con i biglietti di auguri di centinaia di ragazzi americani. La punizione fa perdere ai detenuti anche il diritto alla posta. Ma Joan Baez riuscì a farmi avere una lettera. Credo che meriti essere pubblicata”.

Se nelle cronache gli scappa la mano e scrive troppo, concorda i tagli o lascia fare al redattore (come fa ancora oggi), al quale domani invierà un telegramma: “Grazie per il magnifico editing”.

Difficile, del resto, non farsi scappare la mano quando nel primo anniversario della rivoluzione sei in una Cuba che ti riceve così: “La mattina del 31 dicembre 1960, primo anniversario della rivoluzione giovane e allegra che aveva messo in fuga il dittatore Fulgencio Batista, mentre festeggiava il capodanno all’Hotel Nacional, c’erano Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Françoise Sagan, accanto alla scaletta dell’aereo che veniva dal Messico. Io, che venivo da New York (allora c’era ancora un collegamento) da giornalista sono stato richiesto, da un soldato non giovane in divisa da Sierra e con la barba, di accostarmi al gruppo perché qualcuno sarebbe venuto a incontrarci. È in questa scena immobile e imbarazzata che arriva, troppo veloce, la jeep che sgomma e inchioda a pochi centimetri da noi. Un po’ lo sapevamo già che Guevara era Guevara”.

Dall’introduzione del curatore, Alberto Sinigaglia, la storia che suggella una vita romanzesca: “Nel settembre 1991 mentre stava andando ad Amburgo per intervistare il futuro cancelliere Schroeder, l’aereo su cui viaggiava è precipitato, nella tempesta, in una foresta vicino all’aeroporto di Kiel. Racconta di essersi alzato, tra i resti della cabina distrutta, come una statua di fango, di avere camminato intorno ai corpi affondati nell’erba, chiamando ‘C’è nessuno?’ per capire se c’erano sopravvissuti. Ma sentiva solo il fruscìo della pioggia nel sottobosco verdissimo. Ha pensato di avere già varcato il confine. Ma non ne ha mai scritto”. Un altro inedito, un’altra scoperta.

Stupro di gruppo in hotel, ragazza sotto protezione

La polizia israeliana ha aumentato la sicurezza attorno alla casa della ragazza di 16 anni che ha denunciato di essere stata stuprata, in quella che si ritiene una violenza di gruppo, in una camera di albergo di Eilat, cittadina vacanziera alla punta estrema di Israele. Un caso che ha suscitato sdegno e orrore nel Paese, condannato dall’intera leadership israeliana. La decisione è stata presa dagli agenti a causa della crescita di “violenti interventi online” nei confronti della ragazza stessa.

L’avvocato della giovane, Shani Moran, ha raccontato alla tv Kan che alcuni stanno cercando di trovare in rete video sullo stupro collettivo che si pensa siano stati girati dalle persone sospettate di aver preso parte ai fatti. L’avvocato ha poi spiegato che al momento dei fatti la sua cliente non era in condizione di “determinare il numero dei sospetti coinvolti” dopo che il proprietario dell’hotel ha detto che era stato visto un gruppo di 30 uomini. Secondo le ricostruzioni apparse sui media quegli uomini aspettavano il loro “turno” al di fuori della stanza dell’hotel.