Tangentopoli del petrolio, trema pure Obrador

Messico è in subbuglio dopo che l’ex direttore della compagnia petrolifera statale Pemex, ora sotto processo, ha presentato una memoria alla Procura in cui accusa di corruzione tre ex capi di Stato, due ex candidati presidenziali, quattro ex ministri e due governatori. Si tratta di esponenti dell’opposizione di centro-destra che sarebbero implicati negli ultimi 35 anni nelle tangenti pagate dalla compagnia brasiliana Odebrecht. Il quadro si è poi ulteriormente complicato perché è stato diffuso un video in cui si riconosce il fratello del presidente Obrador, Pio, ricevere nel 2015 denaro per il suo partito. Ieri il capo dello Stato ha ammesso che il documento “è autentico”. Gli analisti sostengono che le rivelazioni influenzeranno senza dubbio le legislative di medio termine che nel 2021 rinnoveranno parzialmente il Congresso federale. Lozoya ha accusato l’ex presidente Enrique Peña (2012-2018) e il suo ministro degli Esteri, Luis Videgaray, di essere “i principali referenti della corruzione di Odebrecht”.

Convention, da lunedì inizia il Donald show

Alla convention repubblicana, la prossima settimana, Donald Trump ha voluto invitare Patricia e Mark McCloskey: la coppia che in giugno puntò un fucile – lui – e una pistola – lei – contro manifestanti di Black Livers Matter che passavano davanti alla loro casa a St. Louis, Missouri. I due, sotto inchiesta per quel gesto, porteranno il loro sostegno al magnate presidente. I repubblicani cercano di rendere la loro kermesse, da lunedì 24 a giovedì 27, più frizzante di quella democratica, conclusasi giovedì notte con il sì alla candidatura di Joe Biden. Anche la convention repubblicana, a Charlotte, North Carolina, ma di fatto virtuale, sarà conclusa da un discorso di Trump, che parlerà dal South Lawn della Casa Bianca. La convention sarà un banco di prova per i conservatori aspiranti alla Casa Bianca per il 2024: Nikky Haley, ex rappresentante degli Usa all’Onu (ed ex governatrice della South Carolina), e pure la governatrice del South Dakota Kristi Noem e i senatori Tom Cotton (Arkansas) e Joni Ernst (Iowa). Tutti ‘trumpiani’ che subirebbero il contraccolpo d’una sconfitta di Trump a novembre. Il presidente e il suo vice Mike Pence hanno cercato, nelle ultime ore, di smorzare l’impatto, già modesto, della kermesse democratica. “In 47 anni, Joe non ha mai fatto nulla delle cose che dice. Non cambierà mai: solo parole!”, twitta Trump. E Pence alla Fox dice: “I democratici sono portatori di una visione che demolirà l’economia e causerà più violenze nelle strade”. Qualcosa è però cambiato nella strategia repubblicana, negli ultimi giorni. Dopo avere fatto fuoco e fiamme contro il voto per posta, Trump vi si è rassegnato (o convertito): ieri, il direttore delle poste, Louis DeJoy, un suo fedelissimo, ha garantito al Congresso che schede e voti saranno recapitati per tempo. In chiusura della convention democratica, Biden ha detto: “Uniti possiamo e riusciremo a superare questa stagione di tenebre”, riunendo insieme una nazione divisa. Il compito è familiare a Biden, noto come mediatore: deve trovare un equilibrio tra la sinistra del partito e i moderati, compresi gli elettori repubblicani che cercano un’alternativa loro accettabile a Trump.Per il magnate “Joe è il peggiore incubo”, un “pupazzo della sinistra radicale che vuole distruggere l’America … vi porterà via le vostre armi … farà il maggiore aumento delle tasse della storia, sprecando poi i soldi per il Green New Deal”.

Bannon: l’arresto e i 5 incubi che tolgono il sonno a Trump

Kellyanne Conway, consigliera del presidente Donald Trump – e sua stratega della comunicazione in campagna elettorale – deve sentirsi ben sola alla Casa Bianca. Sola e preoccupata.È rimasta l’unica della campagna 2016 ancora vicina a Trump; ed è anche praticamente l’unica a non avere – fin qui – avuto guai con la giustizia, dopo il rinvio a giudizio e l’arresto, giovedì, di Steve Bannon. L’unica ‘monelleria’ che le si attribuisce risale al 28 febbraio 2017: i fotografi la ripresero nello Studio Ovale in atteggiamento assai informale: seduta sulle ginocchia e con i piedi sul divano, armeggiando con lo smartphone, durante un incontro ufficiale.

Invece, almeno sei suoi sodali della campagna 2016 sono finiti dietro le sbarre. Bannon è l’ultimo: comparso ‘virtualmente’ in tribunale in manette e dichiaratosi “non colpevole” di frode, gli è stata concessa la libertà condizionata in cambio di una cauzione da 5 milioni di dollari e con restrizioni sui movimenti: può viaggiare fra New York e Washington, ma non può recarsi all’estero o usare aerei o barche privati. Bannon, stratega nel 2016 della campagna di Trump e poi suo consigliere alla Casa Bianca fino all’agosto 2017, è stato preso su uno yacht di 45 metri da 28 milioni di dollari, il Lady May, proprietà di Guo Wengui, miliardario cinese che sarebbe ricercato da Pechino per frode e tangenti. L’inchiesta che lo coinvolge investe un’organizzazione chiamata ‘We Build the Wall’, ‘costruiamo il muro’: raccoglie fondi per tirare su il muro anti-migranti lungo il confine con il Messico, che Trump non riesce a portare a termine. Con Bannon, sono accusati Brian Kolfage, Timothy Shea e Andrew Badolato: raccoglievano i soldi, ma invece di usarli per costruire il muro, se li spartivano e se li spendevano. La vicenda Bannon, riflettono molti osservatori fra cui The Hill, la rivista del Campidoglio di Washington, potrebbe avere un effetto domino sul percorso del presidente. Sono cinque i punti delicati.

Un team dietro le sbarre – Prima di Bannon, del team 2016 sono stati accusati di reati federali e finiti in carcere Paul Manafort, il manager della campagna, tuttora detenuto; Rick Gates, il suo ‘numero due’, che ha collaborato e patteggiato; l’amico e consigliere di Trump, Roger Stone, graziato; il consigliere Michael Flynn, tuttora in bilico; e l’avvocato Michael Cohen, il cui libro sta per fare rumore.

Qualcosa da nascondere? – La Casa Bianca ricorda che Trump ha sempre detto che il muro deve essere un progetto pubblico perché “troppo grande e complicato per essere gestito da privati”. Ma, nel gennaio 2019, l’ex governatore del Kansas, Kris Kobach disse: “Ho parlato con il presidente: l’iniziativa We Build The Wall ha la sua benedizione”.

Se Bannon canta – Bannon rischia fino a vent’anni di carcere. Gli inquirenti, che stanno indagando su altre figure vicine al presidente, come il suo attuale avvocato Rudolph Giuliani, potrebbero cercare di ottenere informazioni utili alle loro indagini, alleggerendo la sua posizione.

Rapporti con i magistrati tesi – Trump ha spesso la tentazione di cavarsi d’impaccio licenziando chi gli dà fastidi. A giugno, cacciò Geoffrey Berman, il procuratore generale del Southern District di New York, quello che indaga su We Build the Wall e su Bannon. Il repentino licenziamento aveva qualcosa a che vedere con l’inchiesta, in corso da ottobre?

La dichiarazioni dei redditi – L’indagine su Bannon si sovrappone a quella portava avanti a Manhattan – un altro distretto – sulle dichiarazioni dei redditi del presidente, i cui legali stanno facendo di tutto per ritardare il momento in cui dovranno produrre i documenti finora negati ai cittadini, al Congresso e alla Giustizia. L’obiettivo è ritardarne la consegna a dopo le elezioni. Ma l’ossessione di Trump di non divulgare le informazioni alimenta interrogativi su cosa mai contengano quelle dichiarazioni.

Il blogger sarà portato a Berlino. Mosca prende tempo, poi l’ok

Fine della cura siberiana e luce verde per il trasferimento in Europa: scortato dai medici tedeschi, Aleksej Navalny, in rianimazione per presunto avvelenamento, potrà raggiungere in elicottero Berlino. Secondo altre fonti lo attende una clinica in Germania, ad Hannover. “Rimarrà con noi finché non sarà stabile”: lo ha ripetuto fino all’ultimo Alexander Murakhovsky, primario dell’ospedale di Omsk dove era ricoverato l’oppositore dopo l’atterraggio d’emergenza del volo che avrebbe dovuto riportarlo a casa, a Mosca, due giorni fa Il medico russo ha avanzato svariate diagnosi per l’improvviso coma in cui è caduto il blogger: “Insufficenza di zuccheri nel sangue, una malattia del suo metabolismo, il contatto con sostanze chimiche dannose” con cui sarebbe entrato in contatto durante il suo tour tra le città della taiga siberiana, le cui tracce sarebbero state trovate anche sui suoi vestiti e sotto le sue unghie. Altre due ipotesi dei camici bianchi russi non sono state ancora divulgate.

Tutti in Siberia: collaboratori e parenti, squadra e famiglia del blogger, davanti alle telecamere, sin dal primo giorno, continuano a puntare l’indice contro il Cremlino che aveva negato fino a ieri sera il trasferimento, nonostante un velivolo messo a disposizione da un’ong tedesca fosse pronto a decollare da due giorni. Ivan Zhdanov, direttore del Fondo anti-corruzione del blogger, e il fratello dell’oppositore Oleg, come la moglie Yulia, – che si è rivolta direttamente e pubblicamente al presidente russo – hanno fatto eco alla portavoce di Navalny, Kira Yarmysh, che ha continuato ad accusare il governo Putin di voler cancellare o inquinare le prove dell’avvelenamento del suo leader. Per la Yarmush si ripete lo scenario di un anno fa, quando Navalny fu avvelenato da una sostanza chimica mentre era in prigione.

Ai dissidenti polonio e pallottole

Opporsi a Putin aumenta la possibilità di morte violenta. Il caso più drammatico è quello di Alexander Litvinenko, agente di secondo piano dell’Fsb russo, il nuovo Kgb. Reclutato dal MI6 e diventato cittadino britannico, con le sue critiche pubbliche e informazioni sulla nuova classe dirigente russa si era fatto molti nemici. Viene avvelenato a Londra con un dose mortale di polonio-210 l’1 novembre 2006 mentre è con gli ex agenti del Kgb Andrei Lugovoi e Dmitri Kovtun. Non muore subito: l’immagine di lui agonizzante in ospedale diventa un macabro simbolo dello scontro fra Russia e Occidente. Le relazioni diplomatiche fra Mosca e Londra vengono congelate. Al termine di una lunga inchiesta, Londra indica in Lugovoi e Kovtun i responsabili dell’omicidio, Putin li premia con onori di stato. Il caso più recente è quello di Sergei Skripal, ex colonnello del Kgb poi informatore dei servizi inglesi, che gli garantiscono protezione. Il 4 marzo 2018 a Salisbury, dove risiede, viene avvelenato, assieme alla figlia Julia, in visita da Mosca, con l’agente nervino Novichock. Una successiva inchiesta di Bellingcat individua i colpevoli in due alti ufficiali del Gru, il servizio di sicurezza militare russo.

Le ripercussioni diplomatiche sono gravi, ma il Cremlino garantisce loro protezione. Gli Skripal si salvano e sono stati trasferiti in una località segreta. In “circostanze misteriose” muore Boris Berezovsky, uno dei più ricchi oligarchi dell’era Yeltsin, prima grande sponsor e poi arci-nemico di Vladimir Putin, che lo costringe all’esilio a Londra. Lo trovano impiccato nella sua villa in Berkshire nel 2013.

Non ci sono segni di lotta, ma il coroner non riesce a raggiungere la certezza che si sia ucciso. Nel 2014 un suo socio inglese, Scott Young, cade dalla finestra e muore infilzato dalla ringhiera sottostante. Scotland Yard chiude rapidamente l’inchiesta dichiarando il suicidio. Nel marzo 2018 viene trovato morto un altro collaboratore di Berezovski, l’uomo d’affari ed ex direttore di Aeroflot, Nikolai Glushkov. Era pronto a testimoniare sull’uso di fondi di Aeroflot per finanziare una rete di spie all’estero. La morte, inizialmente classificata come “inspiegabile”, viene in seguito trattata come omicidio. Era sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento a Bristol, cinque anni prima.

Vengono ammazzati invece a Mosca due altri grandi critici di Putin: una è la giornalista Anna Politkovskaja, uccisa a colpi di pistola nell’ascensore del suo palazzo nell’ottobre 2006. Due anni prima era sopravvissuta a un avvelenamento. L’altro è Boris Nemtsov, uomo politico e leader del movimento liberale Solidarnost che si opponeva alle crescenti tendenze autocratiche di Putin. Gli sparano alle spalle, il 27 febbraio 2015, poco prima di mezzanotte, a pochi metri dalla piazza Rossa.

Navalny, l’ultima sfida: fermare Putin in Siberia

Veleni, radiazioni, segreti: dall’epoca sovietica tutto questo è seppellito nella steppa siberiana. E ora gli stessi misteri circondano la sorte di Aleksej Navalny, caduto in coma proprio al rientro dalla trasferta in quella regione. Le ultime due tappe della sua maratona di comizi contro il Cremlino erano in Siberia: Novosibirsk e Tomsk, che apriranno le loro urne per le elezioni parlamentari, insieme ad altre decine di regioni russe, il prossimo 13 settembre. “Tomsk, una delle città più belle del nostro Paese”.

Qualche ora prima di cadere in coma la descrive così il blogger stesso in un commento a una delle ultime foto che si scatta sorridendo con i “bravi ragazzi”, i candidati indipendenti che una settimana fa era arrivato a supportare, volontari locali del suo Fondo Anti-corruzione. Questi candidati sono dei piccoli Davide pallidi e disarmati, – attenti alla difesa dell’ambiente in una terra le cui foreste bruciano ogni estate e dove le catastrofi ambientali si susseguono – che sfidano vecchi Golia sovietici, da anni al potere nella regione-feudo di Russia Unita, il partito del presidente. A Tomsk dal 2013 il sindaco della città è l’ex dirigente della fabbrica di birra locale, Ivan Kljain, membro del partito di Putin; così come l’uomo che occupa la poltrona del governatore dal 2012, Serghey Zhvachkin. Se il primo ha fatto carriera con l’alcol, il secondo deve la sua fama agli investimenti delle compagnie energetiche russe che hanno fatto della Tpu, l’università del Politecnico di Tomsk, e degli altri cinque atenei della città, i serbatoi dove attingere i migliori studenti universitari, selezionati in tutta la Russia. Si è specializzato lì perfino il sovietico Valery Legasov, lo scienziato che limitò la catastrofe di Chernobyl nel 1986.

Ricomparsa sulle mappe ufficiali solo al crollo dell’Urss, Tomsk fino al 1991 era una “città chiusa”, ovvero segreta, quanto segreto si tentò di tenere il letale incidente all’impianto chimico che avvolse più volte il suo cielo di nubi radioattive. Navalny nei giorni scorsi era in quelle lande remote per due motivi: spiegare la tattica collaudata del suo sistema di “voto intelligente” che in precedenza ha sottratto seggi ai candidati dal Cremlino, e girare dei filmati che sarebbero finiti nel suo archivio d’inchieste sulla corruzione degli uomini di quello che chiamava “partito dei ladri”, attivo in un pezzo di Federazione troppo lontano dalle due teste del Paese, – la tradizionalista Mosca, la filoeuropea Pietroburgo – per essere veramente controllato.

Nella “terra che dorme” – questo vuol dire Sibir – le proteste contro il governo si susseguono da mesi anche grazie alla lontananza dalla Duma centrale, e minano l’immagine di un presidente che su tutto veglia, regna e decide. In Estremo Oriente si trova anche Khabarovsk, la piccola Minsk di Putin, che scende per strada a manifestare contro il Cremlino da sei settimane senza che nessuno la fermi. Hanno censurato spesso questa informazione le tv di Stato, Navalny la rilanciava sul suo blog continuamente.

Libia, prove di tregua: Tripoli e Tobruk lasciano da solo Haftar

Si accende una speranza nella tormentata storia della Libia precipitata in una guerra civile dopo la caduta del dittatore Muhammar Gheddafi nel 2011, un conflitto nel quale sono entrati pesantemente in gioco altri Paesi attratti dal mare di petrolio su cui galleggia il Paese nordafricano.

Il governo libico di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite ha annunciato venerdì un cessate il fuoco in tutto il Paese, e ha chiesto la smilitarizzazione della contesa città strategica di Sirte. Il governo di accordo nazionale (GNA) con sede a Tripoli ha chiesto anche la fine del blocco petrolifero imposto dalle forze rivali, che controllano l’Est del Paese. Secondo il Gna, elezioni parlamentari e presidenziali dovrebbero tenersi nel prossimo marzo. Al-Sarraj “ha impartito istruzioni a tutte le forze militari di cessare immediatamente il fuoco e tutte le operazioni di combattimento in tutti i territori libici”, si legge in un comunicato.

All’annuncio di Tripoli ha fatto eco quello di Aguila Saleh – presidente del Parlamento libico dell’Est – la zona nelle mani del generale Khalifa Haftar. “Chiediamo a tutte le parti di osservare il cessate il fuoco immediato e fermate tutte le operazioni militari in tutta la Libia”. Saleh nella sua dichiarazione sostiene che “il cessate il fuoco taglia la strada a ogni ingerenza straniera e si deve concludere con l’uscita dei mercenari dal Paese e lo smantellamento delle milizie”. “Cerchiamo di voltare la pagina del conflitto” – ha detto il presidente del Parlamento di Tobruk – “e aspiriamo a un futuro di pace e alla costruzione dello Stato attraverso un processo elettorale basato sulla Costituzione”. Anche per Al-Sarraj l’obiettivo ultimo della tregua è quello di imporre “la piena sovranità sul territorio libico e la partenza di forze straniere e mercenari”. Il premier non specifica quali. Ma lascia capire che dovrebbero lasciare la Libia sia le forze turche che assieme ai mercenari siriani hanno sostenuto il governo di Tripoli, sia i mercenari russi, egiziani e africani, che appoggiano le forze armate di Khalifa Haftar in Cirenaica.

Il leader di Tripoli, Fayez al-Sarraj, ha precisato che secondo la sua parte il cessate-il-fuoco entrerà in vigore “su tutto il territorio della Libia”, e ha aggiunto che la tregua comprenderà anche la “smilitarizzazione di Sirte e Jufra”, due località strategiche occupate negli ultimi mesi dalle forze del generale Khalifa Haftar dove la Russia ha schierato aerei da caccia. La questione della smilitarizzazione di Sirte e della base aerea di Jufra è molto controversa: nei prossimi giorni si vedrà se effettivamente le autorità dell’Est hanno sottoscritto un accordo che includa una clausola del genere.

Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il principale sponsor del generale Haftar, ha commentato con favore l’accordo: “Accolgo con favore le dichiarazioni del Consiglio presidenziale libico e della Camera dei rappresentanti per un cessate il fuoco e la fine delle operazioni militari in tutto il territorio della Libia”, ha scritto al Sisi in un tweet. “È un passo importante per ristabilire la stabilità nel Paese”. L’intervento immediato di al Sisi conferma che l’Egitto è stato coinvolto direttamente nel negoziato, lo ha approvato anche contro il parere del generale Haftar che sembra entrato in una parabola discendente. Una possibilità è che, dopo i suoi insuccessi militari, Haftar sia stato convinto ad accettare un accordo politico, il cui annuncio pubblico è stato infatti affidato al presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh. Nell’aprile dello scorso anno, Haftar aveva interrotto di colpo le trattative diplomatiche mediate dall’Onu e aveva cercato di occupare Tripoli con la forza, grazie ai cospicui aiuti di Russia, Egitto ed Emirati Arabi. In novembre sembrava vicino a far cadere Tripoli nelle sue mani ma poi l’intervento turco aveva rovesciato le sorti della battaglia e anche della guerra. Da almeno sei mesi, Haftar è costretto sulla difensiva e rischia addirittura di venire rovesciato dalle tribù della Cirenaica. Forse è troppo presto per parlare di eclissi del generale; solo qualche giorno fa il suo portavoce, Mismari, aveva annunciato che le sue forze non avrebbero ceduto un centimetro nella regione di Sirte e Jufra. Il significato più importante dell’annuncio congiunto appare come il frutto del recente impegno diplomatico statunitense per unificare il Paese e soprattutto per porre un argine all’intervento di Mosca. Trattative serrate sono avvenute nei mesi scorsi in Marocco e Tunisia, dove si era recato lo stesso Segretario di Stato, Mike Pompeo. Le dichiarazioni dei due schieramenti per la fine delle ostilità e l’attivazione di un processo politico sono state favorevolmente accolte dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), dall’Italia e dalla Germania, che ospitò in gennaio la conferenza dei Paesi Ue sulla crisi libica. Resta ora da vedere se alle parole seguiranno davvero fatti concreti.

Mail Box

 

I poveri hanno maggiore dignità dei furbastri

Egregio Travaglio, ho ottant’anni, ho dedicato tutta la mia vita allo studio per la salvaguardia del napoletano, e ho una pensione di 650 euro. Più che conoscere i nomi dei cinque (dis)onorevoli che hanno ottenuto il bonus da 600 euro per le partite Iva e quelli degli altri benestanti professionisti vorrei sapere se questi “signori” abbiano mai visto quanta indigenza colpisce quella fascia di popolazione silenziosa e senza diritti e che cerca nei cassonetti della “monnezza” resti di cibo per sfamarsi. O se sappiano quanti poveri anziani, acciaccati e tremanti, sono costretti a passare ore nella saletta di attesa di un patronato per tentare di ricevere un aiuto dall’Inps o dal Comune. Mi torna in mente quando l’allora ministro De Lorenzo e il suo degno compare Poggiolini accumulavano illecitamente lingotti d’oro, gioielli e montagne di denaro mentre migliaia di poveri cristi morivano in attesa di ricevere l’esenzione dal ticket. Poco o nulla è cambiato da allora, basta pensare a Formigoni, all’Expo, al Mose, a Mafia Capitale, ai camici della Regione Lombardia, ai milioni che si è fregata la Lega. Vorrei sapere se tutti questi “signori” sanno quanto squallido e miserabile è ciò che hanno fatto!

Raffaele Pisani

 

Il contagiato è pericoloso anche se non è un malato

Caro direttore, Vittorio Sgarbi (su Instagram) sostiene che “il contagiato non è un malato” e che impedire ai giovani di andare in discoteca è un atteggiamento da dittatura. Il virus, continua Sgarbi, può provocare guai soltanto se una persona è già malata o debilitata. Ora però in qualità di nonno vorrei dire: un nipote sano va in discoteca e, potrebbe beccarsi il virus, poi a tarda ora torna a casa dai genitori e/o dai nonni. Ebbene, se uno di questi non è in buone condizioni di salute – come dice Sgarbi – può aggravarsi. Pare quindi lecito chiedersi: e allora?

Luciano Favari

 

Gallera, Fontana & C. beccati dal “Fatto”

Mercenari che non siete altro. Ho capito tutto: il trio Travaglio, Padellaro, Scanzi è stato assoldato dalla Raggi & C. per screditare la Lombardia e i suoi ottimi dirigenti. Le prove sono tutte nelle cronache di quell’arma chiamata in gergo il Fatto Quotidiano. Basta elencare i fatti dell’ultima settimana: 1) il valido assessore Gallera è stato colpito da una pallinata alla testa mentre giocava a paddle, se la caverà non essendo interessata nessuna sua parte vitale; 2) nell’aeroporto più leghista d’Italia, a oggi, non sono ancora attivi i sistemi di controllo anti Covid per i passeggeri in arrivo dalle zone a rischio; 3) il poco utile Bertolaso Hospital chiede ai suoi sostenitori una barca di soldi da aggiungere a quelli in atto per il suo mantenimento; 4) a Carnate, stazione delle Ferrovie Nord della Regione, un treno ha deciso di partire da solo per dimostrare che non solo i giapponesi fanno marciare i treni senza conduttori, purtroppo l’esperimento è finito male. E i giudici rossi che fanno, direbbero a Rete 4, non indagano?

Franco Novembrini

 

Parlamento: meno soldi anziché poltrone

Stimato dottor Travaglio, a proposito della sua risposta al professor Alfiero Grandi che perorava il No al Referendum del 20/21 settembre, ho notato che né tra gli argomenti di Grandi, né nella sua articolata risposta prendete in considerazione un dato di fatto: comunque vada, non si parlerà più di ridurre gli stipendi ai parlamentari (e quindi alla “casta” in generale) nonostante quest’ultimo fosse un obiettivo che il M5S si era dato “appena fosse andato al governo”. A mio modesto avviso sarebbe stato meglio tagliare gli appannaggi e le prebende, sia ai parlamentari che ai consiglieri regionali, piuttosto che ridurre così drasticamente il numero dei “rappresentanti del popolo”.

Mauro Chiostri

 

Caro Chiostri, fare una riforma non vuol dire impedirne altre. Noi, come sul taglio del numero dei parlamentari, continueremo a batterci anche per il taglio degli emolumenti (basta una legge ordinaria) per equipararli alla media degli altri parlamenti d’Europa.

M. Trav.

 

È necessaria una legge per le liti temerarie

Ho appena letto che l’omino di Rignano continua a fare il prepotente, inviando le citazioni direttamente a casa. Cosa aspetta il Parlamento a fare una legge per le liti temerarie? A Renzi non costa niente o quasi avviare l’iter per querelare. Non rischia nulla se non la solita figuraccia che però, anche se calano i consensi, non lo toccano nel portafoglio (parte più sensibile del suo essere). Forza Fatto! Siamo in tanti con voi, per arrivare a una moralizzazione della vita comune, oltre questi personaggetti.

Paolo Benassi

 

La crisi ambientale è già in atto (Mercalli docet)

Leggere gli articoli di Luca Mercalli fa male poiché prevede il futuro che ci attende. Sappiamo che il mondo è dominato dalle multinazionali e dai grandi investitori, e costoro – che dispongono di risorse economiche enormi – se ne fregano del domani. Siamo succubi di chi ritiene di avere diritto di cementare, inquinare, distruggere la natura, che poi ci ripaga con disastri naturali. Anche Greta Thunberg è già stata archiviata, e mentre girava il mondo per protestare contro il degrado ambientale in atto veniva sbeffeggiata.

Ermanno Migliorini

“The Irishman”. Il punto di vista dei malavitosi non è mai affidabile

 

Buongiorno. Sarebbe molto bello se il Fatto dedicasse un articolo al caso Hoffa, agli intrecci tra la mafia, la politica e il sindacato nell’America Anni 60-70 e al modo in cui tutto questo viene analizzato e messo in scena in “The Irishman” di Scorsese.

Marco Scarponi

 

Gentile Lettore, la figura di Jimmy Hoffa e la sua fine, tuttora irrisolta per gli inquirenti, ispira libri e film da decenni ed è forse uno dei misteri americani destinati a restare insoluti nei dettagli. E possiamo fin d’ora scommettere che, avvicinandosi il 2025, cioè mezzo secolo dalla sua scomparsa, fioriranno altre “verità” e articoli, forse anche su “Il Fatto”. “The Irishman”, l’opera di Martin Scorsese cui lei si riferisce, ha un cast eccezionale: Robert De Niro; Al Pacino (Hoffa); Joe Pesci… Il film è molto intenso, ma è sempre un film, non è un’opera di storia. Come film, e non libri di storia, sono le altre versioni cinematografiche sul caso: “F.i.s.t.” del 1978 di Norman Hewison, con Sylvester Stallone; “Hoffa, Santo o mafioso?” del 1992 di Danny DeVito con Jack Nicholson; o i riferimenti di “C’era una volta in America” di Sergio Leone del 1984. E solo un film è il “Jfk” di Oliver Stone del 1991, che fa propria la tesi che J. F. Kennedy sia stato ucciso a Dallas da un “complotto” tra esuli cubani e mafiosi italo-americani, che si sarebbero sentiti traditi anche per le “attenzioni” loro dedicate dal segretario alla Giustizia, Robert Kennedy, lo stesso che mise nel mirino Hoffa. Raccontare un pezzo di storia d’America attraverso la testimonianza d’un malavitoso è esercizio improbabile e rischioso, come riscrivere la storia d’Italia sui racconti d’un pentito di Mafia. Che ha sempre interesse, la Mafia, a ingigantire il proprio potere. Certo, la storia di Hoffa incrocia vari pezzi di storia americana: un sindacalismo spesso muscolare, l’intreccio tra sindacato e mafia e affari e politica, la corruzione, i trucchi della Giustizia per colpire i criminali (che vanno in carcere per non avere pagato una multa, o le tasse, invece che per i delitti di sangue). Ed è una storia che continua: il figlio di Hoffa, James P. Hoffa, non quello in affido che nel film guida l’auto, è da 21 anni il presidente del sindacato degli autotrasportatori.

Giampiero Gramaglia

Il canale “all news” che può riabilitare l’informazione Rai

“C’è qualcosa nell’informazione di oggi che lascia ogni tanto margini di nostalgia per come, un tempo, fu interpretata e vissuta”.

(Sergio Zavoli – Abstract dei Seminari sui servizi radiotelevisivi – Senato della Repubblica, 2010 – pag. 12)

 

Con la nomina di un giornalista formato alla scuola della radio come Andrea Vianello, neo-direttore di Rai News 24, c’è da augurarsi che il canale “all news” della televisione pubblica possa assumere ora un ruolo centrale in quella funzione istituzionale di servizio che è imperniata sul pluralismo dell’informazione. È proprio questa la lezione fondamentale che ci lascia un “maestro” qual è stato l’ex presidente dell’azienda Sergio Zavoli. Anche lui proveniva dal giornalismo radiofonico ed era passato a quello televisivo interpretando, prima davanti ai microfoni e poi davanti alle telecamere, il modello di un’informazione come dovere etico e civile.

Interattiva per sua natura, istantanea e capillare, la radio rappresenta ancor più della tv l’essenza stessa del servizio pubblico. Qui si dialoga e si discute piuttosto che litigare o insultarsi, come avviene generalmente nei talk show televisivi. Si parla a turno, le voci non si sovrappongono, la sostanza prevale sull’apparenza e la forza dei contenuti domina sulle suggestioni delle immagini. La politica, buona o cattiva che sia, non si trasforma in spettacolo, propaganda, imbonimento. Valga come esempio la trasmissione Radio anch’io, condotta quotidianamente con equilibrio e capacità critica su Rai Radio 1 da un professionista collaudato come Giorgio Zanchini all’insegna del contraddittorio.

Finora, pur avendo aumentato il suo share negli ultimi mesi sull’onda dell’emergenza per l’epidemia di coronavirus, Rai News 24 è stata la cenerentola della tv pubblica; relegata in uno spazio accessorio, marginale, quasi fosse un supplemento delle tre reti generaliste. E invece, nell’era dell’informazione on demand e in tempo reale, dovrebbe rappresentare il canale primario della Rai per trasmettere un flusso continuo di notizie, servizi, inchieste, opinioni e commenti. Cioè per comunicare ininterrottamente con i telespettatori, 24 ore su 24, in base alle loro esigenze, ai loro tempi e interessi. Magari senza saccheggiare i quotidiani con le sue rassegne stampa invasive, privilegiando i cosiddetti “giornaloni” e omettendo di citare una testata come Il Fatto perfino quando intervista il presidente del Consiglio.

Nell’arco della giornata, il pubblico di oggi non può o non vuole più aspettare gli orari canonici dei telegiornali su Rai Uno, Rai Due o Rai Tre, per sapere che cosa è accaduto in Italia e nel mondo. S’informa quando ha tempo o quando ne ha voglia, anche in mobilità, a casa o in ufficio, come accade con la radio. E magari, preferirebbe avere la possibilità di scegliere una gerarchia o un menù di argomenti che più gli interessano in quel momento, la politica piuttosto che lo sport, l’economia piuttosto che la cronaca nera.

Naturalmente, per valorizzare il canale “all news”, occorrerebbe una riorganizzazione degli altri telegiornali, trasferendo a Rai News 24 risorse professionali ed economiche. Ciò significa ridurre di numero le edizioni dei tg, scegliendo per ciascuna testata un “taglio” di maggior approfondimento e qualità in rapporto al target delle rispettive reti. Si tratta di aggiornare gli attuali modelli informativi, per renderli più adeguati e funzionali alle nuove aspettative del pubblico. E anche di modificare gli assetti di potere imposti dalla logica partitocratica della lottizzazione.