Il Museo della lingua italiana è un atto di politica culturale

Dopo tante discussioni e i lavori di un gruppo di studiosi, finalmente il primo Museo della lingua italiana prende corpo. Ci sono il finanziamento e la sede. Si passa dall’astrattezza di un bel progetto sulla carta (G. Antonelli, Il Museo della lingua italiana) alla concretezza della sua fattibilità in un luogo strategico. L’Italia, come molti altri Paesi, avrà il suo Museo della lingua (Museums of Language and the Display of Intangible Cultural Heritage, a cura di Sönmez, Wellington Gahtan, Cannata).

I luoghi hanno un forte potere evocativo. Il Museo nascerà a Firenze nel complesso di Santa Maria Novella, davanti alla Stazione ferroviaria. La prima pietra della Basilica è stata posta, pare, nel 1279, poco dopo la coniazione del fiorino d’oro, emblema della potenza economica della città, alla quale è strettamente legata una civiltà della scrittura volgare unica in Europa. La facciata della Basilica si deve a Leon Battista Alberti, autore della prima grammatica del toscano parlato. La Stazione ferroviaria è il capolavoro razionalista di un altro grande architetto, Giovanni Michelucci, costruita negli anni Trenta del Novecento, in un periodo di grande fervore culturale di Firenze. Medioevo, Rinascimento, Contemporaneità sono dentro e fuori il nuovo Museo.

Ma sgomberiamo subito il campo da ogni equivoco. Se Firenze è stata fondamentale nella storia della nostra lingua (basti pensare a Dante), il Museo avrà certamente carattere nazionale e internazionale. L’italiano nel mondo continua a essere amato e studiato. Tuttavia la nostra lingua ha bisogno di essere conosciuta e valorizzata oggi più che mai con la globalizzazione. Per questo il Museo rappresenta un atto rilevante di politica linguistica, tanto più apprezzabile vista la poca attenzione finora riservata dallo Stato alla nostra lingua.

Molti hanno scritto di un Museo interattivo, con laboratori didattici d’avanguardia. Certo. Sappiamo che ogni lingua è un bene immateriale in movimento, che tuttavia ha lasciato nel tempo e nello spazio tracce materiali consistenti. Le tracce dell’italiano le troviamo ovunque, nella toponomastica, nel visibile parlare, in manoscritti e libri, nelle scritture private, nelle registrazioni del parlato pubblico (cinema, radio, tv, teatro). Si studierà il modo per collegare queste tracce, creando una rete di applicazioni diffuse. Il Museo guiderà ogni visitatore a ritracciarle, osservarle, conoscerle. Da Firenze al mondo, dal mondo a Firenze, perché nel Museo si esporranno naturalmente anche molti beni materiali significativi.

Si è insistito anche su un Museo aperto a tutte le varietà: l’italiano della scienza, della letteratura, del diritto, dell’arte, della musica, della predicazione, della cucina. Certo. Tuttavia sarà essenziale non perdere di vista un obiettivo prioritario: valorizzare le due caratteristiche fondamentali della nostra storia, il multilinguismo accentuato (volgari medievali e poi italiano, dialetti, lingue minoritarie, lingue straniere, lingue immigrate) e la grande continuità storica di tutte le lingue d’Italia, in particolare dell’italiano. Entrambi questi elementi, multilinguismo e continuità, che ci distinguono nel mondo, rappresentano una ricchezza della nostra storia e insieme una straordinaria potenzialità verso il futuro, contro le troppo pessimistiche previsioni della morte della nostra lingua. Il Museo sarà il luogo ideale per far conoscere a un pubblico largo un patrimonio in gran parte sconosciuto e per far crescere la consapevolezza del suo enorme valore. In questo particolare momento, in cui è urgente avviare imprese culturali innovative, la creazione del primo Museo della lingua italiana credo abbia un valore incontestabile.

 

 

Referendum, il taglio non svilisce le Camere

La riduzione dei parlamentari arriva al referendum del 20 e 21 settembre prossimi dopo decenni di proposte: da quella della Commissione Bozzi (1983) a quella della Commissione D’Alema (1997), dalla riforma del governo Berlusconi (2006) a quella del gruppo di lavoro istituito dal Presidente Napolitano nel 2013 e quindi – limitatamente al riformato Senato – alla revisione del governo Renzi.

In questo caso, si tratta di una riforma circoscritta, come più volte richiesto a fronte di iniziative che incidevano sull’intera seconda parte della Costituzione. Stupisce, quindi, che alcuni tra coloro che in passato avevano sostenuto la necessità di riforme puntuali, adesso lamentino che manca l’inserimento in una più ampia riforma. Questa modifica costituzionale, per giunta, almeno alla fine, ha avuto ampia condivisione parlamentare, anche se il voto favorevole del centrosinistra (che aveva rinunciato in precedenza a proporre modifiche, accolte su altre riforme costituzionali puntuali presentate in questa stessa legislatura) era stata condizionata a interventi ulteriori, a partire dalla legge elettorale. Ma le leggi elettorali si fanno a Costituzione vigente e non a Costituzione “sperata”, come sventuratamente fece il governo Renzi con l’Italicum. In quel caso, infatti, una volta bocciata la riforma presupposta, rimasero in piedi due leggi diverse per le due Camere, che ne avrebbero reso molto difficile il funzionamento.

Quindi, certamente saranno opportuni interventi sulla legge elettorale e sui regolamenti parlamentari, ma sembra ragionevole che ciò avvenga una volta che il numero dei parlamentari sia stato effettivamente ridotto.

Intanto, il voto sulla riduzione dei parlamentari ha posto la questione della rappresentanza. Dopo che questa è da anni umiliata dalla rinuncia dei partiti a svolgere la loro funzione costituzionale per il concorso dei cittadini alla determinazione della politica nazionale, dopo che sono state approvate una sequela di leggi elettorali che impediscono qualunque rapporto tra elettore ed eletto, dopo il noto assenteismo dei parlamentari, dopo gli episodi di conflitto d’interessi degli stessi, dopo che questi si sono fatti sostituire nelle commissioni dai segretari dei loro partiti rinunciando così a rappresentare la nazione, dopo che gli stessi hanno protetto tutti i loro privilegi nonostante i chiari segnali di insofferenza dell’opinione pubblica, dopo tutto questo, il problema della rappresentanza può essere davvero ridotto alla diminuzione del numero dei parlamentari?

Peraltro, non esiste un numero aureo nel rapporto eletti/popolazione: nella Camera bassa, che è l’unica confrontabile in tutte le democrazie, attualmente l’Italia ha circa un deputato ogni 95.000 abitanti mentre dopo il taglio ne avrebbe circa uno ogni 150.000. Tra gli altri Stati europei più grandi, in Francia (dove si sta discutendo di riduzione) il rapporto è di uno ogni 116.000 abitanti, in Germania (dove il numero è variabile) di uno ogni 117.000 e in Spagna di uno ogni 134.000. Anche se questi numeri avrebbero potuto suggerire una riduzione più contenuta (sui 480 deputati), è evidente come le nuove proporzioni non ci portino comunque lontano dagli altri grandi Paesi.

D’altronde non può certo sostenersi che un consesso più ristretto sia meno autorevole, valendo semmai il contrario. Il Senato consta di un numero inferiore di componenti proprio in ragione della supposta maggiore autorevolezza degli eletti e la Camera probabilmente più autorevole del mondo, il Senato degli Stati Uniti, si compone di soli cento membri.

In sostanza, la riduzione del numero dei parlamentari non costituisce, di per sé, né un attacco alla rappresentanza né una mortificazione del Parlamento. Questa è in corso da tempo e si può forse sperare che la riduzione del numero dei parlamentari costituisca l’occasione per rimediarvi. Si potrebbe anzitutto sperare che un minor numero di parlamentari renda questi maggiormente responsabili circa la presenza e un adeguato svolgimento della loro attività, ma soprattutto che i partiti li selezionino meglio. Inoltre questa potrebbe essere l’occasione per introdurre una legge elettorale capace di ricreare un rapporto tra elettori ed eletti, per recuperare un sistema dei partiti in grado di consentire la partecipazione politica a tutti, per superare alcuni insostenibili privilegi dei parlamentari (dai cospicui emolumenti all’autodichia), per migliorare l’integrazione tra la democrazia rappresentativa e quella diretta attraverso la quale gli elettori possono correggere l’indirizzo politico degli eletti, senza dover attendere la fine della legislatura. Il prossimo referendum non sarà di per sé risolutivo, ma certamente non costituisce un pericolo. Forse potrebbe essere un’opportunità.

 

L’effetto della linea portasfortuna tracciata da un gatto nero

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rete 4, 21.25: Una vita, soap. Cinta vuole sedurre Liberto, Emilio e Rafael, dopo averli visti insieme con Genoveva. Mentre Cinta sta aspettando di incontrare Liberto, sopraggiunge Emilio. Nel frattempo arriva Rafael. Ed ecco anche Liberto. I tre, cedendo alle lusinghe di Cinta, la baciano.

Italia 1, 21.30: Cinque bambini & It, film-fantasy. Un gruppo di bambini trova in una cava di ghiaia un vecchio folletto, brutto e irritante, di nome Psammead. Questi chiede a ognuno di loro di esprimere un desiderio che si realizzerà prima del tramonto. I piccoli si rendono conto di quanto sia difficile scegliere. Poi si guardano i pisellini…

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Gesù, giovane creatore di una religione di successo, chiede aiuto a suo padre per far revocare la condanna a morte nei suoi confronti. Maria Maddalena, intanto, rivela a Gesù di essere incinta. Tutto precipita.

Rai Movie, 21.10: Qualcosa è cambiato, film-commedia. Melvin è uno scrittore misantropo, dal carattere insopportabile. La tenera amicizia con una cameriera, con seri problemi di famiglia, finirà per renderlo un uomo peggiore.

Real Time, 21.30: Vite al limite, docu-reality. Dopo la morte del suo grande amore in un incidente d’auto, Coleen ha iniziato a mangiare per sfuggire alla realtà, arrivando a 180 kg di peso. Grazie alle figlie, le sue uniche ragioni di vita, riuscirà a imboccare pure la via della guarigione.

Rai 1, 21.25. Superquark, documentario. Uno dei servizi proposti questa sera da Piero Angela (91) analizza le ricerche in corso in un laboratorio di Napoli, dove si cerca di capire quanto dura nel tempo l’effetto della linea immaginaria portasfortuna tracciata da un gatto nero che attraversa la strada. Ha effetto anche se il gatto nero non l’hai visto? Se fosse così, questo spiegherebbe tante cose. In modo semplice.

La7, 21.15: Hindenburg, film-storico. È la storia dell’incidente accaduto il 6 maggio del 1937 al dirigibile “Hindenburg”. Dovrebbero fare un film su tutti i viaggi dell’Hindenburg che sono arrivati sani e salvi. Perché farne uno solo su quello finito in un disastro? È morboso.

Rai 3, 20.45: Un posto al sole, soap. Clara chiede di incontrare la sola persona che potrebbe alleggerire la straziante angoscia che sta vivendo: Brad Pitt.

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Al Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, Pollari & Pompa progettavano di disarticolare gli oppositori al governo Berlusconi. Quella che viene sempre temuta dai reazionari, infatti, è l’articolazione di chi si oppone. Il metodo è infangarne gli elementi uno per uno in qualche modo. Accuse anonime, illazioni, diffamazioni, killeraggi a mezzo stampa: tutto fa brodo. Perché funziona. Ma quel coglione, un giorno, si mette a fare i bunga-bunga… Ne parlano Emilio Gentile e Paolo Mieli.

La7, 21.15: Flightplan, mistero in volo, film-thriller. Kyle sale in aereo con la figlia e si addormenta: al suo risveglio, la bambina non c’è più. È sparita a 11.000 metri d’altezza o in realtà non è mai partita con quell’aereo? E se fosse al cesso? Infatti.

Italia 1, 21.30: Codice 999, film-thriller. Michael è un poliziotto corrotto al servizio di Irina, un membro influente della mafia russa ad Atlanta. Quando la donna gli chiede di assassinare un oppositore di Putin, Michael va in un supermercato a comprare delle bustine di tè.

 

Le alchimie di bettini: Renzi figliol prodigo

Plasmatore, provocatore, visionario del Pd. Goffredo Bettini lo raccontano così. Ma nel tentativo di indirizzare la storia, ogni tanto fa dei salti mortali tripli. E così ieri sul Foglio si spinge a chiedere aiuto a Matteo Renzi, nel riproporre la formula dell’alleanza a tre gambe (quella che vuole Conte federatore, il proporzionale, e il ritorno – schematizzando – a Ds e Margherita): “La sinistra, il M5s e un’area moderata, riformista e liberale che conta nell’opinione pubblica il 10%, ma che attualmente è spezzettata. Tale area è un bene se si dovesse unificare. Spetterà a essa scegliere le alleanze”. Renzi, “avrebbe tutto il talento di progettare questo nuovo spazio”. Pioggia di critiche trasversali nel Pd nel nome della fu “vocazione maggioritaria” di Veltroni. Persino Zingaretti è costretto a smarcarsi da quello che viene considerato il suo king maker: “Non la pensiamo allo stesso modo”. E Matteo, redivivo salvatore della Patria? Nessun commento ufficiale, salvo postare nella chat dei parlamentari la sua soddisfazione per essere considerato centrale. Ma perché ancora lui? Pare che Bettini abbia litigato con Calenda, che non vuol fare il sindaco di Roma. Alchimie imprevedibili e confuse.

Il sovranismo Circolare: Bannon come Salvini & C.

Se le accuse a Steve Bannon saranno confermate, il sovranismo apparirà come un format cinicamente circolare. In cui si trasformano paura e odio in consenso (l’invasione degli immigrati dal Messico). Il consenso in business (la costruzione del Muro). Il business in attività criminali (intascare i soldi dei sottoscrittori per pagarsi barche, auto, il restauro di casa e un intervento di chirurgia plastica). Tutto ciò in modo da alimentare nuovo odio e nuova paura, per poi ricominciare. Se guardiamo a noi più vicino vedremo come la rivoluzione che avrebbe dovuto restituire il potere all’Europa dei popoli togliendolo ai malvagi gnomi di Bruxelles, alla fine gira che ti rigira diventa una questione di soldi (follow the money). È il problema sovrano di Matteo Salvini che, privato dalla magistratura dei famosi 49 milioni, invia il fedele Savoini a Mosca con il cappello in mano dopo avergli aperto un’autostrada fino all’hotel Metropole (“fra la Russia di Putin e questa Europa scelgo la prima”). Non sappiamo se dagli sperticati elogi ad altri due fari della libertà, come il dittatore bielorusso Lukashenko e la divinità nordcoreana Kim Jong-un, l’ex Capitano abbia ricavato una qualche meritata soddisfazione (morale naturalmente). Sta di fatto che da qualche tempo la Lega, che un tempo urlava contro Roma ladrona, finisce sulle prime pagine dei giornali più per the money che per protagonismo politico. Dai famosi camici del cognato del governatore lombardo Attilio Fontana, ai parlamentari leghisti arraffanti i bonus per l’emergenza Covid (l’ultima pescata è titolare di una gioielleria a Torino), la ragione sociale (e politica) dell’ex Carroccio appare sempre più dominata dalle esigenze, diciamo così, materiali. Per carità, Salvini&soci sulla questione morale sono in buona compagnia ma quando ti ergi a sentinella dei sacri confini della patria, magari costringendo centinaia di disgraziati ad arrostire per settimane sotto il sole, dovresti farlo con le tasche vuote. Non come l’implacabile Steve che per manifestare il proprio affetto per il Muro con il Messico, magari ci ha mangiato sopra.

L’invasione di ratti e topi in molte città

Nella coda del ciclone – speriamo di non trovarci davanti a un kumiho (volpe a nove code della mitologia giapponese) – ritorna la consapevolezza che nel mondo non esista solo Covid-19 e che siamo destinati a convivere con i microbi, il che ci è in parte utile, in parte dannoso. È di qualche giorno fa la notizia che in Cina (ancora una volta!) una persona è morta di peste bubbonica e il villaggio in cui viveva è stato messo in lockdown. Come se non bastasse, si è aggiunto nelle ultime ore l’allarme di Russia e Stati Uniti (nuovo caso dopo cinque anni). Ricordiamo che la peste bubbonica, detta anche peste nera, è un’infezione causata da un batterio, Yersinia pestis, e può essere trasmessa all’uomo dalle pulci dei roditori ed è trasmissibile anche da uomo a uomo, attraverso goccioline di fluidi. Si manifesta con una polmonite (ancora una volta!) che può diventare mortale. L’origine della peste è molto antica e per la sua forza distruttrice è diventata nell’immaginario collettivo la ‘morte nera’, la malattia che ha accompagnato l’umanità nei secoli e per questo è spesso presente nelle grandi opere letterarie e artistiche. La storia della grande peste nell’Europa del 1350, che ha causato la morte di quasi un terzo della popolazione europea e ha contagiato tutti i paesi dal Mediterraneo alla Scandinavia e la Russia nel giro di cinque anni, è particolarmente sinistra perché è stata la conseguenza di un atto deliberato di bioterrorismo. Infatti durante l’assedio di Kaffa, furono usati i corpi dei soldati morti di peste per infettare la città, catapultandoli dentro le mura (Iss).

Non pensiamo oggi ad atti bioterroristici, ma alla trasmissione naturale. Certamente non si tratta (ancora) di un allarme che possa farci immaginare una diffusione pandemica e imminente, ma può e deve porre l’attenzione sul problema di cui si parla poco: l’invasione di ratti e topi in molte città. Non stiamo sfogliando il noto libro “La città dei topi” di Guido Quarzo che racconta di un’invasione delle città da parte di questi intelligenti e organizzati roditori, ma certamente di un pericolo silente cui prestare attenzione. Anche se è impossibile farne un censimento, è certo che sulla Terra ne vivano miliardi (3 solo in Cina). Un esercito da non sottovalutare. In Europa i topi hanno già conquistato le grandi città. La loro capacità riproduttiva è stupefacente, da 4 a 16 cucciolate l’anno con almeno 8-10 neonati. Ogni topo (ma anche ratto) può essere portatore fino a 30 malattie. Non è necessario venire a contatto fisicamente con l’animale, anche gli escrementi con i quali i nostri animali domestici possono facilmente venire in contatto o le loro pulci sono sufficienti per trasmetterci malattie gravi. Prima che conquistino definitivamente il nostro territorio, provvediamo.

 

Dopo l’ok di Rousseau solo in cinque Comuni i giallorosa sono alleati

Anche alle amministrative il giallorosa è l’eccezione, non la regola. E restano pochi, molto pochi, i comuni dove si replica l’alleanza di governo Pd-M5s dopo il via libera ferragostano di Rousseau. Quello più importante è Pomigliano d’Arco, la città di Luigi Di Maio, per il valore simbolico di un’intesa raggiunta nei luoghi dell’ex capo politico dei Cinque Stelle. Qui l’alleanza si è chiusa su un nome civico, il papirologo Gianluca Del Mastro (nella foto), dopo il passo indietro di un fedelissimo di Di Maio, Dario De Falco. Un ok che ha rimesso in equilibrio il tavolo provinciale, consentendo di replicare lo schema in altri due popolosi comuni del napoletano: Caivano, dove i Cinque Stelle avevano già preparato una lista guidata da Pasquale Penza e hanno aderito in extremis alla coalizione di sette liste di centrosinistra guidata dall’ambientalista di sinistra ed ex assessore provinciale Enzo Falco, e Giugliano, 123mila abitanti alle porte di Napoli, dove si sta per chiudere l’accordo sul candidato dem Nicola Pirozzi. Ma solo a Caivano i renziani di Italia Viva fanno parte del patto. Ne sono fuori a Pomigliano, dove sosterranno la candidata del centrodestra Elvira Romano, e a Giugliano, dove hanno preferito il sindaco sfiduciato Antonio Poziello.

In Sicilia al momento c’è l’unico caso in cui il Pd convoglia sul candidato dei M5s. È accaduto a Termini Imerese: qui la coalizione sarà guidata dal notaio di 34 anni Maria Terranova, attivista storica del movimento grillino. In un altro comune siciliano, Barcellona Pozzo di Gotto, l’asse giallorosa punta su un nome della società civile, Antonio Mamì.

Nell’Emilia Romagna ferita dall’acredine del caso Bibbiano, l’alleanza è riuscita a Faenza. Ci ha lavorato a lungo il capogruppo M5s Massimo Bosi, dialogando coi verdi, coi socialisti e con la sinistra di Elly Schlein, fino a ottenere da Roma il via libera all’uso del simbolo affianco a quello del candidato dem Massimo Isola.

Il massone, i fascisti e i (tanti) soliti noti: candidati alla carica

C’è il massone “in sonno” che in Campania sostiene Vincenzo De Luca, il candidato ligure che per rispettare le quote rosa si è ritirato per far posto alla madre e il berlusconiano di La Spezia che nel 2017 non sopportava di essere servito da una cameriera di colore a Cortina d’Ampezzo. Ma soprattutto ci sono gli eterni ritorni dei dinosauri della politica: l’ex leghista Flavio Tosi in Veneto con Forza Italia, l’ex sindaco di Molfetta e senatore azzurro Antonio Azzollini in Puglia e in Liguria il grande vecchio del Partito Socialista Tonino Bettanini, già portavoce di Claudio Martelli e della presidente del Senato Casellati. Le liste delle elezioni regionali assomigliano spesso a una via di mezzo tra l’ufficio di collocamento per politici trombati e l’occasione dei cacicchi locali per portare voti al capo. Nel giorno delle presentazioni ufficiali, ecco il bestiario dei candidati migliori (o peggiori).

Liguria.Oltre a Bettanini a La Spezia, le elezioni liguri segnano il grande ritorno del sindaco di Imperia Claudio Scajola che ha deciso di far correre il figlio Marco con la lista civica “Cambiamo!” in sostegno di Toti. Tra le file del governatore uscente va segnalato Fabio Cenerini, capogruppo di Fi a La Spezia, che nel 2017 si risentì – con tanto di recensione negativa su Tripadvisor – con un ristorante di Cortina perché servito da una cameriera nera vestita da tirolese. Forza Italia a Ventimiglia candida anche Ada Cassini Bistolfi che non lo avrebbe mai fatto se non fosse stato per suo figlio Filippo Maria, che si è ritirato per rispettare la regola delle “quote rosa”. Chi meglio della ignara madre poteva prendere il suo posto?

Campania. La regione di De Luca è la terra del trasformismo: il governatore corre con 15 liste contro le 6 di Caldoro ma i candidati potrebbero correre a maglie invertite e nessuno se ne accorgerebbe. Qui “Più Europa” ha deciso di far correre Enzo Peluso, esponente del “Grande Oriente d’Italia” che ha appeso il grembiulino al chiodo, mentre i renziani di Italia Viva candidano Ernesto Sica, già autore di un dossieraggio per screditare Caldoro accusandolo di incontri omosessuali in alberghi napoletani. Con Fratelli d’Italia si candida Marco Nonno, condannato a otto anni in primo grado per devastazione durante l’emergenza rifiuti e nel centrodestra c’è anche qualche nostalgico del fascismo: Enzo Rivellini fu beccato nel 2017 a pregare a una messa in onore ai caduti di Salò.

Puglia. Tra i candidati di Raffaele Fitto c’è Antonio Azzollini, ex sindaco di Molfetta e condannato in primo grado a gennaio a 1 anno e 3 mesi per il crac della Casa della Divina Provvidenza. La stessa in cui l’ex senatore dettava legge con le suore: “Da oggi in poi comando io, se no vi piscio in bocca” diceva intercettato.

Veneto. Sempre nelle liste azzurre, torna in campo l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi, già condannato nel 2009 a due mesi per violazione della Legge Mancino e fresco fresco di un’indagine per peculato a Venezia. Lo hanno premiato.

Toscana La regione rossa si nota per i suoi cambi di casacca: tra gli altri Nicola Cecchi, volto grillino anti-Renzi nel 2018 che oggi corre con FdI. A far imbufalire la base di FI è stata la decisione di Berlusconi di candidare il capolista Marco Stella, quasi passato alla Lega. Per questo ieri il coordinatore Stefano Mugnai si è dimesso.

Marche. Chi è accusato di vicinanza all’estrema destra è Francesco Acquaroli, candidato di FdI nelle Marche, che il 28 ottobre ha partecipato a una cena ad Ascoli in ricordo della marcia su Roma con un menù con il fascio littorio. “Non lo avevo visto” dirà. Chissà se gli elettori gli crederanno.

Un incubo chiamato Toscana: la destra può vincere anche lì

Tre a tre è la “vittoria” (anzi, Graziano Delrio aggiunge la Valle d’Aosta e fantastica sul sorpasso dem: “ Vinciamo 4-3”). Quattro a due (per il centrodestra) è la sconfitta, ma ancora accettabile. Cinque a uno (sempre per il centrodestra) la debàcle totale che potrebbe avere gravi ripercussioni sull’asse Firenze-Roma. A un mese dalle elezioni regionali e chiusa la partita delle trattative tra Pd e M5S (divisi sia nelle Marche che in Puglia), nelle stanze di governo si sta iniziando a prendere in mano il pallottoliere per studiare tutti gli scenari possibili delle elezioni regionali del 20-21 settembre. Il terrore è che, come nel 2000 quando il centrodestra vinse in 8 regioni su 15 e il premier Massimo D’Alema si dimise, anche il prossimo election day possa avere ripercussioni sul governo nazionale. Questo è il desiderio del centrodestra di Matteo Salvini ma, secondo i sondaggisti, anche in caso di sconfitta per 4 a 2 non ci sarebbero conseguenze sul governo: “Al massimo qualcuno nella maggioranza potrebbe chiedere un rimpasto – spiega Antonio Noto di Ipr Marketing – ma Conte non rischia”. A oggi, secondo chi fa le rilevazioni, lo scenario più probabile è proprio il 4 a 2 per il centrodestra: Veneto, Liguria, Marche e Puglia a Salvini&co. contro Toscana e Campania che dovrebbero rimanere al centrosinistra. “Le tre in bilico sono Marche, Puglia ma anche la Toscana anche se più verso il centrosinistra – continua Noto – Secondo le nostre rilevazioni, in Puglia Raffale Fitto (FdI) è avanti di 4-5 punti sul governatore Michele Emiliano (Pd) e lo stesso vantaggio nelle Marche lo ha Francesco Acquaroli su Maurizio Mangialardi”. Una previsione condivisa da Roberto Weber dell’Istituto Ixè: “In Puglia e nelle Marche il centrosinistra è in grossa difficoltà – spiega il sondaggista – al sud perché il M5S aveva preso il 26% alle ultime europee e anche se una parte degli elettori grillini opterà per il voto disgiunto potrebbe non bastare a Emiliano, mentre il centrodestra parte da una base del 2019 del 45%; nelle Marche il Pd si porta dietro decenni di governi e la voglia di cambiare è forte”. Lorenzo Pregliasco, fondatore di Youtrend, invece è più ottimista per la coalizione giallorosa: “Penso che alla fine Emiliano terrà in Puglia e quindi finirà 3 a 3”.

Con le alleanze giallorosacome sarebbe finita? I sondaggisti sono concordi nel pensare che l’unione avrebbe cambiato le cose rendendo le due regioni più contendibili: “È strano che qui non si sia fatta un’alleanza – continua Noto – paradossalmente è avvenuto in Liguria con Ferruccio Sansa dove però Toti aveva già la vittoria in pugno e invece non l’hanno fatta dove avrebbero potuto vincere”. Weber è convinto: “Con l’accordo sarebbe stata tutta un’altra partita”. Gli analisti però pensano che la mancata alleanza nelle regioni non porterà a un calo nei consensi sia nel Pd che nel M5S: “Non perderanno voti perché quella tra Pd e M5S è vista ancora come un’unione a freddo e non come una vera alleanza” chiosa Noto.

Tutto questo ammettendo che la (ex) rossa Toscana rimanga in mano al centrosinistra. Una previsione che se appariva scontata fino a poche settimane fa, oggi non lo è più, al punto che il segretario dem Nicola Zingaretti ieri sera si è fatto vedere per la terza volta a fianco di Eugenio Giani in una settimana. Il campanello d’allarme arriva direttamente dai sondaggisti: “Qui il centrosinistra ha più possibilità – spiega Noto – ma all’inizio della campagna elettorale Giani era in vantaggio di 8-9 punti, oggi solo di 2-3: la sua sfidante Susanna Ceccardi sta facendo una campagna tra la gente, mentre lui si vede poco”. Una tendenza confermata anche da Marco Valbruzzi, coordinatore dell’Istituto Cattaneo: “La Toscana è un’incognita – spiega sicuro – è più contendibile di quanto dicano i sondaggi e non è l’Emilia Romagna per tre motivi: Giani non è Bonaccini, qui non ci sono le sardine che possono portare voti al centrosinistra e poi c’è il ballottaggio quindi al primo turno gli elettori grillini potrebbero non avvertire l’esigenza del ‘voto utile’ contro Salvini”. Se dovesse cadere anche l’ultima roccaforte rossa d’Italia, a quel punto Conte tremerebbe non poco.

Tra pizza e focolai, l’anziano Briatore fa un’estate di m…

Non è un’estate facile per nessuno. Chi rientra dall’estero e deve farsi 9 ore di coda per un tampone, chi non è stato all’estero e ha schivato gli assembramenti soggiornando una settimana all’hotel Belvedere di Rogoredo, chi è stato in discoteca a Gallipoli e sta facendo i tamponi pure per il cimurro, chi si vanta di aver trovato una spiaggia che se andavi in certi orari c’eri solo tu, poi gli chiedi “In che orari?” e ti risponde “dalle tre alle quattro del mattino, facevamo pure la pesca a strascico con due albanesi”. Insomma, un’estate complicata per tutti, ma per Flavio Briatore è davvero un’estate di merda.

L’uomo il cui credo è “Il turismo delle ciabatte non dà niente al territorio” ha finito per prendersi a ciabattate con tutti – turisti, sindaci e commentatori social – investendo di una commovente utilità sociale proprio la ciabatta. La sua, certo, ricamata con le iniziali d’ordinanza, ma dove FB, nell’estate 2020, non sta più per “Flavio Briatore” bensì per “Focolaio Billionaire”.

Il tutto ha inizio con le foto della sua pizza nel nuovo locale “Crazy pizza” a Montecarlo. Se non le avete ancora viste, immaginate di arrivare tardi dal lavoro e di dire a vostro figlio adolescente al telefono: “Scaldati una pizza surgelata che io faccio tardi!”. Vostro figlio accende il forno e nel frattempo torna a giocare a Fifa20 davanti al computer, si dimentica della pizza in forno e dopo 40 minuti si ricorda. Ecco, quella è la foto della pizza sponsorizzata sui social da “Crazy pizza” di Briatore. Che voglio dire, se riesci a vendere a 25 euro quella pizza a un armatore russo abituato a pasteggiare a caviale e da Flavio Briatore è convinto di mangiare la vera pizza italiana con mozzarella di mucche che da una tetta buttano fuori latte e dall’altra Dom Perignon 2006, sei sicuramente un genio. Un genio, però, che non tiene conto di due cose: della venerazione italiana per la pizza e della venerazione italiana per i delitti d’agosto, per cui l’omicidio della margherita perpetrato nella pizzeria di Briatore in piena estate, è diventato il tormentone del momento.

A Briatore, l’italiano medio, ha perdonato tutto, dall’amicizia con Donald Trump alle fughe nelle isole Vergini per sfuggire alle condanne al lifting che lo ha trasformato in Eric di Beautiful. La pizza cianotica, con la mozzarella che sembra il Vinavil quando si secca, non gliela perdoneremo mai. Mai. Neanche se convertisse il Billionaire in un monastero per la terapia del silenzio. Ma l’estate di merda di Briatore non si esaurisce con la pizza cagionevole. Briatore, col suo Billionaire, entra a gamba tesa anche sulla polemica relativa alle discoteche e alle decisioni di chiusura per il Covid. In particolare, se la prende col sindaco di Arzachena Roberto Ragnedda, colpevole di aver inasprito le restrizioni del governo in Costa Smeralda.

“Abbiamo trovato un altro grillino contro il turismo!”, ha tuonato Briatore in un video postato su Facebook. E poi: “A me spiace per i nostri clienti, la costa Smeralda si stava riprendendo, abbiamo portato giù i calciatori, non capisco è una vendetta? Questa è gente che non ha mai fatto un cazzo nella vita, Arzachena nessuno sa dove cazzo sia, la conoscono lui e due pecore!”.

Ora, a parte che Flavio Briatore è rimasto ancora a quell’idea di turismo per cui se non hai Bobo Vieri sotto l’ombrellone, non fai girare l’economia, a parte che ora che ha perculato i sardi, se vuole tornare in Sardegna, farebbe bene a fare un secondo lifting e ad assomigliare a Giuseppe Verdi, a Geppi Cucciari, a chi vuole, purché non a se stesso (cioè a Eric Forrester), c’è da dire che qui Flavio Briatore ha avuto anche un po’ di sfiga. Anziché trovare il sindaco remissivo e impressionato dalle parole di sfida dell’imprenditore famoso, gli si è parato davanti un formidabile paraculo che prima lo ha sbeffeggiato dicendo che nel suo video di invettive lo aveva scambiato per Crozza, poi, con l’efficacia del passivo aggressivo che usa l’arma del sarcasmo, ha osato l’affronto peggiore. Ha affondato: “Questa ordinanza serve a tutelare soprattutto gli anziani come lui”. Gli-anziani-come-lui. Roba che se prima Arzachena la conoscevano solo due pecore, dopo questa battuta la conoscono pure gli Uiguri in Cina.

Immaginate la botta. Uno che a 70 anni sceglie le fidanzate su TikTok, ha la faccia più tirata della pasta della sua Crazy Pizza, inizia e chiude tutti i suoi video con “Ciao Ragazzi!” convinto di avere il target di Benji e Fede, si sente dare dell’anziano da un giovane sindaco di provincia. Non solo. Il giovane sindaco lo ha pure incluso nella categoria da proteggere col tono paternalistico di chi parla ai vecchietti indifesi, cagionevoli, fragili che le generazioni più giovani devono difendere da questa brutta epidemia. Roba che Briatore deve essere andato subito a piangere in una capsula criogenica.

Tutto questo sarebbe già abbastanza per decidere in via definitiva che quella di Briatore è l’estate di merda più di merda che si possa immaginare, se non ci fosse stato un ulteriore colpo di scena: dopo aver invitato il sindaco di Arzachena a chiedere scusa ai suoi dipendenti, viene fuori che sei suoi dipendenti sono positivi al Covid. Quindi, al limite lui deve chiedere scusa ai suoi dipendenti e ai suoi clienti perché adesso ci sono decine, forse centinaia di persone che dovranno fare il tampone e finire in quarantena per essere state nei suoi locali. E a proposito di suoi locali. Se fossi in Briatore, già che ci sono, farei fare il tampone pure alla sua pizza: ha la cosiddetta “faccia che non mi piace per niente”.