Mr. Papeete, il locale vip che fattura come un pub

Come può una delle discoteche più grandi d’Italia, capace di ospitare oltre 5mila persone ogni sera, aver un fatturato annuale di 1,6 milioni di euro? Sono questi i numeri dell’ultimo bilancio di Villapapeete (da non confondere con il Papeete Beach, lo stabilimento balneare reso famoso dai mojito di Matteo Salvini). Villapapeete è il locale notturno di Milano Marittima controllato dall’eurodeputato leghista Massimo Casanova, tra i politici che hanno criticato più duramente il governo dopo la chiusura forzata delle discoteche causa Covid. “Gente che non sa cosa significhi fare impresa, che non ha mai fatto niente nella vita”, ha detto Casanova riferendosi ai membri dell’esecutivo. Dichiarazioni talmente dure da portare alcuni giornali ad annunciare che Villapapeete resterà chiusa fino a fine estate. In realtà, il locale questa sera sarà aperto. Non come discoteca, spiega al telefono la centralista, ma per una “cena-spettacolo con musica, dj, vocalist e performers che gireranno tra i tavoli”. In teoria non si potrà ballare, anche se il locale resterà aperto fino alle 3.30 di mattina. Merito dell’estro imprenditoriale di Casanova, che piuttosto di perdere una serata della stagione ha deciso di riadattare la mega discoteca a ristorante. Senza la possibilità di ballare – e dunque di fare entrare la solita quantità di persone – sarà difficile eguagliare gli introiti abituali. Ma è proprio questo il punto più interessante. Quanto incassa Mister Papeete con la sua discoteca in una serata normale?

Abbiamo fatto un po’ di conti in tasca all’eurodeputato, notando che i numeri ufficiali non rendono giustizia alla fama del suo locale. Il fatturato nel 2019 è stato, come detto, di 1,6 milioni di euro. L’anno scorso sono state organizzate 14 serate, da inizio giugno e fino all’ultimo weekend di agosto. La matematica dice che in media per ogni serata Casanova ha incassato 114mila euro. Pochino, per un locale che può ospitare oltre 5mila persone, e dove le serate estive fanno spesso registrare il tutto esaurito. Anche perché quello di Casanova non è propriamente un posto a buon mercato. Il sito Travel365 l’ha messo addirittura in cima alla classifica delle discoteche più rinomate della Romagna: “Il club più esclusivo, elegante e suggestivo della zona con il suo ambiente chic, i suoi aperitivi a bordo piscina con musica di sottofondo italiana e revival, le prelibate cene”. Possibile che per trascorrere una serata in una delle discoteche più chic della Romagna si spendano solo 22 euro? Perché questo, calcolatrice alla mano, è il prezzo medio fatturato da Villapapeete per ognuno dei suoi 5mila clienti. Cifre da pub di provincia in un normale sabato sera, che stridono se messe a confronto con il listino prezzi di Casanova. Il semplice ingresso, compreso di prima consumazione, costa infatti dai 15 ai 30 euro, a seconda che il cliente sia uomo o donna, che abbia prenotato o che si sia presentato alla cassa a notte inoltrata. Insomma, stando ai numeri del bilancio ufficiale il fatturato dipenderebbe interamente dai biglietti d’ingresso. Come per ogni discoteca, però, il grosso degli introiti di solito arriva dai servizi extra. Una semplice cena nel “club più esclusivo” della Riviera – menù fisso e un bicchere di vino – costa 50 euro. Se invece si opta per una tavolo nel privè la cifra sale a 120 euro. Non male, se si pensa che i coperti sono circa 400. Poi ci sono le consumazioni aggiuntive, che valgono mediamente 12 euro l’una. E le bottiglie di champagne, che in tempi normali il leghista offre alla modica cifra di 500 euro l’una. Con questo listino prezzi, come si spiega il fatturato dell’impresa?

Contattato da il fatto, ieri pomeriggio Casanova ci ha assicurato che ci avrebbe fatto rispondere dall’ufficio stampa. Dopo due ore e mezza d’attesa, l’ufficio stampa ci ha fatto sapere di non essere riuscito a contattare la persona preposta a rispondere. Chi era? Casanova stesso. Il bilancio di Villapapeete rivela altri numeri curiosi che l’eurodeputato ci avrebbe potuto spiegare. A fronte di 1,6 milioni di ricavi, la discoteca ha registrato profitti netti per soli 73mila euro. Non è questione di tasse, visto che l’azienda ha pagato solo 24mila euro all’Agenzia delle Entrate. Di certo Casanova era presente all’approvazione dell’ultimo bilancio. Era il 15 giugno 2020 e i possibili effetti del covid sulla stagione estiva erano già chiari a tutti. Per questo la società ha scritto nero su bianco di voler valutare se “usufruire degli strumenti straordinari messi in campo dal governo” per contenere i danni dell’emergenza sanitaria sull’andamento dell’azienda. Un paradosso, per un arcinemico del governo come lui. Alla fine Casanova ha scelto di andare a bussare alla porta di Conte per farsi aiutare? Anche su questo, purtroppo, Mister Papeete non ha avuto tempo di rispondere.

Discoteche, a ballare sono le tasse. I costi, i guadagni e il fisco

I gestori delle discoteche piangono miseria. È lontano anni luce il boom degli anni 80, quando il socialista Gianni De Michelis pubblicava “Dove andiamo a ballare questa sera?”, una guida a 250 sale e night club “testati” personalmente dall’allora ministro del Lavoro del governo Craxi. Una lunga crisi prima, per il calo di appeal che ha portato a chiudere molte sale, e poi il lockdown scattato da 23 febbraio a causa della pandemia hanno assestato un terribile uno-due al settore. Dal 13 giugno ha riaperto solo un locale su cinque. Dopo la decisione del 16 agosto con la quale il ministro della Salute Roberto Speranza ha vietato di nuovo le attività di ballo, per i troppi casi di mancato rispetto delle regole di prevenzione e distanziamento, oggi le associazioni degli esercenti bussano a denari al Governo e chiedono 120mila euro a fondo perduto per ogni discoteca iscritta alle Camere di commercio. Ma a ballare, sinora, sono solo le cifre reali sul settore, specie quando si tratta di pagare le tasse: tre discoteche su quattro hanno un indicatore di affidabilità fiscale scarso o pessimo.

Nel tavolo con il Governo, al momento di quantificare gli aiuti, il sindacato di categoria Silb-Fipe aderente a Confcommercio ha parlato di un giro d’affari del settore da 4 miliardi con 100mila addetti tra diretti e indiretti. Oltre a Fiepet-Confesercenti, l’altra organizzazione del comparto è Assointrattenimento che fa capo a Confindustria, secondo la quale il giro d’affari delle discoteche lo scorso anno è stato di circa 3,5 miliardi, con 89mila dipendenti diretti e 90mila indiretti. È sulla base di questi dati che al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, le imprese chiedono rimborsi per 420 milioni, riduzione del carico fiscale oggi pari al 48% dei ricavi, di cui 22% di Iva a fronte della media del 10% del resto del comparto dello spettacolo, e un’attività di controllo e repressione più dura nei confronti dell’abusivismo che, secondo le associazioni di categoria, non rispetta le regole e fa concorrenza sleale.

Le cose, però, non paiono stare esattamente così, tanto che sui social network sono già scoppiate roventi polemiche. Secondo i dati più recenti dell’Istat, nel 2017 erano attive in Italia 1.569 discoteche, night club e locali da ballo, identificati come le imprese che gestiscono questa attività a titolo principale. Nulla si sa sul numero e la dimensione delle imprese che hanno la discoteca come attività secondaria, ma potrebbero essere qualche centinaio. Le discoteche censite avevano un totale di 9.392 addetti dei quali 8.046 dipendenti e 1.346 collaboratori con diverse forme contrattuali, a chiamata o di somministrazione. Il 58,7% degli addetti, oltre 5.500 persone, era occupato al Nord, 2.500 al Centro (26,6%), 930 al Sud (9,9%) e i restanti 450 circa nelle isole (4,6%).

Ma la parte più rilevante delle statistiche Istat è quella relativa all’andamento economico del settore. Si tratta di dati che, secondo i funzionari dell’Istituto nazionale di statistica, sono stati raccolti attraverso i bilanci depositati nelle Camere di commercio per le società di capitali oppure, per le società di persone, attraverso le dichiarazioni Irap e gli indici sintetici di affidabilità (Isa) del Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia, gli strumenti di verifica fiscale che hanno sostituito gli studi di settore.

Secondo queste informazioni, le 1.569 imprese censite in Italia nel 2017 avevano realizzato un fatturato medio di 449mila euro, per un totale di settore di poco più di 704 milioni. Il valore aggiunto medio era stato di 124mila euro, pari a un valore complessivo di poco meno di 195 milioni. I costi, con 320mila euro a discoteca, avevano totalizzato invece 502 milioni, comprimendo il margine operativo lordo (la differenza tra ricavi e costi al netto degli ammortamenti, delle minusvalenze, degli oneri finanziari e della tassazione) ad appena 32mila euro per impresa da ballo, pari a un valore nazionale di 50,2 milioni. Il tutto dopo aver spesato retribuzioni lorde per 68mila euro a impresa (106,7 milioni il totale nazionale) e un costo del lavoro complessivo di 92mila euro ad azienda, pari a 144,3 milioni complessivi.

I dati dell’Istat sono dunque estremamente diversi dalle cifre dichiarate dalle associazioni di settore. Se si prendono in esame le informazioni fiscali raccolte dal Dipartimento delle Finanze attraverso gli indicatori sintetici di affidabilità fiscale (Isa) relativi al periodo di imposta 2018, che riguardavano 1.057 discoteche controllate, emerge un quadro ancora differente. Quasi tre quinti delle sale da ballo erano gestite da società di capitali, un altro quinto da società di persone e il restante 21,9% da persone fisiche. In media, i ricavi o compensi dichiarati all’Erario erano pari a 292mila euro per impresa, per un fatturato di settore di 308,6 milioni. Il valore aggiunto medio di ciascuna impresa censita dal Fisco era di 82mila 700 euro, 87,5 milioni in tutto il comparto. Il reddito d’impresa o da lavoro autonomo, cioé l’utile di ciascun operatore sul quale si calcola l’imposta, era in media di appena 8.600 euro. Dunque tutte le discoteche controllate dal Dipartimento delle Finanze avrebbero realizzato, nell’intero 2018, un utile di poco più di 9 milioni. Si andava dalla perdita di 2.700 euro dichiarata dalle discoteche gestite da società di capitali “a bassa affidabilità fiscale” sino ai 39.300 euro di utile di quelle ad “alta affidabilità fiscale”.

Proprio la credibilità delle cifre indicate al Fisco, misurata dagli indicatori Isa, è il tallone d’Achille del settore. Secondo gli Isa, nel 2018 solo una sala da ballo su quattro, il 26,2% del totale, aveva un indicatore di attendibilità fiscale pari o superiore a 8 su 10, ovvero considerato “buono” dall’Agenzia delle Entrate. Chiedere 120mila euro come rimborso a fondo perduto per ogni discoteca pare dunque sproporzionato: forse sarebbe meglio condizionare le erogazioni pagate dallo Stato ai valori di credibilità fiscale e ai bilanci presentati da ciascun gestore.

“No al progetto di Franceschini, difendiamo i centri storici”

Associazioni, comitati e intellettuali: tutti contro il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. “Un no forte e chiaro a chi vuole introdurre la speculazione edilizia nei Centri storici, è in atto un rinnovato attacco alla integrità delle nostre città storiche che rappresentano un patrimonio di valore unico al mondo”. Ebe Giacometti, restauratrice e presidenta nazionale di Italia Nostra, Vittorio Emiliani, Francesco Scoppola, già direttore generale del ministero dei Beni culturali, il noto archeologo Adriano La Regina e altre decine di intellettuali e studiosi scrivono a Franceschini dopo l’intervento rilasciato a Il Fatto Quotidiano lo scorso 15 agosto in cui il ministro dem proponeva che, in assenza di vincoli, si potessero autorizzare inserti contemporanei. Magari di archistar. “Perché non accettare che un lavoro di grande qualità possa colmare ad esempio un vuoto di un nostro centro storico?” La risposta per gli esperti del settore è un secco no. “Un brutto film già visto e una tesi, a nostro avviso, quanto mai pericolosa, dal momento che riteniamo da decenni che l’integrità, salvaguardata con tanta fatica delle nostre città storiche, sia invece il loro elemento distintivo, positivo naturalmente, in tutta Europa e nel mondo”. Una ipotesi che il mondo artistico rifiuta nettamente: “Nonostante tutto, nonostante il loro svuotamento demografico, i frequenti sfregi dovuti agli abusi e il tentativo di trasformarli in una sorta di Disneyland per il turismo di massa, i nostri centri storici hanno mantenuto i caratteri ormai perduti in giro per l’Europa”. Il rischio secondo Italia Nostra e le altre associazioni è che si permetta la ricerca di “nuovi spazi speculativi nei centri storici”.

Il dirigente scolastico fa alzare il voto al figlio. Per Provincia di Bolzano e il Miur tutto ok

A Bolzano, sulla modifica del voto scolastico da 6 a 8 per il figlio del sovrintendente scolastico (quello che un tempo si chiamava provveditore) Vincenzo Gullotta (nella foto), la vicenda non sembra ancora chiusa nonostante “il procedimento avviato dall’amministrazione provinciale abbia dichiarato l’estraneità ai fatti” da parte del più alto dirigente scolastico.

Ciò di cui stiamo parlando può essere riassunto riportando alcuni stralci del “protocollo” del secondo consiglio di classe dell’istituto frequentato dal ragazzo in cui si legge: “A seguito della comunicazione telefonica ricevuta dalla famiglia in riferimento alla richiesta di procedere alla correzione di un errore formale nella valutazione finale di tecnologia (…) viene chiesto di modificare il voto da 6 a 8”.

E fin qui quasi nulla di strano.

A seguire però si legge come un docente “dichiari che il voto attribuito in pagella sia 7 così come risultante dalla media aritmetica delle valutazioni nel secondo quadrimestre”. Ma poi accade che il Consiglio di classe “si sia espresso a maggioranza per l’attribuzione del voto 8”. Il tema sono le presunte pressioni esercitate dal dirigente per modificare la pagella del figlio. Non si accontentano, delle verifiche e del procedimento dell’amministrazione provinciale praticamente chiuso, i consiglieri provinciali del Pd, Sandro Repetto e del M5S Diego Nicolini; quest’ultimo pronto a presentare una seconda interrogazione. Lo stesso Nicolini inoltre aggiunge un tassello: “Come accade per la Sanità il Ministero potrebbe anche avvalersi di una sua ispezione per fugare ogni dubbio”.

Dal canto suo il Miur, contattato dal Fatto Quotidiano, si nasconde dietro l’autonomia della Provincia autonoma di Bolzano. Quindi, riassumendo: l’esito della verifica interna avviata dagli uffici della Provincia avvalora la tesi che non sono state “riscontrate evidenze disciplinari a carico del Sovrintendente, confermando pertanto la sua completa estraneità, rispetto a una presunta irregolarità che sarebbe emersa durante gli scorsi scrutini di fine anno scolastico”. Leggendo le carte, tuttavia, il dubbio resta su come da 6 si sia passati a 8.

Battisti, il “pentimento” di Lula: “Sbagliai a dargli l’asilo, chiedo scusa alle vittime”

L’ex presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva ha chiesto scusa alle famiglie delle vittime di Cesare Battisti riconoscendo “l’errore” di aver a suo tempo concesso asilo al terrorista italiano. In un’intervista al canale YouTube TV Democracia, il leader del Partito dei lavoratori – condannato a 12 anni in secondo grado con l’accusa di aver ricevuto denaro dalla Petrobras e ora in attesa della sentenza definitiva – ha detto di aver preso la decisione di non estradare Battisti perché il suo ministro della Giustizia di allora, Tarso Genro, era certo che l’ex membro dei Pac fosse “innocente”. “Ha ingannato molta gente in Brasile, non so se ha fatto altrettanto in Francia, ma la verità è che c’erano molte persone che pensavano che fosse innocente. E se abbiamo commesso questo errore, ci scusiamo senza dubbio”. Lula ha detto di non aver mai conosciuto personalmente Battisti. “Tutta la sinistra brasiliana, i compagni e molti partiti di sinistra e personalità di sinistra chiedevano che Battisti rimanesse qui”, ha detto ancora Lula. Tuttavia quella su Battisti, “non fu una decisione facile”, ha aggiunto, perché “l’ex presidente italiano Giorgio Napolitano, con il quale ho avuto lunghe conversazioni e tutta la sinistra italiana facevano pressioni perché il Brasile consegnasse Cesare Battisti”.

Nel 2018 il presidente brasiliano Michel Temer aveva revocato lo status di rifugiato al terrorista italiano. Nel dicembre dello stesso anno, la Corte Suprema Federale ne aveva ordinato l’arresto. Temer aveva autorizzato l’estradizione in Italia, ma Battisti era fuggito in Bolivia, dove è stato arrestato il 12 gennaio 2019 ed estradato in Italia, il giorno dopo. Nel marzo 2019, durante un lungo interrogatorio del procuratore Alberto Nobili in carcere, Battisti ha ammesso la sua responsabilità per quattro omicidi: quello del tenente Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978; quello del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, entrambi uccisi dal Pac il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. Battisti, fino ad allora, si era sempre dichiarato innocente.

Oggi Battisti, che ha 65 anni, sta scontando l’ergastolo in isolamento nel carcere di Oristano.

Vip al raduno No Oms di Forza Nuova. “Ma noi non abbiamo firmato niente”

“Scusi ma lei scenderà in piazza il 5 settembre con Forza Nuova?”. “Cosa?”. “Non ha firmato un appello per ‘unirsi al raduno contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria’, promosso dal vicesegretario nazionale di Forza Nuova, Giuliano Castellino?”. “Ma no, non ne so assolutamente nulla”. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane romano ucciso dopo il suo arresto nel 2009, è citata con altri cantanti, giornalisti “liberi”, intellettuali e sportivi, in calce ad un appello per il raduno del 5 settembre. Per dirla con le parole di Forza Nuova, “non una semplice manifestazione, ma il raduno di un popolo unito, arrabbiato come non mai e deciso a liberarsi”. Ilaria Cucchi non sapeva neanche l’esistenza di questo appuntamento in piazza. E come lei Renato Zero: “Non ne so nulla. Anzi, se mi avessero chiesto gli avrei detto che sono per le mascherine, l’igiene e la sanità, pure quella mentale”.

Non sostengono quindi quello che sulla pagina Twitter di Forza Nuova si attende come un evento memorabile: “È iniziato il conto alla rovescia per quella che si annuncia ormai come una data destinata a rimanere nella storia” (nientedimeno). La manifestazione viene promossa anche da Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova, volto romano del movimento. Noto anche alle cronache, da ultimo per la condanna a 5 anni e mezzo ricevuta lo scorso 6 luglio per l’aggressione a un giornalista e fotografo del settimanale Espresso avvenuta il 7 gennaio del 2019 al Verano mentre era in corso una commemorazione da parte di militanti di destra per i morti di Acca Larenzia.

Ma a leggere alcuni articoli sul web non sarà un appuntamento interno al movimento: coinvolgerà il “popolo delle mamme e dei bambini”, ma anche quello “delle partite Iva” e degli “ex Gilet Arancioni”. Poi tassisti, tifosi, no vax e disoccupati.

Sul sito di un quotidiano no profit (korazym.org) in calce all’appello di Forza Nuova si leggono i nomi di personaggi famosi. Leggendoli sembrano essere firmatari, ma Castellino al Fatto spiega: “Li abbiamo solo invitati”, insomma non vuol dire che abbiano appoggiato la manifestazione. In piazza dunque avrebbero voluto avere il tennista Novak Djokovic, il calciatore del Liverpool Dejan Lovren e il pilota di Formula 1 Lewis Hamilton. Nessuno ha dato il proprio consenso. “Hamilton ha risposto all’invito?”, “Magari”, risponde Castellino.

A promuovere l’iniziativa è invece monsignor Carlo Maria Viganò, esponente di punta del clero conservatore anti-Bergoglio. In questo caso è Roberto Fiore, uno dei fondatori di Forza Nuova, a darne notizia su Twitter: “Grande sostegno al popolo del #5settembre da Mons. Viganò, un appello ‘contro la terribile dittatura che sta per esserci imposta’ e per le Mamme, che più di altri vedono presente e futuro disperati per i propri figli”.

Sugli inviti in un post on line a firma di Castellino (pubblicato sempre dall’account Twitter di Forza Nuova) si scrive: “Ma gli endorsement significativi non finiscono qui, di questi giorni quelli di Meluzzi, Belli e Galloni, e sembrano sostenere gli obiettivi della piazza anche Sgarbi, in parte Taormina, Povia e Fusaro”. Fusaro e Sgarbi, spiega Castellino, “hanno dato il loro sostegno”. Come pure l’avvocato Carlo Taormina che conferma: “Io sono distante da Forza Nuova – spiega –, guardo soltanto i contenuti e i contenuti in questo caso mi interessano. Sono iscritto al M5s. Chiunque riporti questo Paese in mani diverse da quelle attuali… io firmo tutto”.

In ogni modo da Forza Nuova assicurano: “Altri sostenitori si uniranno per sostenere questa realtà popolare e rivoluzionaria, attratti da questo esempio unico in un’Italia avvelenata dall’odio ideologico, strozzata dalla finanza internazionale e schiacciata dal vangelo laicista e anti umano di Oms, Gates e Soros”. Parteciperanno in tanti. Ilaria Cucchi e Renato Zero no, neanche a loro insaputa.

 

Gli ospedali?. “Serve slogan” Toti è in crisi di propaganda

“Sanità: serve slogan”. L’appunto è chiaro. Per leggerlo basta zoomare su una foto pubblicata su Facebook dal governatore ligure Giovanni Toti, che in quanto a post culinari si gioca il primato con l’amico Matteo Salvini. Focaccia, costine alla griglia, muscoli ripieni. Mercoledì si fa immortalare sorridente, forchetta intinta dentro un bel piatto di trofie: “Trofie al pesto mentre si continua a lavorare sul programma per la Liguria… così viene più buono”, ammicca. E il “programma” è proprio lì, incastrato sotto al piatto: un foglio scritto a computer dal titolo “Possibili idee forti” e 8 punti schematizzati perfettamente leggibili. A colpire è l’ultimo, il numero 8, “Sanità Liguria”. Aperta parentesi: “Serve slogan”.

Pare insomma che non sia questo il terreno preferito di Toti in campagna elettorale. Non è semplice trovare la catch-phrase che riassuma i successi sanitari della sua giunta. Anzi, a monte, si fatica a trovarne uno. La Liguria è una delle Regioni con il più alto rapporto tra malati e morti per Covid (a maggio era terza, poi è scesa al quinto posto). A luglio la Corte dei Conti ha sottolineato il pesante disavanzo lasciato da Toti in campo sanitario, ben 64 milioni, il secondo peggiore d’Italia. I malati oncologici genovesi ricordano ancora le umilianti “trasferte” in pullman a Savona perché i macchinari della radioterapia al San Martino – il principale ospedale ligure – erano guasti (proprio su questa vicenda ieri la Guardia di Finanza ha fatto un blitz nella struttura, sequestrando documenti). Poi c’è l’eterno cantiere dell’ospedale Felettino a La Spezia, abbandonato nonostante i milioni spesi dalla Regione.

Insomma, il messaggio ottimista, il calembour magnetico non si trova. Altro che “Modello Genova”, la numero 2 delle “idee forti” buttate giù dallo staff di Toti. Nella ricostruzione del Morandi il governatore non ha toccato palla (l’ha gestita tutta il sindaco di Genova Bucci), ma lo slogan, appunto, era troppo ghiotto per non farlo proprio. Sulla sanità, invece, il piatto piange. Per questo il candidato giallorosa Ferruccio Sansa sfida il rivale a un confronto pubblico: “Caro Toti, la sanità è la prima competenza della Regione”, dice in un video-messaggio. “I dati sul Covid a maggio sono stati disastrosi in Liguria, come in Lombardia. C’è poi la questione dei malati di tumore costretti a quei terribili viaggi in pullman per ricevere la radioterapia. Se tu non hai niente da nascondere e sei convinto di queste scelte, credo che dobbiamo fare un confronto. Io sono pronto”.

Di cittadinanza funziona, d’emergenza no

Basta guardare quanto è successo negli ultimi mesi al Reddito di cittadinanza per capire l’impatto sociale della crisi da Covid-19: dall’inizio del lockdown a luglio i beneficiari della misura contro la povertà sono aumentati di 450 mila unità, sfondando la soglia dei 3 milioni.

In più, da maggio a oggi quasi 600 mila famiglie hanno chiesto il Reddito di emergenza, il nuovo strumento con requisiti meno stringenti introdotto proprio per intercettare le nuove povertà indotte dall’emergenza sanitaria. Di queste, però, solo 267 mila nuclei familiari hanno ottenuto risposta positiva, mentre ad altri 288 mila è stata respinta: il sussidio, tra i 400 e gli 800 euro a seconda dei componenti della famiglia, è arrivato in soccorso a oggi di 645 mila persone. Insomma, reddito di emergenza fa fatica a intercettare la platea potenziale.

Quando fu introdotto, il governo era convinto di poter aiutare 870 mila nuclei familiari, cioè due milioni di persone. La partenza di maggio, però, è stata lenta e nelle prime settimane le domande non sono state molte. Va detto che la campagna informativa, fondamentale quando si tratta di raggiungere persone che vivono nel disagio, è stata avviata solo il 20 luglio, quindi 11 giorni prima della scadenza dei termini per presentare la domanda, inizialmente prevista per il 31 luglio. Alla data di chiusura della procedura le domande arrivate all’Inps risultavano 598 mila: una cifra significativa, ma assai inferiore alle attese. Il Forum Disuguaglianze e Diversità, che era stato tra i principali promotori della misura, ha chiesto una proroga dei termini proprio per il ritardo nella comunicazione: ora, grazie a una norma inserita nel decreto Agosto, è possibile inviare la richiesta all’istituto di previdenza entro il 15 ottobre. Quindi, quantomeno dal lato delle domande, il target iniziale è ancora raggiungibile.

Nel frattempo, come detto, il reddito di cittadinanza ha continuato a fare il suo e l’aumento del 17% dei percettori lo dimostra. A fine 2019 si era attestato sui 2,5 milioni di beneficiari, ma con l’epidemia la situazione è cambiata: a luglio il reddito risultava destinato a 1,1 milioni i nuclei familiari (2,9 milioni di persone coinvolte) e con un importo medio mensile di 561,23 euro; a questi vanno aggiunti circa 200mila percettori della “pensione di cittadinanza”.

È opinione diffusa tra gli osservatori – anche quelli inizialmente più critici – che senza uno strumento già pronto sarebbe stato molto difficile individuare e sostenere le famiglie povere nelle poche settimane che il governo ha avuto a disposizione per studiare una strategia di contrasto al Covid-19. Gli ammortizzatori sociali esistenti, pur fondamentali, si sono dimostrati poco inclusivi e i vari bonus hanno sempre finito per lasciare fuori qualcuno.

Pil, Gualtieri vede “rosa”. L’indice Markit assai meno

Mandare in coma un Paese, anzi il mondo intero, è più facile che risvegliarlo. Di questo si stanno accorgendo un po’ tutti con l’apprezzabile eccezione del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Se a fine marzo sostenne in Parlamento che il Pil sarebbe sceso “nel 2020 di qualche punto percentuale, grave ma gestibile e recuperabile” – salvo poi arrendersi a stime che oscillano attorno a un crollo del 12% – ieri ha esercitato il suo inguaribile ottimismo al meeting ciellino di Rimini: “Siamo di fronte alla più significativa contrazione del Pil della storia del nostro Paese, ma tutti gli indicatori degli ultimi mesi ci dicono che ci sono le condizioni per avere un terzo trimestre di fortissimo rimbalzo e una chiusura dell’anno non lontano dalle previsioni originali che il governo aveva dato” (che sarebbero di una chiusura dell’anno attorno al -8%).

Il ministro venuto da Bruxelles avrà sicuramente i suoi motivi, che ci auguriamo ben fondati, per dire quel che dice, però ieri l’Europa ha potuto apprezzare il primo dato in controtendenza dalle riaperture della primavera: l’indice delle Pmi calcolato da Markit, uno dei principali indicatori economici al mondo, ad agosto è tornato a contrarsi. Tanto è vero che l’ex ministro andato a Bruxelles, cioè il commissario Ue Paolo Gentiloni, ieri era assai meno ottimista del suo collega di partito: “C’è ancora molta incertezza sulla via della ripresa in Europa”.

Ora, a parte lo sprofondo dei primi sei mesi dell’anno (il Prodotto italiano, è stato calcolato, è tornato ai livelli del 1993), i dati diffusi ieri dovrebbero destare più di una preoccupazione.

Intanto l’Ihs Markit Pmi (Purchasing Managers Index) è un’indagine mensile condotta su un gruppo di aziende che rappresentano tanto le principali economie mondiali che quelle in via di sviluppo e spesso si è rivelato un buon anticipatore delle tendenze in atto. Quello diffuso ieri mattina segnala per l’Eurozona una perdita di slancio della ripresa iniziata con le riaperture: in numeri l’indice si è fermato a 51,6 punti ad agosto contro i 54,9 di luglio, il primo mese di deciso miglioramento. In particolare è stato il terziario (commercio, servizi) a registrare performance molto deboli, mentre generalmente la manifattura continua ad andare meglio.

Il problema, dice la nota di Markit, è l’aumento dei contagi in Europa: “La ripresa dell’Eurozona ad agosto ha perso slancio – ha spiegato Andrew Harker, economist director presso Ihs Markit – per via dell’aumento dei nuovi casi di infezione da coronavirus in varie zone dell’area euro e al ripristino di restrizioni più rigide con il conseguente impatto particolarmente patito dalle imprese del terziario”. Altro problema di non piccola entità è che per il sesto mese consecutivo le imprese europee hanno ridotto il numero dei loro occupati, persino quelle manifatturiere, che pure “hanno continuato a registrare aumenti marcati della produzione e dei nuovi ordini”.

Tornando al “rimbalzo fortissimo” di Gualtieri è utile infine ricordare che la crescita acquisita nei primi sei mesi dell’anno – secondo l’Istat – è pari a -14,3%: per arrivare attorno al -8% stimato dal ministro mesi fa (e ribadito ieri) il “rimbalzo” dovrebbe essere nell’ordine dei 10 punti percentuali per due trimestri consecutivi. Sarebbe fortissimo davvero, ma non pare aria.

Scuola, “l’incognita genitori” se un alunno risulta positivo

Registro dei contatti, un referente scolastico per il Covid, collaborazione con i genitori e monitoraggio delle assenze: queste le nuove indicazioni dell’Istituto superiore di Sanità – pubblicate dopo giorni di rinvii – da adottare se un alunno o un docente risultano sospetti o positivi. Un protocollo di sicurezza condiviso dai ministeri della Salute e dell’Istruzione, dall’Inail (che assicura gli infortuni sul lavoro) e dalle Regioni. E che, secondo la ministra Lucia Azzolina consentirà di far riaprire la scuola in sicurezza il 14 settembre, “anche se i dati dovessero peggiorare e anche se nei sindacati c’è chi fa sabotaggio” (di fatto però, spiegano i tecnici, non si sa quanto potrà influire la risalita dei contagi). Restano comunque diverse questioni da chiarire e che le linee guida non contemplano, a iniziare dallo status dei circa 17 milioni di genitori che sono in trepidante attesa di notizie più certe anche per capire cosa sarà di loro nel caso in cui dovessero essere posti in quarantena se i figli risultassero positivi. Partiamo da qui.

madri e padri. Quando uno studente ha i sintomi del Covid-19, spiega l’Iss, va isolato in una stanza e i genitori, che vanno subito avvisati, devono portarlo a casa e contattare il medico di famiglia. Ma a questo punto, chi rimarrà insieme al figlio che va posto prima in isolamento e poi, in caso di positività, in quarantena? A oggi non ci sono indicazioni. Tanto più che il ricorso allo smart working per i lavoratori-genitori vale fino al 14 settembre. E fosse solo questo: anche i genitori, in quanto contatti stretti, dovrebbero fare un tampone per accertarsi di non essere positivi e, nel frattempo, restare in isolamento. Qui c’è un buco nero: anche fossero negativi, bisognerà capire quali tutele gli saranno concesse visto che con ogni probabilità almeno uno dei due dovrà stare accanto al bambino. Potranno lavorare in smart working? E se non sarà possibile quale sarà il loro regime giuridico: malattia (Inps) o infortunio (Inail)? Per la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina “non è necessariamente la donna a dover rimanere a casa”. Quale che sia dei due, andrà chiarito prima che 8,4 milioni di studenti tornino in classe.

Chiusura degli istituti. Il mantra è chiaro: la Asl deciderà di caso in caso. Tradotto: un solo contagio non farà automaticamente scattare la chiusura della scuola, soprattutto se la trasmissione “non è elevata”. Sarà poi importante individuare rapidamente tutti i contatti stretti tramite il tracciamento con un registro ad hoc. Saranno poi i genitori a dover misurare la temperatura ogni mattina ai figli. Nessuna responsabilità per i presidi. Il timore è che si possa scatenare una caccia alle streghe con possibili denunce sulla mancata applicazione delle regole di precauzione da parte delle famiglie o dei docenti. Infine tutte le scuole dovranno nominare un referente e nei dipartimenti di prevenzione dovrà esserci un medico per ogni istituto: al momento non si sa ancora chi e come andrà a ricoprire questo ruolo.

Didattica a distanza. Anche l’unica certezza della didattica a distanza in caso di quarantena di una classe si porta dietro un’altra criticità. Il gruppo di lavoro che ha stilato le linee guida non sa ancora come identificare il meccanismo con cui gli insegnanti eventualmente posti in quarantena possano svolgere le lezioni online. I sindacati dei docenti hanno chiesto che vengano messi in malattia, ma questo gli impedirebbe di fare lezione da casa.

Banchi e mascherine. La consegna di quasi 2,5 milioni di monobanchi avverrà dal 7 settembre. Significa che almeno all’inizio molti alunni siederanno nel normale banco non rispettando il distanziamento, limite che farà scattare l’obbligo di indossare la mascherina dai 6 anni in su. Linea ufficiale che non convince i presidi che vorrebbero l’obbligo delle mascherine. Ipotesi che, invece, non piace ai genitori: sarebbe difficile per i più piccoli indossare la protezione per tante ore. Altre indicazioni dovrebbero arrivare il 29 agosto, quando si riunirà di nuovo il Comitato tecnico-scientifico. Resta da capire dove si svolgeranno le lezioni: il bando di assegnazione dei finanziamenti (70 milioni di euro) per l’affitto di immobili da destinare alle aule scadrà il 26 agosto. A ridosso dell’inizio dei corsi di recupero. Poi il 14 settembre ci sarà il ritorno sui banchi per tutti, in attesa delle regole sull’utilizzo dei mezzi pubblici.