Cl santifica Fontana. E torna anche Alfano

L’insegna del meeting di Rimini 2020 dice “special edition”. Perché è l’anno del Covid e persino il maxi-evento di Comunione e Liberazione, che da decenni mette allo stesso tavolo la politica e il capitalismo italiano, si è dovuto dare una ridimensionata. Grandi spazi vuoti, posti dimezzati, nessun padiglione, pochi e sparsi visitatori, ospiti per lo più in videoconferenza: un inevitabile senso di malinconia. Ma pure in “edizione speciale” e ridotta, la festa ciellina conserva lo spirito della tradizione: rimane in fondo la prova di forza di una grande famiglia. Una famiglia di fede e potere.

Comunione e Liberazione e il suo braccio economico, la Compagnia delle Opere, sono un unico grande nucleo promiscuo con la sanità privata lombarda e con la politica regionale. Un rapporto particolarmente esposto negli anni del “Celeste” Roberto Formigoni, governatore ciellino della Lombardia, che sull’altare dell’incesto cliniche-Regione ha fondato il suo successo e le sue sventure (il carcere e ora dei domiciliari).

Il matrimonio però va avanti. Non è un caso che proprio sugli schermi del meeting di Rimini ieri si sia celebrata la ricomparsa di Angelino Alfano, ex delfino di Berlusconi, poi pluridecorato ministro nei governi col Pd, oggi presidente del gruppo San Donato, il gigante privato della sanità lombarda. Alfano (in video) è ospite di una tavola rotonda a cui partecipa il ministro della Salute Roberto Speranza. È una meravigliosa marchetta – non ce ne voglia nessuno – a favore dei privati. Alfano gigioneggia: “La pandemia è stata una lezione per il sistema sanitario nazionale e ha rotto un equivoco culturale, che pubblico e privato siano avversari. In emergenza il privato ha dato il meglio di sé, si è fatto carico del 18 per cento dei malati di Covid in Lombardia, ha permesso alla sanità pubblica di reggere”. Speranza ascolta, incassa, annuisce, piazza una zampata: “Ora la sanità privata però deve firmare il contratto nazionale”. Nel complesso, una grande festa di famiglia.

Ancora più familiare, se possibile, l’accoglienza per il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, nel dibattito della mattina. Si parla ancora di sanità, della pandemia e del rapporto tra Stato e Regioni. Solo che lo Stato non c’è, restano solo due governatori di destra (il terzo invitato, Michele Emiliano, dà buca): con Fontana c’è il siciliano Nello Musumeci. Vanno a ruota libera, raccontano una realtà tutta loro: il governo debole e assente, le Regioni abbandonate a sé stesse, sole contro il virus. L’unica domanda a Fontana fa tremare i polsi: “Presidente, la sua Regione ha dato una risposta formidabile sui posti letto, è stata in prima fila nella dialettica con lo Stato”. Il governatore fa la vittima: “Se avessimo avuto maggiore autonomia si sarebbero evitati molti errori. Dall’inizio del mio mandato chiedo di poter assumere medici e infermieri”. Si dà un piglio quasi eroico: “Come ha scritto Ferruccio de Bortoli, la Lombardia è stata abbandonata. Partivamo da una situazione drammatica, ma abbiamo dato risposte importanti per rientrare nella normalità”. Nessuno interrompe questa narrazione; nessun riferimento a camici o conti all’estero; nessuna critica a una gestione da più parti considerata disastrosa.

Ai tempi d’oro Formigoni era munifico sostenitore del meeting di Rimini, con sponsorizzazioni che arrivavano fino a 200mila euro. Pure quest’anno lo stemma della Lombardia è in bella vista sui monitor. Dal Pirellone giurano che stavolta la Regione non ci ha messo un euro, non c’è patrocinio. Come si spiega il logo? “Magari è per buoni rapporti… l’anno prossimo in assenza di Covid torneremo a collaborare”. Nel frattempo, insomma, pubblicità gratuita: una grande famiglia.

“Servono 2 o 300 mila tamponi al giorno. E deve farli il governo”

“Serve un piano nazionale di sorveglianza per quadruplicare la nostra capacità di effettuare tamponi. Questa attività strategica per il nostro Paese non può essere lasciata in balìa delle diverse impostazioni delle Regioni”. I contagi continuano a crescere ma per il professor Andrea Crisanti, ex Imperial College, direttore della Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, non ci potrà essere un nuovo lockdown. “La sfida è creare sistema di sorveglianza attiva capillare e omogenea su tutto il territorio, che ci permetta di tornare a lavorare, a votare, ad andare a scuola. Per questo dobbiamo portare la nostra capacità giornaliera di effettuare tamponi dai 70 mila attuali a circa 250-300 mila tamponi al giorno”.

Non siamo un po’ in ritardo? Ci sono i tempi per arrivare a un numero così alto di test?

Abbiamo 30 giorni per far sì che le lezioni riprendano in sicurezza e 60 per evitare che questo inizio di scuola si risolva in un drammatico fallimento. Se vogliamo provare a convivere con questo virus dobbiamo prepararci ad affrontare una situazione in cui coesistono un’alta trasmissione e intensi scambi sociali senza che questo porti al collasso del sistema sanitario. Questo comporta scelte strategiche che non si possono lasciare alla decisione del singolo, pur bravo, governatore di Regione. Serve un massiccio investimento in attrezzature, in logistica e in personale e una presenza omogenea in tutte le regioni italiane. Ci aspettano appuntamenti cruciali: il rientro a scuola, le elezioni.

Il sistema non è in grado di gestirli?

Facciamo l’esempio delle elezioni: se vogliamo andare a votare in condizioni di relativa sicurezza dobbiamo fare il tampone ai presidenti di seggio e agli scrutatori, prima e dopo il voto. Moltiplichiamo per le 60 mila sezioni elettorali italiane. Questa capacità di fare test deve aggiungersi a quella ordinaria, che anche durante il lockdown è sempre stata di circa 70 mila tamponi al giorno, e che non possiamo rallentare o fermare perché rischiamo di farci sfuggire di mano l’epidemia. Questo vale anche per la scuola e per qualsiasi settore fondamentale della nostra vita civile, se non vogliamo vivere barricati in casa.

Aumentano i casi, ma gli ospedali non sono pieni di pazienti gravi. Cos’è cambiato?

Non è cambiato niente di sostanziale. Su questo punto c’è un grande equivoco, perché i dati della sierologia sul Covid-19 pubblicati dall’Istat ci dicono che non esiste una grande differenza di distribuzione di casi per età dalla prima epidemia fine febbraio, marzo e aprile. Il virus non è mutato e la malattia non è cambiata. Oggi siamo di fronte a soggetti giovani che trasmettono l’infezione ma si ammalano in maniera molto lieve e quindi sfuggono all’osservazione del sistema sanitario. È proprio quello che è successo nella prima parte dell’epidemia: in Veneto già a febbraio c’era il 3% di infetti nella prima comunità testata, Vo’ Euganeo, tutti sostanzialmente asintomatici e dunque invisibili. Allora non eravamo in grado di intercettarli, mentre adesso questa fetta di popolazione contagiata la troviamo con i tamponi.

L’età mediana dei contagiati è scesa intorno ai 30 anni.

Dal mio punto di vista l’età mediana non è realmente cambiata. Secondo i dati ufficiali finora abbiamo 257 mila positivi diagnosticati con tampone, ma l’Istat ci dice che gli infetti sono stati circa 1,5 milioni di italiani, il che significa che ci sono stati più o meno 1,3 milioni di casi non diagnosticati. Tutti asintomatici o poco asintomatiche, c’erano allora come ci sono adesso, solo che adesso le vediamo. E stiamo riuscendo a proteggere le categorie a rischio, gli anziani sono più attenti, non facciamo entrare il virus negli ospedali e nelle Rsa. Il virus corre, ora come allora, grazie alla fascia di popolazione più attiva, i giovani che hanno fitte relazioni sociali.

I casi reali sono ancora così gravemente sottostimati?

No, la sottostima c’è, ma ci avviciniamo di più alla realtà. D’altra parte nelle fasi iniziali si facevano 5 mila tamponi al giorno, oggi circa 70 mila. La trasmissione per il momento è ancora a focolaio e non diffusa, e dobbiamo evitare assolutamente che avvenga al di fuori di precise catene di contagio perché a quel punto l’epidemia ci sfugge. Il punto di non ritorno arriva quando si supera la capacità di sorveglianza, quando la richiesta di tamponi diventa superiore alla capacità di farli, i tempi di risposta si allungano, sfuggono al controllo ospedali e case di riposo e il sistema si sfilaccia. L’esposizione al virus delle categorie vulnerabili è la miccia che può far esplodere l’epidemia.

Quanto pagheremo questa “pazza estate”?

L’aumento dei contagi in vacanza è anche dovuto alla frammentazione delle strategie delle Regioni, ogni governatore fa da par suo badando a equilibri e convenienze locali. Ma se una Regione sbaglia, l’errore si ripercuote su tutto il Paese. Sa cosa abbiamo fatto bene? La rimozione graduale delle misure, alla fine del lockdown, che ci ha regalato un mese di vantaggio rispetto agli altri Paesi europei. Le Regioni che hanno riaperto tutto subito sono quelle che ora stanno pagando il prezzo più alto in termini di contagi, come purtroppo sta accadendo al Veneto.

 

Regalo di Gallera ai privati. I test affidati al San Donato

Contrordine compagni. I tamponi vanno fatti a tutti i passeggeri provenienti dai quattro Paesi a rischio (Spagna, Grecia, Croazia e Malta) che atterrano negli scali lombardi. Siano essi stranieri, residenti in Lombardia o altrove. E poi, gazebo e drive-in attivi anche negli scali di Linate e Orio al Serio (Bergamo). Con un doppio carpiato, nella notte tra giovedì e venerdì scorso l’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera ha sconfessato il piano illustrato solo poche ore prima dal suo direttore generale, Marco Trivelli. In effetti la politica della “due misure” (che escludeva dagli esami in aeroporto i non lombardi) ore aveva attirato sul Pirellone uno tsunami di critiche. Impietoso il confronto con lo scalo romano di Fiumicino dove da giorni si fanno i test rapidi a tutti i passeggeri, indipendentemente dalla residenza.

Così, ieri Gallera è corso ai ripari. E per ribaltare quel piano ha chiamato in aiuto il Gruppo San Donato, numero uno della sanità privata lombarda che ha in mano il Policlinico San Donato, il San Raffaele e decine di strutture nella regione: saranno loro a farsi carico dei tamponi per i passeggeri in arrivo a Linate e Orio al Serio dai Paesi considerati a rischio. Come è noto, la famiglia Rotelli ha insediato ai vertici del Gruppo l’ex ministro Angelino Alfano e l’ex presidente lombardo Roberto Maroni.

Non sarà un favore gratuito, naturalmente: il Pirellone, infatti, rimborserà al gruppo privato 62,89 euro per ogni tampone effettuato. La cifra, non dichiarata da Gallera, è contenuta nella delibera regionale 3132 del 12 maggio scorso, scaduta il 31 luglio e quindi prorogata il 5 agosto scorso, a Regione già semi-deserta. Un costo inferiore a quello praticato dal Gruppo ai privati, 92 euro, tuttavia, se si considera che solo a Linate arriveranno tra i 500 e i 700 passeggeri al giorno e si aggiungono quelli di Orio al Serio, l’importo finale non sarà certo leggero per le casse pubbliche.

“Pensiamo che circa il 50% delle persone si sottoporrà al tampone (a Linate, ndr), noi puntiamo al 100% – ha spiegato ieri l’ad del Gruppo San Donato, Francesco Galli –. I tamponi vengono fatti a tutti, non ci sono priorità, basta mettersi in coda. Chi non fa il tampone in aeroporto può farlo, prenotandosi a un apposito numero, ai Drive Through del Gruppo San Donato, rimanendo in auto. A Bergamo, invece, da domai (oggi, ndr) sarà attivo un altro drive-in nei pressi dell’ospedale della Fiera”.

A Bergamo si vivrà così il paradosso di una struttura costruita da volontari (gli alpini) durante l’emergenza Covid, oggi gestita dall’ospedale Giovanni XXIII, che sarà utilizzata da un gruppo privato per effettuare un servizio pubblico. Eppure da mesi lo stesso Giovanni XXIII offre un servizio di tamponi drive-in che garantisce 100 test al giorno e, assicurano dalla struttura, potrebbe essere incrementato.

Tuttavia l’intervento del Gruppo San Donato non ha risolto tutti i problemi: oltre due terzi delle richieste di tamponi arrivate all’Ats di Milano rimangono tutt’oggi inevase, come ha confermato ieri il Dg della Ats Milano, Walter Bergamaschi: “In una settimana si sono registrate oltre 20 mila persone residenti nel nostro territorio” e di queste solo “6 mila richieste sono state evase”. Quindi 14 mila passeggeri non testati circolano sul territorio dal 12 agosto, giorno in cui è stata emessa l’ordinanza dal ministero della Salute. Un vero azzardo, considerando che il tasso di positività tra i provenienti dai paesi a rischio si aggira tra il 3,8 e il 4%.

Alla luce di tutto ciò sono più che comprensibili le critiche mosse da sindacati e opposizioni. La Funzione Pubblica Cgil ha parlato di “umiliazione della sanità pubblica” e di enensimo regalo a quella privata. Il consigliere Pd Pietro Bussolati sottolinea che “mentre nel Lazio si punta su un’importante struttura pubblica come l’ospedale Spallanzani per fare i test, in Lombardia ci si rivolge ai privati. Una scelta inspiegabile della quale chiederemo conto a Gallera”. Pesantissimo il giudizio del collega Marco Fumagalli (M5s): “Mentre il Governo mette a disposizione 80 milioni per assumere il personale sanitario in Lombardia, la Regione incapace di organizzare dei presidi presso gli aeroporti, si affida alle strutture del Gruppo San Donato. Anziché utilizzare i medici delle Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) o assumere il personale precario (i dipendenti del San Donato sono in gran parte precari), preferisce esternalizzare. Così si rimpingua il bilancio degli amici e si perpetua lo scambio elettorale”.

Volta&Gabbana

Collezionare ritagli di giornali è un hobby che consiglio a tutti: basta afferrare una cartellina a caso con quello che tizio diceva l’altroieri, confrontarlo con ciò che dice oggi e scompisciarsi. Un tempo il primato assoluto era dei politici, ora invece li scavalcano opinionisti, imprenditori e giuristi, oltre alle nuove star della virologia.

Il Cazzaro Verde non ci sta a farsi metter sotto, infatti il 10 marzo voleva “chiudere tutta l’Italia” e l’11 “tutta l’Europa”, massì abbondiamo: ora chiede “l’arresto di Conte, che chiuse l’Italia (l’Europa era troppo, ndr) contro il Comitato tecnico scientifico” (che era favorevole). Dinanzi alla crescita esponenziale dei contagi (mille al giorno, soprattutto nella Lombardia modello che conta il 35,2% dei 15.089 casi attivi al 18 agosto), proclama: “Ora non c’è emergenza e chi dice il contrario, ovvero il governo, è in malafede e fa terrorismo per mantenere il potere” (veramente dicono il contrario i suoi presidenti regionali Zaia e Fontana, ma fa niente). E i giornalisti che pubblicano i dati che dicono l’esatto opposto lo fanno perché “il virus conviene: tenere in vita il virus in pieno agosto fa guadagnare soldi o fa guadagnare voti. Non si spiega altrimenti il coro quasi unanime di giornali e tv per creare un allarme che non c’è e parlare di emergenza in mancanza di emergenza”. Certo, come no.

Senz’offesa per Salvini, le sue scemenze non riescono a eguagliare quelle ripetute fino a dieci giorni fa dal suo ultimo spirito guida dopo la dipartita di Bannon: l’emerito Sabino Cassese che, sul Corriere e i suoi derivati, contestava la proroga fino a metà ottobre dello “stato di emergenza senza emergenza” (quando esso fu proclamato il 30 gennaio, i positivi erano 2 in tutta Italia, dunque l’emergenza era infinitamente più lieve di quando il governo l’ha prorogata e lui avrebbe voluto revocarla; ma fa niente). Ecco: che fine ha fatto Cassese? Perché oggi, con mille nuovi infetti al giorno, non c’illumina d’immenso con qualche altra scempiaggine? Ci manca tanto.

Meglio di lui però fa Confindustria. Ricordate le filippiche del presidente Carlo Bonomi contro “il governo dei bonus e dei sussidi a pioggia” e contro il Dl Liquidità per i prestiti bancari garantiti dallo Stato alle imprese in difficoltà? “La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta, l’accesso alla liquidità non è immediato”. Poi iniziò a frignare perché i prestiti non arrivavano, e mica era colpa delle banche, no: sempre del governo, tant’è che ne invocava “uno diverso”. Ieri Confindustria, forse approfittando delle sue ferie, ha annunciato fra squilli di tromba che già un milione di imprese hanno chiesto i prestiti garantiti.

Tripudio incontenibile: “Un traguardo che conferma la grande utilità di uno strumento che in questi mesi ha rappresentato una risposta concreta ed efficace per le imprese costrette a fronteggiare un’emergenza di liquidità senza precedenti”. Parola di Emanuele Orsini, vicepresidente di Confindustria. Il vice di Bonomi. Che ora si scuserà per aver detto il contrario. O no?
Meglio di Bonomi fa la Repubblica, con la sua nuova crociata per il No al taglio dei parlamentari, in tandem con i fratellini di Stampa ed Espresso e i nuovi cuginetti del Domani. L’appello al No del direttore Molinari è stato subito ritwittato da Ezio Mauro: lo stesso che nel 2008 reclamava “due riforme essenziali per la governabilità e la legittimità del sistema: la riduzione del numero dei parlamentari (con la fine del bicameralismo perfetto) e dei partiti”; e nel 2013 invitava il Pd a “sfidare i 5Stelle” con un “pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi”. Ieri, nella meritoria battaglia contro la propria storia, Repubblica ha reclutato i compagni Brunetta e Violante. Il primo voterà No con argomenti squisitamente giuridici: “I 5Stelle sono un partito morente” (infatti la maggioranza in Parlamento ce l’ha FI) e vanno “ammazzati definitivamente” per “dare la spallata a Conte”, visto che “la gente vuole la buona politica e si riconosce in Draghi”, oltreché – si capisce – in Brunetta. Anche Violante è in vena di diritto, ma pure di logica cartesiana: “Se prevalesse il Sì, gli effetti sarebbero gravi”: “il Senato con soli 200 componenti non riuscirà a stare al passo col lavoro della Camera” perché i senatori sarebbero la metà dei deputati (invece oggi che i senatori sono la metà dei deputati stanno al passo eccome). Seguirà un “ulteriore discredito del Parlamento”: infatti, diminuendo il numero dei suoi membri, “ciascun voto peserà molto di più” (più i parlamentari contano, più il Parlamento si scredita: è pura matematica). E infine il Senato andrà “alla paralisi o al disordine” (strano: dal 1948 al ’57 il Senato ebbe 237 membri, e poi 246 dal 1957 al ’63, e non si segnalarono paralisi né disordini). Ma non basta. Nel 2013 il presidente Napolitano nominò un comitato di 8 saggi per le riforme che, fra le altre, proposero questa: “I deputati verrebbero a essere complessivamente 480, per i senatori si propone un numero complessivo di 120” (cioè 600 come con l’attuale riforma, ma peggio distribuiti). Fra loro c’era un certo Luciano Violante. Chissà se è lo stesso Luciano Violante che ora scrive su Repubblica, o se i due omonimi si sono mai conosciuti.

“Per inseguire la Loren e i suoi flirt sono finito in carcere ai Caraibi”

Con Sophia Loren è stata una lotta dura. Durissima. Inedita, a tratti spiazzante, sicuramente una grande scuola di “attesa”: a volte ho aspettato settimane prima di piazzare il giusto click.

Per lei, appresso a lei, sono finito in galera.

La mia fonte era un componente della sua famiglia: la detestava così tanto da avvertirmi di ogni suo spostamento, e grazie a quella fonte l’ho pizzicata diverse volte mentre tradiva il marito, il produttore Carlo Ponti.

Attenzione, anche Ponti non era da meno, la sua liaison con Dalila Di Lazzaro era ben nota, solo taciuta perché lui stesso acquistava gli scatti fedifraghi.

Comunque la mia prima volta fu nei primissimi anni Settanta, quando la sorpresi seducente e seduttiva in costume vicino a Richard Burton, poi con Ettore Scola dopo aver girato Una giornata particolare, e durante le loro lunghe serate al Festival di Cannes. Dove c’era lei, arrivavo io, sostenuto economicamente da una rivista statunitense.

Fino a quando la mia fonte rivela: “Sophia va a Saint Lucia per un film”. Parto. In quell’isola dei Caraibi c’erano solo due hotel: subito scopro quello che la ospitava, tanto da presentarmi alla reception per prendere una stanza. Passano poche ore e arrivano quattro poliziotti armati di machete; senza dirmi nulla mi chiudono in una cella densa di odor di piscio e sudore: per due giorni l’unico alimento è stata una pinta di rhum. Poi mi hanno rispedito in Italia. Ammetto: me la sono legata al dito. Così quando ho scoperto che viveva a Parigi per soddisfare il suo amore con un medico francese, sono nuovamente partito, e dopo due settimane l’ho nuovamente beccata. “Questi scatti sono per il carcere”. E lei, con viso innocente: “Umberto, non sono stata io”. “No, è stato mi’ nonno”.

“Guida ai lupi mannari” per le notti estive di luna piena. Utilissima…

Sappiamo che sono costretti a trasformarsi durante la luna piena, che temono l’aconito e l’argento e trasmettono alle vittime la maledizione della licantropia. Ma il lupo mannaro che conosciamo, protagonista di cinema e letteratura, è solo un tipo di licantropo, cioè il “lupo mannaro da infezione”, come spiega nell’imperdibile manualetto Lupi mannari. Guida alla caccia (Odoya) Graeme Davis, scrittore e appassionato di giochi di ruolo.

Capace di trasformarsi – con un processo doloroso – in belva o in uomo-lupo e condannare con un graffio altri alla sua condizione, questo mostro, riconoscibile dal monociglio e dalla eccessiva lunghezza dell’anulare, può sviluppare una furia incontrollata contro uomini e animali.

Ma c’è un’altra, meno nota, tipologia di lupi mannari: quelli “sciamanici”. Qui non c’è trasformazione, lo spirito umano si trasferisce nel lupo fondendosi con la sua coscienza, mentre il corpo resta in disparte come in coma. Alcuni sciamani posseggono lupi per vendicarsi di qualcuno, ma sono pericolosi. Esiste poi il “lupo mannaro magico”, in grado di assumere la forma ibrida attraverso un rito con la pelle di un lupo e un unguento fatto da sostanze psicotrope. Ci sono infine i “lupi mannari maledetti”, letteralmente, da alcune divinità. Questa lieve forma di licantropia si distingue perché dura un lasso di tempo definito, e la forma è quella di lupo (questa specie non riesce a controllare la propria trasformazione).

Ma la categoria più controversa è quella degli “psicolupi”. La psicolicantropia – che si trova addirittura nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali come una manifestazione di schizofrenia – non prevede una trasformazione: durante la crisi, i malati, convinti di essere lupi, ululano, camminano a quattro zampe, attaccano bestiame e persone. Gli psicolupi possono essere pericolosi, specie se si muovono in gruppo. Già perché a proposito di forme di aggregazione, il libro ricorda come sia possibile incontrare un lupo mannaro solitario, magari confuso e spaventato, oppure branchi erranti, simili a bande di strada. In realtà, però, a rimetterci in genere sono sempre loro, visto che sono cacciati in ogni modo e con ogni tecnologia. E sono disprezzati pure dagli ambientalisti, che non accettano la commistione con il dna umano. Tempi duri, insomma, persino per i lupi mannari.

Ritorno al passato: “Tenet” di Nolan capovolge il tempo

“Per fare quello che faccio devo avere un’idea della minaccia che affrontiamo”. “Non mi sembra l’Armageddon. – No, è peggio”. “La missione trascende gli interessi nazionali, è in gioco la sopravvivenza”. “Come vorresti morire? – Da vecchio”. “C’è gente nel futuro che ha bisogno di noi. – Dobbiamo salvarli, qui e ora”.

Le apparenze ingannano, le battute pure: non è un film sulla Covid-19, sebbene la pandemia gli abbia giocato qualche brutto scherzo. Scherzo del destino, invero: per un film che predica il viaggio nel tempo, pardon, “l’inversione del flusso del tempo”, la pena del contrappasso si sconta nell’uscita procrastinata più volte a causa della pandemia. Ora dovremmo esserci: il 26 agosto approderà nelle sale di settanta territori, tra cui l’Italia, mentre negli Stati Uniti flagellati dal virus nel migliore dei casi lo si vedrà a macchia di leopardo una settimana dopo. Chiamato a far ripartire il cinema nel mondo, il film in questione è Tenet di Christopher Nolan.

Fresco cinquantenne (30 luglio), natali londinesi, Nolan è quanto di più vicino a Stanley Kubrick la Settima Arte abbia saputo offrirci in tempi recenti: autorialità dentro il sistema, complessione tecnologica, dimensione concettuale, spettacolarità esibita. Un esordio folgorante, Following (1998); un’opera seconda di culto, Memento (2000); una trilogia che ha mutato per sempre i cinecomics, Batman Begins (2005), The Dark Knight (2008) e The Dark Knight Rises (2012); un ambizioso fallimento, Interstellar (2014); un film bellico, che se no come puoi fare il Kubrick 2.0, Dunkirk (2017).

Tenet ha titolo bondiano à la Spectre o Skyfall, però palindromo, e un congegno, e forse una congerie, che lo accosta al capolavoro di Nolan, Inception (2010): se guardate i rispettivi trailer, tra pistole, discese/ascese con corda per due, esplosioni, auto in testacoda, sembrano lo stesso film, quantomeno pare che il primo abbia fecondato – innestato un’idea – il secondo. Che però costa di più, 205 milioni di dollari di budget di sola produzione, e altra prima volta per il regista e la moglie produttrice Emma Thomas è stato girato in ben sette Paesi, Danimarca, Estonia, India, Italia (Costiera Amalfitana), Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti.

Non ha (un) Leonardo Di Caprio per protagonista come in Inception, bensì John David “Figlio di Denzel” Washington con Robert Pattinson per scudiero; non ha l’abituale Hans Zimmer – già impegnato in Dune – alle musiche, bensì Ludwig Göransson. Eppure, altra battuta diegetica, “audace va bene, credevo dicesse folle”, e fin qua l’unica follia è stata extra-cinematografica, ovvero sanitaria, con ricadute alla Godot sulla distribuzione: l’uscita originaria del 17 luglio nelle sale statunitensi è stata fortissimamente difesa da Nolan, notorio sostenitore della fruizione theatrical, finché la pandemia non ha imposto in America la serie alternativa 31 luglio, 12 agosto, 3 settembre e in Italia quella ancor più schizzata 18 settembre, 3 agosto, 26 agosto. Numeri buoni per il Lotto, ma che tradiscono un problema capitale: Nolan scalpita, Warner Bros deve rientrare al più presto dell’investimento, tanto da concertare la release prima nel resto del mondo che negli Usa, dove si era perfino prospettata una diffusione digitale su Hbo Max. Una decisione tanto inedita quanto pericolosa, sul duplice fronte pirateria e spoiler, però probabilmente necessaria.

Ma che sappiamo di Tenet? Come da tradizione nolana, quasi nulla: spy story internazionale o, se preferite, science fiction d’azione, con Washington junior impegnato a scongiurare la Terza Guerra Mondiale forte di una sola parola, Tenet appunto. Al di là del bene e del male, e al di là del tempo reale, dovrà fare i conti con una nemesi russa (Kenneth Branagh) e la sua fascinosa moglie (Elizabeth Debicki).

Nel cast Clémence Poésy, Aaron Taylor-Johnson e il fedele Michael Caine, sullo schermo un mix di Imax e pellicola 70mm, ha nelle sequenze offerte un antipasto di felicità, anche filosofica: come se dopo aver rinnovato l’immagine-movimento di Deleuze, stavolta Nolan volesse confrontarsi con l’immagine-tempo, facendo dell’incredulo Washington, che anziché esplodere proiettili li riassorbe nel caricatore, il tempo stesso.

Che oggi coincide con quello inaudito, imponderabile e sciagurato della Covid-19: “Con l’inversione del flusso del tempo – altra battuta del trailer –, noi che siamo qui ora non significa che non è mai successo”. Non c’è da aggiungere altro: Tenet(e) duro.

Navalny, finisce in coma il nemico del Cremlino

Mattino presto, aeroporto di Tomsk, interno giorno. Al bar Vienna dello scalo siberiano un uomo di mezza età, con una t-shirt chiara, beve assorto un tè da un bicchiere di plastica rosso: ha accanto il suo trolley, è in attesa della partenza per Mosca.

Una scena che non lascia presagire nulla di brutto. La quiete dell’inizio di questo film – da neorealista, si trasforma in horror – è spezzata dalle convulsioni della stessa persona che si contorce nella toilette dell’aereo. Il comandante decide di fare un atterraggio di emergenza a Omsk; quando i soccorritori, intabarrati nelle loro giacche a vento gialle e blu, caricano il malcapitato su una barella, è come se prendessero di peso un sacco. Non c’è nessuna reazione da parte della vittima. Vittima, definita non a caso, dai suoi amici, dai suoi collaboratori: quell’uomo è Alexei Navalny, 44 anni, dal 2007 conosciuto come il principale oppositore del presidente russo Vladimir Putin. Alexei è stato avvelenato – dicono i suoi – gli hanno versato qualcosa nel tè. A scattargli una foto all’aeroporto, prima della partenza, è stato il dj Pavel Lebedev, che pubblica l’immagine sul suo profilo Twitter con la scritta: Buon giorno Alexei.

Lo stesso Lebedev poi registra le convulsioni di Navalny. Yarmish, la portavoce dell’oppositore scrive su Twitter: “Sospettiamo che Alexei sia stato avvelenato con qualcosa mescolato nel suo tè. È stata l’unica cosa che ha bevuto in tutta la mattina. I medici hanno detto che la tossina è stata assorbita più rapidamente attraverso il liquido caldo”. Versione confermata dall’ufficio stampa della compagnia aerea S7 Airlines:

“Le condizioni di salute di Navalny sono peggiorate drasticamente subito dopo il decollo del volo da Tomsk diretto a Mosca. Alexei non ha mangiato né bevuto nulla a bordo dell’aereo”. L’intossicato arriva in ospedale e i medici confermano: Navalny è in coma, è stato intubato, è stabile ma grave. “I medici lottano per salvargli la vita” afferma il vicedirettore dell’ospedale, Anatoly Kalinichenko. Sono fasi concitate, soprattutto per l’entourage di Navalny: la sua dottoressa personale, Anastasiya Vasiliyeva parte per Omsk; al nosocomio viene fermata, cosa che accade anche alla moglie di Navalny, Yulia; lei, poi, viene fatta entrare. Si fa strada fra i collaboratori l’idea di portare Navalny a Berlino, in Germania; i medici di Omsk tentennano, il Cremlino si dice disponibile a dare l’autorizzazione. “Siamo pronti a fornire ad Alexei Navalny e alla sua famiglia tutta l’assistenza di cui possano aver bisogno in materia di salute, asilo e protezione”, dichiara la cancelliera Angela Merkel. Da Mosca la Tassbatte i dispacci: segnala che gli investigatori non ritengono che vi sia stato un avvelenamento. Eppure che una sostanza tossica fosse il modo migliore per zittirlo, Navalny lo aveva raccontato già lo scorso anno. Nel luglio 2019, il leader dell’opposizione era stato trasferito dal carcere – dove scontava una pena di 30 giorni per una manifestazione non autorizzata – in ospedale. I medici gli diagnosticarono una reazione allergica grave, ma il medico personale di Navalny disse che poteva essere stato esposto a “qualche sostanza tossica”.

“Non ho mai avuto allergie, né alimentari, né al polline o altre cose – scrisse sul suo blog Navalny – mi sono svegliato di notte, tutto accaldato, con un prurito sulla faccia, il collo e le orecchie, come se mi avessero strofinato con la lana di vetro. E ho pensato: forse sono stato avvelenato”.

Il veleno, dunque. L’incubo di ogni russo che fugge dalla via tracciata dal capo assoluto; un tempo era la piccozza per Lev Trotsky, poi il progresso. E fra leggende e realtà si giunge ai laboratori dove il Kgb si specializza in intrugli per eliminare gli avversari. In tempi recenti, si ricordano l’ex spia russa Alexander Litvinenko, avvelenata da un tè nel 2006, a Londra. Nel 2018 toccò al colonnello Sergei Skripal e a sua figlia, raggiunti dagli agenti del Gru, il servizio segreto militare russo, nelle campagne inglesi, per essere atterrati – per fortuna non in modo definitivo – con il Novichok, un agente nervino. È accaduta la stessa cosa a Navalny? La Tass batte l’ennesima nota di giornata; dal Cremlino si augura “una pronta guarigione a Navalny, come nel caso di qualsiasi altro cittadino russo”.

Il ciarlatano che ispirava anche la destra italiana

Con la cattiveria, in Italia ne siamo esperti, si fanno affari d’oro al mercato della credulità popolare. Fallo un po’ simpatico, la carogna, d’aspetto macho trasandato, pronto a camuffare da battute di spirito le infamie che profferisce – perché ormai il profilo hitleriano-mussoliniano attira solo i fanatici – e troverete subito chi gli offrirà un piedistallo per le sue offerte speciali.

Steve Bannon è un ciarlatano riuscito a tirare su 25 milioni di dollari con la vendita online di mattoncini di Lego della cattiveria. Ci sono cascati in 330 mila: “We build the wall”, sganciate il grano che ci pensiamo noi a costruire il muro al confine. Per tenere alla larga gli immigrati dal Messico che in campagna elettorale Donald Trump definiva “ladri, spacciatori e stupratori”, suggeritore Bannon medesimo; e anzi prometteva, in sovrappiù, che quel muro l’avrebbe finanziato coi soldi loro, dei messicani. Perché questo è, fin dai tempi dei nazisti e degli ebrei, il trucco dei cattivi incantatori del popolo: convincerlo che è lui, il popolo buono, la vittima che ora finalmente può ribellarsi grazie agli uomini decisi che si sono messi alla sua testa.

Oggi sappiamo che Trump, divenuto presidente, non è riuscito a farsi pagare il muro messicano dalle sue vittime; e allora Bannon, scaricato e deluso, ha pensato di far da sé con il crowdfunding. Naturalmente Bannon e i suoi compari spergiuravano che non un centesimo di questa raccolta sarebbe finita nelle loro tasche. Ma per non cascarci bastava seguirlo negli spostamenti in jet privato tra gli Usa e l’Europa, documentati nel film “The Brink – Sull’orlo dell’abisso” di Alison Klaymane; che Bannon stesso ha voluto, convinto che giovasse al suo prestigio. Questo è il tallone d’Achille dei ciarlatani populisti: la loro sopravvivenza necessita di continua esibizione sopra le righe. Caduto in disgrazia nella cerchia ristretta di Trump, dopo che nel 2017 a Charlottesville aveva spudoratamente appoggiato le violenze dei suprematisti del Right Rally, Bannon ha dovuto impersonare direttamente sul palcoscenico la sua commedia di gran teorico del populismo mondiale. Non ne aveva affatto gli strumenti culturali, ha supplito con il phisique du role.

Il bluff è stato più che sufficiente per conquistare la nostra platea provinciale. Tra le credenziali che hanno portato Marcello Foa alla presidenza della Rai venne sottolineata la confidenza con Steve Bannon. Salvini e la Meloni hanno fatto a gara per mostrarsi al suo fianco, quando lui fondava un improbabile The Movement e offriva (naturalmente in cambio di laute parcelle) la sua consulenza ai peggiori movimenti estremisti della destra europea. Perfino un monastero di origini medioevali in Ciociaria, la Certosa di Trisulti, gli è stata concessa come sede di un altrettanto improbabile “Dignitas Humanae Institute”. A Bannon non manca la fantasia per le sigle. Chissà quali altre ne escogiterà dietro le sbarre a New York.

In attesa che il ciarlatano e la ciarlatana di casa nostra twittino la loro solidarietà militante al loro guru Bannon, magari denunciando la “giustizia a orologeria” di cui sarebbe vittima, è interessante sottolineare come ancora una volta gli immigrati si confermino l’ingrediente più redditizio per questi spacciatori d’identità manipolate. Atei che si fingono religiosi. Patrioti che disprezzano la storia nazionale. Fascisti senza il coraggio di ammetterlo.

Li unisce la convenienza di maltrattare gli immigrati. Schernire le loro sofferenze. Ghettizzarli per poi descriverli come untori Covid. Boicottare chi si preoccupa di soccorrerli in mare. C’è sempre da guadagnarci.

Bannon, altro che guru: frode da 25 milioni

Dalla Casa Bianca alla gattabuia: accusato di frode dai magistrati di New York, Steve Bannon, stratega nel 2016 della campagna elettorale di Donald Trump e poi suo consigliere, è stato ieri arrestato. Gli agenti lo hanno fermato mentre era su una barca a largo della costa orientale del Connecticut. L’inchiesta che lo coinvolge riguarda un’organizzazione chiamata We Build the Wall, (costruiamo il muro), quello anti-migranti lungo il confine con il Messico, promesso da Trump ma non realizzato. Per portare avanti il progetto, che il Congresso non ha mai finanziato, la Casa Bianca ha dovuto ricorrere a scappatoie amministrative, la cui legittimità è stata spesso contestata. L’organizzazione di Bannon e di tre suoi soci, pure sotto accusa, aveva raccolto online oltre 25 milioni di dollari, un milione dei quali sarebbe andato all’ideologo della destra sovranista, che ne avrebbe utilizzato una parte per sue spese personali.

La notizia dell’incriminazione e dell’arresto dell’ex stratega e consigliere del magnate presidente coincide con le battute finali della convention democratica: parlando alla platea virtuale, Joe Biden accetta la candidatura democratica alla Casa Bianca, in vista delle elezioni del 3 novembre. A perseguire Bannon e i suoi sodali, è la magistratura federale del Southern District di New York: l’accusa è di avere frodato centinaia di migliaia di finanziatori – ben 330mila – facendo leva sul loro desiderio di contribuire a finanziare la costruzione del muro al confine con il Messico. “Non solo hanno mentito ai finanziatori” della campagna, illudendoli che i loro soldi sarebbero stati spesi per erigere il muro, ma “li hanno truffati celando loro” l’uso reale dei fondi, con parte dei quali finanziavano il loro stile di vita. L’arresto imbarazza Trump, che prende subito le distanze: “Non è affare nostro: rivolgetevi al Dipartimento della Giustizia”, dice il direttore della comunicazione della Casa Bianca, Alyssa Farah, a chi le chiede un commento. E la portavoce del presidente Kaleigh McEnany dice che il magnate “non ha nulla che fare con Bannon dalla campagna elettorale e dall’avvio dell’Amministrazione” e che “non conosce le persone coinvolte” nel progetto. In realtà, Bannon accompagnò Trump alla Casa Bianca e gli resto accanto fino all’agosto del 2017, quando fra i due ci fu una rottura la cui dinamica non è mai stata del tutto chiarita. Ai giornalisti, il presidente dice: “È una cosa molto triste per Bannon, ma non ho a che fare con lui da molto tempo. Non so nulla del progetto ‘We Build the Wall’” che, comunque “non mi piaceva: pensavo fosse stato fatto per mettersi in mostra”, ma “non è appropriato” finanziare il muro con fondi privati. La grana di Bannon s’interseca con l’ennesima sconfitta giudiziaria per Trump sul fronte tasse.

Ieri un giudice federale della corte distrettuale di Manhattan, Victor Marrero, ha stabilito che il magnate deve consegnare le sue dichiarazioni fiscali alla magistratura di New York, respingendo il tentativo dei legali del presidente di bloccarne la diffusione. La procura generale di New York, che ha già avuto l’avallo della Corte Suprema, punta a ottenere otto anni di dichiarazioni delle tasse personali e aziendali di Trump nell’ambito delle indagini sulle sue attività, in particolare quelle alberghiere. Nei mesi trascorsi insieme alla Casa Bianca, Bannon, che era stato l’ispiratore del muslim ban, uno dei provvedimenti iniziali dell’Amministrazione Trump, s’era già sfilato dal presidente, criticandolo da sinistra – lui, un suprematista – sul razzismo e contestandolo sulla Corea del Nord. Il divorzio tra Trump e Bannon s’era di fatto consumato dopo una raffica di critiche del consigliere alle scelte presidenziali: per The Donald, era stato un licenziamento; per Bannon, dimissioni autonome. Lui era subito tornato alla guida del sito di destra Breitbart la sua creatura prima di guidare la campagna di Trump.