Merkel allunga la Cig a due anni

Dacché Mario Draghi s’è manifestato al meeting ciellino di Rimini assistiamo a un dibattito mediatico francamente imbarazzante: da un’interpretazione vagamente approssimativa di un testo volutamente vago, la maggior parte dei commentatori italiani ha iniziato a prendersela coi “sussidi” come fossero il peggiore dei mali (a non dire di quelli ossessionati dall’impossibilità di licenziare). I soldi spesi in sussidi – fanno dire a Draghi che non l’ha detto – impedirebbero di fare investimenti produttivi per rilanciare la crescita, eccetera eccetera.

Ebbene, visto che questi tizi in genere ci spiegano anche che dovremmo fare come i “Paesi civili”, varrà la pena riportare quanto sostenuto dal portavoce di Angela Merkel mercoledì: la Cancelliera, ha detto, è incline a estendere il programma Kurzarbeit – una sorta di cassa integrazione – fino a due anni (da uno) come suggerito dal ministro delle Finanze Olaf Scholz.

Due anni di cassa integrazione, aveva sostenuto domenica il prossimo candidato socialdemocratico alle politiche, servono perché “la crisi innescata dal coronavirus non sparirà improvvisamente nelle prossime settimane. Le aziende e i dipendenti hanno bisogno di un segnale chiaro da parte del governo: ti copriamo le spalle per il lungo periodo in questa crisi, in modo che nessuno venga lasciato andare senza bisogno”.

Esattamente come in Italia, quei “sussidi” (anatema) servono a non disperdere base produttiva e occupazionale per una crisi in parte passeggera (e se non lo sarà quei soldi saranno l’ultimo dei problemi). La decisione finale sulla questione verrà presa dal governo tedesco entro martedì: il programma Kurzarbeit, che risale alla crisi del 2008-2009, serve sostanzialmente a integrare la retribuzione dei lavoratori il cui orario sia stato temporaneamente ridotto (come da noi, all’ingrosso, la Cassa integrazione). Attualmente in Germania dovrebbe riguardare oltre cinque milioni e mezzo di dipendenti, soprattutto nella manifattura e nel commercio.

Gli esperti economici che supportano il governo di Grosse Koalition tedesco temono che i licenziamenti, senza i sussidi (anatema), sarebbero nell’ordine delle centinaia di migliaia nei prossimi mesi. Un danno enorme per chi resta in mezzo a una strada e – particolare non secondario – anche per chi governa, visto che il 2021 in Germania è un anno elettorale.

Investire Sgr e quel “ricatto” allo Stato sugli uffici in affitto

La vendita e l’affitto degli immobili pubblici – le cosiddette “dismissioni” – sono di norma un grande affare per i privati ai danni del pubblico, ma stavolta si è esagerato. Ora, approfittando dell’estate e del caos seguito alla crisi Covid, il privato ha cercato di fare il colpaccio mettendo in mora lo Stato, che a suo tempo già l’aveva fatto ricco cedendogli centinaia di immobili di pregio a prezzi vili per poi affittarli a canoni esosi.

Parliamo di Investire Sgr: società controllata dalla Banca Finnat della famiglia Nattino (ottime entrature in Vaticano), ma in cui figurano con quote di minoranza Covivio7 di Leonardo Del Vecchio e Regia Srl dei Benetton. Ecco, Investire, che gestisce il fondo “Fip”, a giugno ha inviato una lettera perentoria all’Agenzia del Demanio. Oggetto: la scadenza degli affitti di centinaia di amministrazioni pubbliche con sede negli immobili del fondo, di cui l’azienda propone il rinnovo per altri sei anni alle stesse condizioni capestro attuali e canoni esosi. Lo Stato, secondo Investire, ha tempo fino al 24 agosto per rispondere: ha risposto prima, con un articolo nel decreto Agosto che mette una pezza all’ennesimo ricatto.

Per capire questa storia bisogna partire dall’inizio e cioè dalle mitiche “cartolarizzazioni” ideate tra il 2001 e il 2005 dal ministro del Tesoro Giulio Tremonti (governo Berlusconi) per fare cassa. Tra il 2004 e il 2005 vengono messi in piedi il Fondo immobili pubblici (Fip) e il Fondo patrimonio uno (Fp1): le amministrazioni pubbliche – soprattutto Inps, Inail e Inpdap (l’ex istituto di previdenza degli statali) – cedono gli immobili ai fondi per poi affittarli con contratti di 9 anni (poi rinnovati di altri 9); lo Stato incassa subito e poi si impegna a versare un canone annuo.

Per capire la convenienza dell’operazione basta guardare i numeri snocciolati in una lettera allarmata spedita nelle scorse settimane al Tesoro dal direttore dell’Agenzia, Antonio Agostini: da Fip lo Stato ha incassato 3,3 miliardi e, al 2020, avrà pagato in affitti 5 miliardi tondi; a Fp1 lo Stato verserà 646 milioni di euro in canoni d’affitto, a fronte di 602 milioni incassati nel 2005. Insomma, lo Stato ha fatto un regalone ai privati, specie a Investire Sgr (che gestendo il Fip incassa le commissioni) e ai “soggetti terzi” che nel tempo hanno comprato gli immobili dai fondi.

Nella sua lettera Agostini ricorda “l’atipico impianto contrattuale” degli affitti in corso con clausole che pongono lo Stato “in una posizione di inusuale soggezione nei confronti del Fondo proprietario, oltre che in termini di adempimenti manutentivi (tutti a carico del pubblico, ndr) che di rinuncia al recesso”. A gestire le operazioni c’era l’allora direttrice del Demanio, Elisabetta Spitz, per quasi vent’anni signora delle dismissioni immobiliari, avendo già gestito le cartolarizzazioni “Scip” del 2001 (un mezzo flop) per poi essere premiata nel 2013 alla guida di Invimit, società del Tesoro che deve (ancora) “dismettere” o “valorizzare” gli immobili pubblici ma che finora non ha dato grandi risultati: nel 2018 la Spitz non è stata prorogata nell’incarico, ma nei mesi scorsi il governo l’ha comunque nominata commissario al Mose di Venezia.

Torniamo alla vicenda Fip. Nella sua lettera, Investire propone all’Agenzia – formalmente affittuario unico – l’offerta di rinnovo dei contratti per sei anni con tanto di nuovi canoni per 107 immobili rimasti di proprietà di Fip (i cui investitori nessuno conosce, nemmeno il Tesoro): se il Demanio non risponde entro il 24 agosto scade il diritto di prelazione. Investire Sgr s’è mossa con enorme anticipo, considerando che la scadenza è a fine 2022 e al Tesoro non hanno preso bene il blitz, tanto più che, se le amministrazioni affittuarie restano negli immobili senza un accordo, dopo la scadenza dei contratti dovranno pagare come penale un canone maggiorato del 50%. Per questo il governo ha infilato un articolo nel dl Agosto che disinnesca la bomba immobiliare: affida al ministero il compito di fissare i nuovi criteri per rinegoziare i contratti ed elimina per 24 mesi le penali.

I canoni proposti dalla società sono considerati “fuori mercato” dal Tesoro, tanto più che i nuovi contratti dovranno recepire lo sconto del 15% imposto dalla spending review del governo Monti nel 2012.

Qui si arriva al paradosso: nel 2004 lo Stato si assunse perfino la garanzia del finanziamento necessario ai fondi per comprare gli immobili. La garanzia scade insieme al fondo, che aveva durata di 15 anni, ma è stato prorogato a fine 2019: Investire pretende ora che anche la garanzia sia estesa e, grazie a questo, che a lei non si applichi lo sconto del 15% sui canoni. Una norma infilata nel decreto disinnesca anche questa pretesa e dà tempo allo Stato: o trova un accordo o trova soluzioni alternative.

A questo proposito, nel 2019 le amministrazioni affittuarie avevano lanciato un’indagine di mercato per trovare altri privati interessati ad affittare: è andata praticamente deserta, cosa che al Tesoro ha fatto venire più di un brutto pensiero.

Ambiente, profondo rosso: tra 24 ore la Terra è in debito

Il 22 agosto è il giorno del sovrasfruttamento delle risorse terrestri da parte dell’Umanità (Overshoot Day). Non è una data fissa, celebrativa, come la giornata mondiale dell’ambiente o della gioventù, ma è come una spia rossa che si accende sul cruscotto dell’auto e ti dice che sei in riserva perché hai premuto troppo sull’acceleratore. Nel 1970, con una Terra popolata da 3,7 miliardi di umani – meno della metà di quanti siamo oggi – quella data cadeva il 29 dicembre: era una buona cosa, dovevamo viaggiare in riserva solo per un paio di giorni, poi con il primo gennaio dell’anno nuovo, come con gli interessi di un conto in banca sano, si poteva fare rifornimento di risorse naturali che il capitale terrestre era in grado di rigenerare. Ma anno dopo anno, cresciuta la popolazione, cresciuti i consumi e cresciuto l’inquinamento, la data della riserva ha cominciato ad anticipare sempre più, nel 2000 era arrivata al 23 settembre e nel 2019 al 29 luglio, la più precoce di sempre.

“In riserva” carbone&C.: mangiare la biodiversità

Nel caso del nostro pianeta viaggiare in riserva vuol dire che ti mangi il capitale cioè impoverisci la biodiversità, estingui specie pescando troppo pesce negli oceani, deforestando l’Amazzonia, scavando miniere, cementificando il suolo, bruciando petrolio e carbone, cambiando il clima, spargendo plastica e altri rifiuti, accrescendo la popolazione di circa 80 milioni di persone all’anno. Giocando a spendere più di quanto ci sia sul conto per cinque mesi su dodici, contraiamo un debito molto più importante di quello monetario: il debito ecologico, detenuto non da banche o governi, ma dalle inesorabili leggi fisiche che governano l’universo.

Un debito che non si potrà estinguere con decreti o recovery funds, perché è misurato in tonnellate di CO2, in concentrazioni di mercurio nelle acque, in microplastiche nel cibo, in mancanza di suolo fertile, in minore produttività agraria, in riduzione dell’acqua dolce e così via. Cioè basato sulle grandezze fisico-chimiche e biologiche che fanno funzionare la nostra vita e che non si comprano con la carta di credito. Quest’anno però è successo qualcosa di inatteso: invece di anticipare, la data del sovrasfruttamento ha riguadagnato 24 giorni, riportandosi ai livelli del 2005.

Non è l’effetto di un’improvvisa politica ambientalista planetaria, non è il frutto dell’Accordo di Parigi sul clima, ma semplicemente la riduzione dei consumi e dei trasporti dovuta al confinamento sanitario da coronavirus. Per qualche mese vari paesi del mondo hanno chiuso in casa la popolazione, la gente non ha più utilizzato aerei e automobili, ha sostituito i viaggi con le teleconferenze, ha ridotto lo shopping all’indispensabile, e magicamente le emissioni di CO2 sono diminuite e in parte anche l’uso di alcune materie prime non indispensabili. Ma con il rientro a una vita normale dopo l’emergenza, tutto sta tornando come prima o peggio di prima. Il terrore del collasso economico, che purtroppo è sempre, e a torto, maggiore di quello del collasso ecologico, spinge verso una ripresa dei consumi. La svolta verde è ancora lontana e carbone, petrolio, deforestazione e rifiuti continuano a essere il motore della crescita economica. Il rinculo della data del sovrasfruttamento 2020 potrebbe dunque essere un fenomeno del tutto transitorio, annullato nei prossimi mesi dal ripristino del modello dissipativo business-as-usual. Ma potrebbe anche rappresentare un eccellente esperimento positivo, la prova che se si vuole, si può ridurre in tempi brevissimi il nostro impatto sulle risorse planetarie.

Non invocando un nuovo lockdown, ma agendo sulle abitudini quotidiane, riducendo i viaggi inutili, soprattutto quelli aerei e il pendolarismo automobilistico facilmente sostituibile dal telelavoro, limitando i consumi di oggetti inutili, rallentando la frenetica attività produttiva voluta dalla competitività e dalla finanza. Ovvio che per rendere strutturali queste modifiche bisognerebbe cambiare il modello economico: da un capitalismo estrattivo basato sul dogma – fisicamente irrealizzabile – della crescita infinita in un mondo finito, a una società demograficamente ed economicamente stazionaria che possa essere più sobria nei consumi, rispettando i limiti planetari e sfruttando al meglio la tecnologia per ridurre gli sprechi, non per indurne di nuovi!

Domani o cambiamo o nessuno ci farà credito

Se ciò verrà fatto, potremmo sperare di riportare la data della riserva verso dicembre, consegnando alle generazioni future un bilancio ecologico relativamente sano, un pacchetto di risorse naturali ancora passabile, un clima non troppo sregolato, un accumulo di rifiuti bonificabile. Se non lo faremo, la data, quando il problema Covid sarà risolto, tornerà ad anticipare, approfondendo sempre più il debito ecologico globale fino all’invivibilità di buona parte del pianeta. Come dire che a un certo punto la vera banca da cui dipendiamo tutti noi, quella ambientale, chiuderà il nostro conto in rosso e ci pignorerà ogni avere, saremo una specie sfrattata dal pianeta e nessuno ci farà credito. Sarà quello il giorno della bancarotta ecologica.

Crisi aziendali, “solo” 120 tavoli al Mise. Si teme per l’autunno

Si sono ridotti a 120 i tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico, una decina in meno rispetto allo scorso autunno e 40 in meno rispetto a un anno fa. Numeri che, tuttavia, dovranno essere rivisti al rialzo in attesa dell’impatto che la pandemia avrà anche sulle aziende e dopo che il 15 ottobre scadrà la proroga totale del blocco dei licenziamenti. Secondo il monitoraggio diffuso dal Mise, le vertenze attuali comunque coinvolgono circa 170mila lavoratori. In 28 casi si tratta di crisi che si trascinano da oltre 7 anni, come Ilva e Alitalia, mentre un’altra settantina sono attive da più di 3 anni tra progetti di rilancio che rimangono su carta, si delocalizza all’improvviso, non si rispettano accordi e piani industriali approvati, come nel caso di Whirlpool. Tra le crisi risolte nell’ultimo anno, il ministero cita i casi di Pernigotti (a giugno la proprietà turca ha deciso il rilancio dello stabilimento di Novi Ligure), Treofan (la proprietà indiana Jindal investirà nello stabilimento di Terni) e Corneliani (è stata salvata grazie all’ingresso nel capitale dello stesso Mise in virtù di una nuova legge per la difesa dei marchi storici del Made in Italy). In agenda ci sono già i casi scoppiati più di recente con l’emergenza Covid, come Betafence e Yokohama con i primi tavoli convocati l’1 e il 2 settembre. A metà del prossimo mese riprenderà anche il confronto ex Embraco ed entro settembre è atteso il piano industriale Sider Alloys.

“Una delle strategie che sto portando avanti è ragionare in termini di filiere, distretti, ecosistemi. Quindi non solo singole aziende in difficoltà”, spiega la sottosegretaria allo Sviluppo economico con delega alle crisi aziendali, Alessandra Todde. L’obiettivo è “rimettere le aziende in condizione di tornare in piena attività e crescere ancora. Senza un approccio sistemico non si va da nessuna parte. Le filiere vanno riformate verso modelli più performanti”. Intanto l’autunno si annuncia in ogni caso molto impegnativo.

Tornano i licenziamenti, inizia l’ex Merloni Subito in mobilità quasi 600 lavoratori

Scaduto da poche ore il divieto assoluto di licenziare, la ex Merloni ha già deciso di mandare a casa tutti i suoi 583 lavoratori. La nuova proprietà dell’azienda di elettrodomestici, la Indelfab di Giovanni Porcarelli, ha detto di voler chiudere i due stabilimenti nelle province di Ancona e Perugia. Una cessazione di attività, quindi, che rientra tra i casi nei quali – a partire dal 18 agosto – è di nuovo possibile mettere alla porta dipendenti, dopo il blocco emergenziale imposto dal governo dallo scorso 23 febbraio. La lettera inviata ai sindacati è, infatti, datata 19 agosto. Parliamo di un’impresa agonizzante da almeno 8 anni, con la produzione ferma da mesi, eppure questa mossa così repentina ha sorpreso tutti, perché era in atto un tentativo di rimetterla in piedi con l’aiuto delle istituzioni.

I guai hanno un’origine datata: nel 2012 la ex Merloni è stata acquistata dalla Jp Industries dell’imprenditore Giovanni Porcarelli, che ha subito riassunto tutti i 700 lavoratori. Quella compravendita, però, è stata impugnata dalle banche che ritenevano il prezzo non congruo. Con un contenzioso in cui erano coinvolti gli istituti, per i nuovi proprietari è stato impossibile accedere al credito e mettere in moto i piani industriali. Le difficoltà del mercato degli elettrodomestici hanno fatto il resto. In tutto questo tempo gli stabilimenti non sono mai stati attivi a pieno regime: di fatto, l’impresa è stata tenuta in vita dalla cassa integrazione. All’inizio del 2020, un nuovo progetto: creare una nuova società ripulita dai debiti nella quale far confluire 250 persone, quindi 350 esuberi; idea bocciata dal Tribunale. Durante il lockdown, gli ammortizzatori sociali per Covid hanno dato respiro. Il 29 giugno la società ha cambiato nome in Indelfab e il 3 luglio è stata messa in liquidazione.

“Dopo gli ultimi incontri – spiega Pierpaolo Pullini della Fiom di Ancona – ci aspettavamo un piano per un concordato che recepisse le indicazioni del Tribunale entro la prima settimana di agosto. Invece hanno avviato la mobilità per tutti”. Il motivo, secondo l’azienda, è che l’emergenza Covid ha dato un colpo di grazia rendendo impossibile la riorganizzazione dell’impresa. Senza nemmeno voler utilizzare le altre settimane di cassa integrazione messe a disposizione dal governo, ha dato il benservito a tutti. Entro metà settembre questa vicenda tornerà al ministero dello Sviluppo economico.

Le scarpine sono di Gioele. Il papà: “Le comprai io”

Sono di Gioele le scarpine blu trovate accanto ai resti umani rinvenuti mercoledì nelle campagne di Caronia, a pochi metri dall’autostrada Messina-Palermo. Le ha riconosciute, nella caserma Calipari a Messina, Daniele Mondello, il papà del bambino scomparso lo scorso 3 agosto insieme alla madre Viviana Parisi, trovata morta 5 giorni dopo. “Quelle scarpe gliele ho comprate io con Viviana”, ha detto. Al padre – e al nonno materno – è stato inoltre prelevato un campione di Dna che sarà confrontato con quello dei resti per la conferma definitiva. Intanto sono state sospese le ricerche attivate nelle campagne, la macchina dei soccorsi si è fermata e il campo base sta per chiudere: segno che ormai non ci sono più dubbi, il cadavere trovato è il suo.

L’attesa ora è per risultati medici relativi all’analisi dei resti, anche se, come anticipato dal medico legale Elena Ventura Spagnolo, “sarà difficilissimo stabilire la causa della morte”. Il procuratore di Patti Angelo Cavallo, tuttavia, è fiducioso di poter ottenere indicazioni dall’esame. “Le risposte più importanti arriveranno dagli accertamenti medico-legali e grazie alla collaborazione di altre professionalità. I consulenti medici hanno delle certezze, una pista, una lettura chiara degli avvenimenti già c’è stata data”, dice. “Non è escluso che la madre e il figlio siano morti nello stesso punto. Il corpo del bimbo non è mai stato spostato. Al limite l’ipotesi è che gli animali abbiano operato una dispersione dei resti”.

Gli scenari possibili restano due: o Viviana ha ucciso il bambino e poi si è lanciata dal traliccio sotto il quale è stato trovato il suo corpo, oppure madre e figlio sono stati aggrediti a morte da animali selvatici. Gli investigatori tentano di ricostruire le condizioni psichiche della donna al momento dell’incidente sull’autostrada. I pm, inoltre, starebbero per nominare come consulente un perito per avere un quadro preciso della personalità di Viviana.

Lady Zagaria in cella: violati i domiciliari

Dal 31 maggio Elvira Zagaria, sorella del superboss del clan dei Casalesi Michele Zagaria, dopo essere stata scarcerata dal penitenziario di Messina, era reclusa agli arresti domiciliari per accuse di associazione camorristica – con il timbro di una condanna a 7 anni in appello – in una lussuosa villa di Boville Enrica (Frosinone). Ma attraverso un’uscita riservata e nascosta, Lady Zagaria poteva garantirsi eventuali fughe oppure ricevere visite “segrete e vietate”, come in effetti avrebbe fatto, incontrando un esponente del clan. Tecnicamente si chiama “violazione degli arresti domiciliari”. Questa l’accusa che ha ricondotto in carcere la signora Zagaria, finita stavolta nel carcere romano di Rebibbia al termine di indagini lampo coordinate dalla Procura di Frosinone e condotte dai poliziotti della Squadra mobile e dai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Frosinone. Il pm Rossella Ricca ha così chiesto e ottenuto dalla Corte d’appello di Napoli l’aggravamento della misura cautelare.

Nel 2015 Elvira Zagaria era stata arrestata insieme ad altri 23 esponenti della cosca per associazione di stampo mafioso. È l’anno in cui le microspie del carcere di Opera registrano le minacce di Michele Zagaria al giornalista Sandro Ruotolo, al quale verrà assegnata una scorta. Ruotolo fu la seconda vittima eccellente delle intimidazioni del boss, dopo il pm Catello Maresca, anche lui sotto protezione, che ne coordinò la cattura mettendo fine a 16 anni di latitanza.

I 24 arresti del 2015 consentirono di far luce sulle infiltrazioni del clan Zagaria nella gestione degli appalti ospedalieri di Caserta e fecero emergere il ruolo apicale assunto dalla sorella del boss, dopo l’arresto di Michele (avvenuto nel 2011) e degli altri tre fratelli e la morte del marito Francesco, colui che si occupava di reperire appalti per conto del clan negli enti pubblici.

Casolati, la gioielliera leghista che garantiva: “Non avrei mai chiesto un aiuto pubblico”

“Nessun bonus Inps da 600 euro”. Ce lo aveva assicurato, lunedì scorso, la senatrice Marzia Casolati, titolare di una gioielleria in centro a Torino. E invece ieri si è scoperto – notizia rivelata da Lo Spiffero – che la parlamentare piemontese di soldi pubblici ne ha presi persino di più: 1.500 euro, pagati dalla Regione Piemonte grazie a un provvedimento varato dalla giunta di centrodestra per aiutare aziende e partite Iva in difficoltà causa Covid. Un bonus molto simile a quello dell’Inps. Colpisce perciò rileggere quanto ci ha detto solo quattro giorni fa la senatrice salviniana: “La valutazione è stata: se li chiedo io, pur avendone diritto, magari rimane senza qualcun altro. E considerato che quello era un aiuto per i titolari di partita Iva, e io grazie al cielo non ne avevo bisogno, non li avrei chiesti mai”. Non all’Inps, si è dimenticata di aggiungere Casolati, ma alla Regione Piemonte sì. Come già fatto con Andrea Dara ed Elena Murelli, la Lega non ha espulso Casolati dal partito: l’ha solo sospesa.

Cari 5Stelle di Puglia, meglio “piegare” la testa o non usarla?

È difficile dar torto alla candidata M5S alla presidenza della Regione Puglia, Antonella Laricchia, quando su Facebook scrive che il passato del suo avversario di centrodestra Raffaele Fitto “dimostra che non ha saputo garantire il rispetto dei soldi dei pugliesi e dei loro servizi pubblici”. Ed è perfettamente comprensibile che, dopo aver enumerato i fallimenti e gli errori di Michele Emiliano, lo definisca “non credibile” ricordando anche che “su di lui e la sua squadra indagano diverse procure d’Italia”. È poi corretto che, nel rifiutare le offerte di alleanza con il centrosinistra, Laricchia ricordi come in una competizione locale “gli interessi dei pugliesi” siano “più importanti dei miei vantaggi personali (mi hanno promesso poltrone certe e prestigio assicurato) o di Giuseppe Conte (una maggioranza parlamentare teoricamente rinsaldata)”.

La candidata è infine nel giusto quando spiega che “le elezioni regionali decidono il destino della Sanità di un territorio, dei servizi agli agricoltori offerti da agenzie e consorzi di bonifica, dei centri per l’impiego, della formazione, dell’Acquedotto Pugliese” e che per riorganizzare e riformare tutti questi settori “occorre la credibilità della squadra”.

Quello che però nel ragionamento dell’esponente pentastellata non convince sono le conclusioni. Scrive infatti Antonella Laricchia: “La mia presenza non è scontata, chiaramente sono sacrificabile in ogni momento, se qualcuno lo decide dall’alto. Ma non chiedetemi di piegare la testa, piuttosto trovate il coraggio di tagliarla, se volete salvare la mala politica di Emiliano e Fitto, perché finché non sarò rimossa da questo ruolo che mi è stato attribuito, andrò avanti a guidare questa opportunità di cambiamento”.

Si tratta di parole in apparenza belle e di valore, specie in un mondo come quello della politica in cui in tanti aspirano solo a scrivanie e prebende. Ma se ci si riflette un attimo rivelano pure un pesante vizio logico. Perché la realtà in Puglia dice che la competizione per la presidenza è a due: o vince Fitto (probabile) o vince Emiliano (improbabile). Tutti gli ultimi risultati elettorali e tutti i sondaggi certificano che il Movimento Cinque Stelle è destinato alla terza posizione a una distanza siderale dai due contendenti. Dunque non è vero che, correndo da sola, Antonella Laricchia potrà evitare che al governo della Regione vada ancora una volta quella che lei definisce “la mala politica”. Perché “l’opportunità di cambiamento” rappresentata dalla sua candidatura, numeri alla mano, non c’è. Ce n’è però un’altra. I Cinque Stelle possono essere decisivi per la eventuale rielezione di Emiliano. E in caso di vittoria potranno condizionare le sue scelte (e le sue nomine) semplicemente facendo presente che se loro gli tolgono la fiducia lui e la sua giunta vanno a casa. Insomma, per l’esponente pentastellata e le tante persone che la sostengono l’alternativa tra “piegare la testa” o farsela tagliare non esiste.

A nostro avviso ne esiste invece un’altra: usare la testa o non usarla. Se la candidata e i Cinque Stelle pugliesi la usano già nei prossimi cinque anni potranno realizzare – a beneficio dei cittadini o non di Giuseppe Conte o di Antonella Laricchia – una parte importante di quegli obbiettivi contenuti nel loro programma. Se non la usano, e la loro analisi sui mali della politica regionale è corretta, assisteranno invece impotenti al naufragio della loro terra. E di certo, alle elezioni successive, tanti pugliesi non lo dimenticheranno.

Quei Draghi del Pd: appoggiano la destra moderata dell’ex Bce

“C’è dentro quel che serve per andare avanti nell’interesse del Paese”: il commento del segretario del Pd al discorso di Mario Draghi al meeting di Cl è l’ennesima conferma della fine di una Sinistra intesa come critica allo stato delle cose. Quel discorso, infatti, è il trito manifesto di una destra moderata: l’epitome del pensiero delle classi dirigenti conservatrici e liberiste che hanno condotto l’Europa e l’Italia su un binario morto.

Lo scopo di Draghi è difendere a oltranza lo stato delle cose. Lo dice chiaramente quando condanna il fatto che le giuste critiche alle politiche dell’Unione siano diventate, “nel messaggio populista, una critica contro tutto l’ordine esistente”. Un ordine che per Draghi è intoccabile, a partire dal suo architrave ideologico: la crescita. È qui che il discorso si fa dogmatico: “Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri”. È un paradigma perento, ipocrita, smentito dalla realtà: la chimera di una crescita che continui com’è ora, ma sia sostenibile sul piano ambientale e sociale. Evidenze scientifiche e sociali escludono che questo sia possibile: l’imperativo assoluto della crescita è un imperativo assoluto al suicidio collettivo. Draghi non parla di eguaglianza, tantomeno di giustizia sociale, ma della necessità di non “umiliare” ulteriormente i poveri, e di non erodere ancora i loro poveri redditi attuali. Nessun cambiamento: la messa in sicurezza dell’ordine attuale, fondato su una insostenibile ingiustizia, cioè sul consumo sfrenato del pianeta e sulla massima diseguaglianza possibile. L’obiettivo è la conservazione degli attuali rapporti di forza che garantiscono i (pochissimi) salvati contro i (tantissimi) sommersi.

Ma Draghi sa bene che “se rimanesse invariata la distribuzione attuale dell’incremento del reddito mondiale sarebbero necessari da 123 a 209 anni per far sì che tutti gli abitanti del pianeta vivano con più di 5 dollari al giorno. Ciò richiederebbe una produzione e un consumo globali 175 volte più elevati degli attuali: un incremento… incompatibile con i limiti strutturali del pianeta” (Marco Revelli). Già dieci anni fa un finissimo intellettuale come Tony Judt puntava il dito contro “l’illusione di una crescita senza fine”, e oggi la voce profetica di Greta Thunberg grida ai potenti che “le persone stanno soffrendo, stanno morendo. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita economica”.

Draghi è tra i più abili raccontatori di quelle favole. Favole il cui più ascoltato critico si chiama invece papa Francesco, che nella Laudato si’ ha ribaltato il paradigma, indicando con forza “l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta… l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso… la grave responsabilità della politica”. Non è un caso che Cl scelga di schierarsi dalla parte opposta al papa: non con la profezia di Bergoglio, ma con lo stato delle cose di Draghi. In questo spartiacque culturale, nemmeno Zingaretti ha dubbi: colloca il Pd con Draghi, non con Francesco. È un’affinità elettiva. Annunciando, qualche giorno, fa il suo “piano per le riforme”, il segretario ha scelto di usare l’espressione “capitale umano” (che ricorre più volte nel discorso di Draghi): una formula (coniata da un economista tra i più fanatici dell’ultraliberismo) che insieme ad altre è una eloquente spia lessicale della sudditanza al pensiero unico dominante. Alla destra fascistoide di Salvini, Zingaretti oppone la destra moderata di Draghi: di sinistra, nessuna traccia.