Ambiente, ora tuteliamo il suolo (e gli ingegneri)

Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa prova a cantare fuori dal coro governativo schiacciato sulla “semplificazione” che vuol dire – inutile girarci intorno – alleggerimento o eliminazione di controlli tecnico-scientifici invece necessari per arginare corruzione e infiltrazioni mafiose nell’appalto di opere e di interventi pubblici. Indispensabili per fare uscire il Paese da una crisi economica e occupazionale fra le più allarmanti. Possibile arginando sul serio le speculazioni affaristiche.

Alcuni punti non troveranno probabilmente d’accordo altri componenti del governo. Si andrà verso nuovi stalli? Per esempio il sì deciso a una effettuazione seria, rigorosa della Valutazione di Impatto Ambientale (Via), la sola che può scongiurare altri disastri purtroppo largamente in atto. Qui non si tratta di “semplificare” togliendo controlli, bensì di rendere questi ultimi chiari e incisivi, non burocratici e anche democratici quando la Via viene richiesta da Comuni che sommano più di 50 mila abitanti.

Mancano purtroppo quadri tecnici, ingegneri, geologi, architetti. Che però bisogna valorizzare sul serio nell’amministrazione. E purtroppo ciò non accade più. Basta vedere qual è il corso di studi richiesto nei concorsi statali: quasi sempre Legge, Scienze sociali e politiche, ecc. Quasi mai Ingegneria nelle sue varie branche. Un punto strategico del programma di governo dovrebbe invece essere costituito – l’abbiamo ribadito anche in un articolo sul Fatto (“Cari ministri dove sono finite le riforme green?”, del 15 agosto) – da una ripresa con forte slancio dei piani di difesa del suolo. Invece ci si ferma a constatare la estrema difficoltà di prosecuzione del programma Italia Sicura di renziana memoria “per mancanza di progetti tecnici”. “Certo”, fa notare Paolo Urbani docente di diritto urbanistico e amministrativo alla Luiss, “avendo negli anni svuotato le Autorità di bacino fondate dall’ottima legge Cutrera, la 183 del 1989, di competenze tecniche, avendo ridotto sempre più gli ingegneri in essa presenti, avendo creato organismi sempre più grandi e generici, ecco che non c’è più personale tecnico in grado di progettare”.

Quindi, ci si rivolge all’esterno e si rimane di fatto incagliati in queste secche quando l’Italia collinare e montana sta letteralmente crollando e collassando a ogni temporale. Pagando un costo in vite umane e in toppe e rammendi incalcolabile, o, se vogliamo passare alle cifre, di migliaia di miliardi l’anno. La soluzione ora ripresa dei commissariamenti diffusi promette di ingessare ulteriormente la macchina dei piani e quindi di non smuovere nulla o quasi.

Parallelamente occorre affrontare in modo chiaro e deciso il problema del consumo di suoli ancora liberi. Non è pensabile che le Regioni approvino leggi le quali, in assenza di una normativa nazionale cogente, consentono la più allegra gestione del territorio anche in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna dove la “impermeabilizzazione” cemento+asfalto è stata frenetica e continua senza posa, dove non ci si rassegna a frenare l’iperconsumo fra lottizzazioni, insediamenti industriali e commerciali (ipermercati, centri commerciali, centri di smistamento, ecc.).

I punti programmatici portati dal Ministero dell’Ambiente all’attenzione del governo e della Ue confermano come le Regioni siano diventate davvero il “corpo opaco” della gestione pubblica. Si sono affondate (a metà) le Province che in fondo gestivano in modo meno dispendioso e più trasparente alcune funzioni: strade, agricoltura, caccia e pesca, sanità, infanzia abbandonata.

Discorso che si aggancia in pieno con quello delle aree protette, dei parchi nazionali in specie. La insabbiata (per fortuna) legge Caleo (Pd) faceva prevalere in essi le classi dirigenti municipali e le corporazioni (agricoltori, cavatori, ecc.). In quel clima si nominò un ex sindaco, esponente dei cacciatori, alla testa del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Il ministro Costa, invece, oltre a rimuovere i vincoli per assumere subito 55 unità forestali e a promuovere un piano triennale di fabbisogno del personale, propone l’istituzione di un albo ministeriale dei direttori dei parchi, i quali non saranno quindi più nominati obbligatoriamente d’intesa con le Regioni. Si torna anche in Italia a veri parchi nazionali? Diviso in tre da Berlusconi, il Parco nazionale dello Stelvio va sempre peggio.

La purezza identitaria, base di ogni discorso reazionario, non esiste

Il purismo crea scompensi nelle società in cui diventa principio normativo, o anche solo strumento di propaganda. Come se ne esce? C’è chi pensa di cavarsela sostenendo che l’uomo è ambiguo per natura, e il male è solo una questione di posologia. Questo è un errore (ci cascò Leibniz), poiché così il giusto si confonde con l’ingiusto, diversi per quantità, non per qualità: la conseguenza è che l’ambiguità si fa sistema, e diventa un assolutismo mascherato che consente ai furbi di approfittare dell’incertezza etica per i propri scopi, facendo pure la figura dei brillanti da salotto. La titolazione annulla sia i dilemmi etici che le effrazioni innovative, ma, come racconta L’uomo che voleva essere colpevole (Stangerup, 1973), senza colpa non c’è libertà; neppure la libertà creatrice dell’arte, che, se priva di etica, assume una funzione meramente consolatoria (decorazione, provocazione).

Certo, l’uomo è ambiguo, ma è dirimente capire perché. Ce lo spiega Jankelevitch (Il puro e l’impuro, 1960): l’uomo è ambiguo perché, come tutta la realtà, è divenire, cambiamento incessante, metamorfosi imprevedibile. Non cambia nel tempo: è tempo. La purezza identitaria, base di ogni discorso reazionario, non esiste: la vita è una dialettica continua fra essere e non-essere, fra sé e altro-da-sé. Nella realtà che viviamo, l’impurità vitale è la vera purezza; e la moralità è scegliere, di volta in volta, il modo giusto di aderire alla grazia sovrabbondante e impura del reale, assumendosene la responsabilità. Un esempio è in questo ricordo di Sergio Zavoli: “Franco Bonisoli aveva fatto parte del gruppo di fuoco di via Fani e dunque andava ascoltato. Venne in studio e io gli chiesi se avesse sparato o meno. Fu a quel punto che lui si sporse verso la telecamera e allungando il braccio e aprendo le dita della mano per occupare il massimo spazio dell’obiettivo per oscurare la scena, mi pregò di sospendere la ripresa. Cosa che io feci, naturalmente”. Un altro esempio lo rammenta questo scambio fra Truffaut e Hitchcock: “Nella cornice del giallo, lei filma dilemmi morali”. “Sì, è così”. Il Male non esiste: esiste il voler male. E poiché non c’è alcuna innocenza originaria da ristabilire, e ciò che è stato fatto non può essere cancellato, a maggior ragione il comportamento dev’essere retto, e aperto all’Altro, l’organo della nostra purezza impura. L’interpretazione transgender di Matrix è possibile perché è parte di questa interpretazione più ampia.

2. Fine

Dialoghi balneari. “Non guardo Game of Thrones. Troppo lento per i miei gusti”. “Lo pensavo anch’io. Ma poi, alla seconda puntata della settima serie…”.

Misteri italiani. “Oggi di satira in tv ce n’è veramente poca. Non capisco per quale motivo, con tanti canali televisivi, la satira sia pressoché clandestina”. (Maurizio Costanzo, Tv Sorrisi e canzoni, 11 agosto 2020). Già, chissà perché è sparita. A chi potremmo chiedere?

Tu chiamale, se vuoi, emozioni. “Però, poi, ho scoperto una cosa che mi ha fatto piacere: nel covo di via Gradoli delle Brigate rosse trovarono la collezione completa di Mogol-Battisti”. (Mogol, Corriere della Sera, 30 luglio 2020). Anche a Noam Chomsky fece piacere quando nel covo di Bin Laden trovarono suoi libri.

Oy vey. Gli ebrei pregano presso il Muro del Pianto a Gerusalemme da duemila anni. Per questo mi piace la religione ebraica: perché è l’unica che ammette che pregare il Signore è come parlare a un muro.

 

Mail box

 

Il giornalista corretto deve citare le fonti

Mercoledì alle 16 su Rai News 24, canale fazioso anti 5S, hanno dato conto di quanto detto da Conte nell’intervista di oggi sul Fatto Quotidiano senza citare la fonte. Dicendo semplicemente “in una intervista”. È corretta una cosa del genere?

Guillermo Useche

 

Caro Guillermo, no, non è corretto: ma è la prassi del peggiore giornalismo.

M. Trav.

 

Referendum, chi vota No è contro al risparmio

Gentile Direttore, c’è un mucchio di poveri cittadini plagiati dai mass media (in mano alla casta) deciso a votare no al taglio dei parlamentari che continua a ripetere la storiella della rappresentatività che viene a mancare. I più pazzi parlano di lesione alle regole democratiche. Questi strani cittadini non hanno neanche accettato un ragionamento molto semplice: se il Senato, con 315 senatori, rappresenta in modo perfetto il popolo italiano, perché 400 deputati non dovrebbero essere ugualmente rappresentativi? Evidentemente, non vogliono risparmiare 100 milioni all’anno.

Angelo Casamassima Annovi

 

Tagliare i parlamentari e sconfiggere le Sardine

Caro Travaglio, nei giorni scorsi avevo deciso di non recarmi a votare per il referendum sulla riduzione dei parlamentari a causa dei pro e dei contro. Ma dopo aver letto la vostra notizia sul No delle sardine – dato che ho profonda avversione per la loro pelosa ambiguità che mi ricordava il peggiore Prodi – ho capito che bisogna andare a votare Sì al referendum se vogliamo sconfiggere il “doroteismo” delle sardine.

Vincenzo Magi

 

Giusta la riflessione di Robecchi sulle disco

Buonasera, leggendo il pezzo di Alessandro Robecchi sul vostro giornale mercoledì, ho ritrovato le posizioni e i suggerimenti che io e i miei famigliari ci scambiamo ogni giorno, commentando gli avvenimenti politici ed economici del Paese. Quindi, spero vivamente che il governo, che si è già affrettato a rassicurare i gestori delle discoteche, si muova vagliando accuratamente tutte le situazioni e condizioni economiche (le dichiarazioni dei redditi, ndr), come suggerisce Robecchi nel suo articolo.

Gemma Diversi

 

I carabinieri in congedo sono ancora una risorsa

Caro direttore, ancora una volta l’intervento di un carabiniere in congedo è stato determinante la soluzione di un caso. Mi riferisco al brigadiere in pensione Pino Di Bello della stazione di Capo d’Orlando (Me), che ha ritrovato i resti del piccolo Gioele, dove nessuno li aveva cercati. Nel 2015, il caso della tabaccaia di Asti accoltellata con 45 fendenti venne risolto da un carabiniere in congedo. Quando si discute sulla necessità di istituire un servizio civile destinato a giovani volontari, bisogna tenere a mente l’importanza di uomini addestrati e con esperienza.

Stefano Masino

 

Diritto di replica

In riferimento all’articolo pubblicati sul Fatto il 15 agosto a firma di Tomaso Montanari, il Comune di Lucca ribadisce di non aver mai ipotizzato, pensato, ventilato, scritto o detto che il Baluardo San Paolino o le Mura di Lucca verranno dati in gestione a privati. Né in concessione, né in vendita, né in prestito. Le Mura di Lucca sono dei lucchesi, che nutrono nei confronti di esse una grandissima affezione, e tali resteranno. L’amministrazione, se mai, ha investito nella tutela e valorizzazione del monumento, che costituisce un biglietto da visita di Lucca nel mondo. Si cita, solo a titolo esemplificativo, l’ultimo finanziamento ottenuto al riguardo dal Mibact, pari a 2 milioni di euro. Venendo all’oggetto dell’articolo, l’amministrazione è impegnata nel recupero del complesso della ex Manifattura, la vecchia fabbrica del sigaro Toscano dove hanno lavorato generazioni di lucchesi, contribuendo a rendere la città un’eccellenza anche in questo campo. Il progetto è ampio e articolato e discende dai progetti Piuss della Comunità Europea: una parte dell’edificio ospiterà una sede di studi universitari, la Soprintendenza, uffici pubblici e una mostra permanente legata a Lucca Comics. Un’altra parte sarà oggetto di un progetto di finanza che verrà messo regolarmente a bando e per il quale esiste l’interesse concreto da parte della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e della società Coima. Al riguardo esiste, al momento, un’ipotesi progettuale presentata all’amministrazione, che comunque non prevede in nessun modo la privatizzazione delle Mura.

Su questa base è stata attivata un’interlocuzione con Fondazione Crl e Coima, nell’intento di produrre il miglior risultato per Lucca e i lucchesi. L’amministrazione ritiene infatti che, dopo tante parole, sia giunto il momento di fare.

L’Amministrazione Comunale di Lucca

 

In questa replica l’Amministrazione di Lucca parla molto di quello che non vuol fare (ne prendiamo atto e vigileremo), e per nulla dell’“ipotesi progettuale” che ha suscitato l’indignazione di tanti lucchesi, e delle sezioni lucchesi di Italia Nostra e Legambiente, della Rete dei Comitati e dei Custodi della Città. È a loro, e a noi tutti, che si devono risposte chiare.

To. Mon.

Cherchez la femme La Borgonzoni, prima usata (da Salvini) e poi gettata

 

Flavio Tosi disse che tutto ciò che Salvini tocca “muore”, o meglio che il cazzaro usa gli altri come trampolini di lancio pro domo sua, eliminandoli politicamente se gli fanno ombra o non gli servono più. E infatti: che fine ha fatto l’astro in ascesa Lucia Borgonzoni? Chi l’ha più vista? Sparita dai radar, affinché non ci si ricordi di lei. Prima era in tutti i dibattiti televisivi, sprezzante come il suo capo, sicura nelle ovvietà distribuite a piene mani, come il suo capo. Poi, come il suo capo, ha fatto e detto una serie di idiozie politiche… Ma lui è ancora qui a distribuirle a piene mani (a iniziare dal negazionismo sull’utilità delle mascherine), lei è sparita. L’anniversario delle batoste che Conte ha rifilato a Salvini a Montecitorio, schiacciandolo con le semplici verità, è la dimostrazione che l’arma contro Salvini è stata scoperta: è, appunto, la verità formulata in sintesi (a beneficio degli elettori leghisti), che piega le innumerevoli bugie salviniane dalle gambe corte.

Barbara Cinel

 

Gentile Barbara, Lucia Borgonzoni è in effetti sparita dai radar, e in Senato non brilla per attivismo: zero gli atti legislativi presentati, salvo quelli come cofirmataria. È scomparsa pure dal Consiglio regionale emiliano-romagnolo, dove ha preferito cedere il posto nonostante la promessa da campagna elettorale: “In caso di sconfitta lascerò il Parlamento e siederò in Regione”. Persino sui social, dopo mesi spesi a condividere post su post di propaganda leghista, adesso sembra più una influencer che una politica. Dimenticati i selfie con Matteo Salvini, la senatrice preferisce farsi riprendere in un campo di girasoli o sotto pergolati romantici. L’impressione è che a destra (come a sinistra) le donne in politica continuino a ricoprire un ruolo da figurina, calate dall’alto a seconda della battaglia e pronte e farsi da parte: “cancellata” Lucia, è arrivata la zarina Susanna Ceccardi, candidata come governatrice in Toscana. Entrambe provengono da famiglie di sinistra, fulminate da Matteo Salvini e pronte a usare lo stesso suo stile provocatorio. Una differenza però c’è. In caso di sconfitta Susanna ha già dichiarato che non ci pensa proprio a stare all’opposizione ma che tornerà a occupare lo scranno da europarlamentare. Viva la sincerità!

Sarah Buono

“La sinistra non ha mai capito niente dei bisogni del nord-est federalista”

Sarà anche vero, come sosteneva Platone, che “la meraviglia è propria della natura del filosofo e la filosofia non si origina altro che dallo stupore”. Eppure, dopo una vita trascorsa a studiare, fare il sindaco di Venezia, candidarsi contro Giancarlo Galan alla guida del Veneto, muoversi nella galassia di sinistra a partire da Potere Operaio, ideare un Nord alternativo alla Lega, riflettere su uomini e partiti della polis-Italia, il filosofo Massimo Cacciari non si stupisce più di nulla. Tantomeno della sfida, non-sfida per il rinnovo del consiglio regionale del Veneto e dell’irresistibile avanzata di Luca Zaia. Casomai usa l’occhio dello storico in un Nordest dove il biancofiore è ormai un inestirpabile sempreverde.

Il segreto di Zaia?

Ma quale segreto… la Lega è riuscita a radicarsi in modo forte in alcune regioni italiane del Nord. Non c’è nulla da stupirsi. È un lavoro che la impegna da 30 anni, mentre dall’altra parte non sono riusciti a fare lo stesso lavoro, ma con altre idee e strategie.

Sembra un rimprovero al centrosinistra.

Occorre risalire indietro nella storia del vero federalismo possibile. Il centrosinistra ha miseramente perso la grande occasione alla fine degli anni Novanta: al governo c’era D’Alema e Bossi aveva rotto con Berlusconi. Il centrosinistra, a partire dal Veneto, aveva creato un movimento di sindaci, con l’adesione di leghisti. Non attecchì perché non trovò una sponda a sinistra.

E la Lega?

Sfruttò il legittimo risentimento nordista verso le politiche fiscali e centralistiche, fece leva sulle partite Iva, mentre il centrosinistra divenne sempre più centralista, non capì, si oppose. Il culmine fu il suicidio a Venezia nel 2015, con la candidatura di Casson a sindaco. Fu il punto d’arrivo dell’incapacità di capire il peso della “questione settentrionale” e di favorire la nascita di un’autentica federazione delle forze del centrosinistra. Si fece terra bruciata attorno a legittime esigenze di equità fiscale, non si capì l’anticentralismo, si lavorò per espellere questi interessi, anziché dialogarci.

Zaia ha uno strapotere.

Se ne stupisce chi non conosce la storia. Zaia non ha fatto altro che amministrare bene, lasciando fare agli altri. Ha sempre agito così, anche quando c’erano Giancarlo Galan e Renato Chisso (arrestati e condannati per lo scandalo Mose, ndr). Ora lascia fare a Salvini, perché lui non si occupa di politiche generali, ma del lavoro e del radicamento nel territorio. È bravo a far questo. In Veneto stravincerà lui, non Salvini. E peggio per gli altri, a cominciare dagli inconsistenti Cinquestelle.

E il professor Lorenzoni, chiamato a un’impresa impossibile?

Lorenzoni è il candidato migliore che il centrosinistra poteva esprimere. A Padova, da vicesindaco, ha lavorato bene, con intelligenza, ha compiuto un piccolo miracolo. È giusto che il candidato sia lui.

L’autonomia non è un fiasco di Zaia?

Macché, anche Zaia sapeva che non l’avrebbe ottenuta. Il referendum è stato un’operazione di marketing, non c’entra nulla con il federalismo di Gianfranco Miglio o del movimento dei sindaci. È solo uno strumento per chiedere sempre di più, in termini economici, allo Stato, non per costruire una riforma federalista.

Zaia è contro Salvini?

Non si metterà mai contro di lui. Gli è bastata la lezione di Flavio Tosi. E poi sa che nella Lega comanderanno sempre i lombardi. Casomai il destino politico dei due si intreccia. La linea vincente della Lega sarebbe quella di saldare la Cdu tedesca di Angela Merkel e l’Unione Cristiano Sociale bavarese. Salvini lavora sul nazionale, Zaia guarda a un partito analogo alla Csu: reciproco riconoscimento del ruolo nazionale del partito e ampia autonomia di movimento e rappresentanza politica al Nord. Se riescono a saldare Merkel-Zaia allora fanno l’en plein.

Covid, bonus e autonomia: I pochi incubi del “doge” Zaia

Cullarsi nel sogno di una vittoria annunciata. Ma anche tormentarsi con tre incubi risorgenti, la pandemia che azzanna ancora e intacca il “modello veneto”, la questione morale dei furbetti del bonus e il grande fiasco dell’autonomia, “la madre di tutte le battaglie” nel vangelo leghista di Luca Zaia. Qualche agitazione c’è nei sonni del governatore del Veneto, anche se è lanciato verso la terza rielezione, nonostante una legge avesse posto il tetto massimo delle due legislature, ma con l’interessatissima previsione di far scattare il limite dal 2015 in poi. E così ha salvato la poltrona di Doge, a dispetto di ciò che aveva declamato con il suo stile un po’ spaccone da riformista del palazzo, nel lontanissimo 2012: “I grillini? Sono i miei discepoli. Dicono di voler introdurre il limite dei due mandati in Parlamento. Bene, in Veneto lo facciamo già dal 2012, benvenuti!”.

Otto anni e due legislature dopo, lui è ancora lì, in pole position, che accarezza un obiettivo unico, ma articolato. Trionfare al primo turno, lasciando le briciole all’armata avversaria fin troppo divisa tra centrosinistra, grillini, renziani, venetisti, verdi, ambientalisti e rifondaroli. Sperare che la “lista del presidente” tenga a debita distanza la Lega per Salvini premier, non per uno spirito scismatico, che non gli appartiene, ma per marcare il territorio e dimostrare che in Veneto solo lui fa la differenza. Se poi riuscirà a contenere l’annunciata crescita dei Fratelli d’Italia, tanto meglio, se non altro per dettare gerarchie ferree nel centrodestra.

Il fragile, frammentato e improbabile argine che si può frapporre a questo sogno è composto innanzitutto dal professore universitario Arturo Lorenzoni, già vicesindaco di Padova, candidato non espresso dal Pd, ma da una rete civica di centrosinistra. A riprova di imperdonabili divisioni, c’è poi la renziana Daniela Sbrollini. In solitaria anche l’ex senatore Enrico Cappelletti dei Cinque Stelle, reduci nel 2015 da un promettente 11,87%, che per loro sarà difficilissimo riconfermare. Dalla galassia venetista, scontenta dell’inconcludenza sull’autonomia, ecco emergere Antonio Guadagnini. A completamento, Patrizia Bartelle (Veneto Ecologia Solidarietà), Paolo Benvegnù (Rifondazione Comunista), Simonetta Rubinato (ex Pd, Veneto Simonetta Rubinato per le Autonomie), Ivano Spano (Indipendenza Noi Veneto) e Paolo Girotto (Veneto per il Movimento 3V Libertà di Scelta).

Gli incubi, ammesso che possa averne un candidato che veleggia nei sondaggi tra il 60 e il 70 per cento, per Zaia cominciano con il Covid. Sull’emergenza ha costruito e consolidato la sua fama. Per mesi ha tenuto un filo diretto con i cittadini (ed elettori) che si sono sentiti rassicurati dall’ora abbondante di dirette Facebook quotidiane ritrasmesse a reti unificate da siti e televisioni locali. Un’esondazione comunicativa senza precedenti, che ha contribuito a far crescere il mito del Veneto virtuoso, rispetto alla Lombardia. Ma attorno a Ferragosto i contagi sono schizzati alle stelle, con perfino una bambina di cinque anni in terapia intensiva. “In quale regione ci sono più casi in questi giorni? Quale regione ha l’indice Rt più alto? Il Veneto. Invece di essere contenti dovremmo farci qualche domanda”. Lorenzoni ha buon gioco a infierire sulla sanità, dove però Zaia ha dimostrato capacità organizzative. “Finché c’era il professore Crisanti è andata bene, poi il governatore lo ha messo da parte. Voleva imporre da noi il modello lombardo di privatizzazione, per fortuna l’operazione non si era completata e ci siamo salvati perché siamo riusciti a reagire con maggiore rapidità”. Il cinquestelle Cappelletti è in linea: “I contagi aumentano, Crisanti è stato maltrattato, l’Università di Padova messa in secondo piano. Ma quale eccellenza? La sanità pubblica veneta ha perso negli anni il 25 per cento dei posti letto”.

Zaia ha risolto la questione morale dei bonus Inail da 600 euro chiesti da tre leghisti, due consiglieri regionali e dal suo vice in giunta, Gianluca Forcolin. Non li ha ricandidati e non poteva far altro. Lorenzoni commenta: “È una pagina tristissima. Dicono che non sapevano della richiesta. Ma ci hanno amministrati e questo mi preoccupa ancor di più”.

Il terzo tormentone è l’autonomia, votata dai veneti nel referendum del 2017, che non ha fatto passi avanti. Zaia ha posto un ultimatum a Fratelli d’Italia: o firmano il suo documento sull’autonomia, o l’intesa elettorale del centrodestra salta. Giorgia Meloni ha rilanciato chiedendo l’impegno sul presidenzialismo. Il governatore leghista è stato tentato dalla corsa solitaria, tanto in Veneto vincerebbe ugualmente. Forza Italia ha così deciso di mettere la parola “autonomia” nel simbolo elettorale. Trattative in corso, all’ultimo respiro, chiuse martedì con una firma nazionale dei tre leader del centrodestra e l’impegno per autonomia, presidenzialismo e continuità dell’alleanza. Luca De Carlo, coordinatore regionale di FdI, annuncia: “È un rilancio di tutta la coalizione”. Tutto risolto? Lorenzoni rivolta il problema contro Zaia. “Sull’autonomia lui parla per slogan, perché da Venezia in tre anni non ha risposto alle stesse legittime aspirazioni della provincia di Belluno che approvò un analogo referendum”.

I grillini danno battaglia sulle grandi opere. “Zaia non sarebbe al 70% se la gente ricordasse che era in giunta con Giancarlo Galan e Renato Chisso, arrestati per il Mose. O se sapesse che la Pedemontana costerà 13 miliardi, anziché i 2 miliardi 258 dichiarati ufficialmente. Oppure se sapesse che siamo la maglia nera in Italia per consumo del suolo, al punto da insignire Zaia della ‘bettoniera d’oro’ anche quest’anno”.

“Elezione scontata, ma comunque significativa su tre fronti”, spiega il politologo Paolo Feltrin. Il primo? “Gli equilibri diplomatici interni fra Zaia e Salvini: se la lista del presidente dovesse massacrare quella del segretario…”. Il secondo? “Se Fratelli d’Italia dovesse andare oltre il 10 per cento sfonderebbe al nord e farebbe ricalibrare i rapporti interni al centrodestra, visto che la Meloni dimostrerebbe di drenare i voti di Berlusconi”. Il terzo è molto meno appassionante. “Riuscirà il Pd a fare peggio di Alessandra Moretti?” conclude Feltrin. Cinque anni fa arrivò al minimo storico (22,74 per cento) dell’ormai sterminata serie di sconfitte del centrosinistra, per tre volte nel nome di Galan e per altre tre, probabilmente, nel nome di Zaia.

Il cabarettista “sfotte” Lella e Paita s’offende (ma non è lei)

Una minaccia di querela, un account Facebook bloccato e lo sdegno di due ministri della Repubblica. Tutto perché tal “Lella” è stata chiamata “bagascia” (donna di facili costumi) dal comico savonese Enrique Balbontin in uno scambio con un amico sui social. Surreale? Mettiamo in fila i fatti. Due giorni fa Balbontin – che si è speso in pubblico a sostegno di Ferruccio Sansa, candidato governatore di Pd e M5S – posta sul profilo Facebook privato la locandina di una cena di beneficenza. Un amico commenta: “La avviso io la Lella?”. E Balbontin: “A bagasce siamo coperti grazie”. Seguono emoticon (faccine) divertite.

Lo scambio finisce sotto gli occhi di Raffaella Paita, deputata di Italia viva. Per tutti “Lella”. Che si convince di essere lei il bersaglio di Balbontin: “Cosa ne pensa Sansa del suo sostenitore? Intende prenderne le distanze? Gli insulti personali sono intollerabili”, tuona sui social. E annuncia querela. Le numerose segnalazioni del commento portano pure al blocco temporaneo dell’account (riattivato dopo poche ore). In difesa di Lella accorrono le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti: “Attacchi sessisti, Sansa prenda le distanze”. Che sorpresa – per loro – scoprire che “la Lella” è un personaggio storico degli sketch di Balbontin, una donna descritta come un po’ “abbagasciata” (nel significato di cui sopra). A testimoniarlo decine di video e citazioni riversate su Facebook dai fan. E anche i commenti al post della deputata renziana: “La Lella è un personaggio di Balbontin che esiste da anni – scrive Stefano – suona veramente strano che nessuno della squadra della Paita lo sapesse. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.

Soldi e tanti fake: la “bestiolina” di Calenda

Nella politica italiana ognuno ha la sua “Bestia”. Quella di Luca Morisi che agisce nell’ombra di Matteo Salvini e quella di Alessio De Giorgi, spin doctor di Matteo Renzi. Poi ce n’è un’altra che nessuno immaginerebbe: è la “bestiolina” di Carlo Calenda, che da novembre scorso è sceso in campo in prima persona con il suo partitino “Azione”. Oggi viaggia intorno al 2-3% con l’obiettivo di sorpassare l’altra piccola forza politica – Italia Viva di Matteo Renzi – e di fare il castiga–matti della maggioranza giallorosa. La strategia è chiara: dettare l’agenda sui social network per “smontare le fake news dei populisti”, il principale vanto di Calenda su Twitter. Eppure, guarda caso, proprio l’ex ministro dello Sviluppo Economico utilizza lo stesso metodo dei propri avversari “sovranisti”.

Secondo i dati della Libreria Inserzioni di Facebook, Calenda fino a oggi ha speso già 65 mila euro per la sua propaganda social – terzo dopo Salvini con 259 mila euro e Renzi con 178 mila – mentre su Twitter “Azione” può contare su una rete di account fittizi con l’unico scopo di fare da megafono ai messaggi del leader. Sono le cosiddette “botnet”: una “flotta” di account provenienti dall’Est Europa e Asia (soprattutto India, Bangladesh e Pakistan) vecchi di oltre dieci anni per non creare sospetti che siano “fake” e, nel caso di quelli vicini ad “Azione”, anche validati telefonicamente (Phone Verified Accounts), ovvero account per cui è già stata fatta la validazione telefonica garantendo una maggiore longevità in caso di verifiche delle piattaforme social. Questi account, che possono essere acquistati anche sul deep web, costano dai pochi dollari per quegli appena creati a 20-30 dollari per i più datati (e quindi più sicuri). Poi basta configurarli con un software per automatizzarli insieme e poi utilizzare uno stesso “Proxy server” per dare loro un profilo anonimo senza rischiare di essere “bannati” da Twitter. Poi il gioco è fatto. Il Fatto Quotidiano ha analizzato almeno 15 account vicini a Calenda, molti dei quali con un’alta incidenza di follower stranieri, che agiscono solo per fare propaganda al leader e ad “Azione”: ci sono quelli – come @Andrea_Azione, @lallettapapa e @pas0220 – che non hanno mai prodotto un proprio cinguettio mentre si prodigano con migliaia di “mi piace” e “retweet” ai post di Calenda su qualunque cosa (dagli insulti contro Arcuri e Azzolina ai comizi del capo fino alla propaganda per il referendum di settembre contro il taglio dei parlamentari) e quelli che, dopo essere stati dormienti per anni, “vivono” del proprio leader come @ljetzan o @8bullNicco. Una macchina che serve solo a rilanciare il messaggio di “Azione” . Chissà se la “bestiolina” servirà a Calenda a superare la soglia di sbarramento.

L’uomo di B. e dei dossier sta con Renzi (e De Luca)

“Sica transit gloria mundi”, fu il beffardo commento di Vincenzo De Luca, all’epoca leader dell’opposizione, alla nomina di “assessore regionale al nulla” dell’attuale nuovo acquisto di Matteo Renzi in Campania, pronto a correre in Italia Viva per le regionali e in sostegno a De Luca (che non è un omonimo, è sempre lui), Ernesto Sica da Pontecagnano Faiano, già sindaco, già pupillo di Ciriaco De Mita, organizzatore di spettacolari kermesse della Margherita alle quali accorreva Romano Prodi.

Il sarcasmo di De Luca risale al 2010. Sica era stato folgorato sulla via di Arcore. O meglio, di Porto Rotondo. Aveva aderito a Forza Italia dopo essere entrato nel giro delle feste estive in Sardegna di Silvio Berlusconi, introdotto da un grosso imprenditore di Battipaglia. La sua presenza in giunta sorprese tutti. Sica ottenne una delega leggera, l’Avvocatura. “Fosse per me tu non saresti qui” gli disse il governatore Stefano Caldoro. Voleva che si sapesse che aveva ingoiato un rospo e che quella nomina gli fu imposta da Berlusconi. Perché?

Una risposta potrebbe trovarsi in un verbale di Arcangelo Martino, atti dell’inchiesta sulle trame della P3. “Lui (Sica, ndr) diceva di avere “Berlusconi per le palle (…) perché era stato protagonista di avere fatto cadere il governo Prodi, attraverso la sua azione e attraverso un imprenditore di grande livello, un imprenditore che tratta l’attività dei centri commerciali e dei supermercati. Il nome non l’ha mai fatto”. Insomma, Sica si vantava, o millantava, di aver contribuito alla compravendita di senatori. In quella stessa inchiesta venne fuori la storia del dossieraggio orchestrato da Sica e Cosentino per diffamare Stefano Caldoro, un plico di cartacce sui suoi (inesistenti) incontri omosessuali in alberghi a ore ad Agnano. Quel dossier fu l’arma con cui la P3 provò ad abbattere la candidatura di Caldoro, l’uomo designato da B. per la Campania, e rimettere in pista Cosentino, all’epoca sottosegretario di Berlusconi, caduto in disgrazia per un’ordinanza di custodia cautelare per camorra.

Sica a un certo punto sognò il colpaccio: forse pensò che se per Cosentino ormai non c’era più nulla da fare – la Cassazione ne confermò l’arresto – con quel dossier avrebbe potuto convincere il Cavaliere a fare a meno anche di Caldoro e candidare lui. Ma dovette ripiegare su un modesto assessorato. Che durò poco, molto poco.

Quando l’indagine P3 divenne pubblica, Caldoro diede a Sica 24ore per dimettersi. Eppoi c’è stato un processo a Roma, che si è concluso con le condanne in primo grado di Cosentino e Sica, che nel frattempo con una lettera toccante ha chiesto scusa a Caldoro, ottenendone il perdono giudiziario, umano e politico. Caldoro si è accontentato di un risarcimento simbolico di un euro e ora che riprova a candidarsi a Presidente lo avrebbe anche ospitato in coalizione, senza problemi. Sica infatti avrebbe voluto scendere in campo con la Lega. Ma l’amore con Salvini sbocciato l’anno scorso è sfiorito. Alcuni rumors lo davano in Forza Italia o Fdi. Ma Sica è tornato da dove era partito: nel centrosinistra. “Ero e resto un democristiano”, ha spiegato al Mattino. Tanti anni fa con De Mita. Ora con Renzi. E con De Luca che già aveva sostenuto nel 2015. Da sindaco di Pontecagnano, eletto con un simbolo Pdl fake ‘Azzurri per Pontecagnano’: Caldoro aveva posto un veto sull’utilizzo del logo ufficiale. Non l’aveva ancora perdonato.

Pace in tribunale, ma solo a parole: le querele restano

La strada verso l’amalgama Pd-M5s è un percorso lastricato di spine. Lo rivela anche la questione dell’accordo per il ritiro delle querele reciproche. Per ora, più che altro una dichiarazione di intenti. Il 14 agosto una nota congiunta delle due formazioni recita così: “È inutile continuare a intasare i tribunali perdendo tempo con vicende vecchie e superate, anche per coerenza rispetto al rinnovato clima politico”.

A questa “conciliazione” di principio stava lavorando da mesi l’ex tesoriere dem, Luigi Zanda (ora presidente della società editoriale Domani) insieme a Beppe Grillo. Ma una volta giunti all’accordo politico, sono cominciati i distinguo. Il primo a dire che non aveva alcuna intenzione di seguire questa linea è stato Matteo Renzi, subito emulato da Maria Elena Boschi (è vero, ora sono in un altro partito, ma alcune cause risalgono alla sua epoca). E a seguire, molti si sono messi sulla sua scia. “Ne capisco il significato ma, per la tutela della dignità dei nostri militanti, sarebbe stato giusto avere prima le scuse per le accuse indegne che sono state rivolte al Pd”, ha dichiarato Lorenzo Guerini, ministro della Difesa e leader di Base Riformista. Ma soprattutto è scoppiato il caso Bibbiano.

Il sindaco dem, Andrea Carletti, indagato per reati amministrativi nell’inchiesta “Angeli e demoni” sugli affidi illeciti, ha fatto sapere di non essere intenzionato a ritirare la querela che sporse contro Luigi Di Maio. Il quale il giorno stesso dell’operazione, il 27 giugno 2019, pubblicò un post in cui compariva la foto del sindaco con la scritta “arrestato”, oltre al simbolo del Pd e alla frase: “Affari con i bambini tolti ai genitori”.

Vito Crimi ieri ha ammesso: “Forse abbiamo esagerato nel generalizzare fatti specifici attribuendoli a tutto il Pd”. Replica di Roberta Pinotti (“Parole insufficienti, servono scuse chiare”), seguita a ruota dal Pd di Bibbiano ( “Quanto affermato da Crimi non solo non basta, ma tralascia la parte più importante ossia la presa d’atto che non si possa, pur nella legittima e aspra battaglia politica, spandere odio gratuito nei confronti di comunità che neppure si conoscono”).

E quindi? La realtà è che a ora nessuna querela è stata ritirata. Quando poi arriverà il momento di discuterle, ogni deputato valuterà cosa fare. Tutto da vedere, insomma. “Io ho voluto portare avanti un percorso politico – spiega Zanda al Fatto – due partiti non possono litigare la mattina in Tribunale e governare insieme il pomeriggio in Cdm”. Tra le cause in piedi ce n’è proprio una sua contro Di Maio. Zanda aveva presentato una proposta di legge per cambiare gli stipendi dei parlamentari italiani, equiparandoli (o comunque assimilandoli nel sistema di calcolo) a quelli dei deputati europei. Dopo le accuse di Di Maio (che aveva sostenuto che il provvedimento avrebbe prodotto per i deputati e i senatori un aumento preciso di quanto da loro percepito), Zanda aveva deciso di fargli causa.

In questo momento, il suo appello suona un po’ come quelli all’alleanza nelle Marche e in Emilia Romagna. Con le reciproche dissidenze interne che si fanno sentire. Ma d’altra parte, l’amalgama è più facile a dirlo che a farlo: basti pensare che i Dem ancora non si sono espressi su quella che per Di Maio è la battaglia della vita. Ovvero, il referendum sul taglio dei parlamentari.