Niente accordo tra Pd e M5S Adesso lo spettro è il 4 a 2

Doveva essere la giornata risolutiva: o dentro o fuori. Invece è stata quella della presa d’atto che nelle Marche (ma anche in Puglia) lo spazio per un’alleanza organica tra Pd e M5S non c’è più. Fine delle trattative (o delle presunte tali): ognuno andrà da solo in entrambe le regioni governate dal centrosinistra negli ultimi cinque anni. Sia in Puglia che nelle Marche i candidati del M5S Antonella Laricchia e Gian Mario Mercorelli non si sono ritirati nonostante l’appello di mercoledì di Giuseppe Conte al Fatto in cui auspicava di non “sprecare l’occasione di correre uniti”. Ma anche i vertici del M5S non hanno risposto “presente” all’appello del premier. Dopo la chiusura totale di Vito Crimi in un’intervista al Corriere della Sera in cui si è allineato alle posizioni di Davide Casaleggio (“L’alleanza nelle Marche non si farà, vanno rispettati i territori”), l’ultimo tentativo lo ha fatto ieri mattina l’ex capo politico Luigi Di Maio che aveva in mano la palla della trattativa con Nicola Zingaretti sulle Marche. Il ministro degli Esteri è sembrato possibilista e sulla stessa linea del premier: “Il presidente Conte ha espresso un concetto più che legittimo, sottolineando l’importanza di ascoltare i territori. Ritengo sia opportuno investire ogni energia per trovare degli accordi laddove sia possibile”. Ma, nonostante gli sforzi dell’ex capo politico, la trattativa si era già arenata. Ergo: a 24 ore dalla presentazione delle liste, la partita era chiusa.

Di Maio ci ha provato fino alla fine a convincere i suoi parlamentari che un accordo si poteva trovare, a condizione che il Pd avrebbe depennato tutti gli “impresentabili” dalle proprie liste. Ma la maggioranza dei parlamentari marchigiani – una delle regioni che, fanno notare, non ha rappresentanza al governo – si è rifiutata anche solo di sedersi al tavolo con i dem. E l’intervista di disturbo di Crimi non ha certo aiutato, anche alla luce del voto su Rousseau della scorsa settimana con cui gli iscritti avevano detto “sì” alle alleanze, anche se solo nei comuni. Tant’è che di prima mattina, il primo a esultare per il “niet” del capo politico reggente è proprio il candidato Gian Mario Mercorelli: “Con questo dovremmo aver scritto la parola fine a questa triste pantomima dei giorni scorsi. Grazie Vito Crimi” ha scritto su Facebook dopo aver resistito alle richieste di un passo indietro. A complicare le cose, nel pomeriggio è intervenuto anche il segretario Pd marchigiani, Giovanni Gostoli: “Il M5S delle Marche è in mano a fanatici e nostalgici del governo con la Lega”. La chiusura di ogni trattativa con il Pd si porta dietro l’ennesima spaccatura nel M5S tra Di Maio e Crimi ma anche una forte irritazione del premier Conte che mercoledì si era esposto in prima persona per poi essere sconfessato dai candidati grillini sul territorio.

Dal lato Pd la reazione è lo sdegno: “I 5 stelle hanno buttato una grande occasione per essere protagonisti tradendo il voto della base grillina su Rousseau e con un atteggiamento politicamente irresponsabile” dice al Fatto il sindaco di Pesaro e fautore dell’accordo, Matteo Ricci, prima di invitare gli elettori grillini al voto disgiunto anche in Puglia: “Chi vuole sostenere il governo Conte e fermare la destra ha un solo voto a disposizione: Mangialardi nelle Marche ed Emiliano in Puglia”. E che i toni si siano improvvisamente irrigiditi lo si capisce anche dal duro commento di Nicola Zingaretti sulla partita delle comunali nella Capitale: “Virginia Raggi è stato il principale problema di Roma degli ultimi anni”.

Sintomo di una preoccupazione per lo spettro che inizia ad aleggiare al Nazareno: che le regionali di settembre finiscano 4 a 2 per il centrodestra. Secondo gli ultimi sondaggi, infatti, Veneto e Liguria sono già date per vincenti a Luca Zaia e Giovanni Toti mentre il meloniano Francesco Acquaroli sarebbe avanti nelle Marche contro il dem Maurizio Mangialardi di 8-10 punti e il pugliese Raffaele Fitto (FdI) di 3-5 contro il governatore uscente Michele Emiliano. Una disfatta. L’alleanza giallorosa – che ieri si è concretizzata anche nei comuni campani Giugliano e Caivano – nelle regioni non si è realizzata. Chissà se avrebbe potuto cambiare le cose.

Morti 45 migranti in mare “I miliziani hanno sparato”

Un presunto attacco delle milizie, gli spari in mezzo al mare, gli allarmi inascoltati. Intorno al naufragio del 17 agosto scorso al largo delle coste libiche ci sono tanti aspetti poco chiari. L’epilogo però è stato dei più tragici: secondo i racconti dei sopravvissuti, 45 persone hanno perso la vita, di cui cinque minori.

È l’ennesima tragedia nel Mediterraneo che due giorni fa ha spinto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Agenzia Onu per i Rifugiati (Unhcr) a rivolgere un appello affinché si riveda l’approccio degli Stati alla gestione dei soccorsi nel Mediterraneo: “È necessario rafforzare con urgenza la capacità di ricerca e soccorso”, scrivono in una nota.

Ma su questo che è stato definito il più tragico naufragio registrato al largo delle coste libiche nel 2020, ci sono parecchi elementi da chiarire. A cominciare dal racconto dei sopravvissuti, che sarebbero 37, provenienti principalmente da Senegal, Mali, Ciad e Ghana. Sono stati soccorsi da pescatori libici e poi trasferiti in centri detenzione. Sono loro che hanno riferito al personale dell’Oim che altre 45 persone, compresi cinque minori, hanno perso la vita a causa dell’esplosione del motore dell’imbarcazione al largo della costa di Zuara. Proprio su questa circostanza però uno dei sopravvissuti consegna ai volontari di Alarm Phone – l’organizzazione che segue più da vicino le traversate dei migranti – un ulteriore dettaglio, tutto da verificare. Racconta del motore in avaria poco dopo la partenza e dell’intervento di una milizia, probabilmente con a bordo libici o anche egiziani.

Secondo il racconto dell’uomo, di fronte alla richiesta dei migranti di tornare in Libia, i miliziani avrebbe chiesto del denaro. Ne è nato una lite e alla fine avrebbero aperto il fuoco, sparando contro la barca e colpendo così le taniche di benzina. Da qui l’esplosione. Un racconto tutto da verificare, ma che fa sorgere non pochi sospetti nei volontari di Alarm Phone.

Gli stessi che il 15 agosto, due giorni prima del naufragio, hanno dato l’allarme. La barca con a bordo i migranti si trovava a una trentina di miglia dalla costa libica quando gli attivisti ricevono la segnalazione e subito tentano di avvisare le autorità libiche, maltesi e italiane.

Dall’Italia spiegano che si tratta di una zona di intervento libica, non possono fare nulla. Alarm Phone, dopo diversi tentativi, si mette in contatto anche con la Guardia costiera libica, ma inutilmente. Spiegano infatti di avere problemi con la propria motovedetta e che la barca alla quale prestare soccorso si trovava troppo lontana. Nessuno interviene e di lì a poco avviene la tragedia.

Dopo il naufragio, Unchr e Oim hanno ribadito la necessità di abbandonare con urgenza l’approccio che prevede accordi ad hoc in favore di un meccanismo di sbarco più rapido e strutturato. “Si registra l’assenza di programmi di ricerca e soccorso dedicati e a guida Ue. Temiamo che senza un incremento immediato delle capacità di ricerca e soccorso, ci sia il rischio che si verifichino disastri analoghi a quelli in cui si è registrato un elevato numero di morti nel Mediterraneo centrale, prima del lancio dell’operazione Mare Nostrum”, denunciano le due agenzie ricordando le tragedie del 2013.

Da qui l’appello agli Stati “a rispondere rapidamente al verificarsi di tali eventi e a mettere a disposizione in modo sistematico e strutturato un porto sicuro per le persone soccorse in mare”.

Il nuovo fronte: i porti “Bomba virale sarda” Allarme Civitavecchia

Dopo il focolaio la polemica: la Sardegna non ci sta a essere additata come “l’isola dei contagiati” e rispedisce al mittente tutte le accuse e soprattutto l’ipotesi di una chiusura totale. L’insofferenza delle Regioni che hanno avuto casi positivi al rientro dalle vacanze nell’isola però è palpabile. Bloccato il cluster de La Maddalena, dove un resort è stato “quarantenato” per giorni insieme ai suoi 457 ospiti e dipendenti, preoccupa il focolaio di giovani romani in vacanza a Porto Rotondo: nella Capitale c’è preoccupazione anche perché non tutti si sarebbero fatti testare. Con 37 nuovi casi in un giorno, mercoledì la Sardegna è ritornata ai livelli del lockdown, quando era la regione stessa a voler bloccare gli arrivi sull’isola. “Il mancato rispetto delle regole nei locali della movida in Sardegna rischia di far esplodere una bomba virale”, spara l’assessore Pd della Sanità del Lazio Alessio D’Amato, che chiede “test agli imbarchi”. Immediata la reazione del governatore leghista Christian Solinas: “Volevo i tamponi per i turisti, se il governo avesse accettato non avremmo recrudescenza del virus, ma tutti mi vennero contro per riproporli oggi con colpevole ritardo. Qui ci sono solo casi di importazione o di ritorno, persone già positive testate una volta nell’isola o sardi infettati in vacanza all’estero”.

E se fossero partiti già positivi? Il punto è proprio questo. Per avere un’idea, al porto di Ischia nel weekend dell’8 agosto sono arrivate 36.500 persone mentre 28 mila sono partite. A Ferragosto sono stati circa 60 mila i turisti in partenza o in arrivo coi traghetti nel porto di Genova. A Ponza si sono registrate 20.000 presenze. A Livorno la Filcams-Cigl ha già denunciato la situazione: “Nelle aree di imbarco passeggeri le misure anti Coronavirus non sono rispettate”. A oggi i porti di Ancona e Pesaro effettuano tamponi ai viaggiatori, ma solo a quelli in arrivo. Non nasconde la preoccupazione il sindaco di Civitavecchia, Ernesto Tedesco, che ha inviato una lettera al ministro Roberto Speranza e alla ministra dei Trasporti Paola De Micheli: “La nostra città ospita l’arrivo giornaliero di numerosi traghetti dalla Sardegna, per questo sono a chiedervi di predisporre tutte le opportune iniziative affinché sia garantita una corretta prevenzione già in fase di partenza verso la nostra città e i necessari controlli”. In sintesi, tamponi per tutti prima di partire non dopo quando si arriva. Una linea condivisa dal mondo scientifico. “A mio giudizio nessuno deve entrare in navi, treni o aerei se non ha effettuato in loco questi tamponi, se mi imbarco devo essere certo che tutti coloro che sono con me sono negativi, il modo per esserlo è associare al biglietto, il tampone”. Per Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani, è questa l’unica maniera per evitare che i contagi continuino a salire. Tamponi ovunque, non solo negli aeroporti come avviene oggi, ma anche nei porti.

Ma soprattutto a chiunque: non solo a chi arriva da uno dei quattro paesi indicati dall’ordinanza del ministro della Salute (Spagna, Grecia, Croazia, Malta) ma a chi parte, direttamente in loco se possibile. Una visione condivisa nel mondo scientifico, “Dobbiamo controllare queste persone che tornano in Italia, servono i tamponi in partenza prima che si imbarchino su voli o navi”, sottolinea Massimo Clementi, direttore del laboratorio di Microbiologia e Virologia all’ospedale San Raffaele di Milano- “vediamo l’andamento che stanno avendo altri paesi in Europa, la Spagna è arrivata all’apice con 3mila contagi e così anche altri nostri vicini. La popolazione andava indirizzata nella scelta delle vacanze, c’era una situazione in evoluzione in molti paesi limitrofi, questo ha portato ad avere focolai anche da noi”.

I contagi ai livelli di maggio “Crescono da 3 settimane”

Un balzo di 203 casi in 24 ore, coda giornaliera di un trend che è “in aumento da tre settimane”. Gli 845 contagi da Covid-19 comunicati ieri dal ministero della Salute – mercoledì erano stati 642, e ora il totale sale a 256.118 – raccontano di un’Italia in cui il numero delle vittime del coronavirus si mantiene basso (6 quelle di ieri, 7 il giorno prima, il totale è di 35.418), ma in cui la tendenza dei dati sui contagi continua a preoccupare. E a far dire a Istituto Superiore di Sanità e a Lungotevere Ripa nel monitoraggio settimanale sull’andamento del contagio che dopo “la riduzione nel numero di casi di infezione grazie alle misure di lockdown”, in questo momento il Paese “si trova in una fase epidemiologica di transizione con tendenza a un progressivo peggioramento”. Nell’ultima settimana presa in osservazione, 10-16 agosto, i focolai attivi (per definizione, 2 o più casi positivi tra loro collegati) sono saliti a 1.077, di cui 281 nuovi. Con un indice di trasmissione Rt, calcolato sui sintomatici e riferito al periodo 30 luglio-12 agosto, pari a 0.83 a livello nazionale ma oltre la soglia allarme di 1 in 5 Regioni: Umbria (1,34), Abruzzo (1,24), Veneto (1,21), Lombardia (1,17) e Campania (1.02).

Il dato nudo e crudo dice che i contagi di ieri sono a un soffio dagli 875 registrati il 16 maggio, appena 12 giorni dopo l’allentamento delle misure di isolamento sociale iniziato il 4 maggio e alla vigilia della Fase 2. Con una sostanziale differenza: l’età mediana dei casi diagnosticati nell’ultima settimana è di 30 anni, quando solo l’ultimo monitoraggio di Iss e ministero la fissava a quota 40. Una diminuzione dovuta al fatto che “la circolazione avviene oggi con maggiore frequenza nelle fasce di età più giovani, in un contesto di avanzata riapertura delle attività commerciali (inclusi luoghi di aggregazione) e di aumentata mobilità”. Quest’ultima è dovuta al periodo vacanziero, con quasi il 30% dei nuovi casi che sono “importati” dall’estero, in un contesto in cui l’Italia è circondata da Paesi in cui la curva epidemica è tornata a volare (4.471 nuovi casi ieri in Francia, 3.349 in Spagna) e da cui è forte il flusso dei connazionali di ritorno. Anche se, specificano i vertici sanitari, “9 tra Regioni e Province autonome hanno riportato un aumento che non può essere attribuito unicamente a un aumento di casi importati”. Questo vuol dire “che in alcune parti del Paese la circolazione di SarsCov2 è ancora rilevante”. In una situazione, tuttavia, in cui l’epidemia risulta sotto controllo. “I contagi salgono e continueranno a salire con l’arrivo della stagione fredda”, ha confermato il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri. Che invita, però, a guardare il quadro nel suo complesso: “Sento dire che i numeri sono alti come quelli di maggio. I dati vanno contestualizzati e in questo momento ci dicono che i malati di oggi non sono gli stessi di quei mesi: sono persone più in forze, in quarantena e non tanto in terapia intensiva”. Che, infatti, restano sostanzialmente sgombre: sono 68 i ricoverati in rianimazione (+2 in 24 ore), 883 quelli attualmente ospitati nei reparti ordinari (+17). “Possiamo dire che questa è la prassi della convivenza col virus”, ha concluso Sileri.

L’invito degli esperti resta comunque lo stesso: non abbassare la guardia. Se non verranno osservate le misure di sicurezza e le quarantene, chiosano Iss e ministero, “potremmo assistere a un ulteriore aumento nel numero di casi”.

A Malpensa pochi tamponi Migliaia sulle liste d’attesa

Lombardi e stranieri da una parte. Il resto del mondo dall’altra. La prima fila porta ai gazebo dove si fanno i tamponi laringofaringei ai viaggiatori atterrati allo scalo varesino di Malpensa da uno dei quattro Paesi a rischio (Malta, Grecia, Spagna e Croazia). La seconda invece porta a una qualsiasi Asl d’Italia, fuorché a una lombarda. È la politica “delle due misure” scelta dalla giunta Fontana per mettere una toppa all’enorme buco nei controlli aeroportuali che da giorni fa della Lombardia la regione colabrodo d’Italia.

Da ieri comunque anche a Malpensa sono apparsi i punti gestiti dalla Ats dove si effettuano i test previsti dall’ordinanza del 12 agosto scorso. Controlli a macchia di leopardo. Chi non è residente in regione, infatti, viene invitato a contattare la propria Asl. Come spiegato ieri dal direttore generale dell’assessorato al Welfare di Regione Lombardia, Marco Trivelli: “A Malpensa i tamponi li facciamo a tutti, ma dovendo selezionare, la priorità sono gli stranieri, perché non si intercettano più una volta lasciato l’aeroporto. Poi i cittadini lombardi per alleggerire le Ats, soprattutto quella di Milano. Non c’è una limitazione, ma chi è in transito è l’ultimo nelle priorità”. Nel Lazio, invece, tutti quelli che scendono da un volo a rischio sono sottoposti al test. L’assessore Giulio Gallera in serata ha detto che da oggi faranno così anche loro, vedremo come.

La scelta lombarda, oltre ai disagi, crea paradossi, come quello vissuto ieri da una coppia del Piemonte: “Noi conviviamo, io ho il domicilio in Piemonte e vivo con lei – ha spiegato il ragazzo – ma sono ancora residente in Lombardia, quindi a me hanno detto che posso fare il tampone e a lei no”.

A regime, a Malpensa si potranno analizzare circa 200 tamponi l’ora, dalle 9 alle 17.30. Fa circa 1.600 al giorno. Complessivamente, come ha spiegato Crivelli, la Lombardia può assicurare ai viaggiatori “a rischio” circa 9 mila tamponi quotidiani. Ma da quei quattro Paesi, solo nello scalo varesino, atterrano dalle 4 mila alle 7 mila persone al giorno. Vanno poi aggiunti i passeggeri che transitano per Linate – dove i tamponi partiranno non prima di sabato – e di Orio al Serio (Bergamo). Un fiume di persone che fino qui la sanità lombarda non è riuscita a gestire. Migliaia hanno prenotato il tampone, dovrebbero avere la risposta in 48 ore ma c’è chi aspetta anche da una settimana.

“Dobbiamo sempre puntare alla sostanza e per noi è coprire con i controlli il 100% dei rientri con i voli; controlli che si fanno per l’80% sul territorio e per il 20% in aeroporto”, ha sottolineato Crivelli. E sui ritardi degli scali lombardi: “Abbiamo iniziato a Malpensa tre giorni dopo Fiumicino, onore al merito, ma vorrei sapere se il Lazio ha organizzato l’80% degli accessi sul territorio, dove siamo completi su tutte le province”.

Tuttavia il Dg non ha negato i problemi, soprattutto “nell’area di Milano” che non è poca cosa, ma “non in altre province lombarde” dove “le disponibilità di spazi per tamponi e segnalazioni da lunedì erano già coperte”. Secondo Trivelli nei giorni successivi all’ordinanza “abbiamo avuto 13 mila segnalazioni solo dall’area di Milano. Ieri (mercoledì, ndr) abbiamo ricevuto oltre 3.500 contatti, ma di questi solo la metà sono diventate prenotazioni. Non abbiamo avuto la forza di richiamare. Il problema è stata la mancanza di persone nel contact center”.

Possiamo confermare: martedì ci siamo iscritti alle liste della Ats di Milano come passeggeri sbarcati dalla Grecia e, a distanza di 36 ore, ancora non siamo stati richiamati. Tre giorni nei quali, non essendo obbligatoria la quarantena, teoricamente siamo andati al lavoro, a fare la spesa e al ristorante, ignorando la potenziale positività. E dagli ultimi dati resi noti ieri, la percentuale dei positivi tra quanti sono tornati da un Paese a rischio è del 4%.

Altro ostacolo. Se infatti prima al turista milanese all’estero era richiesto di contattare la Ats di Milano per prenotare un tampone all’arrivo, oggi le liste d’attesa sono gestire dalla Ats dell’Insubria attraverso il portale della Sea. Tuttavia liste d’attesa e prenotazioni della Ats di Milano non sono confluite nel data base di quella dell’Isubria: chi c’era non compare nelle liste attuali.

Le 10 domande

A Maurizio Molinari, direttore di Repubblica.

Caro Direttore, mi consenta di felicitarmi per la svolta da Lei impressa a Repubblica, un tempo mia bestia nera e ultimamente docile agnellino. Del resto mi avevano sempre parlato bene di lei i miei amici de L’Opinione e de Il Tempo e i miei ex dipendenti de Il Foglio e di Panorama che L’hanno avuta in passato come valente collaboratore. Colgo l’occasione per rivolgere a Lei, ma soprattutto alle firme superstiti dell’ex organo del giustizialismo antiberlusconiano, le mie “10 domande a Repubblica”, sullo stile delle “10 domande di Repubblica” che, nella stagione della nostra più aspra contrapposizione fortunatamente archiviata, la vostra testata indirizzò proditoriamente al sottoscritto.

1. Ieri ho molto apprezzato il Suo editoriale “Perché votare No al referendum”: con tutti i posti che ho promesso in giro per ricomprarmi i forzisti in fuga verso Salvini e Meloni, ci manca soltanto che ora me ne sparisca un terzo. Purtroppo quei panciafichisti di Sallusti e Feltri, diversamente da lei e dal direttore de l’Espresso Marco Damilano, non osano battersi per il No per paura di perdere lettori: gliela farebbe una telefonatina per convincermeli?

2. Sempre ieri ho ritagliato il commento di Marco Bentivogli, che ha esordito sul Suo giornale e, tra parentesi, è il mio sindacalista preferito. Geniale l’idea di scatenare contro Conte “Il tridente della speranza” Mattarella-Draghi-Cartabia, molto più divertente del trio Lopez-Marchesini-Solenghi e più intonato del Trio Lescano. Che ne dice di aggiungermi alla compagnia, visto che col Quartetto (H)ar(d)core non ce ne sarebbe più per nessuno?

3. La ringrazio vivamente per lo spazio che riserva a Stefano Folli, mio antico estimatore dai tempi del Sole24 ore e del Corriere, e a Stefano Cappellini, di cui già adoravo le filippiche su Riformista e Messaggero contro i pm politicizzati: i loro quotidiani annunci sulla caduta di Conte mi fanno ben sperare in un lucroso ritorno al passato. Non potrebbe mettermeli sempre in prima pagina?

4. Standing ovation per gli acquisti nelle pagine economiche di due miei vecchi fan: Oscar Giannino e Giancarlo Mazzuca, che fu pure mio deputato. Ma lo sa che, da quando ho lasciato Palazzo Grazioli, mi sento a casa solo quando leggo Repubblica?

5. Ottimo anche l’ingaggio come editorialista di Domenico Siniscalco, che era il mio ministro dell’Economia quando Repubblica mi chiamava Caimano, Egoarca e Satiro minorile in combutta con le toghe rosse e con mia moglie. Ora non vorrei intromettermi, ma se Lei volesse allargare il parterre de roi avrei in serbo altre grandi firme di sicuro successo.

Può servire un Tremonti? Può essere utile un Brunetta, peraltro appena definito “una risorsa” dal vostro Merlo? Serve un esperto di scuola come la Gelmini, che sa il fatto suo anche su tunnel e neutrini? E Gasparri, che è pure giornalista? Può far comodo un’igienista dentale? Basta chiedere, a disposizione.
6. Noto con orgoglio che alla fine, dopo lunghe e assurde battaglie ideologiche veterosinistresi in nome dell’ambiente e dell’antimafia, siete arrivati anche voi a sostenere il ponte sullo Stretto di Messina con i meravigliosi articoli di Francesco Merlo e Sebastiano Messina (nomen, omen). Se non erro l’amico Lunardi, quello che voleva convivere con la mafia e infatti andava molto d’accordo con Dell’Utri, dev’essere ancora vivo. Viene via per poco: vi serve mica un esperto di trasporti e convivenze?
7. Noto con piacere che avete riposto in soffitta gli altri vostri cavalli di battaglia: i miei presunti conflitti d’interessi, la mia presunta iscrizione alla P2, il mio presunto stalliere Mangano, i presunti Previti e Dell’Utri, i miei presunti finanziamenti alla presunta mafia, le mie presunte corruzioni di senatori, premier, giudici, testimoni, finanzieri e minorenni, i miei presunti falsi in bilancio, le mie presunte frodi fiscali, le mie presunte prescrizioni, la mia presunta condanna, i miei presunti processi in corso. Che infatti non sono mai esistiti. Ora non vorrei osare troppo, ma perché non ripetete con me: “Ruby era la nipote di Mubarak”? È tanto liberatorio!
8. Ho letto con soddisfazione l’intervista a Tpi di una delle vostre firme di punta, Francesco Merlo, il quale dice che io sono quel che sono, ma definisce Forza Italia “meglio dei 5Stelle” e il M5S “forza non democratica”. E auspica “un nuovo governo, con un nuovo presidente del Consiglio” che “in Forza Italia potrebbe trovare alcune delle persone più degne” e “tante persone perbene”. È quel che dico anch’io da 25 anni, ma non è meraviglioso che ora lo diciate anche voi?
9. Siccome già Scalfari confessò “Tra Berlusconi e Di Maio voterei Berlusconi” e De Benedetti ha appena dichiarato “Pur di cacciare Conte mi va bene un governo Pd-Berlusconi”, che senso ha disperdere tante energie in una miriade di giornali concorrenti che dicono tutti le stesse cose? Voi, grazie ai lungimiranti Elkann, avete già fuso Stampa e Repubblica in Stampubblica: se convinco Sallusti e l’Ingegnere, che ne dite di fare un ultimo passo dando vita a Il Giornale di Stampubblica del Domani?
10. Si offenderebbe, Direttore, se a questa mia facessi seguire una tessera gold di Forza Italia?
Devotamente suo, Silvio Berlusconi.

Rinasce “Postalmarket”, l’Amazon italiana

L’ambizione, forse, è un po’ spropositata: “Sarà l’Amazon italiana”. Il progetto, invece, punta sul filo della memoria e della nostalgia di chi, fino agli anni 90 del secolo scorso, aspettava con ansia e un po’ di malizia l’arrivo – per posta – del nuovo catalogo Postalmarket.

Erano consigli per gli acquisti, da ricevere a domicilio, ma soprattutto un immaginario di sogni per l’Italia provinciale di allora, quando il web e le sue evoluzioni commerciali erano solo fantasie. Sogni simboleggiati dalle copertine e dalle foto della sezione un po’ ammiccante dell’abbigliamento femminile: con i volti e le forme, nel tempo, delle gemelle Kessler, Milva, Ornella Muti, Laura Antonelli, Mariangela Melato, Ornella Vanoni, Romina Power, Monica Bellucci e Valeria Marini, ma anche di star internazionali come Kelly LeBrock, Brooke Shields, Carol Alt, Claudia Schiffer, Cindy Crawford. A fare da traino, all’epoca, era soprattutto la moda per signore: marchi come Krizia, Fendi, Biagiotti, Enrico Coveri e Valentino realizzavano capi pensati appositamente per Postalmarket.

Il mitico catalogo di carta ritorna: ma questa volta in digitale (di qui il riferimento ad Amazon), con un primo esperimento il prossimo Natale online. A rilanciare il marchio sarà Stefano Bortolussi, attuale proprietario della testata, che tenta l’impresa con Francesco D’Avella, titolare dell’e-commerce Storeden di Treviso. “L’obiettivo è raggiungere un fatturato tra i 500 milioni e il miliardo di euro nei primi cinque anni. In più”, ha spiegato Bortolussi, “contiamo anche sul remake del catalogo. Sono milioni le persone che si ricordano di Postalmarket: tutti potenziali clienti”. Insieme al sito, infatti, dovrebbe tornare anche un listino cartaceo leggero per gli abbonati. Postalmarket fu creata nel 1959 da Anna Bonomi Bolchini, che importò il formato tutto americano della vendita per catalogo. Negli Anni 80 e nei primi 90, divenne leader italiano nel mercato delle vendite per corrispondenza: con i cataloghi Primavera/Estate e Autunno/Inverno raggiunse un fatturato di circa 600 miliardi di lire, gestendo oltre 45 mila spedizioni giornaliere. Poi, nel 1993, passò sotto il controllo del colosso tedesco Otto Versand: l’azienda, già in declino, si avviò al fallimento del 2015. Adesso, per Natale, il web tenta di rilanciare quella nostalgia.

Una questione privata. L’affinità di Calvino e Fenoglio

Beppe Fenoglio è stato uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. Ma, in vita, se ne sono accorti in pochi. Quando uscì postumo Una questione privata, Italo Calvino lo definì “il romanzo che tutti avevamo sognato… il libro che la nostra generazione voleva fare”.

Fenoglio non fu mai granché considerato dalla critica. Accadde perfino che, nel pubblicarne un libro nella collana da lui diretta, Elio Vittorini lo criticò nelle note di copertina: un fatto più unico che raro, del quale Fenoglio soffrì molto. Calvino, al contrario, lo stimò sempre. Il loro carteggio, pubblicato in Lettere 1940-1962 (Einaudi) è tenerissimo. Recensendo le bozze de La paga del sabato, Calvino scrive il 2 novembre 1950: “Il tuo racconto mi ha preso dalle prime pagine e ho dovuto andar sino in fondo. Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascurato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette, molte cose urtano il gusto – specie nelle scene amorose – e non tutti i capitoli sono egualmente riusciti. Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che davvero mi sembra rara”. Tutta la loro corrispondenza sarà così; da una parte lo scrittore di successo, che esorta l’altro a insistere; e dall’altra Fenoglio, convinto di non avere “le marce” per poter firmare un romanzo.

I due si scrivono fittamente nel 1950 e 1951. Fenoglio fa tesoro dei consigli ricevuti: “Sulle prime non riuscivo a reintrodurmi nel tema, per alcuni giorni ne fui respinto come da una parete di caucciú. Ma ora credo di avercela fatta o quasi”. Calvino intuisce subito che è la “scrittura partigiana quella che più lo esalta”: “Ho letto i racconti. Dei partigiani mi piace moltissimo I ventitré giorni della città di Alba, moltissimo.”

Fenoglio, per eccesso di insicurezza, arriva a dar ragione ai continui rilievi di Elio Vittorini: “La paga del sabato è il frutto, piuttosto difettoso anche se magari interessante, di una mia cotta neoverista che ho ormai superata”. Anche Calvino ammette la contrarietà di Vittorini: “S’è sempre piú deciso che nel romanzo c’è troppo cinematografo… Io non sono del suo parere perché come sai il romanzo mi piace, ma la collana la dirige lui”.

È per questo che, per anni, i due non si scrivono. Fenoglio soffre il trattamento di Einaudi (Vittorini) e si avvicina a Garzanti. Calvino, tra i due, è sempre il primo a interrompere il silenzio. Così nel settembre del 1958: “Caro Fenoglio, tornando dalle ferie, la mia prima lettera è per te… Vorremo pubblicare comunque un tuo libro nei primi mesi del ’59. Il tuo nome è continuamente ricordato dai critici come quello d’uno dei piú interessanti tra i nuovi scrittori, e tu stai zitto già da qualche anno”.

Nel frattempo Fenoglio comincia ad avere problemi di salute. Il carteggio con Calvino si riavvierà solo nel 1960, quando Primavera di bellezza è uscito da un anno. Calvino aveva previsto che Garzanti avrebbe puntato tutto sul nuovo Pasolini (Una vita violenta) e pochissimo sul nuovo Fenoglio, che peraltro non lo convinse (“Debole, molto debole. Ci avete portato via – scrive a Garzanti, nda – un autore per bruciarlo in una prova modesta”).

I due riprendono a scriversi nel luglio del ’60. È ancora Calvino a fare la prima mossa. Fenoglio risponde: “Cosa faccio? Da oltre sei mesi praticamente niente. Lo scorso inverno infatti mi sono recato a Torino per un urgente esame medico generale. Dopo tre giorni di tests mi hanno trovato una assai poco simpatica affezione alle coronarie. Il tutto complicato da una ormai annosa asma bronchiale. Ho dovuto cosí accantonare, e chissà per quanto tempo ancora, il mio lavoro letterario”. A volte scrive su carta intestata della “Ditta Marengo”, dove lavorava come impiegato.

A fine anno, Fenoglio si confida: “Tornerò all’Einaudi, e definitivamente. Non ho mai dimenticato che essa è ‘la mia casa editrice natale’ e per un dilettante come me il sentimento ha un valore assolutamente preponderante. Forse non ci crederai, ma il mio abbandono dell’Einaudi ha turbato me piú d’ogni altro. E ancora mi turba, e vorrei non aver provato quello stupido risentimento per il risvolto di Vittorini. Il risentimento fu, debbo ammettere, infinitamente piú sciocco del risvolto che lo provocò. Vidi, ecco l’errore, il risvolto unicamente con l’occhio del dirigente industriale che non si capacita che un altro industriale, l’Einaudi, svaluti il suo prodotto nella stessa presentazione. Basta, cose passate”.

Il ritorno a Einaudi si complica per vie legali. Un altro motivo di risentimento, oltre alla salute che peggiora. Il 20 settembre 1962 Calvino gli scrive ancora, ma il loro incontro sfuma di nuovo. Fenoglio risponde il 15 ottobre da Alba: “Caro Italo, grazie della tua lettera vecchia ormai di settimane. La vedo, purtroppo, appena ora, rientrando da oltre un mese di confino in alta collina. Mi è infatti sopravvenuta una molto seria affezione polmonare per la cui risoluzione occorreranno un bel po’ di mesi. Pazienza, bisogna essere disponibili. Parto a momenti per Cuneo dove sarò sottoposto a tutta una serie di esami. Forse riuscirò a sfuggire al sanatorio e mi consentiranno di curarmi in modo autonomo”.

È la loro ultima comunicazione epistolare. A soli 41 anni, nella notte fra il 17 e il 18 febbraio, Beppe Fenoglio muore all’ospedale Molinette di Torino. Il giorno dopo Italo Calvino si reca ad Alba per i funerali dell’amico. E finalmente lo incontra.

 

Viaggio al termine del Papeete con Brando e Gauguin

Il divorzio consumato nella pazza estate 2019 tra Papeete (resort di Milano Marittima e buen retiro di Matteo Salvini) e Rousseau (piattaforma online del M5S) ha il sapore dell’ironia storica. Appena scoperti dai navigatori inglesi e francesi approdati in Polinesia (1769), il villaggio di Papeete e l’isola di Tahiti furono infatti subito identificati con la perfetta incarnazione terrena dello “stato di natura” descritto proprio da Jean-Jacques Rousseau pochi anni prima.

Già col Viaggio intorno al mondo (1771) di Louis-Antoine de Bougainville (eponimo della pianta dai fiori colorati, scoperta dai suoi uomini in Brasile), nell’immaginario europeo Papeete e Tahiti diventano la “Nuova Citera” in cui si vive “senza vizi né pregiudizi, senza bisogni né conflitti”, senza ambizioni né intrighi né competizione: tutti sono sani e robusti (circolano nudi a partire dalla pubertà), la terra offre nutrimento per ciascuno (senza bisogno di coltivarla) e l’accoppiamento è libero (si promuove la maternità, ma ci si sposa a piacimento, anche solo per una o due lune). Per di più – Open Arms! – a Papeete l’ospitalità nei confronti degli stranieri, compresi gli Europei colonizzatori, è sacra, ricca e festosa.

Pregna di reminiscenze classiche (Scheria, Atlantide, i Giardini delle Esperidi, la nascita di Afrodite, ma soprattutto l’Età dell’oro), la fortuna letteraria di Tahiti è per un secolo vasta e univoca: il buon selvaggio, la terra feconda, l’edonismo quotidiano, la sessualità libera, l’eguaglianza sociale. Soprattutto, le donne giovani e “divine”, le mitiche vahine cantate nella Fanciulla di Tahiti di Victor Hugo o nel Matrimonio di Loti (1879), esordio letterario di Julien Viaud (di lì in poi, alla polinesiana, Pierre Loti); o ancora la principessa Moe che guarirà Robert Louis Stevenson ammalato a Tautira.

Tutti miti sostanzialmente infondati (lo riconobbe, tardivamente, lo stesso Bougainville), ma capaci di creare un’aura leggendaria che persiste ancora nel nome scelto da Massimo Casanova per il suo stabilimento romagnolo: Papeete non evoca solo il “lungo sciabordío del mare di zaffiro/ che preserva vergine la terra” o “la città dalle strade d’erba/ amata dalla luna, benedetta dall’aurora” (Stevenson), ma anche un orizzonte di evasione, di libertà, di felicità. Al Papeete, poi, si ostentano i tatuaggi: la moda di dipingersi il corpo (polinesiano tatao) riemerse in Occidente proprio dopo l’arrivo alla corte di Giorgio III, al seguito di James Cook, del notabile papeetiano Omai (ancora negli Anni 80 Michel Tournier distingueva i tatuaggi integrali maohi esibiti sul collo o sul viso, da quelli nostrani riposti “in luoghi più intimi” sotto i vestiti; ma oggi è il tempo di Fedez e Achille Lauro).

Ogni mito è destinato al declino. Già nel Supplemento al viaggio di Bougainville di Diderot (1774) il dialogo tra un Tahitiano e un Francese fa a pezzi la società occidentale e i suoi costumi, e un anziano del luogo immagina profeticamente il momento in cui i mores europei (e cristiani) renderanno schiavi gli indigeni, privandoli di arti, abitudini, libertà – un processo già in atto quando nel 1847 Herman Melville narrerà nel romanzo Omoo la sua detenzione per ammutinamento nelle carceri di Papeete. “I nostri missionari hanno importato molta ipocrisia ed eliminato in parte la poesia” scrive Paul Gauguin arrivando nel 1891 a Papeete nei giorni in cui muore l’ultimo sovrano indigeno Pomaré V, e l’amministrazione passa del tutto in mano francese: in cerca di autenticità e di una compagna tredicenne, il pittore – che per i cinefili dal 2017 ha le fattezze di Vincent Cassel – scappa dunque nei villaggi dell’interno, a immaginare le Parole del diavolo (1892, Washington, Nat. Gallery) e a chiedersi Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1898; Boston, Mus. of Fine Arts).

“Tahiti è uno dei posti più belli del mondo, abitato da ladri, mariuoli e mentitori” annota Jack London nel 1911 (La crociera dello Snark). In parte stregato da Gauguin (le biografie di Maugham e Vargas Llosa), in parte vittima dei sensi di colpa coloniali (che non impediranno a Marlon Brando di acquistare un atollo, e di cederne un altro all’amico Michael Jackson), il Novecento sarà impietoso nel rappresentarne il lato oscuro: la rovina di una società pagana al cospetto degli Europei (Victor Segalen, Le isole dei senza memoria, 1907), i turisti naïf in cerca di ridicole palingenesi (Georges Simenon, Turista da banane, 1937), i mestatori pronti a creare una Disneyland esotica (Romain Gary, La testa colpevole, 1968). Tanto più prezioso il recente contributo degli autori indigeni, come Chantal Spitz che descrive in uno stile quasi “orale” L’isola dei sogni spezzati (1991): un’isola sfruttata, poco scolarizzata, e squassata dagli esperimenti nucleari francesi iniziati nel 1963 – le breaking news da Papeete nel 1995 mostravano le furiose rivolte dei locali contro le bombe e i funghi di Chirac a Mururoa.

Golpe in Mali. I militari: presto il voto

Ringrazio il popolo per il sostegno e l’affetto in questi lunghi anni, ma lo informo della decisione di abbandonare tutte le mie funzioni da questo momento”. Con queste parole, in diretta tv, ha rassegnato le sue dimissioni e sciolto parlamento e governo il presidente Ibrahim Boubacar Keita, 75 anni (nella foto), arrestato due giorni fa assieme al premier Boubou Cisse dai militari ammutinatisi nella base di Keita, a pochi chilometri dalla capitale Bamako. I soldati ora al potere hanno promesso di restaurare stabilità e democrazia a breve, con nuove elezioni. “Abbiamo deciso di impegnarci davanti al popolo e alla storia”. Sempre in tv ha annunciato la formazione del “Comitato nazionale di salvezza del popolo” Ismael Wague, portavoce dei ribelli in divisa. Il primo e unico leader designato finora dai golpisti è il colonnello Assimi Goita, a capo delle forze speciali attive nel centro del Paese, dove terrorismo e violenza etnica mietono più vittime. In seguito al colpo di Stato, il Mali è stato condannato dalla comunità internazionale e sospeso dall’Unione Africana che guarda preoccupata alle sempre più ricorrenti tensioni dell’Africa occidentale.