Biden promosso presidente dal generale repubblicano

Ci fu un tempo in cui, se aveste chiesto al giovane Barack Obama chi sarebbe stato il primo nero presidente o almeno vice-presidente degli Stati Uniti, vi avrebbe risposto Colin Powell. Poi, venne il 5 febbraio 2003: né lui né gli altri si resero subito conto che quello sarebbe stato uno spartiacque nella vita del generale che era stato il primo nero consigliere per la Sicurezza nazionale nella storia degli Stati Uniti, il primo – e il più giovane – capo di Stato Maggiore, il primo segretario di Stato.

Quel giorno, per giustificare l’invasione dell’Iraq che sarebbe avvenuta un mese e mezzo dopo, Powell presentò al Consiglio di Sicurezza dell’Onu prove – false – che il regime di Saddam Hussein produceva e possedeva armi di distruzione di massa – inesistenti–. Agli occhi del mondo, e più tardi degli americani, quel giorno Powell perse il carisma della persona di cui ci si poteva fidare, amico o nemico, repubblicano o democratico. Il generale non ha più recuperato, probabilmente neppure ai suoi occhi, prestigio e autorevolezza. Esplicito il suo endorsement di Joe Biden: ma Powell per i ‘trumpiani’ è un transfuga perduto alla causa; per i democratici di sinistra, resta quello della guerra all’Iraq.

Nel video della kermesse virtuale, il generale motiva il suo sostegno al candidato democratico: “Sin dal primo giorno ripristinerà la leadership americana e la nostra autorità morale”, riporterà nello Studio Ovale i giusti valori, “è il comandante-in-capo di cui abbiamo bisogno, si prenderà cura delle nostre truppe come della sua famiglia, non ha bisogno di essere istruito… Starà con i nostri amici e affronterà i nostri avversari, avrà fiducia nella diplomazia e nell’intelligence, non adulerà despoti e dittatori”.

Dal 2008, Powell, 83 anni, appoggia i candidati democratici: Barack Obama nel 2008 e nel 2012 e Hillary Clinton nel 2016. Ma stavolta è il suo esordio a una convention democratica. Non gli va benissimo: finisce contestato sui social come un altro ‘grande vecchio’ della seconda serata, Bill Clinton. A guidare il malcontento sono gli elettori millenials: troppo spazio agli ottantenni, poco a chi dovrà guidare il partito fra qualche anno, come Ocasio-Cortez. La contestazione al generale è guidata dal regista e attivista Michael Moore. La seconda serata della convention ha formalmente designato Biden candidato alla Casa Bianca. Dalla sua casa nel Delaware, insieme a tutta la famiglia, Biden ha ringraziato, dando appuntamento per domani notte, quando farà il discorso d’accettazione.

Al suo ex vice, Barack Obama ha twittato: “Congratulazioni!, Joe. Sono orgoglioso di te”. Nel segno del tema Leadership matters, c’è stata una serie di brevi discorsi, in cui in pratica tutti gli oratori, Clinton, Jimmy Carter con la moglie Rosalynn, Caroline Kennedy, figlia di JFK, Kerry, Powell e molti altri hanno descritto il magnate presidente Donald Trump come una persona sostanzialmente preoccupata solo di se stessa e impreparata al ruolo.

Nel minuto e poco più concessole, Alexandria Ocasio-Cortez, deputata di New York, ha sostenuto la nomination di Bernie Sanders, invece che di Biden. Ma ha poi twittato il suo sostegno a Biden, una volta divenuto il candidato del partito. La serie di interventi è stata chiusa da Jill Biden, la seconda moglie di Joe Biden, un’insegnante, che parlava da un’aula di scuola. Nonno siciliano, Jill ha ricordato la morte di Beau, il figlio di Biden ucciso dal cancro nel 2015, e lo spirito di servizio che anima e motiva Joe in tutte le sue dimensioni. Ieri sera, è toccato a Kamala Harris accettare la nomination a candidata vice-presidente.

I ragazzi del lager di Minsk. “Umiliati dagli Omon fedeli a Lukashenko”

Mani incrociate dietro la testa, seduti con ginocchia alla bocca, occhi rivolti al pavimento. È la prozedura degli Omon, la polizia anti-sommossa bielorussa che ha chiuso la gioventù ribelle di Minsk nelle sue carceri. Due hanno raccontato al Fatto cosa è accaduto loro. Ivan Makarov, 29 anni, è stato preso dalla polizia di Lukashenko il 10 agosto mentre portava acqua e cibo a chi manifestava contro la frode elettorale del presidente. “Su Telegram i ragazzi si erano dati appuntamento nei pressi delle fermate della metro”. Quando la camionetta militare dai vetri oscurati è arrivata, Ivan non è riuscito a nascondersi in una delle case che di solito danno rifugio ai manifestanti. “I militari con gli scudi dividevano la folla in piccoli gruppi che l’anti-sommossa catturava”. Trascinato in caserma con altre dieci persone, Ivan è stato pestato con il manganello dagli Omon che “si vantavano e chiedevano l’uno all’altro: tu quanti punti hai fatto? Cioè: quanti ne hai catturati? Era come nel videogioco Counterstrike”. Picchiati, appena smettevano di fissare il pavimento, gli camminavano addosso come fossero “sacchi di patate”.

“Ho tenuto le ginocchia all’altezza della bocca per ore. Poi hanno detto: toglietevi i lacci dalle scarpe, le croci dal collo. Ci hanno fatto alzare in piedi uno per uno e ci hanno filmato mentre ripetevamo nome, cognome, luogo in cui ci avevano arrestato”. Un archivio di sguardi sbigottiti dal terrore: “Ho cercato di essere obbediente perché sentivo cosa accadeva a chi non lo era: ti denudavano, ti premevano la faccia sul pavimento”. Non solo i pugni, gli arrestati hanno segni di bruciature da fili elettrici e organi interni danneggiati: “alcuni ragazzi sono stati denudati e violati con il manganello”.

Memorie sonore: delle mazze sulle sbarre e poi sulle loro teste, delle porte che si aprono e chiudono. Ivan ricorda: “Non potevo alzare lo sguardo, ma sapevo che c’erano i militari perché avevano stivali e pantaloni di colori diversi rispetto agli agenti”. Quando il mattino dopo lo rilasciano, Ivan rimette piede nelle strade furiose di una città che reclama i suoi figli, mariti, fidanzati. Ci sono ancora un centinaio di desaparecidos e negli ospedali alcuni manifestanti sono stati colpiti così forte da non poter essere riconosciuti e identificati. Stessi metodi e violenze le enumera su Telegram John Galt. Usa il nome del protagonista del romanzo distopico de La Rivolta di Atlante il pallido ingegnere digitale di nome Rodion, 27 anni, baffi biondi a bicicletta.

“Il 9 agosto ho partecipato alla protesta: alle frodi elettorali purtoppo siamo abituati, è la tradizione bielorussa”. È stato arrestato la domenica delle urne al centro commerciale Galerya quando “sono arrivati i kosmonavzy, i cosmonauti: a volte chiamiamo così i poliziotti perché sono talmente bardati da elmi e parastinchi da sembrare pronti per volare nello spazio”. Rinchiuso nella camionetta, Rodion sentiva granate ed esplosioni: “Chiedevamo cosa succedeva, se stava scoppiando la guerra”. Il protokol della tortura che subisce è uguale: ginocchia in bocca, occhi a terra. Quando Rodion li alza vede lo sguardo perduto di qualche Omon troppo giovane: “Erano i più anziani a mostrare come urlarci contro, dove picchiarci, ma gli agenti, ragazzi come noi, non erano pronti per quello che stava succedendo”. A noi ripetevano: “Chiudete la bocca, se la aprite vi aspetta il servizio speciale”. Un metodo che Rodion subisce tre volte. “Aprivano le porte della camionetta per spruzzare spray al peperoncino e chiuderle subito dopo mentre ci mancava il respiro. Un uomo piangeva perché era sceso in strada con suo figlio piccolo, rimasto solo. Un altro che era nella camionetta perdeva sangue dal cranio spaccato, si è accasciato come un morto, è stato portato via, non so se era ancora vivo”.

Tra i detenuti c’è un ragazzo ucraino che hanno picchiato più forte degli altri: “Gli dicevano: sei venuto a portare Maidan qui e rovinare il nostro Paese? C’era anche un reporter russo a cui urlavano che i giornalisti sono spazzatura umana. Ci dicevano, se lo fate di nuovo, vi mutiliamo. O vi ammazziamo”. Una delle ragazze arrestate assieme a Rodion era incinta: “L’ho sentita piangere per mezz’ora. Le dicevano: puttana perché non sei rimasta a casa a guardare la tv?”.

Rinchiuso nel carcere di Okrestina, Rodion rimane cinque giorni in una cella dall’aria viziata da sudore, paura. “Il primo giorno con quatto letti eravamo in 19, il secondo giorno 25, il terzo 27. Tenevano la luce accesa giorno e notte, un perenne stordimento. Gli arrestati continuavano ad arrivare e la polizia per fortuna si è dimenticata di noi. Sentivo i poliziotti litigare perché i secondini non trovavano più posti dove stipare persone”.

Quando hanno perso il conto dei detenuti, gli agenti hanno cominciato a enumerare i cellulari requisiti per contare i manifestanti stretti tra corridoi, celle, cantine e depositi. Sente dopo giorni l’ordine del comandante: fare liste dei nomi dei detenuti “altrimenti la folla fuori assalterà la prigione. Alla fine non c’è stato tempo, ci hanno rilasciato senza neppure un documento che io abbia subito quella violenza, quell’inferno, come se niente fosse accaduto”.

Quando ha varcato i cancelli dell’Okrestina, Rodion ha visto volontari con cibo, acqua, sorrisi, andargli incontro. In mezzo alla folla ha distinto sua moglie in lacrime che lo pensava ferito, mutilato, morto. Non ha visto uscire il ragazzo alto che aveva la schiena come un enorme cicatrice rossa e blu, quello che non stava zitto nel cortile dove li picchiavano, che diceva: “Un giorno saremo noi ad arrestarvi e arriverà il vostro turno”.

Covid, “narrazione” per gli increduli

A ogni pestilenza c’è qualcuno che va in preda al panico, ma anche qualcuno che non ci crede. L’incredulità davanti al CoViD-19 ha accomunato Trump e Bolsonaro, Boris Johnson prima maniera e la destra tedesca, frequentatori di discoteche italiane e membri dell’American Rifle Association persuasi che la libertà di portare le armi e quella di non portare la mascherina siano la stessa cosa.

Paladini di una concezione individualistica della libertà, convinti che il contagio sia un’invenzione o un’esagerazione; ma increduli sono anche pensatori “progressisti”, preoccupati della libertà collettiva e della democrazia. Questa neo-incredulità è radicalmente diversa da quella, che so, del Trecento o del Seicento, quando i meccanismi di trasmissione di un morbo erano tutt’altro che chiari, e men che mai dimostrati.

Azzardiamo una definizione: quella che vediamo fiorire intorno a noi è un’incredulità post-moderna. Presuppone la tendenza a relativizzare il valore della conoscenza, anche se obiettiva e scientifica, e la riduzione della storia a “narrazione”, da decostruire frantumandola in atomi staccati l’un dall’altro, ciascuno dei quali da solo non vale nulla. Secondo questa visione del mondo, gli interessi e gli scopi del narrante orientano l’uso dei dati, e dunque due narrazioni opposte degli stessi eventi possono essere egualmente attendibili: «i fatti non hanno che una sola esistenza, la loro formulazione linguistica» (Roland Barthes). Perciò Carlo Ginzburg, in una famosa polemica con lo storico americano Hayden White, dovette energicamente richiamare il principio di realtà che deve governare il lavoro dello storico, e lo fece ricorrendo all’Olocausto: nessuno vorrà dire che la “narrazione” dei negazionisti e quella di Primo Levi siano per noi egualmente valide.

Le pratiche postmoderne della decostruzione e il ruolo-guida delle retoriche della narrazione nacquero nell’ambito delle scienze umane, trovando un fecondo terreno di coltura nella politica. Da sempre governanti d’ogni sorta hanno mentito ai sudditi o agli elettori, ma la pretesa equivalenza d’ogni possibile “narrazione” e il ripudio del principio di verità forniscono a questa antica pratica di governo un sigillo inatteso e allargano i confini del suo esercizio: non più solo il racconto o l’interpretazione dei fatti di attualità, ma perfino le leggi della natura (a queste appartengono i meccanismi del contagio), le certezze della scienza, le competenze specifiche. E se un capo di Stato è legittimato a negare l’evidenza, perché non dovrebbero farlo anche i cittadini? Anzi, nei Paesi dove – come in Italia – il governo è più rigoroso nella lotta al contagio, l’incredulità prende i colori dell’opposizione politica, persino di un puntiglioso legalismo (i gestori di discoteche che minacciano il ricorso al Tar). Se è vero che una tal peste (la narrazione che sfratta il principio di realtà) ha preso forma nell’ambito delle scienze umane, quanto è fuori strada la “narrazione” secondo cui le scienze umane non contano più nulla!

Ma questa incredulità postmoderna davanti all’estensione e profondità della pandemia ha anche altre peculiarità. Chi sottovaluta il contagio non può ignorare che fior di medici, biologi, epidemiologi lo stanno prendendo molto sul serio, né che i Paesi che si sono decisi a un precoce lockdown, come l’Italia, ne hanno avuto palese beneficio. Se questi dati di fatto non bastano, è anche perché vengono minati alla base da una cieca fiducia nel progresso (come è mai possibile un’epidemia? Non siamo mica nel medioevo!) e da una fede astratta ma tenace nello status quo di un’economia del benessere che non potrà mai tramontare. Che questa sia anche l’economia delle diseguaglianze, dell’ingiustizia sociale, delle emarginazioni sembra meno importante. Lo status quo va anzi bene a tutti. Anche a “sinistra”, purché assicuri la libertà di criticare (a pancia piena) le iniquità e di commuoverci in coro per le sofferenze altrui. Per chi (s)ragiona così, il virus è una zeppa passeggera che inceppa i meccanismi che regolano il mondo: ma la mano invisibile dei mercati, benedetta o maledetta che sia, non potrà che trionfare. Questo (s)ragionare è anzi così diffuso da scoraggiare ogni ottimismo. No, la pandemia non ci insegnerà a rispettare l’ambiente, a ripensare gli allevamenti intensivi, a prevenire i mutamenti climatici. La panacea del vaccino è sospirata proprio e solo per tornare allo status quo ante.

Dopo 22 milioni di casi accertati e oltre 800.000 morti (dati approssimati per difetto) non è avventato dire che il contagio è un fatto, e lo sono le sue conseguenze. Il contrasto fra Paesi più attenti a circoscrivere l’infezione (come l’Italia) e Paesi irresponsabili (come il Brasile) è un altro fatto innegabile. Ed è alla luce di questi fatti che devono orientarsi azioni di governo e comportamenti dei cittadini nei prossimi mesi. Eppure, e questo è vero anche in Italia, abbiamo fatto talmente il callo al relativismo di qualsiasi notizia, e siamo così pronti ad accettare qualsivoglia fake news, che siamo facile preda di approssimazioni, facilonerie, dilettantismi d’ogni sorta, anche quando va di mezzo la scienza: lo sa bene Putin, quando solletica la nostra speranza con l’annuncio di un vaccino non ancora sperimentato.

L’incredulità post-moderna prende piede perché, mentre nega la gravità della pandemia, non prende posizione contro la scienza: piuttosto, la svilisce a “narrazione”, contrapponendole un’altra “scienza” a uso proprio. L’immunità di gregge di Johnson, le mille incoerenti sciocchezze di Trump, i prodigiosi effetti dell’idrossoclorochina secondo Bolsonaro. Senza negare la competenza degli esperti, si inventano versioni alternative, provando a imporre la propria “narrazione”.

Si sbandiera una sorta di positivismo di ritorno (la mia scienza contro la tua), che sembra reggere il gioco perché non nega la scienza, ma la manipola a suo piacimento, usando un’autorità politica per deformare cinicamente la verità scientifica. Si ricusa lo studio dei fatti nel loro concatenarsi, riducendoli invece a pulviscolo, per legittimarne ogni possibile interpretazione. Su questo sfondo, chi cambia opinione ogni ora (come Salvini) non è che l’epifenomeno di un generalizzato costume che allontana i fatti l’uno dall’altro, allenta i meccanismi di controllo, separa la conclamata fiducia nella scienza dal riconoscimento della competenza, legittima prese di posizione irresponsabili perché dettate solo da convenienza o da appartenenza politica. Un grande storico italiano, Arnaldo Momigliano, ammoniva che le divergenze intellettuali e morali nell’interpretazione dei fatti sono lecite e feconde, ma solo a patto che possano essere collegate alla verità, misurate sulla verità. Davanti a una situazione sanitaria, politica e di costume che minaccia le nostre vite, sarebbe il caso di ricordarsene.

 

Lo spiazzamento degli spiazzati dall’incognita che agita Conte

Maltrattando Marshall McLuhan, a proposito del discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini, potremmo dire che il mezzo è il messaggio. Ovvero che, per alcuni, più importante di ciò che l’ex presidente della Bce ha detto (ma soprattutto non ha detto) è che l’abbia detto. Infatti, al di là dell’innegabile autorevolezza del personaggio e del messaggio di cui si è fatto portatore, esistono due categorie della politica politicante che, alla notizia di Draghi parlante, entrano in vibrazione: a) quelli speranzosi che dica qualcosa a favore delle scelte economiche del governo Conte (ma sono una piccola minoranza); b) quelli speranzosi che dica qualcosa contro le scelte economiche del governo Conte (e sono i più). Ovviamente Draghi si è tenuto lontanissimo da qualsiasi giudizio sul premier chiarendo subito che il suo sarebbe stato un “messaggio di natura etica”, definizione che per i notisti politici equivale a una martellata sull’alluce. Infatti così ha disorientato l’intera categoria b) che immaginiamo impegnata a decrittare perfino la punteggiatura del Draghipensiero, metti caso che da una virgola si disvelasse un monito. Purtroppo vanamente a giudicare dal titolo di Repubblica, in precario equilibrio tra un vaticinio e un periodo ipotetico del secondo tipo: “L’incognita Mario che agita Conte”. Quanto alla prima riga: “Il governo spiazzato”, nel silenzio agostano ne abbiamo cercato traccia nel ministro Boccia che (apparso ad “Agorà” davanti a un muretto a secco e in un frinire di cicale) ha serenamente definito il discorso “costruttivo e utile” (che nella classifica degli “spiazzamenti” si gioca l’ultimo posto con il “contributo utile al dibattito”). È vero che intervistato da questo giornale Giuseppe Conte si è detto d’accordo sulla necessità di rafforzare l’area dell’euro e il futuro dei giovani, un commento anch’esso così garbatamente “etico” che ha finito per spiazzare anche la mia intenzione di occuparmi delle ambizioni quirinalesche di Draghi. Che considerata la natura del personaggio sarebbe come una polemica sul sesso degli angeli a Bisanzio. La prossima volta, giuro, mi atterrò al testo.

Gli articoli su Romiti: due episodi rivelatori

A leggeretutti i coccodrilli, due cose di Cesare Romiti non andranno perdute: che dava del lei all’Avvocato e che al suo funerale (il funerale dell’Avvocato) rimase ostinatamente in piedi, al centro della chiesa, senza curarsi delle proteste di tutti quelli che per colpa della sua schiena, piantata lì in mezzo, non riuscivano a vedere l’altare.

Ma siccome se li ricordano proprio tutti, riassumendo in cento righe i quasi cento anni di Romiti, ci deve essere per forza un nesso tra i due dettagli all’apparenza così trascurabili. Il primo indica disciplinata deferenza verso il potere e la grazia del principe. Una soggezione persino infantile.

Il secondo, al contrario, mostra l’ostinata, quadrata indifferenza verso tutti gli altri, i congiunti, gli amici, che anche nella penombra consolatoria del rito funebre, interferivano con quel rapporto esclusivo tra lui e il suo principe. Una arroganza persino spavalda che poi fu la cifra più ammirata e più detestata del suo carattere in pubblico. È solo coniugando i due dettagli che scopriamo quanto il primo, in privato, nutrisse il secondo: c’è sempre un bimbo spaventato alla radice di ogni grande dittatore. O di un mediocre prepotente.

Borsa Italiana, così facciamo solo un favore ai francesi

Nei giorni in cui per la prima volta Apple sfonda la capitalizzazione simbolica dei 2mila miliardi di dollari, in Italia si discute sul futuro di Borsa Italiana che capitalizza meno di un terzo della blue chip di Cupertino. A 24 anni dalla sua privatizzazione e a 14 anni dalla cessione alla Borsa di Londra, Piazza Affari è di nuovo in vendita: questa volta è il London Stock Exchange a cercare un compratore. I 3,3 miliardi che il mercato londinese punta a incassare serviranno a finanziare parte dei 27 miliardi di dollari necessari a comprare Refinitiv, provider di servizi finanziari controllato al 55% da Blackstone e al 45% da Thomson Reuters. L’operazione potrebbe andare in porto grazie a Euronext, la principale Borsa europea per capitalizzazione (oltre 4.300 miliardi, 8 volte Milano e più del doppio di Francoforte) che gestisce i mercati di Parigi, Amsterdam e Bruxelles e che come primo azionista con l’8% ha Caisse des Depots. Per acquistare Borsa Italiana, ai francolandesi però mancherebbe una parte della cifra chiesta da Londra. I soldi sarebbero offerti da Cassa Depositi e Prestiti che investirebbe qualche centinaio di milioni di risparmio postale pur di garantire il ritorno sotto il controllo nazionale (formalmente privato, ma di fatto pubblico) di Mts, il mercato dei titoli di Stato. Il progetto vedrebbe come azionisti un gruppo di soci italiani (Cdp e Intesa Sanpaolo in primis) al 50% e per l’altra metà Euronext, con la gestione in mano ai primi.

Ma c’è modo e modo di investire i risparmi dei clienti delle Poste per riportare in Italia il controllo di un mercato giudicato “di interesse nazionale”. Una cosa sarebbe se Euronext effettuasse un aumento di capitale riservato a Cdp e ai soci italiani di Borsa, dandogli voce in capitolo nel nuovo gruppo. Cosa ben diversa sarebbe invece finanziare Parigi senza contropartite di governance realizzando di fatto solo un favore alla Francia.

Rep, di tutto di più. C’è spazio anche per Siniscalco, l’ex ministro di B.

Che la svolta di proprietà (e di direzione) avesse portato una bella ventata d’aria fresca a Repubblica lo si era intuito. L’arrivo degli Elkann e di Maurizio Molinari ha reso abitudine gli ammiccamenti al mondo delle imprese e le picconate al governo Conte, come a sognare un esecutivo molto tecnico e molto Mario Draghi. Era difficile però immaginare che il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari potesse divulgare la propria linea editoriale in economia attraverso la lodevole firma di Domenico Siniscalco, che ieri ha debuttato tra gli editorialisti di Rep e che – i più attenti lo ricorderanno – tra il 2004 e il 2005 fu ministro dell’Economia e delle Finanze di Silvio Berlusconi. Lo stesso Berlusconi – non si tratta di omonimia – di cui Repubblica in quegli anni si vantava di essere fiera opposizione. Ma i tempi mutano anche per il (fu) giornale della (fu) sinistra. E non si capisce chi dei due (il giornale, la sinistra) abbia fatto la metamorfosi più radicale.

Mail box

 

Non dimentichiamoci dei furbastri del bonus

Egregio dottor Travaglio, come lei ben sa, la memoria di noi italiani è molto corta e, passata la corale indignazione per i furbastri dei 600 euro, tutto sarà coperto dall’oblio. La mia richiesta è che il Fatto Quotidiano continui a pubblicare (se non ogni giorno, quasi) articoli che ci ricordino e mettano in evidenza, almeno fino al 20 settembre, ogni aspetto della vicenda: etico, politico, sociale, deontologico. Confido nella sua conosciuta e apprezzata lotta alla corruzione e al malaffare.

Oronzo Balestra

Caro Oronzo, tranquillo: noi non molleremo finché l’Inps non avrà reso noti tutti i nomi degli accattoni.
M.Trav.

 

Gli esponenti di destra ripassino la legge Scelba

Allo splendido articolo di Maurizio Viroli sull’attuale destra e il fascismo mai sotterratto dai suoi massimi esponenti (tralasciamo per pietà di parlare dei tantissimi picchiatori travestiti da sostenitori) vorrei aggiungere questa nota. “Si parla di fascismo quando una associazione o movimento persegue finalità antidemocratiche esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista e rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del regime fascista”. Parole chiare e nette che si leggono all’articolo 1 della legge 10 giugno 1952 n. 645 meglio nota come legge Scelba. Solo quando tanti personaggi dell’attuale destra nostrana avranno il coraggio di leggerle nelle loro manifestazioni di piazza si potranno definire democratici.

Oreste Ferri

 

Salvini critica tutti, tranne se stesso

Lunedì 17 agosto Salvini, ospite di Parenzo e Telese nella trasmissione In Onda, ha chiesto al presidente del Consiglio di dare delle “certezze” alle persone (un’impresa nella quale neanche i filosofi in duemila anni di Storia avevano mai osato cimentarsi); e ha accusato il governo di “cambiare idea ogni quarto d’ora” sulla chiusura e l’apertura dei locali ad alto rischio di assembramento. Proprio lui che nella fase più delicata per la diffusione del contagio affermava: “Forse qualcuno avrà capito che è meglio chiudere prima che il disastro sia totale?” (23 febbraio); per poi ripensarci pochi giorni dopo: “Bisogna aprire fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti e centri commerciali” (27 febbraio); per non parlare delle sue dichiarazioni contraddittorie sulla necessità di portare la mascherina. Lo scrittore premio Nobel George Bernard Shaw diceva che “chi non può cambiare idea non può cambiare nulla”. L’auspicio di molti italiani è dunque che Salvini continui a cambiare idea continuamente, ma che lo faccia sempre dai banchi dell’opposizione, senza poter cambiare nulla di fatto e senza poter fare danni, perché affidare a lui la battaglia contro il virus sarebbe come affidare – direbbe Montanelli – “ad Abu Nidal la crociata contro il terrorismo e a Cicciolina quella contro la pornografia”.

Jacopo Ruggeri

 

La falsa rivalità distorce i rapporti politici

Caro Direttore, volevo evidenziare un aspetto della politica: la falsa rivalità. Nella prima repubblica il Pci e la Dc con i loro scontri pasturavano i rispettivi elettorati ma insieme hanno contribuito a formare una casta politica piena di privilegi e tante altre belle cose che lei conosce meglio di me. Nella cosiddetta seconda Repubblica parte della sinistra ha sfamato i propri elettori con la lotta a Berlusconi e, pur avendone avuta l’occasione, non gli ha mai strappato un capello. Per non parlare adesso del Pd e della Lega che si offendono spesso con un linguaggio decaduto e volgare ma votano insieme il Tav e altre nefandezze simili.

Marco

 

DIRITTO DI REPLICA

Buongiorno, vi invitiamo a voler rettificare titolo e pezzo in pagina martedì a firma Tomaso Montanari, dal momento che Milano non è affatto “in svendita” e nessuna “opera”, né “bene inalienabile” è uscito dal Castello Sforzesco per essere messo in vendita. La Galleria d’arte di Parigi, dopo essere stata diffidata il 12 agosto dai funzionari del Castello Sforzesco a utilizzare sul suo catalogo la dicitura “provenienza Sala delle Asse del Castello Sforzesco”, ha prontamente ammesso l’errore impegnandosi a correggere il testo. Siamo in attesa di riscontro dalla Galleria di Monaco (chiusa fino al 24 agosto) che è stata ugualmente diffidata. Bbpr ha lavorato negli Anni 50 e 60, epoca della riproducibilità tecnica e delle economie di scala, e le imprese private producevano già oggetti e arredi in serie, anche su disegno di importanti designer. Se contattati, avremmo volentieri fornito queste informazioni.

Ufficio stampa Comune di Milano

 

Spero ovviamente che il Comune di Milano abbia ragione. Tuttavia, alcuni degli eredi dei Bbpr escludono che almeno le panche avessero anche una produzione commerciale. Mi permetto di continuare a essere preoccupato finché un’ispezione Mibact non confermerà che tutti i pezzi del Castello sono in deposito. E comunque, nonostante diffide e smentite, i siti dei due mercanti d’arte continuano a confermare l’incredibile provenienza.

Tomaso Montanari

Mario Draghi“Santo o diavolo?”. “Quante banalità al Meeting di Cl”

 

Eccellente Marco Travaglio, magistrale la tua rappresentazione dell’insulsa piaggeria ed elogio sperticato dei giornaloni sulle (intenzionali) “banalità” di Draghi. Detti giornaloni oltre a essere dei furbastri e pasticcioni sono anche poco lungimiranti. Infatti il loro scopo è unicamente quello di spazzare via questo governo facendo leva su Draghi. Senza tener conto che Draghi, oltre a essere capace e autorevole, è anche e soprattutto, una personalità onesta, razionale ed equilibrata, e quindi, se dovesse in futuro presiedere il governo, di sicuro adotterebbe molti provvedimenti non di gradimento da parte di coloro che ora lo elogiano, i quali – minacciati nei loro biechi interessi – strepiterebbero e ruggirebbero come dei ladri inseguiti dai poliziotti.

Piero Angius

 

Negli ultimi tempi la “stampa nazionale” santifica Mario Draghi, raccontando la sua presunta vicenda professionale! Strano è che tutti dimenticano che Draghi ha ricoperto per alcuni anni il ruolo di managing director per l’Europa della Goldman Sachs colpevole insieme alla L. Brothers della bolla finanziaria 2008. Caro direttore può dirci chi è Draghi: un santo UE o un diavolo USA che rispetta solo gli interessi delle banche e affossa i popoli UE?

Giulio Pinto

 

Tra saggezza e banalità il confine è sottile. Lo ha confermato anche Draghi, con il suo intervento al Meeting di Rimini, dove più di una volta è scivolato nell’ovvio, colpa anche del contesto. Per esempio, “Bisogna dare di più ai giovani” è un concetto condivisibile, ma andrebbe bene anche declinato verso i vecchi, le donne, i bambini. Sarebbe stato più interessante se avesse indicato dove trovare i soldi per aiutare i giovani. Magari sbilanciandosi fino ad accusare gli evasori fiscali di generare disuguaglianza sociale, privando lo Stato delle risorse ingenti che richiedono i servizi pubblici per il riequilibrio sociale. Peccato per questa occasione persa, ma la chiarezza senza denuncia è solo intrattenimento.

Massimo Marnetto

 

Che delusione Draghi al meeting di CL a Rimini! Pensavo che avesse una maggiore indipendenza intellettuale e politica da questa consorteria clerical-affaristica. In ogni caso, non mi sembra la figura adatta a sostituire né Conte né Mattarella.

Guido Bertolino

Milano Next, tolto il segreto sul futuro dei trasporti in città

Da oggi la politica è un po’ più trasparente. Gli atti sui progetti del Comune, richiesti da un consigliere, non possono più restare segreti. Non possono essergli rifiutati. Lo ha stabilito una sentenza del Consiglio di Stato che ieri ha ribaltato una pronuncia opposta del Tar della Lombardia. Tutto merito di Basilio Rizzo, storico consigliere dell’opposizione di sinistra e verde a Palazzo Marino, fin dai tempi di Tangentopoli e della Milano da bere, che oggi sostiene la maggioranza di centrosinistra del sindaco Giuseppe Sala, ma continua le sue battaglie di sinistra e verdi per la trasparenza e la legalità, anche quando scontentano i suoi alleati.

Rizzo, dunque, un anno fa, il 29 agosto 2019, ha chiesto al Comune di Milano gli atti di una operazione in corso che riguarda Atm, l’azienda dei trasporti pubblici: la nascita di Milano Next, un consorzio che dovrà unire Atm e altre società, A2a Smart City, Hitachi Rail Sts, Busitalia, Commscon Italia e IgpDecaux. Sono aziende fornitrici di Atm che saranno riunite sotto lo stesso tetto per la gestione del trasporto pubblico cittadino. Basilio Rizzo voleva vedere chiaro nell’operazione e ha chiesto gli atti. Il 3 settembre 2019 l’amministrazione del Comune gli dice no: sono segreti, riguardano una azienda (Atm) che ha ancora in corso l’operazione, li potrai conoscere quando i giochi saranno fatti. Ma come – risponde Rizzo – l’Atm è interamente controllata dal Comune di Milano. Com’è possibile che gli eletti dai cittadini proprio per guidare e controllare l’operato del Comune non possano avere accesso ai documenti su operazioni importanti che possono cambiare i servizi offerti alla città?

Accanto a Basilio scendono in campo due avvocati milanesi di grande competenza, Stefano Nespor e Federico Boezio. Presentano un ricorso al Tar lombardo, che lo respinge. Non demordono, ricorrono al Consiglio di Stato. E ieri questo dà loro ragione.

“È una sentenza importante che sancisce il diritto del consigliere comunale di poter esaminare tutti gli atti che consentono lo svolgimento consapevole ed efficace del proprio mandato”, commenta Rizzo. “Per me è un principio ovvio e scontato che chi è stato eletto dai cittadini per rappresentarli possa e debba aver accesso agli atti della pubblica amministrazione. Ma non per la pubblica amministrazione stessa, che ce li aveva rifiutati. Spiace che questo diritto fondamentale di chi è eletto dai cittadini debba essere ottenuto tramite un ricorso e una sentenza e non come prassi naturale. Spiace soprattutto che questo sia potuto avvenire in una amministrazione che a parole si richiama alla correttezza e alla trasparenza”.

Da oggi, alle parole dovranno seguire i fatti. E questo varrà non solo per Milano, ma per tutti i Comuni e tutte le amministrazioni pubbliche. “Dobbiamo quindi al Consiglio di Stato”, continua Rizzo, “la tutela (speriamo in futuro non più messa in discussione o aggirata) di un diritto fondamentale valido non tanto per un singolo consigliere ricorrente, ma per ogni eletto a Milano o negli altri Consigli comunali”.

E ora, vinta la battaglia della trasparenza, Rizzo si prepara alla battaglia di sostanza: che cosa c’è dentro quelle carte che si voleva restassero segrete? Che cos’è quell’accordo che consegna il trasporto pubblico milanese a Milano Next? Perché l’Atm del direttore generale Arrigo Giana ha voluto questo consorzio? Perché rinunciare a un pezzo di controllo sul servizio di trasporto pubblico, sposandosi con aziende private che sono fornitrici di Atm? È un sistema per non fare più gare pubbliche, ma concedere per affidamento diretto, senza gara, non soltanto la concessione per il trasporto cittadino, ma anche tutte le forniture future?