Referendum, le ragioni del “no”: il taglio snatura il Parlamento

Caro direttore, le ragioni del referendum costituzionale sono quasi ignote. Sull’onda del populismo montante si è individuato nel taglio dei parlamentari l’obiettivo n.1. Sì, i parlamentari hanno fatto poco per provare il loro ruolo decisivo per la democrazia, votando il taglio del 36,5% per opportunismo, incapacità di opporsi e obbedienza ai capi.
Tuttavia il ruolo del Parlamento va al di là dei suoi componenti, che possono essere non adeguati, perché la nostra democrazia, fondata sulla Costituzione, non sarebbe più tale senza il suo asse portante.

I colpevoli? Anzitutto leggi elettorali che assegnano da anni ai capi partito la nomina di deputati e senatori e l’hanno tolta ai cittadini che non possono scegliere chi verrà eletto. Gli attuali partiti sono in sostanza macchine elettorali e di potere, incapaci di un confronto politico sulle scelte per il futuro.

Tagliare il Parlamento non gli ridarà un ruolo centrale, anzi peggiorerà la situazione. Il Parlamento dipinto come casta serve a nascondere il ruolo accresciuto del potere dei governi. Il maggior potere dell’esecutivo è a spese del Parlamento, che è sottoposto alla grandinata dei decreti, dei voti di fiducia, sotto la minaccia costante di una crisi e di elezioni anticipate. Il Parlamento è ridotto a ratificare le decisioni del governo che ne dilatano il ruolo e che da controllato diventa potere imposto alla rappresentanza, lo dimostrano provvedimenti monstre e leggi approvate senza nemmeno essere lette.

Il M5S vuol mettere alla gogna il Parlamento, mentre il suo ruolo dovrebbe essere rilanciato, dimenticando che ruolo di governo e potere lo hanno assimilato sempre più alla cosiddetta casta. Il Movimento è succube di una ideologia che ha spinto Davide Casaleggio a parlare di un prossimo superamento del Parlamento, offrendo una cornice teorica che rende inquietante il taglio attuale. Il resto della maggioranza ha subito la scelta sull’altare del governo, capovolgendo posizioni precedenti. In campagna elettorale per il No basterebbe ricordare le ragioni dei voti contrari iniziali di Pd e Leu.

La Costituzione non doveva entrare in un accordo di governo. Così è evidente che il M5Stelle ha modificato posizioni precedenti, ora perfino i due mandati e le alleanze con partiti. La nuova maggioranza ha votato il testo concordato dalla precedente maggioranza Lega-5S con in cambio improbabili riequilibri: altre modifiche costituzionali e una nuova legge elettorale, dimenticate per un anno.

La discussione sul taglio del Parlamento è immiserita da una ridicola promessa di risparmio proprio quando l’Italia aumenta il deficit di 100 miliardi e avrà aiuti europei per centinaia di miliardi. Nessun serio accenno al rilancio del ruolo del Parlamento. Non a caso la destra ha riesumato il suo vecchio obiettivo presidenzialista, raccogliendo firme, chiedendo pieni poteri, per arrivare a un Presidente non più garante ma capo della fazione vincente. L’assetto attuale del Parlamento è immodificabile? No. A condizione che sia parte di un rilancio del suo ruolo e della democrazia.

Il confronto europeo non lascia dubbi, l’Italia ha un rapporto eletti/elettori in linea con i grandi Paesi europei. Per gli altri il confronto è fin troppo favorevole, soprattutto se è tra le “camere basse”. Resta il problema delle camere alte. Non tutti le hanno e le origini sono diverse. In Italia se ne è discusso senza trovare consensi sufficienti. Nel 2016 fu bocciata la proposta Renzi. Se vincerà il No sarà sempre possibile ragionare su una differenziazione dei compiti, mentre se il taglio passerà avremo due Camere con poteri identici ma con numeri che ne renderanno difficili funzionamento e ruolo. Sarà impossibile la proporzionalità al Senato in almeno nove Regioni. Il taglio del Parlamento limiterà la presenza a tre, massimo quattro partiti, gli altri elettori non saranno rappresentati e tanti territori, più gli italiani all’estero, saranno sotto rappresentati. Fermare il taglio era meglio, bocciarlo il 20/21 è indispensabile.

 

Cossiga il losco: picconò soltanto il cambiamento

Come se gli italiani non avessero altro a cui pensare alcuni giornali si dedicano in questi giorni alla celebrazione dei dieci anni dalla morte di Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992.

Francesco Cossiga è passato alla Storia, pardon alla cronaca, perché con la Storia non ha nulla a che vedere, come il “picconatore” che contribuì a far cadere la Prima Repubblica. È una leggenda metropolitana. Se “picconò” mai qualcosa, fra il 1990 e il 1992, quando era capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando e quella parte della magistratura che faceva i primi passi per richiamare la classe dirigente a quel rispetto delle leggi cui tutti noi normali cittadini siamo obbligati, mentre difese fino all’ultimo i socialisti che della sozzura partitocratica erano considerati l’emblema. Poiché lo criticavo sull’Europeo mi invitò al Quirinale. Fu, devo dire, un incontro piacevole durante il quale mi mostrò anche i suoi soldatini. Benché fosse stato riformato al servizio di leva, o forse proprio per questo, aveva una passione smodata, e come si scoprirà in seguito non del tutto innocente, per le divise, i militari, le forze armate, i servizi segreti più o meno deviati . Tanto che nel 1961 si era fatto nominare capitano di corvetta da Giuseppe Gronchi e nel 1972 capitano di fregata da Giovanni Leone, finché nel 1980, nonostante le sue disperate resistenze, i comandi militari posero fine a questa farsa. Ma questi sono forse peccati veniali di un narciso impenitente. Durante quell’incontro gli chiesi perché mai difendesse i socialisti. “O bella”, rispose, “perché i socialisti difendono me”. Che non è esattamente un modo di ragionare da Presidente della Repubblica a cui il ruolo impone l’imparzialità. Ma qui siamo ancora nell’ambito dei peccati veniali, chiamiamoli da Purgatorio. Nel 1994 Gianfranco Miglio nel libro Io, Bossi e la Lega raccontò che il 26 maggio del 1990, pochi giorni dopo l’affermazione della Lega di Bossi alle amministrative, Cossiga, allora capo dello Stato, aveva telefonato a Gianfranco Miglio, che della Lega era la mente pensante, soffiandogli nella cornetta in tono concitato: “Di’ ai tuoi amici leghisti che sono indignato con loro: devono piantarla. Non mi mancano i mezzi per persuaderli. Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E, quanto ai cittadini che votano per la Lega, li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia; anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire!” (Io, Bossi e la Lega, pag. 27, Editore Mondadori). Un fatto di una gravità inaudita, che Cossiga non smentì mai, e che, con la complicità dei media, i soliti media, passò praticamente sotto silenzio. Eppure quell’intervento di Cossiga era da Ghepeu o da Gestapo. Tuttora l’episodio è poco noto. Più nota, forse perché più folcloristica, è la serqua di insulti che tra il 1990 e il 1992 Cossiga cominciò a rovesciare, nel modo più sgangherato e volgare, su uomini politici e non con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “piccolo uomo e traditore” (il dc Onorato), “cappone” (il dc Galloni), “zombie con i baffi” (il pds Occhetto), “poveretto” (il dc Flamigni), “analfabeta di ritorno” (il dc Zolla), “emerito mascalzone, piccolo e scemo” (il dc Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana” (Wallis, caporedattore della Reuters) e, infine, un onnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all’intero Parlamento. Da allora si aprirono le cateratte e fu una serie di messaggi trasversali, cifrati, allusivi, intimidatori, secondo il suo miglior stile. Per giustificarlo si cominciò a dire che Cossiga era matto e gli inglesi lo soprannominarono “lepre marzolina”. Purtroppo matto non era affatto, intimidire e cospirare, come si evince tra l’altro dall’episodio raccontato da Miglio, stava nel suo dna. È stato Cossiga l’artefice della formazione paramilitare, parallela e clandestina, chiamata Gladio a servizio della Cia.

Francesco Cossiga è stato il peggior Presidente della Repubblica italiana? Non so. Forse in questa gara lo precede Sandro Pertini, il “presidente più amato dagli italiani”, che negli ultimi anni era andato fuori di melone (il vecchio Pietro Nenni diceva: “A me ha preso alle gambe, a lui alla testa”). Certamente è stato il più losco.

 

Da “Matrix” agli gnostici, basta con la visione “profilattica” del mondo

Un’opera d’arte trascende sempre le intenzioni dell’autore, se è vero che l’Io non è padrone in casa propria; e in una macchia sul muro puoi vedere teste d’uomini, animali, battaglie, paesaggi, tanto che Leonardo, nel suo Trattato della Pittura, consigliava questa pratica agli artisti “perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni”.

Lilly e Lana Wachowski, creatrici transgender di Matrix, oggi vedono del loro capolavoro una metafora dell’esperienza transgender; ma questa spiega ideologica è insoddisfacente, dato che Matrix entra in risonanza anche con chi transgender non è. La forza del film, dimostrano gli specialisti, deriva da una trama antica, che accomuna Matrix a Westworld, Twin Peaks, Eraserhead, Mulholland Drive, Donnie Darko e Fight Club (nessuno dei quali è una metafora transgender): l’eresia gnostica. Per gli gnostici, il mondo fu creato dal Demiurgo, un entità malvagia; la prigione della realtà è controllata dai suoi Arconti; solo chi raggiunge la conoscenza sulla prigionia cui è condannato in questo mondo può liberarsene, e raggiungere il vero Dio, creatore della realtà spirituale; Gesù è stato mandato per aiutare, portandolo alla verità e al bene, chi cerca la conoscenza; inoltre, Gesù salva Sophia, l’incarnazione della saggezza: emanata da Dio, se ne era allontanata, generando il Demiurgo. In Matrix, Neo è una sorta di Gesù gnostico, l’Oracolo è Sophia (infatti dirà a Neo che l’ha resa di nuovo “credente”); col suo sacrificio finale, Neo porta la pace nel mondo controllato dalle macchine: una nuova alleanza. Paradossalmente, il più gnostico di tutti è il malvagio agente Smith, che anela a un’esistenza del tutto incorporea. La suggestione della mitologia gnostica poggia sul purismo, una scorciatoia psicologia che semplifica la complessità del mondo attribuendo il bene e il male a realtà separate. La caduta peccaminosa dall’Eden è purista, come la distinzione fra corpo impuro e anima perfetta: in attesa della morte, che ci libererà dal corpo difettoso, i catechismi prescrivono pratiche di purificazione (abluzione, fioretto, voto, cilicio).

Da questo punto di vista, ogni ideologia religiosa è reazionaria, poiché considera progresso solo il ritorno a un’origine idealizzata. Il pregiudizio cognitivo che cagiona la dicotomia antica fra anima splendente e corpo cariato ci fa pure connotare positivamente ciò che è “profondo” rispetto a ciò che è “superficiale”: ne siamo così condizionati che ci sembra paradossale affermare il contrario, come fa Oscar Wilde: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”. È un tic che ritroviamo in Freud, il cui studio dell’inconscio è “psicologia del profondo”; e in Chomsky, che distingue la struttura superficiale della frase da quella profonda. La visione profilattica dell’essere (è sporco e va pulito) permetterà agli ideologi nazisti le loro aberrazioni razziste, che ritroviamo nelle grida contemporanee contro gli immigrati untori. Quei film, involontariamente, finiscono per corroborare certi pregiudizi cognitivi, da cui è necessario liberarsi, viste le conseguenze; e per temperare questa ennesima versione di Neo, quella satirica (la satira come liberazione), meglio fare tesoro della lezione di Lenny Bruce: “La realtà è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere”. Riconoscere che l’uomo è ambiguo (perché, come la realtà, è continuo cambiamento) è il primo passo per uscire dalla dicotomia purista e dalle sue derive integraliste.

1. Continua

 

Discoteche, vietare non serve

Per senso civico, soprattutto durante l’emergenza Covid-19, ho sempre evitato di esprimere pareri che potessero indurre a comportamenti fuori dai provvedimenti governativi. Molte misure, a volte poco comprensibili ai cittadini, hanno avuto una loro logica strategica, ma l’ultima ordinanza del ministro della Salute ne comprende alcune veramente inspiegabili anche a un tecnico. Il provvedimento, in vigore dal 17 agosto, fra l’altro prevede: sospensione delle attività del ballo, all’aperto e al chiuso, che abbiano luogo in discoteche e in ogni altro spazio aperto al pubblico; obbligo di mascherina anche all’aperto dalle 18 alle 6 nei luoghi dove c’è rischio di assembramento. Mi chiedo se chi ha consigliato al ministro Speranza di introdurre questa misura abbia preso in considerazione una serie di fattori non trascurabili. Non intendo parlare dell’aspetto economico, ampiamente dibattuto, ma invito a focalizzare l’attenzione sullo scopo preventivo-sanitario del provvedimento.

Credo che, se non si procede con la responsabilizzazione e l’educazione, soprattutto per i giovani, si fallisca inesorabilmente. Fatta la legge, trovato l’inganno. Un provvedimento così drastico, che li colpisce direttamente, rischia di stimolare una reazione di sfida. I ragazzi continuano a riunirsi privatamente (è legale), creando assembramenti molto più importanti di quelli nelle discoteche, dove, peraltro, c’è un certo controllo. Esistono dati importanti sulle conseguenze degli interventi proibitivi e sul rapporto dei giovani con le proibizioni. Basti guardare alle sigarette. I ragazzi che fumano sono raddoppiati negli ultimi trent’anni, durante i quali si sono intensificati i divieti. L’alcool è un altro esempio. In una situazione di emergenza, rinunciare a responsabilizzare i giovani è un’occasione perduta per sempre.

Vogliamo poi parlare dell’obbligo di indossare le mascherine dalle 18 alle 6? Mi sono sforzata a trovarne una giustificazione: mission impossible. Abbiamo un virus da spiaggia, uno da ristorazione, uno da volo aereo, adesso anche uno notturno? Il provvedimento non solo è assurdo, ma è anche fuorviante. Dalle 6 del mattino alle 18 possiamo stare tranquillamente in assembramenti senza mascherina?

 

Nuovi lavori: l’esegesi biblica applicata ai discorsi di Draghi

Non c’è giorno più bello per leggere i giornali di quello che segue un intervento di Mario Draghi, ormai una sorta di patrono d’Italia, un Papa col curriculum: ogni sua enciclica viene tirata di qua e di là per fargli dire qualcosa, esercizio spesso possibile in quanto dentro c’è poco o niente. Dunque, breve riassunto dell’orazion picciola tenuta per i ciellini: è un periodo di incertezza e l’incertezza non va alimentata; bene i sussidi, ma non durano per sempre quindi bisogna investire in istruzione e infrastrutture (pensare ai giovani); c’è il “debito buono” che aiuta la crescita e il “debito cattivo” che non lo fa (assumere insegnanti è spesa corrente, “buono” o “cattivo”?); il futuro va progettato senza inseguire il consenso; ci vuole trasparenza; l’Europa è cambiata, ma l’Italia sia responsabile. Brevi cenni sull’universo diventati sui giornali cose tipo “La ricetta di Draghi” (CorSera) o “Il manifesto per la crescita” (La Stampa). Ora, in breve, il lavoro di alcuni esegeti.

Premier. “Draghi è una risorsa e una riserva della Repubblica a cui attingere nei momenti di difficoltà e questo è un momento difficile” (Pier Ferdinando Casini)

Presidente. “Draghi non è stupido, non andrebbe mai a guidare una coalizione che è una gabbia di matti dove a dettare legge è Di Maio. Lui è l’uomo giusto per il Quirinale, nel 2022” (Bruno Tabacci)

Capo dell’Ue. “Sarebbe però superficiale pensare che Draghi lavori per ottenere un ruolo in Italia (…) Ora Mario Draghi è altro: è la prima riserva dell’Ue” (Il Giornale)

Sussidi. “Rileggendo a mente fredda il suo discorso, già alla decima riga troviamo che Draghi inchioda il governo Conte e la parola-martello questa volta è sussidi” (CorSera)

Questa è la riga 10: “In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire”.

Numeri. “Subito è stato l’avverbio maggiormente usato da Draghi” (Il Messaggero)

Due volte in tutto…

Date. I giallorosa continuano “a scambiarsi minacce sul voto di settembre. Che cade, guarda caso, il 20 del prossimo mese: 25 giorni prima del 15 ottobre, giorno in cui l’Europa attende i piani relativi ai finanziamenti e ai contributi concessi all’Italia” (Stampa)

In realtà il 15 ottobre va mandata a Bruxelles la legge di Bilancio 2021: sul Recovery Fund manca ancora l’accordo tecnico, dunque non c’è alcuna data già stabilita, ma vabbè.

Parole. “Il problema in Italia viene dopo le parole. È l’execution» (Carlo Bonomi, Confindustria)

No, non c’è speranza.

Eh? In prima pagina su Repubblica: “Draghi sorprende il governo”. A pagina 3: “Il governo spiazzato. L’incognita Mario che agita Conte”. Svolgimento: “Draghi ha finito di parlare in tarda mattinata, eppure per ore il flusso delle agenzie giornalistiche non ha restituito dagli alti ranghi del governo alcun commento alle sue parole (…) E Conte? (…) Certo non potrà riporre l’agenda dettata dall’ex numero 1 della Bce nell’ultimo cassetto della scrivania (…) Forse l’ombra di Draghi può aiutare i fautori dell’operazione a ottenere un rimpasto più gradito e più efficace (…) Ma è un’ombra, almeno fin qui, più millantata che reale”.

Prego?

Bozze. “Mattarella parla di idealità, visione, concretezza. Entrambi descrivono dell’Italia (sic) come di un Paese da ricostruire (…) Si intuisce che i due si sono scambiati le rispettive bozze” (La Stampa)

Lei dice? “Draghi si rivolge ai giovani: Basta coi sussidi, imparate un mestiere” (Libero)

Lo sanno. “Il Draghi pensiero è presto spiegato, e non c’è niente di particolarmente originale (sic), se non fosse che detto da lui l’effetto è diverso” (La Stampa).

Con quella bocca può dire ciò che vuole.

Altri soldi alla Fiera. Sarà l’ambulatorio più caro del mondo

Un poliambulatorio costato la bellezza di 17,1 milioni. È la seconda vita dell’Astronave di Guido Bertolaso alla Fiera di Milano. Travolta dalle polemiche per l’inutilizzo della struttura edificata con le donazioni di migliaia di cittadini e imprese, la Regione Lombardia ha elaborato un complicato “piano di riserva” per la cattedrale nel deserto che giace inerme al Portello. Con la nota G1.2020.0028782 del 6 agosto scorso – documento riservato che Il Fatto ha potuto visionare – la Direzione generale Welfare (cioè l’assessore Giulio Gallera) ha imposto al Policlinico di Milano di redigere un “progetto finalizzato a garantire l’erogazione di prestazioni specialistiche ambulatoriali presso il Padiglione Fiera Milano City”.

Dovranno così trovare posto almeno nove ambulatori: dalla ginecologia, alla cardiologia, dall’urologia alla dermatologia. Tutto fuorché i decantati 221 letti di terapia intensiva (che poi sono meno, visto che per completare l’ultimo padiglione da 64 postazioni servono 7 milioni di euro, chiesti dal Pirellone al governo). Letti che alla fine costeranno 109 mila euro l’uno ma saranno messi da parte fino a un’eventuale nuova emergenza.

La ratio, secondo Gallera, è offrire in Fiera le prestazioni congelate nei primi sei mesi dell’anno causa Covid, “caratterizzate – scrive – da tempi d’attesa particolarmente elevati”. Non è dato sapere perché il Policlinico, oggi operante non in condizioni di emergenza, con tutti i sanitari disponibili e le terapie intensive vuote, abbia bisogno di nuovi spazi. Di sicuro, però, per attivare il poliambulatorio serve forza lavoro, tanto che la nota del 6 agosto precisa: “Per la componente medica (…) sarà possibile chiedere l’urgente attivazione di nuovi contratti libero professionali con medici specialisti”.

La missiva non chiarisce chi si sobbarcherà i costi di adattamento di spazi nati per ospitare postazioni di terapia intensiva. Se il Policlinico con i suoi fondi, cioè soldi pubblici, oppure se verranno utilizzati i soldi avanzati dalle donazioni. Ed entrambe le ipotesi fanno sorgere dubbi: se i fondi saranno pubblici, perché investirli in una struttura destinata comunque a essere smantellata tra due anni? Se invece saranno quelli regalati dai privati, sorgerà un problema legale. Le donazioni, infatti, erano finalizzate a costruire terapie intensive. Se il Pirellone le vuole usare per gli ambulatori, dovrebbe avere il consenso di ogni donatore. E non solo di quelli che hanno versato sul conto della Fondazione Fiera (circa 21 milioni), ma anche di quelli che hanno dato oltre 25 milioni per l’ospedale sul conto della Regione.

A oggi non si sa quanto costerà il Piano B. Dal Policlinico fanno sapere che ancora una quantificazione dei costi non è stata fatta, ma che comunque dovrebbero essere limitati. Gli ambulatori dovrebbero occupare il modulo in via di completamento e dovranno essere operativi “entro la fine del prossimo mese di settembre”. Non tutti sono d’accordo su questa nuova destinazione d’uso: “Spostare le prime visite all’ospedale in Fiera è come fare il gioco delle tre carte: ho un ospedale che non sta funzionando perché Covid e sposto alcuni servizi di base all’ospedale Fiera per far vedere che funziona”, attacca il capogruppo M5s Massimo De Rosa. “Stanno cercando di mettere una pezza a un ospedale che continua a non avere senso. Ho strutture già attrezzate, il Policlinico, che oggi erogano prestazioni ambulatoriali soprattutto in regime privato, e per avere gli stessi servizi nel pubblico, devo andare in Fiera”.

Fontana boys: Russia e ombre di riciclaggio

“Se Attilio lo vorrà, andremo avanti” con una ricandidatura alla guida del Pirellone nel 2023. Non è bastato il modo in cui ha gestito l’emergenza Covid, non è stato sufficiente lo scandalo dei camici forniti dall’azienda di famiglia, non l’ha scalfito nemmeno la notizia dei quasi 5 milioni di euro parcheggiati su un conto svizzero. Quando si parla di Fontana, Matteo Salvini lo difende sempre. Tanto da averlo già ricandidato alla presidenza della Lombardia per silenziare chi, anche all’interno del partito, immaginava un cambio della guardia. Per capire perché Salvini difende così strenuamente Fontana, basta guardare chi sono i collaboratori più stretti del governatore. Tutti salviniani di strettissima fede. I loro profili spiegano più di mille teorie perché il leader leghista non può scaricare il presidente lombardo.

GIULIA MARTINELLI Ogni pratica importante passa sul suo tavolo. Per questo al Pirellone tutti la chiamano “la zarina”. Giulia Martinelli, 41 anni, è l’ex compagna di Matteo Salvini e madre di una delle sue figlie. Laureata in Legge, comasca, appena finito il praticantato da avvocato ha iniziato a lavorare nel settore pubblico. Subito, e quasi sempre, come dirigente in quota Lega. Prima per alcune Asl lombarde e poi, dal 2014, direttamente per la Regione grazie alla chiamata dell’ex assessore Cristina Cantù, oggi senatrice salviniana. Incarichi a cui, l’anno scorso, si è aggiunto quello di consigliere e membro del comitato esecutivo della Fiera di Milano. Tutto merito di Matteo? Macché, rispose il leader leghista un anno fa ai cronisti: “È lì perché è brava”. Tanto brava che nell’aprile 2018 è diventata responsabile della segreteria di Fontana: la porta girevole tra il governatore e il suo sponsor politico numero uno. Nella testimonianza alla Procura di Milano, che indaga Fontana per la fornitura dei camici affidata in via diretta all’azienda controllata dal cognato e dalla moglie, la zarina ha detto che Fontana rimase “sbigottito” quando lei lo informò della vicenda.

MAX FERRARI Massimiliano Ferrari, per i leghisti che lo conoscono Max, è stato scelto come consulente personale di Fontana in Regione. L’incarico ufficiale prevede che il 49enne di Malnate (Varese) si occupi di “affari internazionali”, con una paga di 35mila euro annui. D’altra parte lui si definisce “responsabile affari esteri della Lega in Lombardia”. Ex direttore di Telepadania, vanta un curriculum costellato di incarichi in società private controllate dal pubblico. Cioè dalla Lega: da Infrastrutture Lombarde fino a E-Vai, la società di Ferrovie Nord che affitta auto elettriche. Poliglotta autodichiarato, capace di passare dal cinese al russo fino al thailandese, Ferrari fa parte del gruppetto di leghisti che nel 2014, su iniziativa di Gianluca Savoini, fondarono l’associazione Lombardia-Russia. Fu quello il primo punto di contatto fra Salvini e l’amico Vladimir, l’avvio formale dell’avvicinamento della nuova Lega a Putin. I viaggi a Mosca, le interviste su Sputnik, le comitive di imprenditori italiani portati in Crimea e nel Donbass per legittimare le conquiste territoriali del presidente russo. Per la Lega, con Bossi sempre fedele all’allenza con gli Stati Uniti, una svolta geopolitica culminata con la trattativa all’Hotel Metropol.

GIANLUCA SAVOINI È stato lui a negoziare con alcuni uomini russi vicini al Cremlino un finanziamento milionario per la Lega in vista delle elezioni europee del 2019. La trattativa del Metropol, e la conseguente inchiesta della Procura di Milano per corruzione, non sono evidentemente bastati a Fontana per prendere le distanze da Gianluca Savoini. L’ex portavoce di Salvini risulta ancora oggi vice presidente del Corecom, il comitato regionale per le comunicazioni della Lombardia, organismo controllato direttamente dal Pirellone. A ottobre del 2019, quando lo scandalo del Metropol era ormai già noto a tutti, il Consiglio regionale della Lombardia ha infatti respinto con voto segreto una mozione del Pd che chiedeva le dimissioni di Savoini. Non è chiaro invece se l’uomo al centro del Russiagate italiano sia ancora consulente di Ferrovie Nord, società controllata da Regione Lombardia. Di certo lo è stato per almeno un anno, a partire da giugno del 2018. Un incarico affidatogli proprio nei mesi in cui l’ex portavoce di Salvini si dava un gran da fare per ottenere segretamente un maxi finanziamento russo per la Lega.

GIACOMO STUCCHI Cinque anni alla presidenza del Copasir non si dimenticano facilmente. E infatti non se lì è dimenticati neanche lui, Fontana, l’uomo che dice di non essersi proprio accorto di aver affidato all’azienda di famiglia una fornitura da mezzo milione di euro (trasformata in seguito in donazione). Sbadato sì, il governatore, ma non imprudente. Tanto da aver scelto Giacomo Stucchi come consulente personale per “trasparenza, legalità e cyber-security2. Bergamasco classe 1969, parlamentare per oltre vent’anni, nemmeno Stucchi si deve essere reso conto che Regione Lombardia stava per affidare una commessa al cognato del presidente. Chissà se per questa distrazione Fontana deciderà di tagliargli il compenso: 40mila euro all’anno pagati al raggiungimento degli obiettivi, si legge sul sito della Regione. Stucchi potrà compensare l’eventuale riduzione della paga pubblica con i redditi privati. L’ex presidente del Comitato Parlamentare per la Sicurezza è infatti azionista della Sigima Srl, una società che si occupa proprio di cyber sicurezza, si rivolge ad aziende pubbliche e private. E sul proprio sito si descrive così: “Potremmo definirci dei ‘facilitatori’, gente abituata ad aiutare soggetti diversi a risolvere problemi delicati”. Fontana, in questo momento, ne ha proprio bisogno.

GIOVANNI MALANCHINI Bergamasco, 46 anni, Giovanni Malanchini è forse il meno conosciuto degli angeli custodi inviati da Salvini per vigilare su Fontana. Eppure il suo rapporto con il leader leghista da qualche anno è molto solido, anche grazie all’intercessione del responsabile del partito in Lombardia, Paolo Grimoldi. Segretario di Fontana fin dal giorno del suo insediamento alla presidenza, consigliere regionale e responsabile nazionale degli Enti Locali della Lega dal 2015, al Pirellone Malanchini lavora spalla a spalla con Giulia Martinelli. Il suo nome compare in alcune relazioni della Uif di Banca d’Italia, quelle che cercano di ricostruire che fine hanno fatto i 49 milioni della Lega. Tra il 2016 e il 2018 Malanchini ha ricevuto circa 73mila euro da Andrea Manzoni, uno dei due commercialisti salviniani indagati per peculato dalla procura di Milano nell’affaire Lombardia Film Commission.

A Dolce&Gabbana 600 mila euro pubblici. Polemica in Sicilia: “Così pagamenti illegali”

Non è bastata la foto anticovid, rigorosamente con la mascherina, insieme agli stilisti Dolce & Gabbana, a tenere lontane le polemiche dal presidente siciliano Nello Musumeci in prima fila, a Polizzi Generosa (Palermo) insieme al presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè e all’assessore Roberto Lagalla, all’ultima serata di “Devotion’’, un mega spot di 30 minuti circa firmato dal premio Oscar Giuseppe Tornatore in favore dei due stilisti: i manager musicali dell’isola raccolti in Assomusica hanno contestato in una nota la somma, oltre 579 mila euro, elargita dalla Regione Sicilia senza un bando, per ragioni “di esclusività e infungibilità’’ con un decreto dell’assessore alle attività produttive Mimmo Turano (Udc), alla società dei due stilisti, accusandola di avere subappaltato i servizi a maestranze locali, “dando vita a un circuito di denaro non compatibile con la legislazione attuale”. Un linguaggio involuto per definire l’attivazione di un giro di pagamenti in nero; e se i manager considerano il ricorso alle maestranze “una mancanza di fiducia nei loro confronti’’, quell’accenno all’evasione fiscale suona imbarazzante per la giunta regionale, che sull’effetto stardust, “Tornatore – Dolce & Gabbana’’, ha scommesso per rilanciare il turismo in tempo di Covid.

Per Musumeci le sei serate griffate D&G, organizzate nelle prime due settimane di agosto nelle principali località turistiche, da Taormina a Siracusa, dovevano servire infatti a promuovere l’immagine dell’isola: “Abbiamo fatto la scelta più naturale – ha detto il governatore – perché Dolce e Gabbana sono da sempre i migliori ambasciatori della nostra Isola nel mondo. Li ringrazio per quanto hanno fatto e per quello che faranno per aiutarci a fare della Sicilia la tappa preferita nel Mediterraneo’’.

E dopo avere ascoltato le proteste dei manager di Assomusica che hanno chiesto un incontro urgente ai vertici dell’amministrazione regionale, il governatore e l’assessore saranno impegnati a veicolare il mega spot di Tornatore anche fuori dei confini dell’isola, per attirare i turisti: il decreto per ora si ferma al finanziamento, chiavi in mano, dell’evento, realizzato come una vera e propria festa patronale fatta di cinema all’aperto, musica, sfilate, enogastronomia, e persino la banda musicale, e non prevede proiezioni oltre Stretto.

Macchinisti al bar, il treno fa 10 km da solo. Poi lo fanno deragliare: sfiorata la tragedia

Una corsa impazzita di oltre 10 chilometri senza macchinista. È l’incredibile tragitto del convoglio 10776 della linea Milano-Lecco di Trenord fatto deragliare volontariamente da Rfi verso le 12 di ieri nei pressi della stazione di Carnate (Monza e Brianza). Una storia da film, ma che avrebbe potuto avere conseguenze ben più tragiche dei tre feriti lievi registrati alla fine di questa folle vicenda. Alla stazione di Paderno d’Adda il macchinista e il capotreno decidono di regalarsi una pausa caffè tra un viaggio e l’altro. Un break che potrebbe costare loro molto caro, visto che il treno, senza nessuno ai comandi, ha iniziato a muoversi. Toccherà alla Procura di Monza stabilire se per un’avaria ai freni di stazionamento o per una dimenticanza dei ferrovieri. Di sicuro complice è stata la leggera pendenza di quel tratto di linea.

La partenza involontaria ha portato il convoglio a instradarsi su una linea in pieno esercizio e a continuare il folle viaggio per ben 10 chilometri. Inutili i tentativi dei due dipendenti di risalire sul treno. L’unica opzione rimasta a Rfi, per evitare collisioni, è stata instradare il convoglio fantasma su un binario tronco, sapendo che sarebbe deragliato. Assumendosi il rischio che le carrozze invadessero anche la strada prospiciente al binario, così com’è poi avvenuto. Ma una decisione andava presa: “Il convoglio si muoveva autonomamente e senza autorizzazione in direzione Carnate privo di personale di bordo”, recita un report interno di Trenord che il Fatto ha potuto visionare. “Il materiale veniva instradato dal DM di Carnate verso il binario 5 tronco urtando il paraurti. Nell’occorso sviava vettura pilota e altre due vetture”.

L’unico dato certo fino a quel momento era che a bordo non vi fossero passeggeri. Una certezza sgretolatasi dopo pochi minuti: sul treno, infatti, c’era un passeggero extracomunitario che non avrebbe dovuto trovarsi lì, della cui presenza nessuno si era accorto. Un miracolato, visto che ha riportato solo alcune escoriazioni. Per sua fortuna era nell’ultima carrozza, l’unica rimasta sulle rotaie.

“Ho chiesto a Trenord che venga fatta chiarezza”, ha detto l’assessore regionale alle Infrastrutture, Trasporti e Mobilità, Claudia Maria Terzi. “La società ha istituito una commissione interna: una decisione che accolgo positivamente. Se si è trattato di un errore umano, ritengo siano necessari provvedimenti adeguati”.

I facchini licenziati vivono da 11 giorni sopra uno scaffale

Èentrata nell’undicesimo giorno la protesta dei facchini della cooperativa Zero70, che gestisce in appalto lo stabilimento di Chignolo Po (Pavia), il principale snodo logistico dei supermercati Carrefour in Italia. Bloccato il rifornimento dei generi no-food (tutto, escluso l’alimentare) nei punti vendita di tutto il Paese. Quattro lavoratori licenziati – due egiziani, un marocchino e un indiano – vivono dal 10 agosto arrampicati in cima a una scaffalatura alta 12 metri. Altri 50 occupano il magazzino giorno e notte impedendo il rifornimento dei camion. Al centro della vertenza il licenziamento dei quattro extracomunitari, ufficialmente dovuto a ragioni disciplinari, ma secondo il sindacato di base Usb (che rappresenta 53 dei 60 lavoratori della coop) una ritorsione per aver chiesto spiegazioni sul buco da 370 mila euro spuntato nel bilancio consuntivo di fine giugno. Perdita che ricadrà sulle spalle dei facchini, obbligati a diventare soci della cooperativa per ottenere il posto di lavoro.