“Io manderò il mio marito per mia robe, e ancora a portare il quadro al granduca, e così io non avrò obbligo a Vostra Signoria, e in tutto avrò conosciuto quanto sia l’amore che mi portate, che se mi volesse bene, come voi mi dite, non comportereste che lui si partisse da me, che sapete che cosa è Roma, e ancora rispetto ai parenti che io ho, che sapete che so’ il mio fratello e mio patre”. È il 12 settembre 1620 e Artemisia Gentileschi scrive di suo pugno, da Roma, al “signor Fortunio Fortuni, Firenze”. Il nome di fantasia serviva a evitare scandali, coprendo quello del suo amante fiorentino: il nobile Francesco Maria Maringhi. Artemisia si lamenta: Francesco aveva promesso di pensare lui al trasloco dei beni fiorentini della pittrice, e di farsi anche latore dell’ultimo quadro che andava consegnato a Cosimo II de’ Medici. Ma non lo fa, e così Artemisia è costretta a rispedire a Firenze il marito, il rassegnato Pierantonio Stiattesi, rimanendo sola a Roma, e dunque in pericolo: perché – scrive – “sapete cosa sono mio fratello e mio padre”.
Orazio (Pisa 1563-Londra 1639), il padre, era un pittore grandissimo: un artista pisano che aveva nove anni più di Caravaggio, e che dunque si “convertì” al nuovo stile quando era ormai maturo, e assai raffinato. Artemisia, nonostante la sua indubbia bravura pittorica e a dispetto del suo travolgente successo mediatico di oggi, non riuscì mai ad eguagliarne la strepitosa qualità. E questa, forse, è la vera ingiustizia della sua vita: perché suo padre – cinico, autoritario, violento, senza scrupoli – avrebbe davvero meritato di essere vinto dalla figlia, della quale scrive come di un fenomeno da baraccone: “Questa femmina, come è piaciuto a Dio, avendola (io) drizzata nelle professione della pittura, in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. Questa lettera di Orazio è del 1612, e solo l’anno prima (il 6 maggio 1611) Artemisia era stata violentata da Agostino Tassi, amico e socio del padre. La sequenza dello stupro, terribile, la conosciamo dalla voce stessa di Artemisia, testimone al processo contro Agostino: “Mi spinse, e serrò la camera a chiave, e dopo serrata mi buttò sulla sponda del letto, dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce, ché io non potessi serrarle… e appuntatomi il membro alla natura, lo cominciò a spingere, e lo mise dentro”. Artemisia, diciottenne e ancora vergine, reagisce: “Andai alla volta del tiratoio della tavola, presi un coltello e andai verso Agostino dicendo ‘Ti voglio ammazzare con questo coltello, ché m’hai vituperata’”. Non solo, tuttavia, Artemisia non riesce a ucciderlo, ma subisce un’altra violenza: quella dell’inganno di Agostino, che promettendole di sposarla (solo dopo si scoprirà che aveva già moglie) continua ad avere per mesi rapporti con lei. È esattamente in questi interminabile cattività e reiterato abuso che sta la più grande delle responsabilità di Orazio, prontissimo a costringere la figlia a trascorrere la vita col suo socio che l’ha stuprata. Solo un anno dopo, di fronte all’evidenza della menzogna di Agostino, Orazio si decide a sporgere denuncia, innescando il processo. Ma questo ritardo alimenta le peggiori dicerie: e Artemisia (come accade non solo nel Seicento) passa da vittima a puttana. Dopo che una visita ginecologica ne accerta la deflorazione, la corte stessa la tratta da potenziale calunniatrice: e così si arriva al drammatico 14 maggio 1612, quando Artemisia è messa a confronto diretto con Agostino. Tra i due, è la donna – naturalmente – a esser sospettata di mentire, e dunque è Artemisia a essere sottoposta a tortura. Mentre le funicelle dei sibilli si stringono intorno alle sue sensibilissime dita di pittrice, Artemisia si rivolge ad Agostino con una esclamazione profondamente toccante, che ne rivela tutto il candore: “Questo è l’anello che tu mi dai, e queste sono le promesse!”. Alla fine, Agostino viene condannato a un esilio da Roma che non scontò mai, protetto com’era dai suoi potenti committenti. Artemisia, invece, appena dopo la sentenza si sposò con Pierantonio, fratello di Giovan Battista Stiattesi, suo avvocato difensore e buon amico di Orazio. Il matrimonio, combinato e riparatore, è l’ultimo atto del dominio di Orazio su sua figlia, che da quel punto in poi si libera del padre: reincontrandolo solo pochissimo prima della di lui morte, alla corte di Londra. Cosa Artemisia pensasse di Orazio lo svela la lettera citata in apertura: ancora otto anni dopo il processo ne temeva il bestiale egoismo. E forse lo svelano anche le numerose Giuditte che ha dipinto. Il tema era biblico, certo: l’eroina di Israele che decapita Oloferne, potente generale degli Assiri. Ma fin da quando, nel Quattrocento, Donatello aveva ridato forma credibile a questa scena, il dominio maschile ne era stato turbato: “Non sta bene che la donna uccida l’homo”, aveva detto a Firenze l’araldo della Signoria, criticando il gruppo bronzeo. La donna che uccide l’uomo era invece proprio ciò che Artemisia ossessivamente dipingeva. E quell’uomo non era solo il sordido Agostino Tassi, ma anche suo padre Orazio: per tutta la vita sua figlia provò a “ucciderlo” non con la spada, ma col pennello. Ben sapendo, e scrivendo con consapevole ironia, che i suoi quadri erano stimatissimi proprio perché dipinti da una donna: quasi fossero “frutti di un albero impotente a partorirli”.