Artemisia, figlia ribelle di un padre padrone. Ma il genio era Orazio

“Io manderò il mio marito per mia robe, e ancora a portare il quadro al granduca, e così io non avrò obbligo a Vostra Signoria, e in tutto avrò conosciuto quanto sia l’amore che mi portate, che se mi volesse bene, come voi mi dite, non comportereste che lui si partisse da me, che sapete che cosa è Roma, e ancora rispetto ai parenti che io ho, che sapete che so’ il mio fratello e mio patre”. È il 12 settembre 1620 e Artemisia Gentileschi scrive di suo pugno, da Roma, al “signor Fortunio Fortuni, Firenze”. Il nome di fantasia serviva a evitare scandali, coprendo quello del suo amante fiorentino: il nobile Francesco Maria Maringhi. Artemisia si lamenta: Francesco aveva promesso di pensare lui al trasloco dei beni fiorentini della pittrice, e di farsi anche latore dell’ultimo quadro che andava consegnato a Cosimo II de’ Medici. Ma non lo fa, e così Artemisia è costretta a rispedire a Firenze il marito, il rassegnato Pierantonio Stiattesi, rimanendo sola a Roma, e dunque in pericolo: perché – scrive – “sapete cosa sono mio fratello e mio padre”.

Orazio (Pisa 1563-Londra 1639), il padre, era un pittore grandissimo: un artista pisano che aveva nove anni più di Caravaggio, e che dunque si “convertì” al nuovo stile quando era ormai maturo, e assai raffinato. Artemisia, nonostante la sua indubbia bravura pittorica e a dispetto del suo travolgente successo mediatico di oggi, non riuscì mai ad eguagliarne la strepitosa qualità. E questa, forse, è la vera ingiustizia della sua vita: perché suo padre – cinico, autoritario, violento, senza scrupoli – avrebbe davvero meritato di essere vinto dalla figlia, della quale scrive come di un fenomeno da baraccone: “Questa femmina, come è piaciuto a Dio, avendola (io) drizzata nelle professione della pittura, in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. Questa lettera di Orazio è del 1612, e solo l’anno prima (il 6 maggio 1611) Artemisia era stata violentata da Agostino Tassi, amico e socio del padre. La sequenza dello stupro, terribile, la conosciamo dalla voce stessa di Artemisia, testimone al processo contro Agostino: “Mi spinse, e serrò la camera a chiave, e dopo serrata mi buttò sulla sponda del letto, dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce, ché io non potessi serrarle… e appuntatomi il membro alla natura, lo cominciò a spingere, e lo mise dentro”. Artemisia, diciottenne e ancora vergine, reagisce: “Andai alla volta del tiratoio della tavola, presi un coltello e andai verso Agostino dicendo ‘Ti voglio ammazzare con questo coltello, ché m’hai vituperata’”. Non solo, tuttavia, Artemisia non riesce a ucciderlo, ma subisce un’altra violenza: quella dell’inganno di Agostino, che promettendole di sposarla (solo dopo si scoprirà che aveva già moglie) continua ad avere per mesi rapporti con lei. È esattamente in questi interminabile cattività e reiterato abuso che sta la più grande delle responsabilità di Orazio, prontissimo a costringere la figlia a trascorrere la vita col suo socio che l’ha stuprata. Solo un anno dopo, di fronte all’evidenza della menzogna di Agostino, Orazio si decide a sporgere denuncia, innescando il processo. Ma questo ritardo alimenta le peggiori dicerie: e Artemisia (come accade non solo nel Seicento) passa da vittima a puttana. Dopo che una visita ginecologica ne accerta la deflorazione, la corte stessa la tratta da potenziale calunniatrice: e così si arriva al drammatico 14 maggio 1612, quando Artemisia è messa a confronto diretto con Agostino. Tra i due, è la donna – naturalmente – a esser sospettata di mentire, e dunque è Artemisia a essere sottoposta a tortura. Mentre le funicelle dei sibilli si stringono intorno alle sue sensibilissime dita di pittrice, Artemisia si rivolge ad Agostino con una esclamazione profondamente toccante, che ne rivela tutto il candore: “Questo è l’anello che tu mi dai, e queste sono le promesse!”. Alla fine, Agostino viene condannato a un esilio da Roma che non scontò mai, protetto com’era dai suoi potenti committenti. Artemisia, invece, appena dopo la sentenza si sposò con Pierantonio, fratello di Giovan Battista Stiattesi, suo avvocato difensore e buon amico di Orazio. Il matrimonio, combinato e riparatore, è l’ultimo atto del dominio di Orazio su sua figlia, che da quel punto in poi si libera del padre: reincontrandolo solo pochissimo prima della di lui morte, alla corte di Londra. Cosa Artemisia pensasse di Orazio lo svela la lettera citata in apertura: ancora otto anni dopo il processo ne temeva il bestiale egoismo. E forse lo svelano anche le numerose Giuditte che ha dipinto. Il tema era biblico, certo: l’eroina di Israele che decapita Oloferne, potente generale degli Assiri. Ma fin da quando, nel Quattrocento, Donatello aveva ridato forma credibile a questa scena, il dominio maschile ne era stato turbato: “Non sta bene che la donna uccida l’homo”, aveva detto a Firenze l’araldo della Signoria, criticando il gruppo bronzeo. La donna che uccide l’uomo era invece proprio ciò che Artemisia ossessivamente dipingeva. E quell’uomo non era solo il sordido Agostino Tassi, ma anche suo padre Orazio: per tutta la vita sua figlia provò a “ucciderlo” non con la spada, ma col pennello. Ben sapendo, e scrivendo con consapevole ironia, che i suoi quadri erano stimatissimi proprio perché dipinti da una donna: quasi fossero “frutti di un albero impotente a partorirli”.

L’editoria ha sempre avuto la verità “in tasca”

L’estate porta con sé molti stereotipi, parte di un immaginario cui si è affezionati: ad esempio, l’equazione ombrellone=tascabile (oggi si chiama paperback) rimanda al relax, “a un’attività che chiede dedizione e nessuno stress”, dice Gian Arturo Ferrari, a lungo numero uno di Mondadori. Fu l’anglosassone Penguin, negli Anni 30, a lanciare per prima libri di qualità a prezzo ridotto, i paperback appunto, per far conoscere al grande pubblico, anche quello meno agiato, la letteratura. Apripista Agatha Christie, amica del fondatore Allen Lane. Costavano 6 pence, come un pacco di sigarette, li si trovava nelle stazioni ferroviarie e in tabaccheria.

Oggi il paperback – quasi ogni editore ha una o più collane dedicate e molte novità escono già in questo formato – “è soprattutto sinonimo di qualità. I paperback indicano lo stato di salute di un editore e ne salvano il fatturato”, sottolinea Ferrari. “Poter leggere Calvino o Némirovsky in economica è un dono”, prosegue Romano Montroni, presidente del Centro per il libro e la lettura. “I librai vanno istruiti a cogliere la ricchezza dei tascabili e a dedicar loro più spazio: sono la parte forte di un catalogo”. “I paperback hanno vita più lunga e i più venduti della categoria son sempre classici. Ultimamente Orwell ha sbancato”, specifica Ferrari.

Ma chi ha dato il la in Italia al fenomeno? In una storia che è assai intricata il 1965 è anno cardine: Mondadori inaugura la collana Oscar, guidata da Alberto Mondadori e Vittorio Sereni, con Addio alle armi di Hemingway; ne van via 60 mila copie in un giorno, a seguire La ragazza di Bube di Cassola, La nausea di Sartre, Un amore di Buzzati. Altro che letteratura di serie B. Formato piccolo, costo pari a un ingresso al cinema (350 lire), testi inediti e distribuzione in edicola, settimanalmente. I libri a transistor, portatili come le radioline, si fanno fenomeno di massa. Lo stesso Moravia li caldeggiava.

C’è stato un momento in cui Arnoldo Mondadori ebbe la chance di siglare un accordo con Giulio Einaudi che avrebbe potuto cambiare il corso dell’editoria. Lo racconta Luigi Belmonte, responsabile degli Oscar: “A metà dei 60, tra Arnoldo e Giulio ci sono accordi di licenza che permettono a Mondadori di pubblicare in tascabile alcuni titoli Einaudi. Giulio vorrebbe fortificare la collaborazione, Sereni spinge persino per una collana a marchio doppio. Sembrava fatta quando Arnoldo cambia idea e abbassa le royalties riconosciute a Einaudi. Il disappunto di Giulio è tale che in una lettera ad Arnoldo scrive: ‘Non ho intenzione di recriminare sui vostri ripensamenti: voglio pensare realisticamente che essi siano in parte il riflesso di una evoluzione del mercato. Ma mi chiedo se io non sia già stato esposto a sufficienza a questa che scherzosamente vorrei chiamare doccia scozzese’”.

Che voltafaccia! Già prima della nascita degli Oscar, però, qualcosa si muoveva. Luigi Rusca, esperto del settore, propone a Rizzoli di pubblicare in economica classici in traduzioni nuove sul modello della tedesca Reclam. È così che, in tempo di ricostruzione dopo il secondo conflitto, nasce Bur. Primo titolo I promessi sposi, poi Teresa Raquin di Zola e Il fantasma di Canterville di Wilde. Vero è che non si tratta di novità e le austere copertine grigiastre, tutte uguali, sono poco appetibili, diversamente dalle più colorate degli Oscar (mitiche quelle coi dipinti di Mario Tempesti), ma la cadenza settimanale, a fidelizzare, e un prezzo popolare, 50 lire ogni 100 pagine, è aria nuova. Idea che funziona viene imitata: Arnoldo lo sa, come testimonia una lettera a Vasco Pratolini. Le collane di tascabili spuntano così come funghi, saturando presto il mercato.

Alcuni scelgono di puntare sull’estetica e la raffinatezza: è il caso di Adelphi con la Piccola Biblioteca, che esordisce nel ’73 con Il pellegrinaggio in Oriente di Hesse. A stracciare invece i prezzi a inizio Anni 90 sono Stampa alternativa con i Millelire – un milione di copie vendute della Lettera sulla felicità di Epicuro – e Newton Compton con 100 pagine 1.000 lire, testi brevi di autori classici già editi, e I Mammut, opere complete dei big in un unico tomo, da Darwin a Jane Austen, da Pirandello a Pessoa.

E oggi come viene percepito dai lettori il tascabile? “Prima averne una biblioteca colma era una forma di affermazione socio-culturale, ora, saltate le categorie cardine dei primi paperback, cioè prezzo e formato, i lettori si muovono orizzontalmente, guidati solo dal gusto personale”, spiega Belmonte. A restare evergreen è l’immagine del tascabile a fine estate: che si tratti del giallo del momento (lo storico marchio Giallo Mondadori, per 90 anni solo in edicola, è da poco sbarcato in libreria), del vincitore dell’ultimo Strega, di un romanzo à la Liala o di un classico, le pagine saranno ondulate, incrostate di salsedine o profumate di brezza alpina, la copertina macchiata di solare o caffè. E se lo dimentichiamo in hotel faremo forse la gioia di chi, la propria lettura, l’ha scordata a casa.

Lukashenko ora si veste da vittima

Ai confini bielorussi le unità di combattimento sono in allerta. Il presidente Lukashenko, stretto da scioperi e proteste in corso a Minsk, ha schierato le sue truppe per paura di interferenze esterne denunciando “il golpe in corso dell’opposizione, che tenta di prendere il potere”.

Questi toni però non sembrano intimidire chi contesta: senza che ormai nessuno provi più a fermarli, raggiungono le nuvole del cielo della Capitale palloncini bianchi e rossi, i colori della bandiera dell’opposizione bielorussa che “ha raggiunto quello che si credeva impossibile fino a poco tempo fa”, ha detto dal suo esilio lituano la testa d’ariete dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaya, che ha promesso di organizzare nuove elezioni se il caudillo sovietico, al potere dal 1994, si tirerà indietro.

“Buon compleanno, Seghey”. Costante nella sua lotta, coraggiosa nella sua resistenza, sofisticata nella sua comunicazione si sta rivelando l’opposizione sul campo e quella in esilio. In uno dei suoi quotidiani messaggi video l’avversaria del presidente ha inviato a suo marito, il blogger anti-corruzione Serghey Tikhanovsky, gli auguri digitali per i suoi 42 anni che ha festeggiato il cella, “dove rimane perché accusato di un crimine che non ha commesso”. Sotto le finestre della prigione in cui è rinchiuso dal giorno in cui ha annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali, – quelle che hanno regalato poi fama internazionale e supposta vittoria a sua moglie il 9 agosto scorso –, sono arrivati ieri centinaia dei suoi seguaci. Lukashenko dal canto suo premia chi gli resta fedele: ha appuntato medaglie a 300 agenti per il servizio “impeccabile” svolto durante le proteste: le forze dell’ordine sono accusate invece di tortura da chi è stato arrestato. La situazione in Bielorussia è frutto di confronto fra i leader mondiali. Alcuni poliziotti sono colpevoli di “ violenza inaccettabile”, ha detto al telefono la cancelliera Merkel al presidente russo Putin, che invece giudica intollerabile “la pressione straniera compiuta sulla Bielorussia” e ha avvisato gli europei a non interferire nelle vicende dello Stato suo alleato.

La Belta, la tv statale di Minsk,ha finalmente deciso di informare delle proteste in corso nel Paese: “ i manifestanti non sono pacifici, ecco quello che i media stranieri non vi mostreranno” ha riferito la macchina della propaganda del presidente, mostrando però le immagini degli scontri avvenuti a Barcellona nel 2019. Il presidente resta nella sua trincea: “Finché non mi ammazzate, non ci saranno nuove elezioni” ha detto Lukashenko ai manifestanti che ha definito “pecore”.

Altro che Hillary, ora i dem si stringono a “Sleepy Joe”

Alla convention democratica, nessuno spende per Joe Biden i superlativi che, quattro anni or sono, venivano tributati a Hillary Clinton: il messaggio che finora esce dalla convention democratica è che il candidato presidente è “a decent man”, una persona per bene; l’ex rappresentante di New York Susan Molinari lo ha descritto come un “uomo davvero buono”. Ed è comunque meglio di Trump che alla Casa Bianca ha già lasciato morire di coronavirus 171 mila americani. Questo spiega perché Michelle Obama e Bernie Sanders siano apparsi, nei loro discorsi, punto forte della prima giornata della convention virtuale, più in sintonia che nel 2016: allineati con grinta contro Donald Trump, “il presidente sbagliato per il nostro Paese” – Michelle -, “un Nerone che minaccia la nostra democrazia” – Bernie –; e allineati senza iperboli dietro Biden. “Riconciliare un partito diviso – scrive su Politico David Siders – è più facile con un presidente come Trump alla Casa Bianca e un candidato non divisivo”. Verso l’ex vice di Barack Obama, Sanders non ha l’animosità che nutriva verso l’ex first lady, che l’aveva sì battuto nelle primarie, ma soprattutto grazie ai super-delegati e all’establishment, e che aveva un potenziale divisivo inferiore solo a quello di Trump.

Inoltre, i democratici di sinistra, che nel 2016 erano convinti che Hillary avrebbe vinto anche senza il loro voto, hanno ora sperimentato che cosa vuol dire Trump presidente e sono pronti a trangugiare un moderato alla Biden, pure un po’ ‘pesce lesso’. Per questo, l’unità del partito sciorinata da Milwaukee è meno virtuale di quella espressa nel 2016, nonostante tutta la convention sia virtuale: uno show televisivo con la retorica buona delle kermesse politiche Usa, ma senza palloncini e coriandoli bianchi, rossi e blu e senza la folla dei delegati chiassosa e variopinta. Non è la solita convention fiume: è uno show televisivo o ‘social’, due ore dalle 21.00 alle 23.00 della East Coast – dalle tre alle cinque del mattino in Italia – con artisti e assi dello sport, come la campionessa del Mondo di calcio Megan Rapinoe, e il fratello di George Floyd, il nero ucciso dalla polizia a Minneapolis il 25 maggio, la cui morte innescò l’ondata di proteste anti-razzismo di Black Lives Matter. Com’era prevedibile, la mattatrice della prima serata è stata Michelle: per la sostanza e per lo stile, quasi scusandosi per non essersi candidata. L’ex first lady sfoggiava una catenina d’oro con la scritta ‘votate’, che è subito divenuta un oggetto del desiderio: su Google, la ricerca più cliccata è stata ‘catenina Michelle Obama’. Costa 430 dollari e la produce ByChari, un marchio di gioielli dell’afro-americana Chari Cuthbert. Se è difficile trovare una ragione entusiasmante per Biden presidente, tutti hanno un buon motivo per cacciare Trump dalla Casa Bianca: John Kasich, un repubblicano che gli preferisce Biden, gli rimprovera di avere “tradito i valori dei conservatori”; Andrew Cuomo, governatore ‘figlio d’arte’ dello Stato di New York, nota che il magnate “è frutto delle nostre divisioni”, ma “lui le ha acuite”. Alexandria Ocasio-Cortez, deputata di New York, scalfisce l’unità, contestando la presenza dell’anti-abortista Kasich: “Possiamo costruire ponti e non perdere di vista i nostri valori. È importante ricordare che Kasich è un anti-abortista estremista e che firmerà (e lo ha già fatto) perché rinunciamo ai nostri diritti riproduttivi appena ne avrà l’opportunità”. Il magnate presidente non resta passivo. Fa comizi in Minnesota e Wisconsin, in Iowa e Arizona, se la prende con Kasich – “Un perdente” – e con Michelle – “Stai seduta e stammi a guardare” –. Nel suo contro-canto alla convention democratica, Trump alimenta le peggiori paure dei suoi elettori: se vinceranno i democratici, gli Stati Uniti “diventeranno socialisti” e “vi toglieranno le armi”.

Stasera tocca a Kamala Harris, nome in codice Pioneer, per il Secret Service.

Omicidio Hariri, L’Aja scagiona gli Hezbollah: nessuna prova

Ad ammazzare l’ex premier libanese Rafik Hariri (nella foto), nel 2005, non è stato il “Partito di Dio”. Con un verdetto di 2.600 pagine lo hanno stabilito ieri all’Aja i giudici della Corte del Tribunale Speciale per il Libano: non è stata trovata alcuna prova del coinvolgimento degli Hezbollah nell’attentato terroristico che tolse la vita all’ex capo di Stato, sebbene siano stati invece riscontrati interessi e motivi del gruppo per la sua eliminazione.

Per il capo della Corte, David Re, si è trattato di un atto di terrorismo “politicamente motivato, compiuto per diffondere paura nella società libanese”. Confutata dal Tribunale anche l’ipotesi della responsabilità di Damasco: ai suoi albori l’indagine Onu insisteva sulla pista siriana e sulla rivalità tra il clan degli Hariri e quello degli Assad, alleati degli Hezbollah.

Fa parte però del movimento sciita paramilitare l’unico condannato dei quattro imputati indagati: Salim Ayyash è stato ritenuto colpevole, sono stati scagionati invece Hussein Oneissi, Assad Sabra, Hassan Merhi. I quattro, giudicati in contumacia, non sono mai stati rintracciati dal Tribunale che non li troverà “nemmeno tra trecento anni” ha detto il leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. In aula, a tributare un minuto di silenzio per le 21 persone che persero la vita nella tragedia e ad ascoltare la sentenza dell’Aja che dividerà la già spaccata società libanese, c’era anche il figlio del defunto capo di Stato ed ex premier libanese a sua volta, Saad Hariri, che ha detto di aver “accettato il verdetto” di quella che viene ricordata nella storia del Paese come la “strage di San Valentino”, datata 14 febbraio 2005.

Rafik Hariri però sorride nell’enorme manifesto comparso per le strade di Beirut, dove il volto del primo ministro appare su uno sfondo nero sopra una frase scritta in bianco che dice: “È tempo di giustizia”, quella che forse il Libano si aspettava e non ha avuto.

Il verdetto, la cui lettura è stata rimandata il 7 agosto scorso per rispetto delle vittime dell’esplosione al nitrato che ha devastato il cuore della Capitale, arriva dopo quindici anni dall’attentato e una giustizia che arriva dopo tutto questo tempo comunque “non può ritenersi tale”, ha detto il presidente Michele Aoun. La sentenza tardiva alimenta un vecchio lutto che si aggiunge all’ultimo: è in corso l’indagine per la catastrofe che ha lasciato senza casa 300mila persone e ne ha uccise 137. Una tragedia dopo l’altra: risalgono nel Paese i contagi di Covid-19 e torna anche il lockdown per due settimane.

Anche l’apparato è stufo. Xi, il mondo come nemico

“Sotto il regime di Xi Jinping il Partito Comunista Cinese non è una forza per il progresso della Cina. Sono certa di non essere l’unica che vuole lasciarne i ranghi. Avrei voluto uscire dal partito molti anni fa, quando è stato chiaro che non c’era più alcuno spazio di critica e la mia voce è stata completamente censurata”. Cai Xia è una intellettuale di spicco dell’establishment cinese, ex docente di politica alla Scuola Centrale del Partito che della classe dirigente cinese forma l’elite politica. Lunedì dal Partito è stata espulsa, la pensione revocata, dopo la diffusione, a giugno, di un audio in cui manifestava le sue critiche alla gestione del Xi Jinping e lo definiva “un boss della mafia”.

Il Guardian era riuscito a intervistarla subito dopo quella fuga di notizie, ma lei aveva chiesto di non pubblicare l’intervista per timore di ritorsioni contro la sua famiglia.

Dopo l’espulsione dal Partito ha dato l’autorizzazione a riprodurre in inglese quella testimonianza: “Ho molta più libertà ora. Rispondo solo a me stessa e ai miei principi”. È una lettura micidiale per la reputazione del regime di Jinping. Una condanna totale della sua crescente autocrazia, fin dall’insediamento nel 2012, con una brutale accelerazione dal 2018 in poi, quando ha ottenuto dal plenum del Congresso Nazionale di emendare la costituzione in modo da abolire la scadenza del suo mandato. Da allora “Il partito comunista cinese è diventato uno zombie politico. Non può correggere I propri errori. Xi ha ucciso, da solo, un partito e un paese, perché ha dimostrato che il partito non era in grado di fermarlo nemmeno di fronte a un cambiamento radicale della costituzione”. Come tutti i leader cinesi dal 1993 in poi, oggi Xi è segretario del Partito, Presidente della Repubblica Cinese e capo della Commissione Militare Centrale, cioè delle forze Armate. Ma lo è senza limiti di mandato e senza il freno di una seppur minima opposizione interna. Cai spiega come, in un contesto di sempre maggior isolamento, Xi operi con una mentalità da bunker. Sul piano interno ha abusato, persino per gli standard cinesi, di cicliche campagne anti-corruzione per liberarsi dei suoi nemici. Sul piano internazionale, spiega Cai, ha “reso il mondo un nemico”: una strategia strumentale “a distogliere l’attenzione del pubblico cinese dai problemi interni rinfocolando il conflitto con altri paesi e incoraggiando il sentimento anti-americano o anti-indiano”.

Una strategia pericolosa, come dimostrato dalla gestione fallimentare dell’epidemia di Covid: “Il suo potere è assoluto, può punire chi vuole è quindi nessuna osa dirgli la verità. Se non conosce la realtà è inevitabile che sbagli. È quello che è successo a Wuhan… un circolo vizioso: tutti sono troppo spaventati per dire la verità”. Cai non è l’unica intellettuale ad avere il coraggio di criticare pubblicamente l’autoritarismo di Xi. Nel 2018 fu il professor Xu Zhangrun, costituzionalista alla Università Tsinghua di Pechino, a pubblicare una serie di saggi in cui, senza nominare il presidente, denunciava il rischio che le sue politiche dispotiche trascinassero il paese al disastro. Sospeso dall’insegnamento, le sue idee hanno circolato malgrado l’onnipresente censura. Lo scorso 6 luglio è stato arrestato per una settimana, per sfruttamento della prostituzione, dopo la pubblicazione a New York di una raccolta di 10 saggi in cui, fra l’altro, attribuisce all’autoritarismo di Xi la responsabilità della diffusione incontrollata del Covid da Wuhan al resto del mondo. C’è poi Ren Zhiqiang, ricco uomo d’affari indagato perché associato a un articolo anonimo in cui “il grande leader” è definito un “pagliaccio nudo ancora deciso a giocare all’Imperatore”. Ora deve difendersi dalle usuali, e forse strumentali, accuse di corruzione. E Xu Zhyyong, dissidente che ha scritto una lettera aperta chiedendo le dimissioni del presidente per la gestione del Covid, e per questo è accusato di “sovversione dello Stato”. Quanto può durare una gestione così autocratica? La professoressa si dice convinta che l’ostilità a Xi sia molto diffusa nel partito e che l’arrivo della democrazia in Cina sia solo questione di tempo. È il grande enigma cinese: per decenni gli osservatori occidentali hanno predetto che il benessere economico e l’apertura commerciale avrebbero generato un desiderio di rappresentanza e inevitabilmente portato alla nascita di una società democratica. Finora non è successo, e la Cina resta un misterioso ibrido di dinamismo economico e censura politica.

Mail Box

 

I furbetti sono dei mostri al pari del Leviatano

L’identikit che emerge dalle giustificazioni addotte dai leghisti che hanno percepito il sussidio Covid ha il volto ferino dell’imprenditore arraffone e accattone. Abbiamo consegnato l’amministrazione del bene pubblico a chi professa un individualismo sleale ed esasperato. Abbiamo spalancato le porte del potere a chi intende la libertà di concorrenza come il sistematico aggiramento delle regole; a chi confonde l’iniziativa privata con la libertà di depredare lo Stato e annientare chiunque ne sia di ostacolo. Si credono demiurghi perché “creano lavoro”, si celebrano come “benefattori” perché anche loro pagano le tasse (in verità, poche); si sentono “vittime” degli errori commessi sempre e solo dagli altri; pretendono di essere al di sopra della legge in quanto fedeli vassalli di Arcore. La verità è che non hanno mai smesso di vivere nello stato di natura, in cui “homo homini lupus”, e come il Leviatano faranno a brandelli gli ultimi scampoli di etica pubblica rimasti.

Carmelo Sant’Angelo

 

La funzione pubblica va svolta con onore

I deputati e senatori che hanno indebitamente richiesto i 600 euro di bonus, forse non ricordano quanto stabilito dall’art.54 della Carta Costituzionale, secondo cui chi è chiamato a svolgere pubbliche funzioni è tenuto a espletare tale munus con disciplina e onore. Onore è il rispetto di sé tramite il rispetto degli altri, e viceversa. È comportarsi in segreto, quando non ti vede nessuno, allo stesso modo che se fossi in pubblico. È capire che l’etica non è in relazione agli altri; se gli altri ti deludono o ti derubano, non è un buon motivo per ricambiare. L’onore è un principio più alto dell’onestà. L’onestà è una virtù ma non sta da sola, c’è qualcosa che la precede e che l’accompagna, è l’onore. Questi deputati che hanno richiesto e ottenuto i bonus, hanno violato la Costituzione, perché non hanno onore.

Biagio Riccio

 

Il sistema economico globale è da ripensare

La Pandemia che sta imperversando ci sta facendo capire che la percezione che noi umani avevamo dell’esistenza era totalmente sbagliata. Abbiamo creduto di dominare la natura ma stiamo constatando che così non è e che mai potrà esserlo. Un’altra grande certezza su cui basavamo le nostre vite è il sistema economico, che si sta dimostrando inadeguato a garantire l’esistenza di gran parte del genere umano. Il capitalismo iper-liberista non ha in sé i meccanismi di emergenza che possano affrontare certe crisi, come dimostra la situazione che viviamo. Soltanto l’intervento dello Stato può evitare che a tragedia (l’epidemia) si aggiunga altra tragedia (dissesto economico di gran parte della popolazione).

Mauro Chiostri

 

Il costo della politica dipende dalla corruzione

L’unico motivo addotto per votare sì al referendum del 20-21 settembre è quello di abbassare il costo della politica in un’ottica aziendale, diciamo. Ma se i parlamentari costano troppo, perché non abbassare lo stipendio anziché il numero? Ma il problema italiano è la corruzione, che fa lievitare i costi, non i costi presi in se stessi. Poniamo il caso che un Paese abbia un alto numero di medici corrotti: si taglia il numero di medici negli ospedali? Certo che no: si rimuove il corrotto, se si dispone di un sistema giudiziario efficace e veloce, ovvio. Ecco, lo stesso principio di buon senso dovrebbe applicarsi anche nella politica.

Angela Maria Piga

 

DIRITTO DI REPLICA

Scrivo per puntualizzare alcuni punti dell’articolo uscito sul Fatto l’11 agosto. L’espressione del titolo “Brutti copioni, mi hanno rubato Martin Mystère” non l’ho mai detta, anche perché l’oggetto del contendere è il mio personaggio “Kepher”, Martin Mystère non c’entra. Dire, poi, che il mio fumetto è stato “consegnato solo per una valutazione” non è corretto, avendo io dato il materiale perché si procedesse col lettering. Mi vedo, inoltre, costretto a controreplicare al “Diritto di Replica” del 14 agosto, in cui il signor Castelli mi definisce “un collaboratore saltuario della testata”: ciò mi fa sorridere considerati gli anni trascorsi assieme professionalmente; con la Bonelli ho iniziato a lavorare poco oltre la metà degli Anni 90. È giusto che si sappia che non ho mai denunciato la Bonelli: è la casa editrice che si è inserita autonomamente, ad adiuvandum, a difesa di Recchioni e Rigamonti, invece di prendere eventuali decisioni a sentenza emessa per ragioni di imparzialità. Si dice: “Non vi è stato alcun plagio perché le soluzioni narrative sono caratterizzate da mancanza di originalità”. Se questo fosse vero perché Allagalla avrebbe insistito tanto nel voler pubblicare Kepher? Quale editore vorrebbe pubblicare un fumetto che non sia “originale”?

Roberto Cardinale

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo pubblicato lunedì dal titolo “La partita in Mediobanca: Del Vecchio vuole il 20% per non cambiare nulla”, è stato erroneamente scritto che Enrico Cuccia è nato a Patti. Nonostante le innegabili origini siciliane, il padre di Mediobanca non è nato in Sicilia e men che meno a Patti, terra natia di Michele Sindona, bensì a Roma. Ci scusiamo per l’imperdonabile lapsus coi lettori e con gli interessati.

Fio. Cap. e G. Scac.

Liti temerarie. In gioco c’è la libertà di stampa. E i diritti dei cittadini

 

Caro direttore, nell’articolo di Giovanni Valentini sul Fatto di sabato si dava notizia di un disegno di legge che prevede che “nel caso in cui (in un procedimento civile per diffamazione a mezzo stampa) risulta la malafede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno”, se la domanda viene respinta dal tribunale, l’attore sia condannato a pagare al convenuto una somma non inferiore a un quarto di quella richiesta (in origine si prevedeva la metà). Alla faccia della ipotizzata deterrenza contro le liti temerarie che, per quanto leggo, sono state nel 2015 il 90 per cento, con 911 citazioni per 45,6 milioni di euro di richieste per risarcimento di danni. Mi piacerebbe sapere perché l’indennizzo dovrebbe essere inferiore alla somma richiesta: se qualcuno tenta di estorcermi una certa somma – di solito, ovviamente, elevata – con una citazione temeraria, perché deve “rischiare” in caso di soccombenza solo un quarto di quanto aveva richiesto? A me pare più giusto che la somma in gioco debba essere la stessa: per l’attore, se vince, ma per il convenuto se la domanda è respinta. E questo per tutte le cause civili, non solo quelle per diffamazione a mezzo stampa.

Mario Ferrarese

 

Sono tanto d’accordo con il lettore che, in caso di “malafede o colpa grave” nelle querele per diffamazione a mezzo stampa con richiesta di risarcimento danni respinta dal tribunale, l’attore dovrebbe essere condannato a pagare al convenuto non la stessa somma, oltre le spese, ma magari il doppio! Tant’è che il senatore Primo Di Nicola (M5S) nella versione originaria del suo disegno di legge aveva proposto il 50 per cento. Poi, lui stesso s’è dovuto “accontentare” del 25 per cento, di fronte alle resistenze dei colleghi degli altri partiti: altrimenti, il testo non sarebbe stato approvato dalla Commissione Giustizia di Palazzo Madama.

Evidentemente anche un provvedimento così fondato e ragionevole, in difesa della libertà di stampa, suscita tra i parlamentari opposizioni e ostilità. Tale è la diffidenza del ceto politico nei confronti di chi fa il nostro mestiere. E pensare che una proposta di questo genere non tende a difendere solo i giornalisti dalle cosiddette “liti temerarie”, ma soprattutto i lettori nel loro diritto di essere informati in modo completo e tempestivo.

Giovanni Valentini

Il caldo brucia il pianeta: facciamoci un selfie a 54°

Sorride entusiasta nella foto la ranger del parco della Death Valley in California, l’indice che indica fiero qualcosa accanto a sé. Una nuova nidiata di cuccioli? Il numero dei visitatori mai raggiunto? No, la temperatura massima mai rilevata sulla terra, proprio lì. D’altronde pare che da quando la Death Valley ha raggiunto, domenica, oltre 54 gradi, frotte di turisti abbiano rischiato il collasso termico pur di scattarsi un selfie col termometro, proprio come farebbero con l’animale di turno (nella foto si vedono 56 gradi, 54,4 invece la rilevazione ufficiale).

Non sembra esserci consapevolezza alcuna del rapporto tra la temperatura della terra e la possibilità di continuare a esistere, tanto che il fatto che dovrebbe angosciare viene derubricato a folklore, cartolina da collezionare al rientro. Tale è ormai la certezza della nostra digitale immortalità e della superiorità umana rispetto al resto che si è convinti in fondo che il calore non potrà mai comunque superare ciò che noi siamo in grado di sopportare. E che si possa dunque anche ridere e mandare un saluto alla nonna di fronte a cifre in sé sconvolgenti. D’altronde, non hanno mica troppo torto i nuovi “selfisti della temperatura”: perché dovrebbero preoccuparsi se quasi l’intero arco parlamentare non ritiene la questione climatica centrale, anzi la ignora, e se la maggioranza dei giornali di clima non si occupa? E perché darsi pena se tutto intorno a loro – comprese le pubblicità delle aziende – è rimasto uguale a cinquant’anni fa e se al massimo si inizia a parlare vagamente di green, raccolta plastica, critica al cemento, fermi ancora come siamo ai temi della canzone del ragazzo della via Gluck? Il cambiamento climatico? Ci penserà la tecnologia, ci penserà l’adattamento, ci penseranno altri.

Noi, intanto, ci facciamo un selfie a 54 gradi. E non vediamo l’ora che siano 60, sai quanti like su Facebook!

‘Il Riformista’ e la guerra a chi accusa il suo editore

Anche ieri il Riformista di Piero Sansonetti è tornato a occuparsi di noi. Insinuando che “qualche motivo ci sarà…” se, a loro dire, non passiamo sotto silenzio “le critiche al pm Henry John Woodcock”. Si riferiva al botta e risposta sul processo Cpl Concordia. Una colossale bufala della magistratura inquirente, a leggere il Riformista che amplificando all’estremo l’assoluzione definitiva per concorso esterno in associazione camorristica dell’ex presidente della coop rossa Roberto Casari, glissava in un rigo la condanna per corruzione e reati fiscali a 4 anni. Noi, in poche righe, ci siamo limitati a ricordare che una condanna così grave – sia pure solo in primo grado – avrebbe suggerito meno enfasi. In realtà non passiamo sotto silenzio le balle, a prescindere se riguardino le inchieste di Woodcock o di Pinco Pallino. E precisiamo, visto che lui misteriosamente ha tagliato proprio quella riga, che noi non li accusiamo “di voler screditare i pm e i carabinieri” e basta. Li accusiamo di voler screditare i pm e i carabinieri che hanno mandato sotto processo per il caso Consip il loro editore Alfredo Romeo. Legittimo che Sansonetti non gradisca e ci risponda per le rime. Ma senza tagli, please.