Discoteche. I gestori dichiarano solo 18 mila euro all’anno: cifre da Caritas

C’è sempre da diffidare quando si sente la formuletta facile che recita: “Trasformare un problema in un’opportunità”. Di solito si intende che la sfiga resta per molti, quasi per tutti (il problema), e pochi, pochissimi, colgono la palla al balzo per guadagnarci (la famosa opportunità). Insomma, mi scuso in anticipo se userò questa formuletta in modo un po’ libero, ma insomma, i tempi sono quelli che sono e quindi sì, potremmo tentare davvero di trasformare un problema in opportunità.

Caso di scuola: gli aiuti che lo Stato, giustamente, elargisce ai settori in difficoltà, sia ai lavoratori (la cassa integrazione e gli altri ammortizzatori) che alle aziende. Distribuiti a pioggia e senza troppi controlli nei primi mesi dell’emergenza Covid, sono diventati una coperta – corta, come sempre – che ognuno tira di qua e di là, sempre dalla sua parte, ovvio. Così la sora Meloni poteva tuonare “Mille euro a tutti”, dal bracciante a Briatore, e i capataz di Confindustria implorare di darli tutti a loro. Sono ben note le condizioni di partenza: una situazione drammatica mai vista, con il Paese chiuso, molte produzioni ferme, i lavoratori in casa, eccetera eccetera. Un errore, non aver messo limiti e paletti adeguati alla distribuzione di soldi, vero, e un’unica scusante abbastanza potente: la fretta e – appunto – l’emergenza. Poi si è scoperto che almeno il trenta per cento delle aziende ha fatto lavorare i dipendenti lo stesso, pagandoli con soldi nostri (la cassa integrazione invece dello stipendio), il che è stato quantificato come un furto di circa 2,7 miliardi, non un dettaglio, insomma. Questo il problema. Veniamo all’opportunità.

Il decreto di chiusura delle discoteche offre un buon esempio per la discussione. Attentato al libero mercato, dicono i gestori, con Salvini che si accoda, forse memore dei balletti con le cubiste del Papeete, e lady Santanchè che si fa riprendere mentre danza, si ribella, dice che la sua, di discoteca, non chiuderà. Tutto bellissimo. Poi vai a cercare qualche dettaglio ed eccolo qui. Proprietari e gestori di discoteche, a leggere gli studi di settore (quando ancora c’erano) e le dichiarazioni dei redditi degli anni successivi, non superano in media i 18.000 euro di reddito annui, un giro d’affari che sembrerebbe miserabile anche per una piccola salumeria. I titoli dei giornali se la prendono sempre con i gioiellieri che guadagnano meno delle loro commesse – un classico –, ma a giudicare dai dati del ministero dell’Economia (basta cercare “discoteche dichiarazioni dei redditi”) si direbbe che chi possiede una sala da ballo col bar, le luci abbaglianti, il dj, le cubiste e altre cose utili al divertimento, passi le sue giornate in fila alla Caritas, guidi una vecchia Panda del ’99 e mantenga la famiglia con meno di 1.200 euro al mese. Francamente, anche con molta buona volontà, è difficile da credere.

Ecco dunque l’opportunità: perché non cogliere l’occasione degli aiuti (sacrosanti, ripeto) per fare un serio controllo in alcuni (anche tutti) i settori economici? Intanto, ovvio, commisurare gli aiuti alle dichiarazioni dei redditi, dato che sarebbe pazzesco rimborsare oltre i guadagni dichiarati. E poi approfittare dei controlli per verificare le condizioni di lavoro: quali contratti? Quali inquadramenti professionali? Quanti lavoratori in nero? Possiamo vedere il cedolino di fine mese dei buttafuori o delle cubiste? I contratti dei dj? Coraggio, Inps, Inail, ministero del Lavoro! Trasformiamo un problema in un’opportunità!

America: un secolo di voto alle donne, nessuna presidente

Il 26 agosto di cento anni fa negli Stati Uniti il 19esimo emendamento alla Costituzione introduceva il voto alle donne. Non a tutte, certo: le donne di colore che avevano a lungo lottato insieme alle colleghe suffragette bianche furono estromesse fino al Voting Rights Act del 1965, che proibiva la discriminazione razziale nell’acceso al diritto di voto. Sul New York Times Kathleen Kingsbury, responsabile della pagina dei commenti (e premio Pulitzer) ha stigmatizzato le posizioni che un secolo fa prese il suo giornale sul tema. Che suonavano così: “Il New York Times non crede che il raggiungimento del suffragio femminile aumenterà la felicità o la prosperità delle donne in America”. Una posizione che oggi fa quasi sorridere: quasi perché nonostante il gran parlare che si fa di Kamala Harris e Alexandria Ocasio-Cortez negli Usa non c’è ancora stato un presidente donna. E nemmeno questa elezione sarà la volta buona: in novembre si sfideranno due uomini. “Come donna che ora gestisce la nostra pagina editoriale, non sono orgogliosa di tutte le opinioni dei miei predecessori”, scrive la Kingsbury. “Ma voglio confrontarmi con i tempi in cui la nostra pagina si è trovata dalla parte sbagliata di una battaglia, piuttosto che nasconderli. Riconoscendo le nostre mancanze del passato, possiamo impostare un nuovo corso per il nostro futuro. La storia della nostra pagina dei commenti è sempre servita da guida, in alcuni casi aumentando il nostro senso di trasparenza morale, in altri rivelando i nostri punti ciechi”. In tempi di cancel culture sembra un miracolo.

E noi? Le donne hanno votato per la prima volta nel ’46, ma i traguardi da raggiungere sono ancora molti: la vicenda della legge elettorale pugliese sulla doppia preferenza di genere negata e poi imposta dal governo la dice lunga. Le regole sono fondamentali, ma non sono tutto. Il pregiudizio contro le donne non ha bisogno di essere spiegato: è nelle pieghe private e pubbliche della vita quotidiana. È, un esempio per tutti, nel gender pay gap, cioè la differenza di retribuzione a parità di ruoli e mansioni tra lavoratori uomini e donne (in Italia pari al 4,4 per cento nel settore pubblico, al 17,9 nel privato di fronte a una media europea del 16,6). Per quanto riguarda la rappresentanza, questo è il parlamento più rosa della Repubblica: alla Camera la presenza femminile è del 36 per cento, al Senato del 35. Al di là dei numeri c’è un vulnus cronico che riguarda il riconoscimento del ruolo e dell’autorevolezza. Le donne sono rispettate come gli uomini? Guardiamo alle miserie degli ultimi giorni. Sui giornali si parla di Laura Ravetto, deputata di Forza Italia, insultata per le foto in bikini postate sui social. A Giorgia Meloni la ex sindaca di Rho ha rivolto qualche giorno fa frasi disgustose (“sta diventando calva per eccesso di testosterone”). Per non dire dei fiumi d’inchiostro e critiche versati sulla frangetta di Maria Elena Boschi e sul suo amore da copertina con un attore. Proprio la Boschi disse, nei primi mesi da ministro, “giudicatemi per le riforme, non per le forme” (noi l’abbiamo presa in parola). Sul quel giudizio pesa un pregiudizio millenario contro le donne. Ma anche i comportamenti delle singole persone: una componente del prestigio è la credibilità (parliamo pur sempre di rappresentanti del popolo e non di attricette). C’è però un fatto dirimente, che sfugge ai più: quando si tratta di uomini la ferocia (specie nei commenti sul corpo) non è minimamente paragonabile. E gli insulti andrebbero biasimati a prescindere dalle simpatie politiche.

 

Cara Meloni, non basta definirsi “non fascisti”

Al ritratto critico di Marco Travaglio, che riconosce a Virginia Raggi anche i suoi meriti – “Lavora senza risparmio; di cose buone ne ha fatte (cultura, risanamento finanziario, legalità, no alle Olimpiadi incluso); non ruba e non fa rubare; governare Roma senza soldi né poteri e contro tutti i poteri è molto più arduo di quanto credesse lei, ma anche gli altri (infatti scappano tutti); e soprattutto perché ha tutti contro con argomenti che persino il più anti-raggiano troverebbe pretestuosi” (Il Fatto, 13 agosto) – è doveroso aggiungere l’elogio al suo impegno antifascista.

Già in campagna elettorale, nel 2016, dichiara che “l’antifascismo è un valore non negoziabile”. Una volta eletta, nell’ottobre 2017 partecipa con la fascia tricolore alla manifestazione promossa dall’Anpi contro il tentativo dei movimenti di estrema destra di commemorare la marcia su Roma. Dichiara: “Purtroppo qualcuno vorrebbe portare indietro le lancette della storia, veicolando messaggi di violenza e discriminazione. Ci siamo sempre opposti e continueremo a opporci… Dobbiamo continuare a proclamare ogni giorno Roma fieramente, orgogliosamente e sempre antifascista”. I valori della Resistenza e dell’antifascismo “costituiscono la nostra memoria, sono il pilastro della nostra storia, quello che ci ha trasmesso il pluralismo e la democrazia”. Nel gennaio 2018, in occasione dell’anniversario delle leggi razziali, annuncia la decisione di cambiare i nomi di quattro vie della Capitale dedicate a firmatari del Manifesto della razza. A giugno blocca la mozione firmata da Fratelli d’Italia e da alcuni M5S per intitolare una strada ad Almirante con questa inequivocabile motivazione: “Una vergogna per la storia di questa città”. Al conferimento della Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza alla città di Roma, afferma che “la Resistenza non è soltanto un ricordo. È la capacità di opporsi ogni giorno alle ingiustizie e alle prepotenze”, e ha organizzato una cerimonia in Campidoglio con alcuni rappresentanti dell’Anpi e della Comunità ebraica che purtroppo hanno per anni celebrato il 25 aprile separatamente.

Dell’impegno a opporsi “ogni giorno” alle ingiustizie e alle prepotenze, la giunta capitolina aveva dato esempio con l’approvazione, nel gennaio 2019, della mozione di sgombero dei locali di via Napoleone 111 illegalmente occupati dall’associazione neofascista CasaPound. Il Comune di Roma non ha il potere di attuare lo sgombero. Potrebbe farlo il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che, per ragioni a tutti note, se ne guarda bene. Giusto lo sdegno della sindaca: “Se invece di cambiarsi le felpe andasse a lavorare sarebbe meglio. Se mi desse la felpa da ministro degli Interni per un giorno andrei a sgomberare Casapound”. Il Comune di Roma riesce tuttavia a far rimuovere la scritta CASAPOVND dalla facciata dell’edificio. È un atto di notevole valore simbolico che attira sulla Raggi minacce e intimidazioni.

Chi invece non ha affatto le carte in regola sull’antifascismo – che io considero requisito di ogni persona umana e dovere di ogni rappresentante della Repubblica italiana – è l’onorevole Giorgia Meloni. Alla quale non imputo di essere fascista, ma di non essere antifascista. “Ho un rapporto sereno con il fascismo (cosa vuol dire?)… Lo considero un passaggio (di che tipo?) della nostra storia. Mussolini ha fatto diversi errori, le leggi razziali, l’ingresso in guerra, e comunque il suo era un sistema autoritario. Storicamente ha anche prodotto tanto, ma questo non lo salva”. (Corsera Magazine, 7.12.2006). Non basta, onorevole Meloni. Quelli che lei ha definito errori erano crimini. Il fascismo ha offeso il valore supremo della persona umana assassinando, incarcerando, costringendo all’esilio gli oppositori politici; ha arrecato più male alla patria di qualsiasi altro regime togliendole le libertà civili e politiche, coprendola di vergogna con le guerre coloniali e le leggi razziali, portandola in una guerra a fianco di Hitler. E lei sa dire soltanto che “ha anche prodotto tanto, ma questo non lo salva”? No, chi è davvero antifascista dice che il fascismo, qualunque altra cosa abbia fatto, merita un condanna assoluta, senza appello nè attenuanti perché ha offeso la persona umana e devastato la patria. Proprio perché il fascismo ha violato valori assoluti e l’antifascismo afferma valori assoluti, fra fascismo e antifascismo c’è un’opposizione inconciliabile. O fascisti o antifascisti, se si vuole avere un minimo di dignità intellettuale e morale. Scelga lei. Una destra liberale, seria, leale alla Costituzione, e dunque antifascista, nemica dei demagoghi come Salvini e dei delinquenti come Berlusconi, come auspica Antonio Padellaro, sarebbe un bene per l’Italia. Ma la strada è ancora lunga.

Il Parlamento sembra il Palio, ma quasi mai vince il cavallo migliore

 

Il Palio di Siena 2020 non si correrà (FQ Magazine, 14 maggio 2020).

 

Il leghista Paolo Paternoster si toglie la mascherina. Il presidente Fico prova ripetutamente a convincerlo a rimettersela (“Non possiamo andare avanti così”), fino a sospendere la seduta per cinque minuti. Poi si riprende, con la Lega sempre nervosissima (FQ, 1 maggio 2020).

 

Il Parlamento è come un Palio di cui i presidenti delle due camere sono i mossieri, che giudicano la regolarità del dibattito in aula, richiamando e ammonendo i politici in caso di comportamento scorretto. In Parlamento, la politica si respira tutto l’anno, ma diventa una cosa che si può toccare con mano a ridosso della corsa elettorale, quando i candidati, nella speranza di mettersi in luce e di essere scelti, fanno la loro apparizione ufficiale in programmi tv dove i conduttori, come veterinari, li sottopongono a una visita accurata. I partiti impongono agli elettori il candidato che gli pare: a volte, la giustizia ne tiene in carcere qualcuno fino al giorno in cui, moralmente smacchiato e disinfettato, viene catapultato in Parlamento, cui apporta la legittima allegria che proviene da un acquisto così insperato.

Chiunque può essere candidato al Parlamento: nel giugno dell’83, per esempio, il Msi di Almirante mise in lista l’avvocato Manfredi Orbetello d’Aragona: era morto qualche settimana prima, ma portava migliaia di voti. Il Msi prese parte alla tribuna politica con la bandiera repubblichina abbrunata, su un cuscino i piedi del parlamentare deceduto, insieme con il fiore (un tulipano bianco) inviato dal partito nemico, il Pci di Berlinguer. Ho detto nemico, perché i partiti hanno rapporti di alleanza con altri partiti, ma soprattutto hanno un rapporto di fiera inimicizia con il loro nemico. Il fatto che non vinca il nemico è più importante della vittoria stessa, e contro il partito avversario si indirizzano canti dai versi a volte pesanti, che vengono pareggiati da quelli indirizzati in senso inverso. I capicorrente si incontrano in gran segreto per stipulare accordi con i quali cercano di danneggiare i nemici: ogni partito, anche se ha avuto in sorte dei brocchi, vuole vincere.

Questi accordi fanno parte del gioco bello che si chiama politica italiana, che, lo avete ormai capito, non è una corsa nella quale vince il migliore. Il giorno prima del silenzio elettorale, che proibisce la propaganda, i candidati cercano di apparire un’ultima volta da Vespa (“il cencio”, come lo chiamano affettuosamente in Rai): nello studio tv c’è un grande silenzio, perché i candidati, a quest’ora già abbondantemente trattati con sostanze stimolanti, non si innervosiscano. Una volta eletti, impareranno presto a conciliare ciò che avevano in programma con ciò che viene loro consigliato dall’opportunità, dalla convenienza e dall’inevitabile; e capiranno che, spesso, rimediare a grandi ingiustizie metterebbe in gioco interessi ai quali nessuno vuole rinunciare. Momenti che verranno rivissuti nei giorni a venire con racconti alla buvette, dove si ride ancora della volta che un giornalista cercò di attaccar bottone con Andreotti parlando della legge elettorale, e Andreotti lo tacitò dicendo: “Guardi, ho ottant’anni e non mi sono mai interessato di politica”. Il Parlamento, infatti, vive di tradizione orale: è una cosa politica fatta dai politici per i politici. I giornalisti possono interessarsene, ma in punta di piedi, senza disturbare. E così la cronaca politica diventa storia, diventa leggenda, diventa mito.

 

La prudente vaghezza dei nominati

È confortante prendere atto dell’esistenza di un Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, composto da deputati e senatori di maggioranza (da Graziano Delrio Pd, a Ettore Rosato Iv), e di opposizione (da Mara Carfagna FI, a Fabio Rampelli FdI, ai leghisti Massimiliano Romeo e Giancarlo Giorgetti). Consola il fatto che la politica sappia manifestarsi agli occhi dei cittadini come dialogo tra diversi mettendo da parte, per una volta, risse e insulti. Dalla lettura del testo comune pubblicato ieri dal Corriere della Sera abbiamo ricavato tre considerazioni. La prima, se non abbiamo saltato qualche firma riguarda l’assenza di rappresentanti del M5s (c’è il deputato Paolo Lattanzio, eletto con i grillini ma poi passato al gruppo Misto). Sarebbe interessante capire se alla base della non presenza nell’Intergruppo di rappresentanti del gruppo parlamentare più numeroso vi sono ragioni insuperabili, e quali. Una seconda considerazione concerne il merito del documento nel quale più che di Sussidiarietà (principio secondo il quale, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire ma può eventualmente sostenerne l’azione) si critica “il ricorso continuativo dei Dpcm” da parte del premier Giuseppe Conte durante la pandemia. Poiché “la Costituzione non prevede un diritto speciale per lo stato d’emergenza”. Terzo punto: “ è sotto gli occhi di tutti la necessità di una riforma che renda più decisivo il rapporto tra rappresentanti e rappresentati”, scrivono i parlamentari, lamentando che “al legislatore manca l’energia che viene dal basso”. Giudizio condivisibile se non rimanesse nel cielo dei buoni propositi ma senza sporcarsi le mani con una proposta concreta e terrena. Per esempio, quale “energia dal basso” può scaturire da un Parlamento di nominati, che devono rendere conto a chi li ha nominati, senza correre il rischio di non essere più nominati? Se questo è il problema era così difficile dichiararlo senza girarci attorno? Oppure tanta prudente vaghezza ha a che fare con il noto principio del non disturbare il manovratore (o se vogliamo il nominatore)? Del testo in questione si parlerà al Meeting di Rimini di CL , il 21 agosto. E forse questo spiega tutto.

Quando Salvini pestò la Nutella e altri harakiri

Domani ricorrerà il Primo Anniversario della Liberazione dal Cazzaro Verde. Poco dopo essersi suicidato al Papeete, Matteo Salvini ricevette il supplizio per mano di Giuseppe Conte. Era, appunto, il 20 agosto. E una simile selva di badilate non si vedeva dai tempi del primo Mike Tyson. Da allora, Salvini non ne ha più indovinata una. E a difenderlo sono rimasti giusto la Maglie, Bechis e Senaldi. Cioè nessuno. Scegliere le peggiori dieci bischerate di quel che resta del Cazzaro è opera improba, perché lui ne combina mille al giorno. Limitiamoci, quindi, a una delle molte possibili “top ten dell’insipienza politica totale” regalateci da questo diversamente baldanzoso figuro che, da un anno, barcolla ma non molla.

1. Non si può non partire da qui: proprio da quel fiammeggiante 20 agosto. Sottovalutando clamorosamente Conte, Salvini lo avvicina sorridendo e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Dietro di loro, l’ex ministro (aiuto…) Giulia Bongiorno ride oltremodo rapita: poco dopo, sghignazzeranno entrambi assai meno. A ogni scudisciata di Conte, ritenuto fino a quel punto un mezzo coglione da tutte quelle Marianna Aprile che cincischiano di politica come Paolo Fox di astrologia, Salvini – sedutosi genialmente alla sua destra, e dunque sempre inquadrato mentre l’altro parlava in piedi – si contorce e sbuffa. Soffre e si dimena. Annaspa e implode. Per poi esplodere in una gamma pietosa di faccette alla D’Urso. Ecco: Salvini, politicamente, è morto lì. E la cosa incredibile è che nessuno, tra i suoi “amici”, ha ancora avuto il coraggio di dirglielo.

2. Salvini, prima di quell’agosto del suo scontento, in tivù era bravissimo. Soprattutto nei testa a testa. Poi, da settembre, ha cominciato a prenderle da tutti. Botte come se piovesse. A Cartabianca (lo confesso: c’ero anch’io e quella volta peccai senz’altro di eccessivo ardimento). Da Floris, dove dà quasi sempre il peggio di sé. Da Gruber. Per questo, dal 2020, andrà quasi solo a casa sua. Cioè Rete4, D’Urso o “Non è l’Arena è Salvini” (cit Travaglio).

3. Compulsivo dei social, nell’ennesimo rigurgito di sovranismo a caso attacca la Nutella perché non usa nocciole italiane. Poi, resosi conto che la Nutella è un colosso, chiede scusa e fa un mestissimo tweet riparatorio in cui troneggia accanto a dolciumi cioccolatosi. Ah: le foto in cui si strafoga di qualsivoglia cibo, possibilmente ipercalorico, dopo il Papeete si intensificano. A conferma di come anche Salvini affoghi le sue pene nel cibo. E quel suo sbarazzino triplo mento (chiaro tributo a Jabba The Hutt) ce ne dà in questo senso orgogliosissima conferma.

4. Ospite di Bruno Vespa, dice che guardando la Madonna di Medjugorje ha capito che Conte è uno che mente. È a quel punto che, da un punto non troppo lontano, si sente avvicinarsi un plotone misericordioso di ambulanze.

5. Convinto di stravincere le elezioni in Emilia Romagna (con la Borgonzoni!), il Cazzaro Verde fa il ganassa e si mette a suonare il citofono di sedicenti criminali (che criminali non sono) tunisini. È uno dei punti più bassi nella storia dell’umanità. Ma Salvini continuerà a scavare ancora.

6. La pandemia devasta quel che resta del “leader” della Lega (parentesi: se non avesse sbagliato tutto ad agosto, questo qua ci avrebbe governato durante il lockdown. Aiuto!). Uno dei primi cedimenti strutturali si rileva quando il Nostro straparla di un “foglio” che esiste in Svizzera: tu lo compili e – zac! – lo Stato ti regala subito 500 milioni, tre Rolex, 4 Lindt e una mucca pezzata in scala 1:12. Daje.

7. In pieno lockdown, propone genialmente di permettere agli italiani di andare a messa con Pasqua. Giusto per aumentare i contagi e, con questo, mettere ancor più a dura prova la fede di noi tutti.

8. Dal 2 giugno in poi, Salvini se ne frega delle regole e organizza assembramenti a getto continuo. Per motivi insondabili, nessuno lo multa. Arriva pure a partecipare a un raduno di casi umani (fatte salve alcune eccezioni) al Senato. Una mandria di no mask, negazionisti, nature morte e complottisti alla canna del gas. Il circo Barnum dei citrulli.

9. Zimbellato da Floris, si fa ridere dietro da tutti dimostrando di non avere ancora capito che la mascherina va usata anzitutto quando sei vicino a una persona (ancor più se sconosciuta) e gli sputicchi in faccia mentre ci parli.

10. Con fare bulimico e compulsivo, si scofana otto chili di ciliegie mentre Zaia accanto a lui parla di bambini morti. Poi, il giorno dopo, a Sky nega tutto: “Ma dai, secondo lei io mi metto a mangiare ciliegie mentre si parla di bambini morti? Via, su”. La giornalista, cristianamente, capisce che di fronte a un uomo in uno stato così confusionale persino Basaglia avrebbe avuto problemi. E quindi neanche replica. Aiutatelo. O magari no.

Se ne va lo “schiaffeggia-leoni”: l’uomo che commissariò la Fiat

Diego Novelli, il sindaco comunista di Torino, in dialetto lo chiamava “Sgiafelaleun”, Schiaffeggialeoni. Quasi a volerlo accusare di essere un velleitario. In realtà, Cesare Romiti era tutt’altro che un rodomonte, anzi: la sua vittoria più brutale era stata proprio contro il Pci, il sindacato e gli operai. Nel 1980 quando, al termine dei “35 giorni” alla Fiat, la “marcia dei 40 mila” di capi e quadri aveva spazzato via 70 anni di “scontro di classe” nella città laboratorio di Einaudi, Gobetti e Gramsci, il vero trionfatore era stato proprio Romiti, più ancora dell’Avvocato. Un padrone, nel più pesante significato del termine: “In quei giorni, a Torino si era installato il mio amico Valentino Parlato, del Manifesto. Sosteneva che avrei sbattuto il grugno e che sarebbe sorto il comunismo…”. Un nemico mai domo della sinistra e dei lavoratori anche se, in segreto, affascinava qualche capo del Pci subalpino.

La sconfitta più clamorosa, invece, arrivò nel 1997, quando gli toccò la condanna per i falsi in bilancio della Fiat, dopo un rito abbreviato: chiesto come se confidasse, vai a sapere, in qualche aiutino giudiziario. Sentenza poi senza più effetti, dopo la riforma del reato. Il verbale del suo primo interrogatorio, in un’inchiesta figliata da Tangentopoli, si chiudeva però con parole che gli valsero più di un’assicurazione sulla vita: “A questo punto, non intendo più rispondere: ne andrebbe della sopravvivenza della Fiat”. Un anno dopo, infatti, lascerà la presidenza ottenuta nel 1996 (il secondo a ricoprire quella carica, dopo Valletta, pur non essendo un Agnelli e come successore dell’Avvocato) con una buonuscita da favola (196 miliardi di lire) e soprattutto il controllo di Gemina e la gestione di Rcs e del Corriere della Sera. Non gli porterà bene: non riuscirà a fondare una nuova dinastia, tradito dai rovesci e dalle traversie dei figli Maurizio e Piergiorgio.

Romano, era nato nella capitale il 24 giugno 1923. All’apparenza quanto di più lontano per la ruvidità da Gianni Agnelli, collaborerà invece con lui per decenni. Imparando via via, dalla città sabauda, un po’ di charme e il gusto per i salotti e per certe giovani signore della Torino-bene, stemperando passionalità e irruenza da riservare ormai soprattutto agli avversari: nell’azienda e nella politica. Da Bettino Craxi si beccò l’epiteto di “energumeno” e a Ciriaco De Mita, invece, riservò l’accusa di fomentare “rigurgiti anticapitalisti”.

Una conversione alla torinesità simboleggiata dal suo barcamenarsi nel tifo calcistico, “la Juventus è come un’amante, la Roma resta la moglie”, e dalla sequela dell’Avvocato. Nel 2003, durante il funerale di Agnelli, resterà sempre in piedi: “Un omaggio all’Avvocato, lui faceva sempre così quando andava a messa”. “Eravamo amici, ma ci davamo del lei. Un giorno me lo fece notare, ma gli risposi: va bene così. Parlavamo di tutto: le famiglie, le amicizie, le donne. Mi sono sempre piaciute. Perché sono migliori di noi. Sanno ascoltare. Non ti tradiscono. E se proprio lo fanno, porterai sempre dentro di te la loro dolcezza”. Per anni i due si inseguirono nel ruolo del poliziotto buono e del poliziotto cattivo: Agnelli mieteva consensi, Romiti martellava portando a casa astio ma risultati.

Figlio di un impiegato statale, “si chiamava Camillo e lavorava alle Poste: con uno stipendio solo in casa, facevamo una vita dura”, si laurea in Economia e comincia la sua carriera alla Bomprini Parodi Delfino e poi infilza una raffica di incarichi e di scalate gerarchiche, passando per Snia Viscosa, Alitalia e Italstat. Sino al 1974: quando approda al gruppo Fiat come direttore finanziario. “Ci finii su consiglio di Enrico Cuccia. Personaggio affascinante. Un azionista antifascista con la moglie che si chiamava Idea Socialista e una cognata di nome Vittoria Proletaria”. Il suo primo compito sarà di risanare e sarà, con Gabetti e Grande Stevens, uno dei registi dell’accordo che porta nel gruppo i capitali libici di Gheddafi. “Era una enorme azienda dove tutta la contabilità era ancora fatta a mano. Eppure, eravamo in novembre, non c’erano in cassa neanche i soldi per le tredicesime. C’era bisogno di un capo vero. Ne avrò parlato mille volte con l’Avvocato, che ne era perfettamente cosciente: gli Agnelli sono bravissimi a regnare. Non a governare”.

Pronto, dunque, al grande salto come amministratore delegato nel 1976, instradato da Enrico Cuccia e da Mediobanca che, per due volte, toglieranno dalla sua strada Umberto Agnelli. Protagonista del capitalismo italiano del secondo Novecento: “familiare”, ma sotto protezione dei grandi demiurghi della finanza. Spietato e cattivo, nelle sfide interne, ottenendo sempre la testa degli avversari: Carlo De Benedetti, Vittorio Ghidella, cacciato senza mai dire il perché, e il fratello dell’Avvocato, appunto.

Ha affrontato gli anni del terrorismo a Torino, con le Br che colpivano i dirigenti Fiat, “nei giorni del sequestro del generale statunitense Dozier, stavano per rapire anche me”, la grande ripresa degli anni Ottanta (nel 1989, l’utile del gruppo fu di 3.300 miliardi di lire), la crisi del ’93 e di Mani Pulite (“La festa è finita”, disse Agnelli). Non sarà lui a vivere gli anni del quasi fallimento e di un’azienda ormai nelle mani delle banche più che della Famiglia, anche se tutto era cominciato nel finale della sua gestione.

Il resto sono gli insuccessi dei figli e l’uscita forzata e amarissima da Rcs e dal Corsera, e due risposte negative a Berlusconi: “Mi voleva come suo manager, ma era impossibile con uno così. Poi mi propose di candidarmi a sindaco di Roma contro Veltroni”. Dell’ultima Fiat parlava solo ogni tanto, ma con qualche staffilata perfida: “Marchionne non l’ho mai conosciuto davvero. Dopo la sua nomina lo chiamai, dovevamo incontrarci, poi tutto sfumò. Credo gli avessero suggerito di lasciarmi perdere”. Due anni fa dichiarò che Fca non era più “un’azienda italiana”. Forse il più grande rammarico, ora che è da un’altra parte, è di non poter più dire la sua quando l’azienda del Lingotto sarà venduta per sempre.

Il “presidendo” Draghi al meeting di CL: un vero discorso da capo dello Stato

Mario Draghi, ormai, produce solo testi sacri. Nel senso che appena parla tutti si danno all’esegesi di quello che un ottimista chiamerebbe il suo pensiero e non certo perché le sue prolusioni siano toccate dalla Grazia (e neanche da Graziella). Ieri, per dire, s’è presentato in un altro luogo di cui si dice avrebbe rapporti col sacro, il Meeting di Comunione e Liberazione, e ha tenuto un discorso ovvio e pomposo quanto basta, tanto alto da non doversi misurare col basso, prescrittivo il giusto: insomma, un discorso da vero presidente della Repubblica, carica a cui l’intero Parlamento l’ha già candidato fin d’ora per il 2022.

Nel merito, ci ha rivelato l’ex governatore della Bce, il problema di questa fase è “l’incertezza” (eh no?): “Alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento”. Pure tutta questa tecnologia modificherà sì il mondo del lavoro, ma certi settori poco o niente. Insomma “nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario” (signora mia) e, se del caso, si deve cambiare idea. La reazione dei governi è “andata nella direzione giusta”, ma “l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre. Ora è il momento della saggezza”. Ma in sostanza? “I sussidi servono a sopravvivere, ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e se non si è fatto niente” saranno cavoli loro. I giovani, insomma, pensare ai giovani investendo in istruzione e “capitale umano” e, per farlo, fare “debito buono” – quello che aiuta la crescita – e non “debito cattivo”, che non lo fa perché lo si usa a “fini improduttivi”. E poi l’ambiente, per carità: Draghi non ci dorme la notte sulla “riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita”.

Infilati questi brevi “cenni sull’universo”, il presidendo (gerundio) della Repubblica ha buttato lì la parte più squisitamente quirinalizia del testo, il “monito”: l’Europa è l’orizzonte dell’Italia, la Ue s’è svegliata e i vincoli su bilancio e aiuti di Stato rimarranno sospesi “per molto tempo” e in ogni caso saranno modificati, un’occasione che non va sprecata, nel senso che il governo deve fare i compiti a casa (“la responsabilità legittima la solidarietà” e, servisse una lista delle cose da fare, c’è già una letterina del 2011). Questo, ci ha sorpreso Draghi alla fine, “è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione”. E con che voce d’angelo l’ha detto! Non sembra neanche la stessa, udibile negli audio di Euroleaks, con cui minacciava la Grecia solo cinque anni fa.

Forzista escluso per le quote rosa: candida la madre

Un candidato di Forza Italia alle regionali in Liguria ha lasciato il posto in lista alla madre per consentire alla coalizione di centrodestra di essere in regola con le quote rosa. Filippo Maria Bistolfi, 37 anni, dentista di Ventimiglia, aveva già fatto affiggere i manifesti con il suo volto ma dopo l’apparentamento di Fi con Liguria Popolare e Polis gli è stato chiesto di fare un passo indietro per dare spazio a una donna. Da qui la scelta di candidare la madre, Ada Cassini Bistolfi, 65 anni, anche lei dentista, nella coalizione che sostiene il governatore in carica Giovanni Toti. “Sono stata chiamata e sono contenta di poter portare aiuto e, oltre a tutto quello che potrà fare mio figlio che ha le sue conoscenze, di portare un mio contributo con le donne per le donne. Spero di poter fare un ottimo risultato per questa coalizione nella quale credo fermamente” ha detto la candidata a sorpresa Ada Cassini Bistolfi. Soddisfatto il sindaco di Imperia, l’ex ministro Claudio Scajola che ha nominato il figlio rinunciatario vice coordinatore di Forza Italia per premiare il “gesto di responsabilità”.

“Autoriciclaggio nel resort di lusso”. Sequestro da 8 mln

Quindici villette con piscina in un esclusivo resort nella Marina di Tertenia in Ogliastra. E poi quote societarie, denaro, immobili e due auto di grossa cilindrata per un valore di otto milioni di euro. È stato tutto sequestrato dalla Guardia di Finanza di Perugia e di Nuoro che indaga su una presunta associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari e all’autoriciclaggio. Nella rete degli inquirenti sono finiti Antonio Gentile, imprenditore abruzzese con interessi in Ogliastra, e l’avvocata Luisella Corda, già consigliera comunale a Iglesias e in passato legata da rapporti d’affari a Flavio Carboni, il faccendiere sardo condannato a Roma per l’associazione segreta P3 e in passato coinvolto nelle vicende del Banco Ambrosiano. Secondo l’accusa, Corda e Gentile si avvalevano di società intestate a prestanome per creare falsi crediti d’imposta milionari, poi incassati direttamente o reimpiegati nella Tertenia Resort, dopo un passaggio su conti esteri.