Draghi di Nazareth

Essendo, comunque la si pensi, un personaggio di alta qualità, Mario Draghi ha il suo bel daffare a schivare il pressing dei cortigiani che lo vorrebbero presidente del Consiglio e/o della Repubblica, ministro, supercommissario a qualsiasi cosa, ma anche presentatore del festival di Sanremo e di Temptation Island. Ieri mattina, per dire, non aveva ancora parlato al Meeting di Rimini e già i giornaloni, pur non avendo la più pallida idea di ciò che avrebbe detto, si avventuravano in tumide esegesi del suo pensiero, tanto ignoto quanto messianico e salvifico. Il Messaggero, in orgasmo, titolava: “Draghi apre il Meeting: in campo se il governo va in stallo sui fondi Ue”, “Atteso un discorso ‘programmatico’ dall’ex presidente della Bce, che aveva già avvisato: bisognerà convivere con il debito” (ammazza che volpe). E la Repubblica, in estasi mistica: “Il Meeting di Rimini nel segno di Draghi: ‘Può indicarci la via’”, “Vittadini: ‘Ha una visione’” (come i tre pastorelli di Fatima; e pare che senta pure le voci, tipo Giovanna d’Arco).

Poi Supermario ha parlato e non ha detto assolutamente nulla, anche se l’ha detto benissimo. Si capiva che lo faceva apposta, onde evitare che qualcuno gli affibbiasse discorsi programmatici, autocandidature di qua e di là, indicazioni viarie, visioni, apparizioni, divinazioni, annunciazioni, poteri paranormali, sedute spiritiche, messaggi medianici. Anzi, per dirla tutta aveva l’aria di prendere per i fondelli i seguaci non richiesti, pronunciando ostentatamente una serie di banalità come Peter Sellers nei panni del giardiniere Chance in Oltre il giardino. “Fintantoché le radici non sono recise, va tutto bene, e andrà tutto bene, nel giardino”, “Prima vengono la primavera e l’estate, e poi abbiamo l’autunno e l’inverno. Ma poi torna la primavera e l’estate”, diceva Chance: e tutti arrotavano la bocca a cul di gallina per la profondità delle metafore politico-economiche. Ieri Draghi l’ha imitato alla perfezione. “Sono tempi di incertezza, di ansia e di riflessione. Ma non siamo soli e la strada si ritrova certamente”: accipicchia. “Come diceva Keynes, quando i fatti cambiano, io cambio le mie idee”: perbacco. “I sussidi sono una prima forma di vicinanza della società a chi è più colpito, ma servono a ripartire, non resteranno per sempre”: perdincibacco. “Ai giovani bisogna dare di più”: di Ruggeri-Morandi-Tozzi. “Non dobbiamo privarli del loro futuro”: ma non mi dire. “Nel secondo trimestre 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato nella seconda guerra mondiale”: ma va? “Investire nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione e nella ricerca”: apperò.

“Affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione”, da cui “l’Europa può uscire rafforzata”, ma solo se non dimentica che “la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà. Perciò questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale”, anche perché – beninteso – “la situazione di oggi richiede un impegno speciale”: mecojoni. Circonfuso da cotanta studiata vaghezza, Supermario se è ripartito da Rimini supersoddisfatto, convinto di aver messo tutti nel sacco. Tiè. Ma, subito dopo, la cascata di bava e saliva tracimante dalle agenzie di stampa e dai social eccellenti (“Ascoltare Draghi”, “Agenda Draghi”, “Io sto con Draghi”, “Mai più senza Draghi”), si incaricava di dimostrare che ogni suo sforzo era stato vano: apostoli, discepoli, agiografi e prefiche continuavano a tallonarlo con aria estatica, le mani giunte e il passo a ginocchioni, adoranti e petulanti come i seguaci di Brian di Nazareth, il personaggio dei Monty Python inopinatamente scambiato suo malgrado per il Messia. “Dicci, maestro, dicci qualcosa!”. E lui: “Andatevene via!”. “E come dobbiamo andarcene?”. “E io che ne so, lasciatemi in pace”. “Dacci un segno!”. “Ma un segno ce l’ha già dato portandoci in questo posto!”. “Ma non sono io che vi ci ho portati, ci siete venuti da soli!”. “Maestro, il tuo popolo ha camminato molte miglia per stare con te, sono stanchi e non hanno mangiato!”. “E non sarà mica colpa mia!”. “Ma non c’è cibo su questa montagna desolata!”. “Bah, ci sono dei cespugli di ginepro laggiù”. “Miracolo! Ha riempito di frutti quei cespugli che hanno generato bacche di ginepro!”. “Certo che hanno generato bacche di ginepro: sono cespugli di ginepro!”. “Non ci vedevo e ora ci vedo!” (il tizio non vede una buca e ci casca dentro). “Miracolo del Messia!”. “Mi ha pestato un piede!”. “Miracolo! Pesta un piede anche a noi, Signore e Messia!”. “Non sono il Messia”. “Sì, sì, tu sei il Messia, io me ne intendo perché ne ho seguiti parecchi”. “Io non sono il Messia, come ve lo devo dire? Lo giuro su Dio!”. “Soltanto il vero Messia nega la sua divinità!”. “Cooosa? Ma così state cercando di incastrarmi! E va bene, allora sono il Messia”. “L’ha detto! È lui! È il Messia!”. Ora, per sfuggire a quest’orda di zecche bavose e appiccicose, Supermario ha una sola via d’uscita: la stessa di Brian di Nazareth che, sfinito dagli stalker, prorompe in un liberatorio “E adesso andatevene tutti affanculo!”. E quelli, dopo un ultimo disperato tentativo (“Quale via ci consigli, o Signore?”), finalmente si disperdono. Oggi però l’esito è tutt’altro che scontato: siccome non siamo nella Palestina di duemila anni fa, ma nell’Italia del 2020, c’è pure il caso che qualcuno scambi l’eventuale vaffa di Draghi per un’autocandidatura al posto di Beppe Grillo.

Che “Sogno” il fotoromanzo antenato di Instagram

Ha fatto felici generazioni di lettori e decine di editori, se è vero che le 100 mila copie vendute in meno di una settimana dalla rivista Grand Hotel nel dopoguerra non erano un’eccezione. In quegli anni, anzi, l’Italia è incredibilmente in testa alle classifiche dei lettori d’Europa, grazie a un genere da sé inventato e fatto di riviste come Sogno, Grand Hotel, Dolce Vita, Bolero Film, Festival, Nous Deux.

Con milioni di copie vendute – erano ancora nove negli anni Settanta –, divise in vari generi: cineromanzo, fotoromanzo politico (Noi Donne, 150 mila copie nel 1949), oppure cattolici, come la storia fotoromanzata delle sante di Famiglia Cristiana. Ne scrisse persino uno Cesare Zavattini, mentre Vittorio Gassman usava i fotoromanzi per sovvenzionare il teatro e per tantissimi attori è stato un trampolino per il cinema: da Isabella Ferrari a Massimo Ciavarro, da Andrea Occhipinti a Laura Antonelli, da Francesca Dellera alla Lollobrigida. E allora si fa presto a schifarlo, come faceva il Pci, o “guardarlo come un nano in metropolitana o un merlo albino”: bisognerebbe invece ricordare che è stato fondamentale “per l’evoluzione culturale dell’Italia”, come scrive Silvana Turzio nel libro Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli, (Meltemi), diventando strumento di emancipazione per le donne, magari quelle semianalfabete e con pochi spazi di socialità. E proprio per questo, forse, in questa estate di covid-19 la casa editrice Sprea ha deciso di rimandare in edicola la storica Sogno, nata nel 1947, con due foto romanzi integrali, uno con Sophia Loren, l’altro, Amo un cacciatore di farfalle, con Franco Gasparri e Claudia Rivelli. Bilancio felice dopo quattro numeri: “Non piace solo ai nostalgici, riceviamo tantissime lettere di giovani ragazze”, spiega Mario Sprea, direttore; mentre un lettore racconta di quando addirittura da ragazzi si andava nei paesi spacciandosi per consulenti della Lancio (editore specializzato) in cerca di nuovi volti solo per rimorchiare. Chi tra gli attori della tv ancora pratica questo genere, come Barbara Chiappini, parla di un clima “operoso e sereno, senza ansia da auditel”. Già, perché il fotoromanzo non è mai morto: secondo Turzio, vende 250 mila copie in Italia e di più all’estero. Alla faccia di Instagram. O forse proprio perché è stato il primo social network.

Cristo si è fermato ad Alassio e Levi dipinge tra i rovi

“La notte, a Roma par di sentire ruggire i leoni”, scrive Carlo Levi nel celebre attacco dell’Orologio. Ad Alassio, solo il frinire dei grilli, il martellare delle cicale, al massimo il fischio di un merlo o le strida di un gabbiano. Eppure c’è chi sostiene di aver visto muoversi per la collina, nelle notti d’estate, una placida figura leonina, vagamente regale: il fantasma di Carlo Levi che si aggira per la macchia, si fa strada tra i rovi, gli sterpi, gli ulivi e i carrubi, alla ricerca di un punto dove mettersi a dipingere. Uno strano fantasma, con lo sgabello sottobraccio e un sigaro toscano tra le labbra.

Con la sua mezza torre, villa Levi occhieggia dal cuore dei colli che si innalzano alle spalle del golfo alassino come una quinta teatrale. Ercole Levi, presentendo il talento per la pittura del figlio Carlo – quel talento che aveva dovuto reprimere in se stesso –, fece costruire questa sopraelevazione della villa, una specola casalinga con le finestre che si aprono in tutte le direzioni, sul mare e sulla campagna. In quello studio amniotico Levi abitò e lavorò ogni estate fino al 1975, l’anno della morte improvvisa. “Alassio che è mia madre…”.

L’antifascista che dal confino di Aliano aveva svelato la miseria e la potenza arcane del Mezzogiorno d’Italia, restandovi legato per sempre, nutrì un amore uguale e opposto, altrettanto irriducibile, per quella cittadina rivierasca, luogo di vacanza prediletto dalla borghesia torinese. Ma, come racconta il film di Alessandra Lancellotti e Enrico Masi Lucus a lucendo (a breve in uscita), la contrapposizione è solo apparente. Dai contorti carrubi-prigioni di Alassio e dalle aride crete lucane si origina lo stesso sentimento panico, il trasfigurarsi in visioni ora voluttuose, ora orrifiche, l’idea che la magia esista non fuori degli uomini ma dentro, quando si diventa una cosa sola con la natura – “l’estasi con cui vedo la realtà farsi sotto le mani forma e figura” –, fino allo specchiarsi del proprio corpo: “dalle rughe dei carrubi, che ora noto ma non vedevo da giovane, capisco di essere diventato vecchio”.

Come il re degli scacchi, Carlo Levi regnava sull’affollata scacchiera famigliare che da diverse parti d’Italia si ritrovava in Alassio. Come una piccola Repubblica indipendente, la villa e il suo podere si potevano raggiungere solo a dorso di mulo o per i sentieri, e questo imponeva una scansione precisa delle giornate. I Levi scendevano in spiaggia verso mezzogiorno, un po’ prima quando Carlo andava alla scoperta del golfo e dell’Isola Gallinara a bordo del Barracuda, il gozzo dell’ingegner Invernizzi, vecchio amico di famiglia. Nella canicola del pomeriggio la tribù imboccava il sentiero collinare in tempo per godere della luce della sera; quella luce così lieve e pastosa che sembra già disposta sulla tela, scrive Tommaso Landolfi in Se non la realtà. Da quell’ora e fino a notte tarda, come la zucca si trasforma in cocchio, il posto di vacanza si trasformava in febbrile sede di lavoro.

La prima volta in cui, adolescente, raggiunsi Villa Levi avevo il fiato grosso e il cuore in gola. Dal Parco fuor del vento, il quartiere delle ville liberty sulla prima costa, parte un ripidissimo sentiero detto il Rompicollo; all’altezza della chiesetta di Betania un cancelletto immetteva nella macchia e da qui un sentiero quasi invisibile si arrampicava fino alla scalinata di accesso alla villa. Non facile a individuarsi di giorno, il cammino si faceva molto complicato di notte, quando era necessario scendere con una pila elettrica, puntare il fascio di luce per trovare la via nel fitto della vegetazione.

La scalinata, il lavatoio, il pergolato, la tavola con la scritta in ebraico “Benedetto chi viene in casa Levi” girata a rovescio per renderla incomprensibile dopo l’avvento delle leggi razziali; l’affresco della vendemmia, pampini e viti pendenti dal soffitto e dalle pareti di una grande stanza a piano terra. Una grande, affollata scacchiera arroccata attorno al suo re.

“Per ingannare la fatica, Carlo Levi affrontava il Rompicollo leggendo il giornale”, racconta il nipote Stefano Levi della Torre, “io e mio cugino Guido lo seguivamo con le sporte della spesa, come due piccoli sherpa. E lo scortavamo anche per la collina portando cavalletto e colori”. La sistemazione dello sgabello e l’accensione del mezzo toscano erano il segno che era stato trovato il punto giusto e Levi era pronto ad affrontare la nuova tela. “Un giorno, tra i carrubi di Alassio, mentre alle sue spalle guardavo l’impavida decisione dei primi tocchi sul bianco, mi disse ironizzando su se stesso: ‘Ecco l’infallibile pittore, che per darsi coraggio deve sentirsi un drago che sputa fuoco e fiamme’”. I ritratti invece erano eseguiti in giardino o nel campo da bocce, il toscano tra le labbra e l’amico da ritrarre conversando: “I suoi erano sempre ‘ritratti chiacchierati’. Voleva catturare l’impermanenza inquieta della vita, non l’immobilità del modello in posa”.

Un anno fa, esattamente dopo un secolo di vita in comune, la famiglia Levi ha venduto la villa. La memoria del legame materno tra Levi e Alassio è ora affidata alle opere esposte nel museo-pinacoteca di Palazzo Morteo: i dipinti dei carrubi, dei famigliari, degli amici, uno dei “ritratti chiacchierati” di Italo Calvino provenienti dalla Fondazione Levi di Roma; le carte, gli scritti e i disegni donati da Antonio e Silvia Ricci. Poi, c’è chi sostiene di aver visto il fantasma del vecchio leone aggirarsi per la collina con il suo sgabello, e in fondo non ci sarebbe nulla di strano. Così ci aggiriamo nella vita: su e su, con il fiato rotto per il rompicollo del presente; a tentoni nell’oscurità del passato, con la luce della pila a indovinare la discesa.

Milano in svendita. Opere “fuggite” dal Castello

Volete comprarvi un pezzo del Castello Sforzesco, cioè un frammento delle più importanti raccolte pubbliche di proprietà della città di Milano?

Il 28 settembre Art Curial (maison parigina di primissimo piano) batterà, al lotto 51, una panca (lunga 79,5 cm) del 1963 dello studio Bbpr, la cui indicazione di provenienza sembra non lasciare molti dubbi: “Sala delle Asse, Château Sforza, Milan, Italie”.

Ma già ora, chi vuole farsi un giro a Monaco potrà acquistare dalla galleria Gate 5 un’altra panca quasi identica (lunga 77 cm), una della stessa serie ma lunga ben tre metri (per entrambe il sito scrive: “Provenance Sforza Castle Milan”), e infine un grande lampadario (il diametro è di due metri e mezzo) prodotto da Arte Luce su disegno dei Bbpr, e questa volta proveniente, secondo il sito della Galleria, dalla Sala del Tesoro della Torre Castellana dello Sforzesco (“his rare piece based on the Mod 2045/d but designed for a large scale space has been installed in the famous Milan’s Sforza Castel in 1963. It was installed in the Castellana Tower in Rocchetta”).

Una prima verifica non smentisce le prestigiose (ma sbalorditive) provenienze dichiarate dai venditori. Perché la sala più solenne del Castello Sforzesco, collocata al piano terra della torre angolare di nord-est e decorata nientemeno che da Leonardo da Vinci, nel 1956 fu allestita dal famoso gruppo Bbpr: cioè dagli architetti Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, il gruppo che due anni dopo firmerà, per dire, la Torre Velasca e a cui si devono alcuni tra gli edifici e tra gli interni più alti del nostro Novecento.

Quanto al lampadario (il cui valore non è dichiarato dal sito, ma che dovrebbe superare agevolmente i 100.000 euro) basta consultare il sito ufficiale dei Beni Culturali della Regione Lombardia per vederne una foto scattata da Paolo Monti nella Sala Castellana.

Ma se gli antiquari dicono la verità, la notizia dovrebbe interessare più la Procura della Repubblica di Milano che non i collezionisti: perché è evidente che quei pezzi di arredo museale non dovrebbero trovarsi sul mercato. I musei non vendono, e il patrimonio degli enti pubblici (in questo caso del Comune di Milano) non è alienabile se non attraverso una complicata procedura che, per pezzi da manuale come questi, non avrebbe mai superato il vaglio dell’amministrazione dei Beni culturali. Bisognerebbe dunque pensare a un furto, a una sottrazione, a un silenzioso traffico di pezzi dai depositi del Castello: ma, per ora e in privato, i vertici delle raccolte comunali milanesi negano che manchi qualcosa, e mettono semmai in dubbio le dichiarazioni dei venditori. Comunque la si giri, è una situazione inedita, e incresciosa: perché è evidente che qualcuno si sbaglia, o mente.

E in ogni caso, anche lasciando sospesa la clamorosa questione della provenienza, è un fatto che ora queste opere si trovino dove non dovrebbero essere. Per quanto la tutela del design del Novecento sia per più versi problematica (ma non per questo meno necessaria), non esistono dubbi sul fatto che pezzi unici di questo valore storico dovrebbero essere vincolati al territorio nazionale.

Ma allora perché e come sono usciti? In questo caso l’esportazione è avvenuta regolarmente, nel 2015, su richiesta di un antiquario modenese e su autorizzazione dell’Ufficio Esportazioni di Bologna. Ho potuto leggere la lettera in cui la direttrice del Museo del Design Italiano della Triennale di Milano suggeriva a quell’Ufficio di fermare il lampadario, “considerato il profondo legame che unisce lo studio Bbpr alla cultura italiana del Novecento, alla città di Milano e, in particolar modo, alla Triennale di Milano alle cui edizioni parteciparono in varie occasioni; la qualità e la raffinatezza del disegno, e al contempo la difficile reperibilità, degli elementi di arredo realizzati dallo studio Bbpr; la sottostima del valore di un bene che per la sua unicità è da ritenersi un componente essenziale della cultura milanese e nazionale dell’epoca… Con la presente vi comunichiamo pertanto che siamo favorevoli a vietarne l’esportazione e caldeggiamo un acquisto coattivo da parte del Ministero. Cogliamo l’occasione per segnalarvi… che la Fondazione Museo del Design sarebbe disponibile a includerlo nella propria Collezione Permanente del Design Italiano al fine di conservarlo e laddove possibile di esporlo al pubblico”. Come sia possibile che, dopo una lettera del genere, quel pezzo sia stato fatto uscire dall’Italia è una cosa che dovrà essere chiarita dal Mibact, che avrebbe ancora tutti gli strumenti giuridici per recuperarlo insieme alle panche.

Ma pare che in questi giorni il vertice del Mibact si appresti a far saltare i deboli argini imposti da Alberto Bonisoli all’attuazione della Legge Marcucci sull’esportazione dei Beni Culturali, una legge evidentemente incostituzionale che rischia di far sì che questo episodio diventi la norma. Così che anche il tanto celebrato “made in Italy” rimanga presto senza memoria, e senza storia.

E l’editor scoprì nei due Boeri l’illuminismo dei fratelli Verri

Distratti dalla presenza-assenza del Covid-19, dal Ferragosto e da altre feriali e festive cure, non abbiamo forse valutato con il dovuto riguardo il ritorno degli illuministi milanesi e lombardi del 1700. Sì, proprio quelli dell’Accademia dei Pugni e della rivista Il Caffè, ovvero Alessandro e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Carlo Sebastiano Franci, Paolo Frisi, Luigi Lambertenghi, Pietro Secchi, ai quali bisognerebbe aggiungere, come obliato predecessore, il conte piemontese Alberto Radicati di Passerano.

Naturalmente i Verri e Beccaria sono ritornati dal secolo XVIII sotto mentite e magari inusitate spoglie. A scoprirle è stato lo scrittore ed editor Alberto Rollo. Su Robinson, inserto culturale di la Repubblica, il 15 agosto Rollo si chiede se “le voci” di Beccaria, di Lambertenghi, dei Verri, hanno “una qualche consonanza” con qualche illuminista/illuminato dei nostri tempi. La consonanza c’è, eccome, ed è con “l’attuale operato della lucida intelligenza di un Tito Boeri e quella del fratello Stefano”, al secolo l’ex presidente dell’Inps e il famoso architetto del meneghino Bosco Verticale. Continua Rollo: “Due fratelli come Alessandro e Pietro Verri”. Eh già. “Si tratta pur sempre di famiglie, in entrambi i casi, radicate nel Geist della città”. Però “manca Il Caffè”, deve ammettere Rollo, anche se “non sono assenti le traducibili potenzialità per forme analoghe di convergenza e per la formazione di una giovane educazione milanese”. Del resto, Tito Boeri ha soltanto 62 anni, Stefano viaggia verso i 64.

Aspettando la ripubblicazione di Il Caffè, la notiziona riferita da Rollo ci consola e ci fa sperare grazie ai Boeri, che, essendo fratelli nonché radicati nel “Geist” di Milano, come i Verri e anche il Milan e l’Inter, si dedicano alla “formazione di una giovane educazione milanese”. Un paragone troppo ardito? Una cortesia storica eccessiva di Rollo verso i Boeri, che in fondo non si sono ancora espressi sui “delitti” e sulle “pene”, e nemmeno hanno redatto le loro “Osservazioni sulla tortura”? Si sospenda il giudizio, è meglio.

Mail box

 

Discoteche: l’incoscienza genera “Covid party”

Immaginiamo per assurdo: in un periodo di grande innovazione inaugurato dalla pandemia, anche il mondo della movida notturna decide di diventare più “smart”, tanto che gli antiquati toga party, white party, schiuma party vengono tutti sostituiti con una forma tutta nuova di fare festa: “il Covid party”. Consiste nell’evitare il contagiato di turno che su centinaia di ragazzi non è improbabile che si annidi. Nel caso in cui se ne trovi uno è incluso anche l’after, ovvero la corsa ai tamponi, ai test sierologici e ancora l’attesa dei risultati e perché no anche la quarantena! Scherzi a parte, vedere le immagini delle discoteche piene mentre i miei colleghi dopo anni di sacrifici e impegno si sono laureati via webcam mi rattrista un poco.

Francesco Leone

 

Furbetti: vergognoso parlare di beneficenza

Alcuni fra quelli che i giornali continuano a definire furbetti – per evitare di chiamarli profittatori – hanno dichiarato di avere usato il bonus Iva per fare beneficenza. In questo modo hanno approfittato dello Stato, cioè di tutti noi, due volte: la prima, usando denaro di altri per farsi belli con la beneficenza (ammesso che l’abbiano fatta per davvero), la seconda potendo utilizzare la somma donata come detrazione d’imposta al momento della denuncia dei redditi. Un capolavoro.

Tiziana Gubbiotti

 

Un’altra emergenza è quanto occorre evitare

Non stiamo andando molto bene con il virus. Sembra di tornare a fine gennaio, quando si sentivano i primi inquietanti risultati sempre più in ascesa continua. Ora il governo sta prendendo delle decisioni molto importanti che ovviamente non sono ben digerite da chi ne subisce direttamente le conseguenze. Posso capire i gestori delle discoteche e simili, ma mettiamoci nei panni di tutto il personale sanitario: affrontare un altro calvario come quello appena passato. Mi chiedo, perché mai dovrei mettere a rischio la mia vita e quella dei miei familiari solo perché dei giovani irresponsabili e senza nessuna morale civica vogliono andare a ballare, pur sapendo che quello che fanno potrebbe riportare indietro tutto un intero Paese. Non possiamo dimenticare i morti, i tanti posti di lavoro persi, le tante partita iva fallite, famiglie che si sono impoverite e gli sforzi del governo per il lavoro svolto in Europa per avere l’aiuto necessario per una ripresa della nostra economia. Non possiamo permetterci di tornare indietro.

Gianni Dal Corso

 

Via il segreto di Stato dagli atti terroristici

Sono d’accordo con l’articolo di Antonio Esposito del 14 agosto “Caro Inps, l’anonimato non è costituzionale” riguardo all’identità dei parlamentari che hanno richiesto e ottenuto il bonus di 600 euro. Ma per quanto riguarda il segreto di Stato sui diversi atti terroristici, perché non si applica la Costituzione richiamata nell’articolo? I parenti dei cittadini italiani coinvolti nelle stragi, si sentirebbero rappresentati dalle istituzioni. Non che questo riporterebbe in vita i loro cari, ma sapere la verità è importante.

Gianfranco De Marchi

 

Avete i migliori giornalisti giovani

Cari amici, domenica il Fatto non era in edicola, perciò ho letto più accuratamente alcuni articoli. Oltre al “fucilatore” Travaglio, che “mett a tutti n’faccia o muro”, per dirla alla Pino Daniele e alla garbata ironia di Padellaro, devo sottolineare che avete i migliori giovani giornalisti attualmente in circolazione e, pur essendo leggermente misogino, devo ammettere che anche le ragazze sono proprio brave. In particolare mi è piaciuta la dissertazione di Fini sulla Raggi, non perché ne parli bene ma perché prende posizione e non è ambiguo come tanti scalzacani a pagamento. Inoltre è piacevole da leggere Graziani, con le sue battutacce raggelanti in “Colpa Del Sole”. Appunto finale: tempo fa ho suggerito di proporre i percettori del Reddito di cittadinanza quali scrutinatori alle elezioni… non mi è stata data risposta. Sarebbe un grosso risparmio, perché non piace?

Pasquale Liguori

 

I NOSTRI ERRORI

Nel commento di Vittorio Emiliano dal titolo “Cari ministri, dove sono finite le riforme green?” apparso nell’edizione del 15 agosto a pagina 13, il cognome del governatore di centrodestra della Sardegna a cui si faceva riferimento non è Catenacci, bensì Cappellacci. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Populismo culturale. Anche Dante e Dumas scrivevano per il “volgo”

Gentile redazione, ho letto con attenzione la polemica lanciata da Patrizia Valduga sul “populismo culturale”: mi aveva convinta, poi però mi è capitata tra le mani l’intervista del Giornale a Mogol e mi sono ricreduta. In effetti, è difficile stabilire cosa è arte e cosa no, cosa è poesia e cosa canzonetta. Ma, soprattutto, mi chiedo: chi dà la patente “culturale” alle opere?

Gisella Russi

 

Cara Gisella piccola premessa: diffidiamo degli -ismi dispregiativi, specie quando si riferiscono al popolo. In fondo la questione è, ed è sempre stata, questa: la letteratura popolare, consumata dal popolo e non dagli intellettuali, è letteratura? Petrarca pensava di no: temeva addirittura che i suoi versi finissero “malmenati” in bocca al popolino (come spiega nella lettera a Boccaccio su Dante, che invece aveva scritto in volgare, e per il volgo, la “Commedia”). Diceva Flaubert che dopo aver chiuso un romanzo di Dumas si ha la mente sgombra perché nulla resta su cui riflettere. Quando uscì “Montecristo”, il romanzo dell’eroe borghese Dantès, ebbe un successo istantaneo, con ristampe e traduzioni. Eppure la critica lo aveva bollato come “romanzo popolare” (e quanto ne aveva sofferto l’autore…). Restando in Francia: dal romanzo popolare non trae ispirazione Balzac per quel capolavoro che è la “Comédie”? Del resto “l’arte è menzogna”, dice Balzac ne “La pelle di Zigrino”. “L’arte per come la concepisco, e per come non arrivo a farla io, è cosa altamente e perfettamente aristocratica”, afferma nelle “Schermaglie” Giosuè Carducci, che storceva parecchio il naso di fronte ai poco lirici “Promessi Sposi” (salvo poi, in extremis, liquidare nel famoso “Discorso di Lecco” il proprio antimanzonismo come una “leggenda”) e ai romanzi in generale. Da Manzoni il pensiero corre a Gadda: il “Pasticciaccio” non è forse anche un giallo, cioè letteratura di genere? Anche quelli che oggi consideriamo classici, hanno avuto i loro problemi di reputazione…

Perché leggiamo? In una delle “Lettere”, Flaubert scrive che non bisogna leggere, come i bimbi, per divertirsi o come gli ambiziosi per istruirsi. “Si legge per vivere”. Ci permettiamo di non essere d’accordo, leggere è prima di tutto un piacere: come ben sa Patrizia Valduga, che per Einaudi ha curato il “Breviario proustiano”, l’autore della “Recherche” scrive che il libro è un mezzo per leggere in noi stessi. Le caselle – alta letteratura/letteratura d’intrattenimento – lasciano il tempo che trovano. Certo anche quello letterario è un gusto indotto: la qualità non è irrilevante, la critica (se esistesse ancora) è decisiva, costruire un popolo di lettori fondamentale. Dunque, a nostro avviso, la catilinaria valdughiana ha una sua ragion d’essere, ma la crociata para-crociana per la poesia con la P maiuscola è, come il dibattito stesso, più vecchia che antica.

Silvia Truzzi

Shrek, guitti, alcolici, situazionisti: la destra dei cronisti nostrani

Il mondo del “giornalismo” fascio-salvinian-berlusconiano è noiosamente prevedibile. Fa cordata, fa sponda con qualche sito gossipparo e soffre all’idea di avere pochi follower e ancor meno lettori. Mai che uno di loro buchi lo schermo, mai che uno di loro finisca alto in classifica, mai che uno di loro sappia usare i social. Evidentemente, e fatte salve alcune eccezioni, per essere giornalisti di destra non dico che sia obbligatorio non saper fare nulla: però aiuta. Con l’avvento della destra becerona attuale, il livello dei cortigiani nostrani si è ulteriormente abbassato. Gente che non sa scrivere, non sa parlare, ce l’ha a prescindere con tutto ciò che anche solo è vagamente “grillino” e tifa sempre per il padrone (sia esso Berlusconi, Angelucci o derivati). Eccone qui un breve, e tutt’altro che esaustivo, identikit per tipologie.

L’implacabile. Maurizio Belpietro. Per distacco il più bravo. Infatti dirige il miglior giornale di destra in Italia, con 8 mila chilometri di vantaggio sugli altri (ci vuol poco, e lo sa anche lui). Belpietro è preparato, implacabile e orgogliosamente antipatico. A volte è il primo a sapere di sostenere belinate, ma sa sostenerle. Se con Sgarbi vinci in ciabatte, perché uno così si batte da solo, con lui no. E anche il suo allievo Borgonovo, con quell’aria marziale da gerarca spietato, non è televisivamente un osso facile.

Il situazionista. Alessandro Sallusti. Parlare di lui è difficile, per due motivi: è tutto fuorché antipatico (in privato) e dipende molto da dove egli si “esibisce”. Dalla Gruber fa il cane bastonato balbettante, da Floris l’arrembante berlusconiano in cerca di vendetta, da Giletti & Porro il pasdar a casaccio: mai credibile, si direbbe quasi deliberatamente. Più efficace come editorialista, perché sa scrivere.

Il guitto. Mario Giordano. È il primo a sapere di esagerare oltremodo, ma ci marcia. In nome degli ascolti, e del mai sopito “Épater la bourgeoisie”, è disposto a tutto. Entrare col monopattino. Mangiare le sardine. Sfasciare una telecamera. Eccetera. A breve organizzerà tornei indoor di scorregge in prima serata. E sbancherà lo share.

L’irrilevante. Ce ne sono tanti, e poiché irrilevanti non se li ricorda nessuno. Quindi vi aiuto io. Per esempio: Franco Bechis. Ve lo ricordate? No. Appunto. Lui è così: sommamente evanescente. Vorrebbe essere Belzebù, ma al massimo è la controfigura moscia di Shrek. Dirige il più inutile dei quotidiani destrorsi, ha il carisma delle betulle affette da prognatismo e quando va in tivù non riesce mai ad attirare l’attenzione. Logorroico, monocorde, palloso. Se fosse un calciatore, sarebbe il quarto uomo.

L’elegante. Maria Giovanna Maglie. Entrata in Rai grazie a Craxi, uscita dalla Rai grazie alle note spese. Adoratrice dell’ultima Fallaci. Trumpiana sfegatata, salviniana indemoniata, meloniana di rimbalzo. Però ha anche dei difetti. Vive su Rete4, dove la usano come dobermann in quota rosa, e sui social, dove ha meno seguito di Facci. Le va comunque riconosciuta una dote spiccata: svetta in eleganza.

Il niente. Pietro Senaldi. Ecco, Senaldi… niente, dài. Cosa vuoi dire di uno così.

L’alcolico. Vittorio Feltri. La sua prosa è un mix tra i rutti di Gozzano e i ditirambi di Teleste di Selinunte: arcaica, ampollosa, comicamente vetusta. In tivù è da anni una macchietta rubizza che spara boiate per costringere Crozza a spararle ancora più grosse quando lo imita. In taverna va benissimo, nel piccolo schermo fa tenerezza. Dategli una carezza e mettetelo a letto.

 

La tv orfana di Zavoli e Biagi, schiava dei politici e dei talk

La morte di Zavoli e il centenario della nascita di Biagi sono l’occasione per chiederci se ci siano e chi siano oggi i loro eredi nella tv italiana. La risposta, desolante, è che non ce ne sono. Non solo non si vede chi possa in qualche modo ripercorrere le orme dei due giornalisti, ma è l’informazione televisiva tutta che è messa male. Tranne qualche lodevole eccezione, che però appunto tale resta.

Prendiamo i telegiornali. I tg degli anni Duemila sono da tempo incapaci di produrre un prodotto autorevole e di qualità, intossicati dalla politica che ne costituisce la principale risorsa, un record per l’Europa occidentale. Una politica, però, trattata col bilancino dei partiti e con i giornalisti sovente ridotti, anche per colpa loro, alla funzione di speaker o di reggimicrofono. Il racconto della politica si ripresenta nello stucchevole carosello di dichiarazioni standard, magari false come i trequarti di quelle di Salvini (vedi il fact-checking di Pagella Politica) senza che nessuno obietti nulla, da parte di facce che si avvicendano con frasi senz’anima che hanno l’unico scopo di costruire un simulacro di pluralismo e non certo di informare. Uno spettacolo imbarazzante che si svolge purtroppo con la complicità di un giornalismo che non fa mai una domanda né una precisazione, che non mostra mai uno scatto di orgoglio: e non si capisce se è così per tacita prassi autocensoria o perché sono queste le consegne redazionali. Negli ultimi vent’anni non ricordiamo nessun tg, pubblico e privato, che abbia cercato strade nuove, tentato di imporre una sua autonomia giornalistica, rincorso i fatti (non le opinioni), narrato la politica con domande vere e non con i siparietti di comodo per un teatrino insapore ma fortemente tossico. Le uniche eccezioni, entrambe lontane, forse rimangono il Tg1 di Lerner, durato troppo poco, e il primo TgLa7 di Mentana, prima che anche questo si omologasse.

Il panorama si fa drammatico se guardiamo ai programmi. Qui a prevalere è la formula del talk (inventata proprio da Zavoli e Biagi: Dicono di lei, Processo alla tappa), un formato che si è moltiplicato a dismisura e oggi quasi sempre ossessionato dalla ricerca dell’effetto, della rissa, dell’insulto. La situazione è peggiorata di molto da quando la formula, che negli Anni 90 aveva fatto la fortuna di una certa “sinistra televisiva” mai tenera nei confronti della sinistra politica alla quale non risparmiava critiche (Santoro e Lerner docent), è stata monopolizzata da una emergente “destra televisiva” che ha trasformato la tv “militante” in uno spettacolo fazioso, perché completamente asservito alle strategie della destra, rispetto alle quali non tenta nemmeno di distinguersi. Come abbiamo già documentato si tratta di programmi organici al centrodestra, non a caso quasi tutti in onda su Mediaset, che appaltano la maggior parte del tempo di parola ai suoi leader e a figure di supporto, con l’accondiscendente benedizione di qualche non allineato chiamato a legittimare la recita. Tanto che verrebbe da chiedersi, come fece Furio Colombo negli anni del berlusconismo con Porta a Porta, se sia il caso di partecipare a queste sceneggiate dal copione già scritto, a volte sguaiate e sciatte.

Gli altri talk che pur dignitosamente tentano un discorso giornalistico lontano dalla militanza forzaleghista lo fanno però sovente non senza cedere molte delle prerogative del mestiere, rinunciando cioè a ospitare un dibattito vero tra politici, soggiacendo ai diktat di spin doctor che dettano le regole d’ingaggio, utilizzando il pubblico in studio in una funzione decorativa e non di stimolo, assecondando, anche loro, il presenzialismo di certi leader, sempre quelli, devastante per un reale pluralismo. Anche questo un record per la nostra tv.

 

M5S e Pd: serve un patto più stabile e strategico

Ai miei occhi, il via libera degli attivisti del M5S alle alleanze con i partiti e segnatamente con il Pd è una buona notizia. Lo auspicavo da sempre ed era nelle cose, specie dopo l’insediamento del governo giallorosso. È una vittoria di chi ci ha creduto: da Zingaretti a Conte, da Grillo a Franceschini. Preceduti, va detto, da Bersani. È apprezzabile che se ne siano convinti anche i tiepidi e gli scettici come Di Maio.

Una buona notizia per molte ragioni. Esemplifico: è un passo decisivo nel processo di maturazione di una forza politica atipica e dall’identità incerta come il M5S, tuttora maggioritaria in Parlamento; è un fattore di stabilizzazione del governo in una congiuntura singolarmente critica; mette le premesse per il ripristino di una sana democrazia competitiva tra schieramenti alternativi, pena rassegnarsi a consegnare il Paese a una destra non rassicurante; conferisce plausibilità alla prospettiva che l’attuale maggioranza parlamentare possa durare ed esprimere il futuro presidente della Repubblica. Non è poco. Anche se non mi sfuggono i limiti di questa svolta. Penso ai tempi, al carattere tardivo rispetto all’imminente tornata elettorale in sei Regioni. Penso al paradosso rappresentato dalla circostanza che ad accelerare la decisione sia stato il caso Raggi, sul quale M5S e Pd ribadiscono la loro divaricazione. Penso soprattutto al metodo (il click sulla piattaforma Rousseau) e alla estemporaneità ferragostana della deliberazione. Proprio la portata della svolta meritava una discussione distesa e pubblica, un confronto aperto nel quale, come usa dire con formula consumata, ciascuno ci mettesse la faccia. Stati generali o congresso che dir si voglia. Quell’effettivo metodo democratico interno prescritto ai partiti dalla Costituzione che sarebbe l’ulteriore e decisivo passo del M5S verso la maturità politica. Così pure va apprezzato il superamento del tabù del limite del secondo mandato, con l’implicito ma palese riconoscimento che competenza ed esperienza rappresentano una risorsa per chi opera nelle istituzioni. Giusto contrastare gli eccessi del professionismo politico di ieri, ma non mi pare sia questo oggi il nostro principale problema.

Ciò detto, sarebbe un errore fermarsi qui. La buona notizia è solo la premessa ma – si perdoni il bisticcio – non ancora la promessa di un patto politico stabile e strategico tra M5S e Pd. Entrambi i partner devono fare seguire una riflessione su di sé, di linea politica e persino di stampo identitario. Solo un cenno sui due versanti. Oltre alla questione del metodo democratico interno, i 5 Stelle devono mettere a tema il rapporto con il loro gene originario duale: la vena oppositiva e polemica della “fase nascente” e il nucleo ideologico, diciamo così, legalitario-democratico-ambientalista, che smentisce la teoria “né di destra, né di sinistra”. Vi sarebbero due modi per testimoniare una fedeltà alle origini: fare leva sul primo elemento sarebbe una regressione, sul secondo uno scatto in avanti verso nuove sfide, nel segno di una “fedeltà creativa”. Non è un caso che gli avversari, denunciando l’incoerenza del Movimento, vorrebbero inchiodarlo al suo passato.

Ma anche il Pd deve venire a capo di un problema irrisolto: quello del suo rapporto con il renzismo. L’avvicendamento di Zingaretti alla guida del partito si è prodotto sull’onda della disfatta elettorale ma senza elaborare politicamente la discontinuità. Con primarie, ma senza una riflessione di portata congressuale. Non senza conseguenze. Ai vertici, in postazioni chiave, nel partito e nei gruppi, figurano uomini e donne legatissimi a Renzi. Una cospicua minoranza interna è su posizioni non distanti da quelle di Italia Viva su svariate questioni. Tre sole domande: sicuri che condividano la prospettiva dell’alleanza strategica con il M5S? Sicuri che, negli indirizzi di politica economica e sociale, con riguardo alle cruciali scelte relative all’impiego delle risorse europee che decideranno il nostro futuro, non ricalchino il riformismo timido e subalterno della stagione renziana? circa la legge elettorale, la più politica delle leggi, oggi la materia in casa Pd è gestita da ex ultrà renziani (i capigruppo, Fiano, Ceccanti, Parrini), un tempo devoti del maggioritario e ora sparati sul proporzionale. Domando a Zingaretti e Crimi: ora che si profila un’alleanza non più contingente e occasionale tra Pd e M5S non sarebbe più coerente puntare su una soluzione maggioritaria? Che gioverebbe a consolidare quell’alleanza, a dare più stabilità/governabilità al sistema, a introdurre una regola elettorale più condivisa anche dal centrodestra. Si spiazzerebbe altresì Renzi che, alle solite, si è rimangiato la parola data dichiarandosi per il maggioritario solo perché terrorizzato dal proporzionale con soglia al 5 per cento.