Quei credenti a 5 Stelle: così le “Grillarie” soppiantano il congresso

Fanno una certa tenerezza i grillini, anche altolocati, che continuano a parlare di “congresso in autunno”. Si comportano come se il MoVimento fosse un partito politico di costituzione democratica: non lo è. Il MoVimento è di Grillo e alla fine decide Grillo, punto. Lo si è visto una volta per tutte con le grillarie di Genova, anni fa: la musica è sempre quella. Non siete d’accordo? “Vaffanculo a voi, questa volta!” (Grillo a Napoli, un anno fa, a chi contestava l’alleanza col Pd).

Le ultime consultazioni su Rousseau, approvando senza alcun dibattito i desiderata di Grillo, hanno reso inutile ogni congresso autunnale su doppio mandato e alleanze politiche. Scientology, la religione inventata (lo sono tutte) dallo scrittore di fantascienza Ron Hubbard, ha centinaia di migliaia di proseliti nel mondo. Per stabilire se sei libero da impedimenti spirituali usano un congegno ridicolo, detto E-meter. Baggianate, eppure ci cascano in parecchi, e il risultato è agghiacciante: su YouTube, il video promozionale di Scientology con gli adepti che ne cantano l’inno (“We Stand Tall”) fa venire i brividi (https://www.youtube.com/watch?v=XyNh1j3dsp8), specie se si considera che fine hanno fatto molti di quelli in prima fila (informatevi su “The Hole” e capirete il caso Pizzarotti). Un video di fantascienza che dà gli stessi brividi agghiaccianti è quello intitolato Gaia – The future of politics (https://www.youtube.com/watch?v=sV8MwBXmewU): una didascalia avverte che “Gaia non rispecchia in alcun modo le intenzioni o la volontà né di Casaleggio, né del Movimento 5 Stelle”, ma il video è postato dalla Casaleggio Associati ed esalta le elezioni via Internet, prevedendo quelle mondiali nel 2054. Davide Casaleggio (2018): “Rousseau non è una moda passeggera. La democrazia diretta è il futuro. Per quanto ci si opponga, al cambiamento non interessa se siamo pronti o meno ad accoglierlo”. Ma “cambiamento” non significa necessariamente progresso e sviluppo: anche il nazismo era un cambiamento; e la democrazia diretta, ammissibile come referendum, è letale per la democrazia se intesa come potere legislativo esercitato dai cittadini senza l’intermediazione di un parlamento, poiché cancella, con altri contrappesi, l’opposizione, che non ha modo di essere rappresentata e di convincere nel tempo; questa democrazia diretta è dittatura, e il fatto che sia a maggioranza non la rende democratica.

Rousseau è l’E-meter di Grillology: col suo voto non segreto e non verificabile certifica solo la fede dei grillini nel MoVimento e nella gestione Casaleggio; e ideologicamente ha già fatto guasti, sia perché è simbolo della fede annunciata dal video Gaia, sia perché la politica nazionale è condizionata dal voto degli iscritti a Rousseau, gestito da un’azienda privata. Non è un caso, insomma, se il M5S è un partito confessionale. Hubbard si faceva chiamare “Commodoro”, Grillo “l’Elevato”. Mettendo ai voti su Rousseau l’abolizione di Rousseau, quale sarebbe il risultato? Ai critici, i fedeli obiettano le cose buone realizzate dal M5S: con questo, però, confermano di essere confessionali, cioè reazionari. Solo i credenti accettano in blocco tutto quello che dice il Papa. Il sistema di potere del Pd è antitetico agli ideali del M5S, ma all’Elevato sta bene e a Rousseau pure. Tutto a bolla. Di Maio la chiama evoluzione: è il classico opportunismo. Nulla di illegittimo, ma potevate farla meno lunga, in questi anni: il Pd non era il Male, era solo già evoluto.

 

Raggi cerca il bis: tutti l’attaccano e nessuno la sfida

“Non ci penso proprio a candidarmi a sindaco di Roma”, dice Carlo Calenda e adduce come scusa l’ostilità dell’elettorato Cinquestelle: “Quelli neanche crocifissi mi voterebbero”. Ok, certo ma noi pensiamo che ci sia anche una ragione più profonda nel fatto che all’annuncio della ricandidatura di Virginia Raggi, oltre a ricoprire la sindaca dei soliti improperi (hanno perfino riesumato il povero Spelacchio) nessuno dei suoi possibili competitori si sia fatto avanti per dire eccomi qua, con me Roma rinascerà più bella e più superba che pria… Perché, a differenza del Nerone di Ettore Petrolini, che si lamenta con l’“ignobile, stupida plebaglia” che non lo apprezza abbastanza, i meglio leader nazionali preferiscono continuare a crocifiggere la Raggi piuttosto che dire la verità. Che amministrare Roma (e i romani) è un’impresa titanica, che prosciuga il malcapitato (la malcapitata) di ogni energia, che ti crea plotoni di nemici (tra i forchettoni e gli amici degli amici), che ti toglie sonno e consenso, che ti manda ai matti. Proviamo così, per gioco, a completare il ragionamento dell’accorto Calenda: ahò, mica so’ scemo, faccio una vita meravigliosa, pontifico nei talk dalla mattina alla sera, nel ruolo di oppositore competente e ragionevole sono imbattibile, con un partitino inesistente ho surclassato quel simpaticone di Matteo Renzi, metti che poi mi eleggono sul serio sindaco di Roma mica la prendo piccola la fregatura condannato come sarò per cinque anni a occuparmi di cassonetti, di bus combustibili o della scolmatura del fosso della Maranella, invece che dibattere di grandi questioni globali o dire a Conte che è tutto sbagliato, tutto da rifare.

È possibile che ragionamenti analoghi abbiano fatto a sinistra l’attuale ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, e a destra, Giorgia Meloni, che si sente pronta per palazzo Chigi, altro che Campidoglio. Perciò quando mi chiedono se me la sentirei di votare Virginia per la seconda volta (la cui colpa è semmai non aver valutato, troppo disarmata, l’enormità dei problemi che andava ad affrontare) rispondo semplicemente: vediamo prima se trova un avversario degno di questo nome e disposto a giocarsi anche la salute per questa meravigliosa, unica e tremenda città. E poi ne riparliamo.

Dall’infodemia al procurato allarme

Premessa: tracciare i positivi è necessario per la sanità pubblica e per non essere impreparati di fronte un virus ancora, in parte, sconosciuto. Voglio però tornare a parlare di infodemia. Ricordiamo una delle dichiarazioni più attendibili del direttore generale dell’Oms: Covid 19 è anche “infodemia”, cioè eccesso di informazioni, spesso poco affidabili. Siamo stati tutti vittime di una comunicazione malata. Troppe notizie, strumentalizzazioni, falsità. L’estate, se non ha guarito questa patologia, l’ha attenuata. Pur tuttavia aleggia il rischio della recrudescenza. Il timore è che la “pandemia parallela” continui. Se ormai siamo abituati a consigli intermittenti su guanti e mascherine e al distanziamento sociale che va da un metro a cinque a seconda del luogo, non possiamo permetterci che venga ancora falsata la verità, facendo nuovamente cadere nel panico tutti. Torno sulla definizione di “caso”, “infezione” e “malattia infettiva”. Al di là delle considerazioni sulle misure da intraprendere, nessuno può permettersi di creare nuove definizioni. Chi ha studiato Medicina sa benissimo che all’esame di Infettivologia spesso si è sentito chiedere: “Qual è la differenza tra infezione e malattia infettiva?”. La risposta è stata sempre netta e unica, ripresa anche dall’Enciclopedia Treccani. “Infezione” è ogni processo caratterizzato da penetrazione e moltiplicazione, nei tessuti viventi, di microrganismi patogeni unicellulari o virus. Il concetto di infezione – continua la Treccani – non si identifica con quello di malattia infettiva, poiché esistono casi di infezione senza alcun fenomeno morboso. Invito tutti coloro che rilasciano dichiarazioni e chi le trascrive ad attenersi alle definizioni. Interpretare uno stato morboso come una semplice presenza di virus penalizza la medicina preventiva ma fare il contrario, lasciando credere che tutti i soggetti positivi a SarsCoV2 siano malati, è un reato. Articolo 658 del codice penale: chiunque suscita allarme presso l’Autorità o presso enti o persone, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 euro. Auspico ci sia qualche magistrato che mi legga e voglia applicarlo.

 

A Toti non togliete la pista da ballo

Non levategli la sala da ballo, per carità. Giovanni Toti, presidente della Liguria in cerca di riconferma, diventa una furia. Come una Santanché o un Casanova qualsiasi (nel senso di Massimo, l’uomo del Papeete che Salvini ha portato all’Europarlamento).

A differenza loro, Toti non ha una discoteca da tenere aperta, ma una reputazione da difendere. Per farlo, il governatore difende il sacrosanto diritto degli italiani di ballare (e se balla pure il Covid, pace). In un’intervista al Corriere della Sera, Toti rivendica di aver reso “meno vessatorio” il provvedimento del governo sulle discoteche. Lui sta difendendo i diritti. Sentite: “L’unica giustificazione a una limitazione dei diritti degli italiani è la preoccupazione di non riuscire a curare i malati. E oggi questa preoccupazione non solo non c’è ma è lontanissima dall’esserci”. Andate, uscite, divertitevi, tranquilli: il Covid non c’è e se c’è non fa più male. Specie nella Regione di Toti: “In Liguria su 200 posti di terapia intensiva ne abbiamo occupati solo tre”. Lui quelle piste da ballo non le avrebbe chiuse mai: “Non dobbiamo mai dimenticarci che la vera emergenza è quella economica”.

Lukashenko, gli operai gli gridano: “Vattene!”

Uchody! Traduzione: vattene. È quello che hanno urlato gli operai delle fabbriche di Minsk al presidente Aleksandr Lukashenko, mentre tentava di tenere un discorso pubblico a un microfono che ha ben presto abbandonato appena la voce della folla ha sovrastato la sua. Dopo le proteste di piazza, sono cominciati gli scioperi, in una fabbrica dopo l’altra.

Dopo il blocco dei reparti dei più grossi impianti produttivi del Paese, la protesta ha raggiunto le redazioni dei telegiornali, perfino quelli della propaganda di regime. Hanno rassegnato le loro dimissioni alcuni presentatori televisivi della macchina mediatica del caudillo sovietico al potere dal 1994, giornalisti che hanno deciso di unirsi ai manifestanti che rimangono per le strade sventolando la bandiera bianca e rossa dell’opposizione.

Dopo la “marcia della libertà” avvenuta domenica scorsa a Minsk, – quando in 100mila sono scesi in strada per richiedere giustizia, eque elezioni e la liberazione delle migliaia di persone finite nelle carceri del presidente –, Lukashenko, per la pressione crescente e costante subita, ha paventato ieri l’ipotesi di nuove elezioni, contraddicendo le sue dichiarazioni precedenti. Ma un ritorno alle urne, per il Capo di Stato, sarà possibile “solo dopo un cambiamento costituzionale”. Dal suo esilio lituano si è pronunciata di nuovo Svetlana Tikhanouskaya, dicendosi “pronta a governare il Paese”, per “normalizzare la situazione“ ”e riportare alla calma la nazione in rivolta.

Libano, la sinistra giovane. Voglia di pane e giustizia

Un’indagine internazionale, le dimissioni del premier Hassan Diab, una città ridotta in polvere e frantumi, in uno Stato la cui tenuta traballa. Prima c’è stata l’esplosione che ha divorato il cuore di Beirut, poi l’implosione della rabbia giovane che è tornata a invocare giustizia. Sono queste tutte le conseguenze della tragedia che ha sconvolto il Libano che adesso urla per le sue strade. Le scintille mortali scatenate dalle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio stipato nel porto della Capitale hanno illuminato una crisi politica però già in corso da anni nel Paese.

Prima dell’allontanamento dalla scena politica di Hassan, per la furia della piazza che lo accusava di corruzione, si è dimesso a ottobre 2019 l’ex premier sunnita Saad Hariri, oggi all’Aja al Tribunale speciale per il Libano, che emetterà il verdetto – rimandato per paura di tensioni all’indomani della tragedia – sull’omicidio del padre, il premier Rafik, morto nell’attentato di San Valentino avvenuto il 14 febbraio 2005.

La sentenza arriverà in contumacia per quattro esponenti Hezbollah, un giudizio che ad Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita, non interesserà come al resto dei suoi seguaci: “Se i nostri fratelli saranno ingiustamente dichiarati colpevoli, continueremo a sostenere la loro innocenza”. Sull’esplosione più recente è lo stesso Nasrallah a ribadire i suoi dubbi, proprio come il presidente cristiano Michelle Aoun, sulla validità delle ricerche internazionali in corso sul campo. Cosa abbia causato davvero gli incendi se lo chiedono gli investigatori ora presenti sul posto: quelli dell’Fbi che si sono uniti agli sforzi degli inquirenti francesi. Ma se non sono chiare le cause della catastrofe, sono visibili i suoi effetti. Mentre continuano a crollare veloci i palazzi più antichi per le strade di Beirut come la lira libanese in borsa, nella città ferita dall’incuria e disonestà dei suoi governanti, si è risvegliata rabbiosa una richiesta di giustizia. Le macerie dell’esplosione sono diventate una brace per la piazza incandescente che ora urla prepotente thwra, “rivoluzione”.

Voglia di pane, eguaglianza e sinistra c’è a nord e sud del Paese, fino alla Bekaa. È una marea che chiede il rinnovamento della classe politica corrotta e delle infrastrutture di uno Stato dove spesso manca acqua ed elettricità, che per il politologo Ziad Majed – le cui dichiarazioni sono state raccolte dal magazine francese Mediapart – si dimostra “estremanete dinamica, capace di imporre i suoi slogan”, una piattaforma che comincia a strutturarsi tra i banchi degli studenti universitari e classe media, e che è nata “contro tutti: si oppongono a Hezbollah quanto al regime siriano, al clan Hariri e alla politica delle banche”.

La sinistra che sta nascendo dalle rovine del “Ground zero” di Beirut ha rivendicazioni sociali prima ancora che politiche: lotta alla povertà e alla fame e a ciò che ha generato entrambe, la corruzione dell’élite al potere, i cui fantocci sono stati impiccati e i cui ritratti sono andati bruciati in piazza nei giorni scorsi. Uniti dalla miseria e dal livore verso chi li governa, stanno spalla a spalla sunniti, cristiani, sciiti e drusi, che identificano proprio nella divisione del potere tra confessioni – cristiana e musulmana -, la fonte delle frodi politiche. Questa nuova ala della sinistra libanese non è avversa alle posizioni dell’ex ministro ed economista Charbel Nahas, a capo del movimento “Cittadini nello Stato”, che ha abbandonato il governo Aoun dopo aver accusato il presidente e i suoi colleghi di peggiorare le condizioni dei lavoratori. Rimane invece per il momento lontana dall’Lpc, partito comunista libanese, che mantiene come quasi tutto nel Paese dei cedri, una doppia anima e vocazione: rimane scisso tra il decennale dilemma di chi è sfavorevole a un’alleanza con il potente movimento sciita degli Hezbollah, e quanti invece identificano negli esponenti del clan Hariri e negli uomini delle banche i colpevoli del collasso.

Grandi fazioni sono sempre nate dalle fratture storiche in Libano. Nello stesso anno della morte di Hariri fece il suo ingresso sulla scena politica del Paese la coalizione anti-siriana e anti-governativa del “Fronte 14 marzo”, e quella dei loro oppositori, vicini a Hezbollah, della coalizione dell’8 marzo. Forse nascerà ora, tra cocci, macerie e ciò che il nitrato ha risparmiato, la sinistra del 4 agosto, la data che ha cambiato per sempre Beirut, quando il cuore del centro storico si è fermato mentre quello della sinistra ha ricominciato a battere.

Da Legend a Eilish tanto soul e rock per evitare il flop

La Convention democratica potrebbe essere il festival musicale più interessante del 2020, scrive il Los Angeles Times. Certo, in mancanza di concerti a causa del Covid-19, la concorrenza è scarsa ma di sicuro i Dem in questi giorni di congresso virtuale stanno puntando anche sulle star musicali per suscitare attenzione. A causa del coronavirus il rischio di un flop, in una convention così organizzata, è dietro l’angolo. L’ampia scelta di artisti afro-americani lancia un messaggio contro l’America razzista e a favore di coloro che sono scesi per le strade con il movimento Black Lives Matter. E così, messi da parte per quest’anno i tradizionali coriandoli, cappellini, applausi di folla e delegati, ecco apparire al primo e unico congresso virtuale per le presidenziali artisti come John Legend, Jennifer Hudson, il cantante e attore Billy Porter, il rapper Common, ma anche Billie Eilish, the Chicks e il coro “Youth choir members across America” formato da 57 ragazzini, uno per ogni Stato e territorio Usa.

Ci saranno performance in ognuna delle quattro sere della Convention. Jennifer Hudson si esibirà domani prima dell’arrivo sul palco virtuale della vice di Biden, la senatrice californiana Kamala Harris. John Legend si esibirà sia stasera che giovedì per il gran finale, appuntamento durante il quale faranno sentire la loro voce anche Common e The Chicks, band femminile country, ex Dixie Chicks, tornata alla ribalta da pochi mesi dopo essere stata censurata da buona parte del pubblico e dalle radio folk dal 2003 quando la cantante Natalie Maines durante un concerto a Londra, una settimana prima dell’invasione Usa in Iraq, disse al pubblico che si vergognava di essere texana come il presidente George W. Bush. Ogni cantante che partecipa a questo evento fa parte della meticolosa narrativa messa insieme da chi ha organizzato la convention. Come spiegò nel 2016 Robert Shrum, il consulente democratico che ha aiutato a organizzare congressi per personaggi come Ted Kennedy, Al Gore e John Kerry: “Una convention, se fatta in modo appropriato, ti permette di creare una narrativa e quella narrativa deve essere qualcosa con cui gli elettori si possono relazionare”. Ed ecco quindi che non stupisce se sul web appariranno talenti come John Legend e Common, particolarmente aperti nell’esprimere le loro idee e posizioni politiche che sono in linea con quelle democratiche. O il cantante-attore Billy Porter, apertamente gay. La presenza di un artista come Prince Royce, all’anagrafe Geoffrey Royce Rojas, cantante domenicano-americano, è una strizzata d’occhio al mondo latino mentre la Billy Eilish, 18 anni è un tentativo di avvicinare ai dem l’elettorato più giovane. Si calcola che se tutti i Millennials e i GenZ, o Generazione Z, che possono votare esprimessero la loro preferenza per un partito, questo avrebbe già in tasca il 37% dei voti. Per la prima volta in Usa sono infatti i più giovani a rappresentare il gruppo più vasto per età demografica. I Millennials, ossia i nati tra il 1981 e il 1996, e i GenZ, i nati dopo il 1996, sono la generazione più etnicamente diversa e meglio educata scolasticamente che ci sia mai stata. Sono per lo più progressisti: il 52% è bianco mentre il 22% è nato da immigrati (per lo più ispanici). Rappresentano insomma l’America che in questo momento il presidente Trump sta avversando. “Questi artisti ci aiuteranno a raccontare la storia di una nazione sotto la leadership fallimentare di Donald Trump e sono la promessa di ciò che possiamo e dovremmo essere con Joe Biden come presidente” aveva detto alla vigilia dell’evento Stephanie Cutter, tra gli organizztori della 2020 Democratic National Convention”.

Kamala e Ocasio: ecco i due volti per il futuro dem

Sono le due donne al centro di una convention zeppa di personaggi femminili di alto profilo: Michelle Obama, che ha ieri aperto la kermesse, Hillary Clinton e Nancy Pelosi, solo per citarne alcune. Kamala Harris, 54 anni, senatrice della California, vice di Joe Biden nel ticket democratico per Usa 2020, e Alexandria Ocasio-Cortez, 31 anni, deputata di New York, la suffragetta di Bernie Sanders divenuta leader della sinistra, punto di riferimento di The Squad, l’aggressivo gruppo di quattro deputate – ci sono pure due musulmane – che rompono spesso gli schemi della politica statunitense. Alla convention democratica, che si è aperta ieri Milwaukee, nel Wisconsin, la prima virtuale, causa epidemia di coronavirus, nella storia dell’Unione, Kamala e AOC non hanno certo lo stesso spazio: la Harris, prima donna nera candidata vice-presidente di grande partito, farà il discorso principale della terza giornata, domani, mercoledì; Alexandria, deputata al primo mandato – è la più giovane del Congresso – avrà solo un minuto a disposizione nella seconda giornata, oggi. La convention, poi, non è il posto giusto per mettere in evidenza le differenze: la parola d’ordine è sfoggiare la compattezza d’un partito dietro il duo Biden–Harris, senza negare le diversità ma esaltando l’unità di intenti.

Diverse per formazione e vocazione, la Ocasio-Cortez e la Harris possono quindi convergere nell’attacco al grande nemico, il magnate presidente Donald Trump, candidato repubblicano alla propria successione. Il ruolo d’attaccante si addice a entrambe. Da quando è stata scelta da Biden, Kamala è diventata uno schiacciasassi: Trump – ha affermato – “nel mezzo di una pandemia sta tentando di smantellare il sistema sanitario. Mentre le piccole imprese chiudono, agevola i ricchi. E quando la gente invoca sostegno, usa i gas lacrimogeni”.

AOC ha la lingua al curaro: quando un’associazione di poliziotti di New York ha dato il suo endorsement al presidente candidato, ha commentato “È il loro modo d’essere in sintonia con la gente”, essendo New York un feudo democratico ed essendo la polizia sotto accusa per le prevaricazioni verso le minoranze. Alleate per una convention e, forse, per un mandato, c’è chi le immagina rivali per la nomination nel 2024, anche se quella scadenza arriva un po’ presto per AOC, che all’Election Day avrà appena compiuto 35 anni, l’età minima per divenire presidenti. La rapper Cardi B ha comunque già lanciato la sua candidatura, nel segno della sinistra democratica che, fra un quadriennio, potrà difficilmente fare ancora riferimento a Bernie Sanders, che di anni ne avrà 83. Generazionalmente, la Harris è, invece, una candidata ideale per Usa 2024. Se Alexandria s’arrocca a sinistra, Kamala è invece impegnata a scolorirsi le connotazioni liberal, già opache, e quasi ne chiede scusa alla sinistra del suo partito: nonostante un sondaggio per conto di Washington Post e Abc indichi che il 54% degli elettori approva la sua scelta come vice – e solo il 29% la boccia –, invita i democratici di sinistra a “non guardare al ticket, se non v’ispira”, ma piuttosto a “guardare ai temi che hanno impatto sulla vostra vita d’ogni giorno”. Il messaggio è che Biden e lei sono candidati di centro per essere eletti e saranno poi leader progressisti. Harris è, in questa fase, il bersaglio principale della campagna repubblicana, anche se Trump ne sminuisce l’impatto: “La sua presenza non mi pone nessun problema”. Il New York Times fa un’antologia delle falsità sul conto della vice di Biden diffuse online in questi giorni: dalla tesi che non sia nata negli Stati Uniti all’affermazione che si sia sempre presentata come indiana-americana e che abbia assunto l’identità afro-americana solo per opportunismo; senza tralasciare improbabili coinvolgimenti nei fantasiosi complotti di QAnon o in fatti di cronaca cui è estranea.

Alla convention, i democratici arrivano in testa nei sondaggi, che, però, danno indicazioni fra loro contraddittorie. Un rilevamento per conto di WSJ e Nbc vede Biden avanti di 9 punti su Trump: 50% dei consensi contro 41%. Invece, un sondaggio della Cnn dà il vantaggio di Biden su Trump ridotto a quattro punti, 50% a 46%.

Durante la convention democratica, che assicurerà visibilità al suo rivale, il presidente – che domenica sull’Air Force One ha avuto una disavventura, l’aereo presidenziale è stato sfiorato da un piccolo drone, secondo l’agenzia Bloomberg – non sarà passivo: farà comizi in quattro Stati in bilico e ha già cominciato da Minnesota e Wisconsin; oggi, volerà in Arizona per parlare di sicurezza al confine e immigrazione; giovedì, sarà in Pennsylvania, vicino a Scranton, dov’è nato Biden. Ieri in casa dem è stata la giornata We the People: fra i protagonisti, oltre a Michelle Obama, Bernie Sanders e l’ex aspirante alla nomination repubblicana, e leader dei repubblicani anti-Trump, John Kasich. Oggi Leadership Matters: oltre alla Ocasio-Cortez, c’è l’ex presidente Bill Clinton. Domani, A More Perfect Union: oltre alla Harris, l’ex presidente Barack Obama, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, e la speaker della Camera Pelosi. Giovedì, sarà la giornata America’s Promise, con Biden grande protagonista.

Tra i vasi di coccio un pesciolino rosso di nome Virginia

Essendo venuta al mondo (della politica-spettacolo) tra gli ingranaggi di una fotocopiatrice – quella dello studio Sammarco, disgraziatamente per un periodo associato Previti – era fatale che Virginia Raggi, avrebbe stampato una seconda volta la sua candidatura sui muri crollanti di Roma, città eterna in tutto, nella magnificenza e nel danno.

Era la lenta primavera del 2016. Tra i molti squali in avvicinamento per addentare i resti galleggianti del Campidoglio appena sgomberato dalla sinistra fratricida, comparve lei, che aveva il fisico di un pesciolino rosso, l’incedere titubante di una ragazza per bene in giacca e pantaloni, i capelli a tendina dei troppo timidi, un ingannevole sguardo spaesato. Aveva 37 anni, famiglia benestante, un figlio, un marito quasi ex. Veniva da tre anni di Consiglio comunale, in quota Cinque Stelle, ma non la conosceva nessuno. Fu quel dettaglio omesso nel curriculum – avere lavorato dieci anni prima come apprendista in quello studio legale – ad averle capovolto il destino, illuminandole il carattere d’acciaio e la ribalta. La sproporzione degli attacchi subiti, dai Palazzi e dai palazzinari, Caltagirone in testa, con giornali, radio, tv, opinionisti e social al seguito, ebbe l’effetto opposto: Cenerentola contro Golia. E dunque trasformando la vittima di quell’assalto nella titolare di una agguerrita riscossa. Sua, dei Cinque Stelle e di Roma capitale. Che la destra del sindaco Alemanno aveva trasformato in una grottesca parentopoli in camicia nera. E la sinistra del sindaco Ignazio Marino nel solito Vietnam di litigi, interdizioni e reciproci dispetti. Risultato: una vittoria prodigiosa al ballottaggio con il 67 per cento dei voti, il doppio di Roberto Giachetti, un crisantemo prestato alla politica, spendendo due lire per la campagna elettorale e una sola parola d’ordine: “Il vento sta cambiando”.

Sembrava l’inizio di un trionfo: onestà, trasparenza, acqua pubblica, trasporto pubblico, aria pulita, ciclo dei rifiuti. Con la bella trovata di costruire una funivia tra due periferie, Casalotti e Battistini, idea alpina già balenata a Veltroni, ma va bene lo stesso. Era il piccolo paradiso di tutti i programmi, ma stavolta con una classe dirigente nuova di zecca e Virginia a pattinarci sopra.

Fu l’opposto. Nove mesi di guerriglia per formare la giunta. Undici assessori assunti e licenziati, un paio di consulenti arrestati, tre responsabili del bilancio dimissionari, la Corte dei Conti con le mani nei capelli, la Procura di Roma con il dito sul grilletto. I giornali tambureggianti: incompetente, incompetente, incompetente! Il traffico fuori controllo, 254 ore perse ogni anno dagli automobilisti negli ingorghi, un record tra le capitali del mondo, dopo Bogotà. Gli autobus in fiamme. Quelli appena acquistati, fuori norma. I parchi e i giardini abbandonati alle sterpaglie e all’assenteismo cronico. Gli alberi crollanti. I rifiuti accatastati sui marciapiedi, le discariche chiuse, i compattatori fuori uso, mentre l’Ama, l’azienda municipalizzata invece di bruciare rifiuti, bruciava 7 consigli di amministrazione in 4 anni, passando da una inchiesta all’altra, da un arresto all’altro. Con i cittadini furiosi che pagano il doppio delle tasse, 800 milioni di euro l’anno, per avere la città di sempre, allagata a ogni pioggia e i cassonetti galleggianti. In quanto ai pattini, meglio scordarseli, visto il paesaggio di asfalti traforati da buche, voragini, rattoppi, marciapiedi sbriciolati, automobili accatastate in doppia fila, cinghiali in transito.

Virginia sembrava sempre sul punto di essere travolta. E a forza di puntualizzare difese, finiva per adottare la vecchia giostra dello scaricabarile: i bilanci in rosso li abbiamo ereditati, è colpa della corruzione di prima, della cattiva amministrazione di sempre, dello Stato che ci abbandona. I rifiuti sono colpa della Regione che non ci aiuta e dei dipendenti fantasma. Il traffico c’è sempre stato, non ho la bacchetta magica. Le buche vengono dai cattivi appalti. I cattivi appalti dalle tangenti. Siamo troppo grandi, sei volte Milano. Eccetera. Come se scoprisse tutto per la prima volta. Benvenuta nella realtà dei romani cinici, indisciplinati, ingovernabili: meglio tardi che mai.

È solo quando la smette di fare la piccola fiammiferaia che se la cava meglio. Per esempio il giorno in cui dice di no alle Olimpiadi del 2024 volute dagli stessi palazzinari e politici – tutti laureati in competenza – che ai Mondiali di nuoto del 2009 hanno truccato appalti, rubato il rubabile, costruito piscine fuori misura. E invece dice sì al nuovo stadio della Roma, ma con un decente taglio di cemento e centri commerciali, visto che ci sono già 200 mila case sfitta e i Centri commerciali sono diventati una trentina, quasi tutti spuntati nell’era molto competente di Veltroni e Rutelli sindaci. Oppure quando sovrintende l’abbattimento di 8 ville abusive dei Casamonica al Quadraro. E fa la guerra alle famiglie dei Fascina e degli Spada che controllano lo spaccio e l’usura.

Quando prova a sgomberare i camerati abusivi di Casapound e va difendere la famiglia bosniaca che a Casal Bruciato ha ottenuto regolarmente una casa popolare, ma vive nel terrore dell’assedio razzista. O quando l’inchiesta Buzzi-Carminati, svela quanto sia grande il buco nero del mondo di mezzo, dove si saldano gli interessi dalla destra malavitosa, con la sinistra della pessima cooperazione. E risale la china quando finalmente, invece di fare la vittima, comincia a riaprire le stazioni centrali della metropolitana chiuse per mesi, a rifare le strade, a ripulire i giardini e la macchina amministrativa, a salvare dal fallimento l’azienda trasporti.

Forse persuasa dal vuoto del Covid – che ha spalancato la bellezza di Roma come una tabula rasa da riempire di idee e di rimedi – ha deciso di chiedere, “a testa alta”, il secondo mandato. Dice: “Mangeremo quello che abbiamo apparecchiato”. Vedremo se stavolta sarà un progetto o una minaccia.

“Quella signora vuole un risarcimento. Così è nata la bufala dei mangia-cani”

Lo scoop ha il rumore di fondo dell’epopea storica, visto il precedente dei “comunisti che mangiano i bambini’’: il 7 agosto scorso, in prima pagina, Libero informa i suoi lettori che a Lampedusa “i tunisini mangiano i cani’’ degli onesti cittadini. Lo denuncia agli inviati un’imprenditrice agricola, la signora Rosy, cui i migranti avrebbero “mangiato i miei quattro cani: entrano nei terreni, sporcano e uccidono gli animali’’. Su Libero la punta estrema dell’Europa, paradiso del turismo, viene descritta come un’infernale cayenna cosparsa di escrementi e discariche, attraversata da migranti ubriachi. Il sindaco dell’isola, Totò Martello, ha denunciato i due inviati. Lo abbiamo intervistato.

Sindaco Martello, i cagnolini della signora Rosy gridano vendetta…

Nel sopralluogo del veterinario e dei vigili urbani sono stati trovati due cani con il microchip e un residuo di ossa mandibolari canine risalenti a sei-sette anni fa. La signora non è stata in grado di esibire la documentazione del cane e non è stato possibile identificarlo. Aveva un codice di allevamento per suini, e infatti sono state trovate anche tre scrofe.

Si è inventata tutto?

Risulta tutto non veritiero. La signora vuole risarcimenti, vuole ripagate le galline che le hanno rubato, i cani che le hanno mangiato, vuole soldi. Era lei a non essere in regola…

Cioè?

Il sopralluogo ha accertato che sul suo terreno le costruzioni erano abusive. Ho firmato un’ordinanza di demolizione.

E gli inviati di Libero ci sono cascati…

Macché. Sono venuti a Lampedusa per prendere spunto da alcuni problemi, denigrare l’isola e fare lotta politica.

Come fa a dirlo?

Avevano un solo obbiettivo: testimoniare che Lampedusa è un bordello, che c’è promiscuità tra cittadini e migranti, e non c’è lo Stato. Ai lampedusani chiedevano: vuoi che ci sono gli sbarchi? Ovviamente no. Vuoi chiuso l’hotpot? Ovviamente sì. Lo sai che i tunisini sono tutti delinquenti? Fanno domande a trappola, poi tagliano i pezzi che non interessano e pubblicano quello che vogliono. Sono venuti per speculare sulla buona fede delle persone.

A lei cosa risulta?

Sono venuti a intervistare anche me e volevano cambiare le mie risposte tutte registrate, caricandomi di cose non dette.

E lei?

Li ho denunciati ai carabinieri e all’Ordine dei Giornalisti.

Addirittura…

Ho pubblicato la denuncia su Facebook auspicando una normativa per fermare bufale e fake news, non solo per chi le pubblica, ma per chi le costruisce.

E i cittadini? Come hanno reagito?

Mi hanno scatenato sui social il rancore dei salviniani, per loro sono un coglione, non ho le palle, devo morire, mi devo dimettere solo perché hanno corrotto mentalmente due-tre lampedusani che continuano a fare propaganda su Facebook senza capire i danni che fanno alla propria isola.

Gli eredi della Maraventano, storica leader leghista dell’isola…

C’era anche lei, in seconda linea. Qui Salvini da ministro non è mai venuto, si è fatto vedere quando non lo era più, per risolvere i problemi dell’isola.

Ma insomma, sindaco, Lampedusa è o no la cayenna descritta da Libero?

Personalmente ho visto due tunisini che hanno comprato 70 o 100 euro di frutta. Al di là di quelli che credono che siano tutti beduini, che qui vige una repubblica tunisina i disagi ci sono e sono provocati da altro.

E cioè?

Da chi, ad esempio, gestisce il centro e li fa uscire, nonostante un’ordinanza della Presidenza del Consiglio dei ministri che vieta l’uscita senza tampone sierologico. Dopo di che io devo applicare l’ordinanza, e mi chiedo: se tu, Stato, non sei in grado a mantenere l’ordine nell’hotspot, come fai a mantenere l’ordine e la disciplina per i cittadini di Lampedusa?