Salvini: “Ricollocamenti bluff”. Con lui erano l’82% in meno

Dice Matteo Salvini che “mentre nel 2020 sono sbarcate più di 15 mila persone, il Viminale si vanta di averne ricollocate 878. Incapaci e pericolosi”, attacca il leader della Lega ed ex ministro dell’Interno. È il commento alle dichiarazioni di Vito Crimi, reggente M5S e viceministro degli Interni, che aveva risposto a un’interrogazione del leghista Rossano Sasso, fornendo i dati sui ricollocamenti dei richiedenti asilo. Sono le procedure del preaccordo di Malta del 23 settembre 2019, firmato dall’Italia con Malta, Francia, Germania e Spagna e al quale poi hanno aderito Portogallo, Irlanda e Lussemburgo. Secondo Salvini “un altro bluff del governo”.

I numeri, in realtà, non sono quelli. I richiedenti asilo ricollocati in Europa dopo Malta sono di meno: 689, di cui 189 dopo il 25 giugno quando i viaggi sono ripresi al termine del lockdown che li aveva bloccati. Però prima di Malta, quando Salvini al Viminale e bloccava le navi delle Ong in mezzo al mare rischiando l’accusa (poi arrivata) di sequestro di persona finché qualche governo europeo non accettava di accogliere poche decina di persone, erano stati solo 125 (l’82% di 689). Alcuni dei ricollocamenti successivi nascono dagli accordi del Conte 1, ma la maggior parte no. E soprattutto i 689 non vanno calcolati sui 15 mila, ora 16 mila sbarcati, numeri bassi (nel 2016 erano stati 180mila) e però preoccupanti per il Covid e anche perché Salvini ha indebolito l’accoglienza. Di questi infatti oltre 6.700 sono tunisini, oltre 2.300 bangladesi e tanti altri provengono da Paesi per i quali non c’è protezione internazionale. Sono migranti economici per i quali Malta non prevede ricollocamenti.

Oggi partono soprattutto dalla Tunisia che affronta una grave crisi economica e raccoglie migranti in fuga dalla Libia. Per questo ieri i ministri dell’Interno e degli Esteri, Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio, sono andati a Tunisi. Una visita programmata da Di Maio anche se a Tunisi il governo impiegherà qualche giorno per formarsi, ma di grande rilievo per la presenza dei commissari Ue, la svedese Ylva Johansson e l’ungherese Oliver Varhelji nominato da un governo ostile ai migranti come quello di Viktor Orbán. I rappresentanti di Bruxelles non si vedevano da tempo a Tunisi. E Tunisi vuole soldi, aiuti. Dall’Italia arriveranno 11 milioni di euro per il controllo delle coste, da Bruxelles altri 10. È solo l’inizio. Di Maio vuole dimostrare che chi arriva senza titolo sarà rimpatriato. Fin qui l’accordo con Tunisi, l’unico davvero efficace, prevede 80 rimpatri a settimana. Roma ne vuole di più, il tema è delicato per la Tunisia in crisi. E intanto le partenze si spostano a est, verso la Libia: due flussi migratori si uniscono, controllarli è sempre più difficile.

“Repubblica” svolta sul Ponte di Messina: “È sicuro e costa meno, meglio del tunnel”

Inversione a U: alla fine Repubblica ha svoltato anche sul Ponte di Messina. Tra il giornale di ieri e quello di oggi c’è più distanza che tra Sicilia e Calabria. Si può misurare con due titoli, entrambi pubblicati sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Il primo è del 29 novembre 2008: “Caro e anche pericoloso, il Ponte sullo Stretto bocciato dal supertecnico”. Il secondo è di ieri, 17 agosto 2020: “Meglio fare il Ponte perché è più sicuro e costa meno”. Repubblica ha fatto il giro completo: scrive proprio come 12 anni fa, usa gli stessi argomenti ma sostiene esattamente il contrario. Dopo una campagna ultraventennale contro il ponte che l’Italia non avrebbe visto mai – almeno da quando divenne la promessa elettorale di un rampante Berlusconi – il giornale (ora degli Agnelli) cede improvvisamente al fascino della grande opera.

Per illustrare la storica linea di Repubblica sulla questione Ponte può tornare utile un’altra manciata di titoli, tutti pubblicati tra il 2000 e il 2019: “I venditori del ponte che non c’è”, “Il tabù del ponte”, “Ponte sullo Stretto, il giallo dei conflitti”, “Ponte dei sogni e miserie reali”, “Un progetto lungo 45 anni che può costare 1,2 miliardi anche se rimane sulla carta”, “Ponte sullo Stretto, la società costa 2 milioni l’anno”, “Quel Ponte sullo Stretto campato in aria”, “È un progetto che non convince e alla Sicilia non basta il ponte”, “Il Ponte e quei 300 milioni buttati a mare”, “Prima del Ponte ripariamo l’Italia”, “Altri due anni al Ponte fantasma, già costato agli italiani 600 milioni”, “La favola del Ponte senza oneri per lo Stato”, “Se il Ponte sullo Stretto è fumo negli occhi”, “I venditori del Ponte che non c’è”. Potremmo andare avanti. Tutte le migliori firme di Rep – da Augias a Bolzoni a Serra – si sono esercitate per anni sul tema dell’opera fantasma, inconcludente, costosissima, in odore di interessi mafiosi.

Ma niente è per sempre, e la nuova Repubblica ha già mostrato di avere una sensibilità mutevole su temi come lavoro e questione razziale: non dev’essere sembrato strano alla nuova direzione ribaltare una linea consolidata in trent’anni di articoli e inchieste . L’altro giorno, nell’edizione di Ferragosto, il giornale dei progressisti italiani ridicolizzava gli argomenti che ha sempre sostenuto: “Il rischio dei terremoti, la furia dei venti, il danno al panorama, i tentacoli della mafia, il turbamento dell’ombra sui delfini e persino il disorientamento dell’albanella pallida (quel rapace migratore che una volta l’anno passa proprio lì, tra Scilla e Cariddi)”. A ripensarci il Ponte sullo Stretto non era poi tanto male. Sicuramente meno bizzarro della galleria subacquea che piace al presidente del Consiglio: “Il tunnel miracoloso dell’elettrotecnico che ha folgorato Conte” (Repubblica, 15 agosto). Quella che interessa il premier oltretutto è un’idea vecchia: “Un progetto di mezzo secolo fa”, (Repubblica, 17 agosto). Meglio il Ponte. Lo dice anche il sottosegretario del Pd Salvatore Margiotta: “Concentriamoci su ciò che davvero potremmo realizzare. Il lascito di una generazione politica, il fiore all’occhiello di un Paese: un ponte a campata unica lungo 3,3 chilometri” (Repubblica, 17 agosto).

C’è un testimone: “Dopo l’incidente Gioele era vivo, in braccio a sua mamma Viviana”

Dopo l’incidente stradale Gioele era vivo, in braccio alla madre, con gli occhi bene aperti, con la testa appoggiata sulla sua spalla destra e senza alcuna ferita. È la nuova “ragionevole certezza” dell’inchiesta sulla morte di Viviana Parisi, la dj di 43 anni trovata morta l’8 agosto scorso nelle campagne di Caronia (Messina) e sulla scomparsa del figlio della donna, di 4 anni. Quel giorno sull’autostrada Palermo-Messina il piccolo era vivo e la madre aveva nei suoi confronti “un atteggiamento protettivo”. A mettere “un tassello in più” è stato uno dei turisti-testimoni a cui il procuratore di Patti, Angelo Cavallo, aveva lanciato un appello a parlare. Ha raccontato di avere visto la donna “di fronte, che camminava in modo veloce verso un passaggio nel guard rail dopo la galleria”. Per uno dei periti, la prof. Elvira Ventura Spagnolo, “il corpo si è decomposto dove è stato trovato, ma sono in corso numerosi esami per comprendere come sia morta”. Le ricerche del bambino, giunte al 14esimo giorno, proseguono.

Mazzacurati, addio ai 6,9 mln di danno erariale

L’ultima beffa di Giovanni Mazzacurati, creatore del sistema-Mose e gran ciambellano delle tangenti in Laguna. È morto in nel settembre 2019 e i suoi molti eredi hanno ora rinunciato all’eredità perché sarebbe stato più quello che avrebbero dovuto versare allo Stato rispetto a ciò che sarebbero riusciti a incamerare del patrimonio, secondo gli investigatori ben dissimulato. Avrebbero dovuto affrontare un contenzioso oneroso con Corte dei Conti e Consorzio Venezia Nuova di cui l’ingegnere era stato presidente. Non avrebbero raccolto nulla, anche se Mazzacurati – già ricco e potente – aveva posseduto una villa a Cortina e un’altra negli Usa, aveva intestato a moglie e figli case a Venezia, aveva amministrato centinaia di milioni di euro e fino alla morte godeva di una pensione di 5 mila euro al mese. Non la avessero in parte bloccata, vantava anche una buonuscita da 7 milioni di euro dal Consorzio. Le vicende penali si erano azzerate, per morte del reo. Non quelle contabili e civili. Mazzacurati era un patriarca. Con la prima moglie, Gabriella, aveva avuto cinque figli (tra cui Carlo, il regista cinematografico scomparso nel 2014). Poi aveva sposato Rosangela Taddei (sorella di Gabriella) che aveva già due figli statunitensi. Qualche nome ricorre anche nelle carte giudiziarie, per raccomandazioni o favori del padre. Quando fu arrestato, nel 2013, non si trovò granché. La villa in California era intestata alla moglie. Idem per una villa a Cortina, ceduta alla consorte nel 2012 (la corte dei Conti sospetta una simulazione), quindi venduta a un imprenditore vicentino. La giustizia contabile a dicembre condannò l’ingegnere a pagare 6,9 milioni di euro in solido con Alessandro Mazzi e il Consorzio. Anche per questo gli eredi hanno rinunciato all’eredità. E lo Stato resta con un palmo di naso.

Fiorello, Bisio&C. al Festival Comunicazione

Non è un caso che l’edizione del venturo Festival della Comunicazione (Camogli, 10-13 settembre) sia la numero sette: un’edizione che – con passione e impeto – avverrà in presenza e dal vivo (e dunque sfruttando i luoghi all’aperto e con ognuna delle nuove precauzioni che abbiamo imparato a mettere in atto). Il sette, si diceva, è azzeccato e non casuale: per Fibonacci era il numero dell’equilibrio e della totalità, Platone lo definiva anima mundi, per gli antichi egizi simboleggiava la vita. Si comprende, allora, come sia necessaria una kermesse di incontri sul tornare a communicare (mettere in comune).

La “Socialità” è, difatti, il tema di quest’anno, materia viva e pulsante delle nostre società: è il nostro modo di vivere, di produrre senso. Soprattutto è all’origine del linguaggio. Per questo, con più di cento ospiti, si declinerà nell’arte, nello spettacolo, nella comicità, nella scrittura. Claudio Bisio e Gigio Alberti saranno i protagonisti di uno spettacolo che rilegge Aspettando Godot, Alessandro Barbero esplorerà in una lectio la socialità nel Medioevo, mentre Piero Angela racconterà quanto essa sia importante per l’evoluzione e Piergiorgio Oddifreddi si diffonderà nella socialità all’interno del gioco. Tuttavia, a spiegarci che siamo stati da sempre animali sociali – vedi Grotte di Lascaux – ci pensa Stefano Massini, tra mitologia classica e nuovi stereotipi, anche se è bene riflettere sul futuro come s’impegnerà a fare Maurizio Ferraris nel suo viaggio alla scoperta della “Docimanità, la filosofia del nuovo mondo”. Presente la grande informazione, con i direttori e i vicedirettori delle principali testate: Luciano Fontana, Marco Travaglio, Federico Ferrazza, Maurizio Molinari e Luca Ubaldeschi. Infine, esclusive letterarie: Stefania Auci in dialogo con Pietrangelo Buttafuoco svelerà il seguito della saga dei Florio. Insignito del Premio Comunicazione quest’anno è Rosario Fiorello.

“Cassino città della Madonna”. L’abate: “C’è già S. Benedetto”

Si litiga, a Cassino, in nome di Maria di Nazareth e proprio nei giorni della festa dell’Assunta. E si litiga anche, in qualche modo, sul coronavirus, sull’abbazia di Montecassino e su San Benedetto, patrono d’Europa e della città laziale. Ma andiamo con ordine. Dopo la pandemia, all’inizio di luglio, un gruppo di parroci e di fedeli avevano chiesto di intitolare la città alla Madonna Assunta, molto venerata a Cassino, per riconoscere il sentimento popolare di chi, durante il lockdown, ne aveva invocato la protezione. Una raccolta di firme e una petizione erano state inviate al sindaco e al Consiglio comunale per avviare la procedura: in pratica, la richiesta al vescovo della diocesi per far dichiarare Cassino, con un decreto ecclesiastico, “civitas Mariae”, città di Maria. Si tratta di una pratica millenaria con la quale, in un certo senso, un paese o una città “conferisce” alla Madonna una sorta di “cittadinanza onoraria”. Pronta la risposta del primo cittadino, Enzo Salera, e della sua giunta: una delibera subito trasmessa all’autorità ecclesiastica. Proprio a questo punto, però, tutto si è complicato, sino a naufragare: e non certo per l’ostilità del vescovo.

Dal 2014, infatti, la diocesi di Cassino, per tradizione retta dall’abate dell’abbazia di Montecassino e composta da 50 parrocchie, è stata annessa a quella di Sora, Equino e Pontecorvo. La decisione era nell’aria da molto tempo: da quando cioè Cassino è diventata un polo industriale (soprattutto con l’arrivo della Fiat) e la sua popolazione è cresciuta, sino a far balenare di costituirla come provincia autonoma da Frosinone. Nuova diocesi e nuova provincia sono state due idee che hanno marciato a lungo assieme, sino all’abolizione dell’ente provinciale decisa dalla legge Del Rio. Nel 2014, però, Papa Francesco ha deciso invece l’accorpamento diocesano. Una scelta sulla quale, anche se non è mai stato dichiarato pubblicamente, ha pesato – e molto – lo scandalo che coinvolse l’abate Pietro Vittorelli. Protagonista, nel giugno del 2013, di vicende legate al consumo di stupefacenti e di festini negli ambienti della prostituzione maschile, oltre che di prelievi sui conti dell’abbazia per una cifra vicina al mezzo milione di euro. Un passaggio solo di oneri e di competenze per il vescovo di Sora, Gerardo Antonazzo, ma con tutti i beni della ex diocesi di Cassino trasferiti da tempo al patrimonio dell’abazia e persino la stessa ex sede vescovile affittata dai monaci ai carabinieri. Una situazione imbarazzante e con più di uno strascico polemico interno al mondo ecclesiastico, che ha trovato però il suo momento di rottura proprio sulla proposta della “civitas Mariae”.

Infatti, dopo aver saputo dell’iniziativa, l’attuale abate ha lanciato “fulmini e saette” sugli organizzatori, parlando di una proposta che rischiava di oscurare l’eterno legame di Cassino con San Benedetto. A questo punto, il sindaco ha revocato la delibera, dopo uno scambio di lettere con i parroci nelle quali entrambe le parti non esitano a indicare proprio nell’ostilità dei monaci il vero motivo di questa decisione, e il vescovo, pro bono pacis, ha così scelto di soprassedere. Con un corollario nel giorno della festa dell’Assunta: sabato il vescovo e l’abate hanno celebrato le due tradizionali funzioni in due momenti diversi e non in contemporanea. Il lato comico della vicenda è che le autorità vaticane e il nunzio apostolico, sanno benissimo quello che sta accadendo. Ma non muovono un dito: verosimilmente perché l’abbazia è ancora destinataria delle ricche dotazioni statali che le sono state attribuite per la ricostruzione dopo i devastanti bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. In realtà, i monaci posseggono letteralmente mezza Cassino e molti uffici statali sono situati in immobili del patrimonio abbaziale. Insomma: tra il “dire” le preghiere e il “fare”, c’è di mezzo l’immenso “mare” del potere e dei soldi.

Ma il datore di lavoro non può fare controlli né domande sulle ferie

L’ombra del sospetto sul posto di lavoro. Con l’aumento dei casi di coronavirus in Italia, soprattutto importati da persone che sono state in vacanza all’estero, cresce anche tra gli uffici e i reparti delle fabbriche la paura che il collega appena tornato dalle ferie possa essere portatore di coronavirus. Come ci si comporta in questi casi? Il datore di lavoro è tenuto fare lo sceriffo, chiedendo ai dipendenti dove sono andati in ferie, se lo scopo finale è la sicurezza di tutti? Quali sono gli obblighi dei lavoratori? Tra quelli che ancora devono andare in vacanza e chi sta tornando, i timori crescono e si scontrano con nuove e vecchie normative. La situazione è complessa e va spiegata.

Con l’ordinanza del 12 agosto il ministro della Salute Roberto Speranza ha imposto l’obbligo del tampone per chi torna da 4 paesi a rischio (Malta, Croazia, Spagna e Grecia), mentre la lista nera degli Stati extra Ue bloccati continua ad allungarsi. Decisioni che hanno ripercussioni anche sul posto di lavoro dal momento che i cittadini che sono in attesa dell’esito del tampone, se non hanno già fatto il test rapido in aeroporto, hanno l’obbligo di sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario. Poi, in caso di esito positivo del tampone, quarantena obbligatoria per 14 giorni. Una situazione che ci riporta a marzo. Allora, però, era tutto strano, una novità. “Ora – spiega Pasquale Staropoli, responsabile della Scuola di alta formazione della Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro – se un lavoratore, che prima di tutto è un cittadino, non rispetta le normative in vigore e non adotta tutte le precauzioni del caso, mettendo così in pericolo i propri colleghi, potrebbe anche essere licenziato per giusta causa. La tempestiva comunicazione del contagio al rientro dalle ferie, se si rispetta il principio di correttezza e buona fede, non è invece di per sé motivo di giustificatezza del licenziamento”.

La precauzione generale obbligatoria imposta al datore di lavoro resta, infatti, la sola misurazione della temperatura e il distanziamento sociale. Mentre il lavoratore è tenuto a collaborare per fare in modo che le misure attuate siano efficaci. “Se, invece, si scopre di essere positivi, la notizia va comunicata al più presto anche al proprio capo, mettendosi in malattia, per evitare possibili responsabilità personali”, dice Staropoli. Insomma, si deve continuare a prestare maggiore attenzione al rispetto delle regole.

Il datore di lavoro non può chiedere ai dipendenti dove sono andati in vacanza e non può effettuare direttamente esami diagnostici sui lavoratori, come ha già sancito il garante della Privacy. L’unica richiesta di effettuare test sierologici può arrivare solo dal medico del lavoro o, comunque, se c’è una prescrizione medica. Il principio della privacy resta intoccabile: nessuna ingerenza nei dati personali del lavoratore anche se si tratta di pandemia.

I “discotecari” vanno al Tar e il Viminale mobilita i vigili

Un ricorso urgente al Tribunale amministrativo regionale del Lazio contro la serrata alle disco decisa dal governo. È il contrattacco dei proprietari dei locali notturni – riuniti nel sindacato Silb – che chiedono la riapertura immediata delle loro aziende, chiuse due giorni fa per effetto della nuova ordinanza del ministero della Salute. “Si è voluto criminalizzare un intero settore”, accusano, subito spalleggiati da Matteo Salvini. “Hanno fatto bene, migliaia di posti di lavoro a rischio per un provvedimento senza giustificazione scientifica”, attacca il leader leghista. Ma per tutta risposta il capo di Gabinetto del ministero dell’Interno, Bruno Frattasi, ha emanato una circolare in cui chiede ai prefetti di convocare comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, partecipati da forze di polizia locale e sindaci, per vigilare sul rispetto delle regole da parte dei gestori.

Intanto, per il secondo giorno di fila dopo il picco di Ferragosto, i nuovi casi di Covid in Italia si sono ridotti. E in modo notevole: i contagi registrati ieri sono 320, oltre 150 in meno di domenica (erano 479) e oltre 200 in meno di sabato (giorno in cui si è arrivati a 629, il dato più alto dallo scorso 23 maggio). Numeri che però scontano un vertiginoso calo dei tamponi analizzati, 36.807 domenica e appena 30.666 ieri, mentre nei giorni precedenti si viaggiava intorno a quota 50 mila. Inoltre, se i decessi restano stabili (+4 anche ieri), aumentano gli ospedalizzati (810, +23) e i ricoverati nelle terapie intensive (58, +2). Quest’ultimo dato risulta in crescita costante, seppur lieve, da 14 giorni: lo scorso 3 agosto i pazienti in rianimazione erano 41.

In cima alla lista delle Regioni più colpite c’è il Lazio (+51) seguito da Veneto (+46) e Lombardia (+43). Buona parte dei casi sono emersi con i test obbligatori per chi arriva da Croazia, Grecia, Malta e Spagna: migliaia le richieste prese in carico nelle ultime ore dalle Asl di tutta Italia. Dopo l’esordio a Fiumicino – già 5 i positivi accertati – da ieri i tamponi rapidi sono disponibili anche negli aeroporti di Roma Ciampino, Torino Caselle e Palermo Punta Raisi. Ancora assenti, invece, negli scali della Lombardia e nel resto del Paese.

Dei 51 nuovi casi registrati nel Lazio, la metà sono contagi di rientro: 10 dalla Grecia, 8 dalla Spagna, 3 dalla Croazia, 2 da Malta. “Il sistema sta funzionando: siamo pronti a esportare il modello Roma per la sicurezza in aeroporto”, esulta l’assessore regionale alla Sanità Alessio D’Amato. Più scettico, invece, il virologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti, secondo cui i test in aeroporto sono una soluzione “ingestibile a lungo termine”. La strategia migliore, dice Crisanti, è che “i passeggeri in arrivo da Paesi a rischio si facciano il test all’origine, e le compagnie aeree non accettino chi non ha il test negativo”.

Ma l’Italia resta uno tra gli Stati europei con i numeri meno allarmanti. In Spagna si contano 16.269 nuovi casi da venerdì, 1.833 nelle ultime 24 ore. Il Paese iberico è quello con il più alto tasso di contagi negli ultimi 14 giorni (115,7 ogni 100 mila abitanti). In Francia – dove a Marsiglia è arrivata la polizia in tenuta antisommossa per far rispettare l’obbligo di mascherina – precipitano i contagi (493 a fronte dei 3 mila e oltre dei giorni scorsi) ma crescono per il terzo giorno di fila i ricoverati, ormai quasi 5 mila. Dopo i 69 casi di ieri, anche il governo di Malta ha optato per la chiusura di bar e locali notturni, oltre che per l’obbligo di mascherina in tutti i locali pubblici al chiuso. Vietati anche i raduni di più di 15 persone.

Triste, solitario e cazziato: l’estate al Forte di Salvini

Ore 13.30, lungomare di Forte dei Marmi. Matteo Salvini esce dal bagno Alaide, uno degli stabilimenti più “in” della Versilia, a torso nudo in sella alla sua graziella. Sul seggiolino posteriore c’è la figlia Mirta mentre della compagna Francesca Verdini nemmeno l’ombra. Appena il leader della Lega imbocca la ciclabile, molti lo riconoscono ma nessuno gli si avvicina per il solito selfie di rito. Deferenza o indifferenza, chissà. Eppure bastano poche pedalate per provocare la battuta al veleno di due toscani di mezza età che stanno addentando un panino sulla “passeggiata”: “È lui?”. “Sì, ‘un la vedi la buzza (la pancia, ndr)? È anche ingrassato”. La forma fisica come il potere.

Un anno fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini era l’uomo più potente d’Italia e governava – tra selfie, mojito e la consolle – dalla spiaggia del Papeete prima di far cadere Giuseppe Conte. L’estate 2020 del leader del Carroccio invece è molto più mesta. Niente riviste patinate, niente ballerine con tanga leopardati. Quest’anno solo castelli di sabbia, tintarella con la famiglia e qualche comizio poco partecipato.

Nelle ultime due settimane Salvini ha preso casa in Versilia per unire l’utile al dilettevole: fare qualche giorno di vacanza sulla spiaggia e sostenere Susanna Ceccardi alle regionali in Toscana di settembre. Ma a Ferragosto l’attività politica si è rallentata e il leader del Carroccio ha potuto rifiatare un po’ prima del tour de force delle regionali. La sua giornata tipo a Forte dei Marmi non prevede sgarri. “È monotono, al limite dell’ossessivo” racconta chi lo ha incontrato più volte nelle ultime settimane. I movimenti di Salvini si concentrano in poche centinaia di metri, quelli che intercorrono tra le “capanne” del bagno Alaide e il lussuoso “California Park Hotel” dove una camera doppia a fine agosto costa 700 euro a notte. Durante la giornata fa la spola tra l’albergo e lo stabilimento balneare: la mattina in spiaggia, ritorno in hotel per il riposino pomeridiano e poi ancora al mare. I fasti dello scorso anno sono un lontano ricordo: sulla spiaggia si avvicina un paio di imprenditori della zona e qualche giornalista che gli chiede cosa succederà in caso di vittoria della Lega in Toscana (“cade il governo?”), ma nulla di più. Le file dei bagnanti per un selfie con il “Capitano” quest’anno sono più uniche che rare. Sul pontile del Forte lo riconoscono, ma quasi nessuno si avvicina: Salvini è solo, in compagnia della figlia, e solo la sera si vede mano nella mano con Francesca.

Poi ci sono i comizi politici e le passerelle: sarà il periodo di ferie ma le piazze con Susanna Ceccardi sono mezze vuote (ci sono quasi solo gli storici militanti del partito), spesso interrotte da contestazioni. Poi c’è anche chi è arrivato a bacchettarlo per il mancato rispetto delle regole anti-covid. Pochi giorni fa, mentre il leader del Carroccio era con alcuni simpatizzanti al mercato di Forte dei Marmi senza mascherina, gli si è avvicinata Lucia Tanganelli, che fa l’oncologa all’ospedale San Luca di Lucca e nei mesi scorsi ha conosciuto in corsia il dramma del covid. La dottoressa lo ha rimproverato: “Ma la mascherina dov’è?” . Lui, un po’ imbarazzato, ha tentato di spiegare: “Siamo all’aria aperta”. Ma il distanziamento non era certo rispettato: “C’è un assembramento, il covid è una cosa seria” ha replicato lei. A quel punto Salvini se n’è andato spazientito dopo aver pronunciato una battuta infelice: “Va bene, lei però si vada ad auto-assembrare”. Il tutto mentre in Versilia è boom di richieste di tamponi dei giovani che sono stati in discoteca terrorizzati dall’aver contratto il virus. Ma per Matteo Salvini l’emergenza è finita e bisogna godersi le vacanze in spiaggia. Anche se solo e trascurato.

Macché bis a Milano: Sala chiede a Grillo la guida della “Tim-2”

Ha detto la verità, Giuseppe Sala, sulla sua visita al fondatore del Movimento 5 stelle. Dopo l’incontro del 10 agosto a Marina di Bibbona, ha twittato: “La giornata al mare da Beppe Grillo è stata molto piacevole e interessante. Abbiamo parlato di tante cose, ma non di ciò a cui tanti pensano e cioè delle elezioni milanesi. Ah, ottima cucina”. L’anno prossimo si voterà per scegliere il sindaco di Milano. Normale ipotizzare che Sala possa aver discusso con Grillo l’atteggiamento dei Cinque Stelle nei confronti della sua ricandidatura: sostegno? non belligeranza? netta opposizione? Invece no: Sala ha davvero parlato d’altro. Perché ha ormai maturato la decisione di non ricandidarsi a Milano e di puntare invece a un posto manageriale nazionale. Alla guida della società pubblica che potrebbe nascere da Telecom Italia per gestire la rete e le infrastrutture telefoniche. Posto irraggiungibile, senza l’ok dei Cinquestelle.

Il giorno dopo – casi del destino – Grillo posta sul suo blog un intervento dal titolo curioso (“Dite al treno che io passo solo una volta”) ma dall’argomento chiarissimo: Telecom Italia, da spezzare in due società. “Bisogna dividere i servizi dalle infrastrutture, creando finalmente due società separate”, scrive Grillo. “La prima società sarà focalizzata sulle attività commerciali e dei servizi verso i clienti finali. La seconda società sarà proprietaria di tutte le infrastrutture che comprendono: le torri di Inwit, la rete mobile (incluso il 5G), i data center, il cloud, la rete internazionale di Sparkle e la società sulla fibra derivante dall’integrazione della rete fissa di Telecom con quella di Open Fiber”. Se la prima società manterrà gli attuali assetti proprietari, “sotto la guida peraltro di un investitore francese”, la seconda dovrà invece essere saldamente controllata dalla mano pubblica. È qui che vorrebbe planare Sala, diventando uno dei manager più strategici del Paese.

Che Sala non si voglia ricandidare l’ha capito subito una che se ne intende, Ada Lucia De Cesaris, ieri vicesindaco e candidata (poi delusa) alla successione di Giuliano Pisapia, oggi avvocato e pasdaran di Matteo Renzi in Italia viva: “Quello strano virus che colpisce i sindaci di Milano per il secondo mandato”, ha scritto il 14 agosto su Twitter. “Non capisco cosa impedisca di buttarsi a capofitto per dimostrare la grandezza e la capacità della nostra amata città”. Non è poi così difficile da capire: la campagna elettorale sarà durissima, il centrodestra sarà all’attacco in una città che resta fedele al centrosinistra solo nei quartieri del centro, il Sala del #milanononsiferma è uscito molto indebolito dalla pandemia, che ha rallentato, se non bloccato, la narrazione trionfale della metropoli in eterna espansione. Così meglio non rischiare e partire per nuove avventure. Che hanno bisogno di sponde grilline. Ormai, per Sala, la ricandidatura per il secondo mandato a Palazzo Marino è soltanto una scelta residuale, che scatterà nel caso non riesca a raggiungere il nuovo obiettivo.

Grillo nel suo post attacca l’apertura di Telecom “a investitori internazionali di private equity, finalizzato esclusivamente a fare cassa per ridurre il debito esistente”. No all’operazione finanziaria sulle torri Inwit. No al “progetto di dismissione parziale dei datacenter attualmente allo studio in partnership con Google”. No alla “vendita di un pezzo della rete secondaria al fondo americano Kkr, in logica puramente finanziaria e non industriale”. Sì invece a “un ambizioso piano di sviluppo infrastrutturale”. Con investimenti pesanti “nelle tecnologie di comunicazione, sia attuali (come la fibra ottica) sia prospettiche (come il 5G), anche congiuntamente con gli altri operatori del settore”. Per fare questo, è necessario creare “una società unica delle reti e delle tecnologie”, che sia realizzata “sotto la guida e l’indirizzo di istituzioni pubbliche”. Grillo pensa a Cassa depositi e prestiti: “La società unica delle infrastrutture e delle tecnologie dovrebbe avere come primo azionista un soggetto in grado di garantire l’indipendenza del network dai suoi utilizzatori, oltre che un orizzonte di investimento di lunghissimo periodo”. Come Cdp, appunto, che “sarebbe sinonimo di stabilità nell’azionariato e garanzia di massicci investimenti per lo sviluppo dell’infrastruttura digitale del Paese”.

Sala è un uomo dalle molte vite. È già stato manager Telecom nel 2005, direttore generale della società nata allora dalla fusione tra Telecom Italia e Tim. Poi ha fatto il commissario di Expo e il sindaco di Milano. Oggi si offre per guidare, se nascerà, il nuovo colosso strategico delle telecomunicazioni italiane. Un posto che vale una visita d’agosto a casa Grillo.