Bonus da “segreto di Stato”. E i tre non devono ridarlo

I nomi di chi l’ha chiesto senza riceverlo chissà se mai arriveranno, alla fine del balletto tra istituti e istituzioni. I deputati che invece sono riusciti a intascarsi i 600 euro di bonus Covid destinato alle partite Iva potranno intanto tenerselo, non rientrando nella casistica citata dal presidente Inps Pasquale Tridico per cui si è mossa l’Antifrode.

Un passo alla volta. Ieri l’Autorità garante per la Privacy ha chiamato di nuovo in causa l’ente previdenziale, incalzandolo sulla pubblicazione dei nomi dei parlamentari – i tre che lo hanno ricevuto sono Andrea Dara, Elena Murelli (Lega) e Marco Rizzone (M5S), gli altri due non sono noti – e ribadendo quanto già scritto una settimana fa: spetta all’Inps decidere se divulgare o meno l’identità dei deputati. Restano validi i principi a cui il Garante si era già richiamato, e cioè che “la privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati relativi ai beneficiari del contributo”, a maggior ragione per chi, “a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono”.

Parole che non erano bastate a Tridico, che convocato in commissione Lavoro alla Camera aveva chiesto un approfondimento al Garante. Da qui il nuovo pronunciamento: “Spetta all’Inps verificare caso per caso, previo coinvolgimento dei soggetti controinteressati, la possibilità di rendere ostensibili tramite l’accesso civico i dati personali richiesti (…) alla luce della normativa e delle Linee guida dell’Anac, in conformità con i precedenti del Garante”. Il riferimento è alle indicazioni dell’Anticorruzione che stabiliscono che “l’ente deve far riferimento a diversi parametri” tra cui “il ruolo ricoperto nella vita pubblica, al funzione pubblica esercitata o l’attività di pubblico interesse svolto dalla persona cui si riferiscono i dati”. A maggior ragione perché, stando ancora all’Anac, l’obbligo di divulgazione è previsto per “vantaggi economici di qualunque genere di importo superiore a mille euro”. Fermo restando il limite della “condizione di indigenza” dei richiedenti, che fa prevalere la privacy. Il “coinvolgimento” del deputato non sarebbe poi vincolante. Il parlamentare potrebbe infatti opporsi alla pubblicazione, ma dovrebbe documentare il suo rifiuto e in ogni caso sarebbe l’Inps a decidere. Tutto chiaro quindi? Neanche per idea. La posizione del Garante non rassicura l’Inps, che si aspettava un parere più netto per poter procedere con la pubblicazione. Anche perché le conseguenze legali di eventuali ricorsi sarebbero in capo a Tridico, che contava su un mandato pieno che l’Autorità non ha concesso: “Per le richieste di accesso civico generalizzato – scrive il Garante – non ricorrono i presupposti per l’adozione di un parere formale dell’Autorità. Il Garante è chiamato a intervenire solo a seguito della richiesta del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza”. La distinzione (“accesso generalizzato”) riguarda i due parlamentari che hanno chiesto il bonus senza riceverlo. Se per chi lo ha ottenuto (deputati e consiglieri regionali) vale quanto sopra (interesse pubblico e obbligo di trasparenza sopra i mille euro di sussidio), per gli altri non ci può essere parere preventivo, pur restando validi i richiami alle linee guida Anac. Via libera allora, ma non abbastanza da lasciar tranquillo Tridico.

Nessuna novità, invece, sull’istruttoria aperta dal Garante in merito alle ragioni per cui l’ente si sia accorto dei politici coinvolti. Tridico aveva specificato che l’indagine era partita dopo un controllo dell’Antifrode sulle domande ricevute, alcune delle quali bocciate perché provenienti da soggetti “iscritti ad altre casse previdenziali”.

Non si tratta però della “cassa” della Camera – quella, per intendersi, che dà la pensione a chi completa la legislatura – perché essa, pur assimilabile a un ente previdenziale, non è ritenuta tale. Lo confermano fonti di Montecitorio, che spiegano così anche la possibilità di intervento retroattivo sugli assegni di vitalizio, altrimenti vincolati a norme più stringenti. Per la verità al momento l’Inps non ha chiesto alcun parere a riguardo alla Camera, segno che l’Antifrode non ritiene “concorrenti” l’Inps e il sistema previdenziale del Parlamento.

In conclusione: i tre deputati che hanno ricevuto il bonus non rientrano nella casistica citata da Tridico e al momento non rischiano di dover restituire il bonus, a meno che non emergano altre irregolarità. A far sì che il sussidio fosse negato agli altri due richiedenti è stata allora l’iscrizione a un’ulteriore cassa rispetto a quella della Camera.

Dovete morire

Dicevano: i 5Stelle sono totalitari perché comandano Grillo e Casaleggio. Poi Casaleggio morì e Grillo s’eclissò, allora dicevano: eh, non parla più perché l’han fatto fuori, anzi si è stufato, anzi i 5Stelle sono morti e lui fa un nuovo movimento. Poi è arrivato Casaleggio jr. e dicevano: non sono totalitari, sono ereditari. Ora Casaleggio sta sulle palle pure a Di Maio, allora dicono: ecco, fanno fuori pure Casaleggio. Dicevano: Rousseau è una roulette truccata, vince sempre il banco, cioè la Spectre casaleggiana: poi sull’abolizione del reato di clandestinità Grillo e Casaleggio dissero no, e vinse il sì; sull’alleanza col Pd Casaleggio sperava nel no, e stravinse il sì; l’altro giorno sulle alleanze coi partiti Casaleggio puntava sul no, ed è uscito il sì. Dicevano che i 5Stelle erano un monolite, una setta plagiata dai suoi guru, una massa di ebeti terrorizzati dalle espulsioni, anzi epurazioni, anzi purghe staliniane e rastrellamenti nazisti; ma dicevano pure, in lieve contraddizione, che il M5S è sempre sull’orlo della rivolta, della scissione, della fuga di massa, dell’esodo biblico. Dicevano che era ora di finirla con quest’allergia alle alleanze: quelli le hanno fatte, anche troppe e ora gli dicono che sono incoerenti ad allearsi.

Dicevano che questa storia dei due mandati non aveva senso, in fondo bisogna pur imparare nei consigli comunali: allora quelli han levato dal computo il mandato in consiglio comunale, e ora gli dicono che sono incoerenti a fare ciò che gli avevano sempre detto di fare. Dicevano che i 5Stelle portano solo incompetenti: poi han portato il premier più competente da un pezzo, allora dicono che però non è iscritto e in fondo non è poi così competente. Dicevano che Conte voleva l’alleanza col Pd, mentre Di Maio la sabotava per indebolire Conte e tornare con Salvini: poi Di Maio, a urne di Rousseau aperte, s’è schierato pro alleanze, allora hanno detto che “ora Conte è più debole” (Claudio Tito, Repubblica). Dicono che i 5Stelle non hanno idee, infatti le cambiano su tutto: la Gronda di Genova (parzialmente vero, ma non è più quella da 5-6 miliardi bocciata in passato); il Tav Torino-Lione (mai cambiato idea: han perso in Senato contro Lega, Pd, FI, FdI); il Tap (mai cambiato idea: l’iter era troppo avanzato per fermarlo senza penali); il Ponte sullo Stretto (mai cambiato idea: infatti Conte vuole il tunnel, mentre a cambiare idea da No Ponte a Sì Ponte è Repubblica); i tunnel in generale (mai stati contrari ai tunnel: solo a quello del Tav Torino-Lione perché scaverebbe 60km di montagna contro i 4 dello Stretto e ospiterebbe non treni passeggeri, ma merci che già viaggiano da Torino a Modane sotto il Frejus).

Ma dicono anche che ora il Pd è succube del M5S, che gli ha imposto la parte del suo programma che non era riusciti a imporre alla Lega dopo averla costretta a votare Dl Dignità, Reddito di cittadinanza, Anticorruzione, blocca-prescrizione, stop ai vitalizi ecc. Ma non spiegano dov’è lo scandalo se un partito di sinistra che da vent’anni faceva leggi di destra oggi vota misure di sinistra volute da un partito “nè di destra né di sinistra”: manette agli evasori, taglio dei parlamentari (storica battaglia della sinistra, dalla Iotti a Ingrao a Rodotà), reddito d’emergenza, salario minimo, fuori i Benetton da Autostrade, Stato in settori strategici dell’economia, bonus per bisognosi, incentivi al green. Dicevano che il M5S sapeva solo urlare “vaffa” a tutti e “partito di Bibbiano” al Pd (che purtroppo, a Bibbiano e dintorni, era pure vero): ora che ha smesso, gli dicono che è incoerente perchè ha smesso. Dicevano che il M5S deve spiegare perchè s’è alleato con la Lega e col Pd dopo aver detto mai con la Lega e col Pd: invece la Lega, il Pd e l’Innominabile non devono spiegare perchè si sono alleati col M5S dopo aver detto mai col M5S. Dicono sempre che i 5Stelle devono spiegare perchè chiedono agli iscritti il permesso di fare tutto: invece i partiti non devono mai spiegare perchè ai loro iscritti non chiedono mai il permesso di fare nulla.

Dicono che la Raggi doveva evitare di ricandidarsi, visto che il Pd non la vuole: così ora avremmo la prima campagna elettorale della storia senza neppure un candidato (strano, visto che quelli che sanno come si fa il sindaco di Roma sono più numerosi di quelli che sanno come si fa il ct della Nazionale). Dicono che la svolta pro alleanze del M5S è positiva, così il Pd può vincere in tutti i Comuni e Regioni, ma solo a patto che il M5S si decida a dire che è di sinistra (non si vede perchè, ma è una fissa di Ezio Mauro: bisognerà fare qualcosa) e che Raggi e Appendino si ritirino (confondono il concetto di allearsi con quello di portare l’acqua con le orecchie). Dicono che il terzo parzialissimo mandato e le alleanze locali segnano la fine della diversità del M5S, ormai “un partito come gli altri” (senza sedi nè soldi nè pregiudicati, ma questi son dettagli). Nessuno dice che son cambiati anche e soprattutto gli altri, tutti più o meno grillizzati: sennò Benetton sarebbe ancora il re delle autostrade e l’Innominabile il segretario Pd, il premier non sarebbe Conte, i furbastri del bonus non farebbero notizia e tutti i partiti si batterebbero per il No al referendum. Dicono, dicono, dicono tutto e il suo contrario, per non sputare quello che davvero pensano: “Dovete morire”. Così Salvini sarebbe al potere da un pezzo e tutti vivrebbero felici e contenti.

“Il teatro per i poveri”. Ruggero Cappuccio a Napoli

Avercene, al sud, di intellettuali come Ruggero Cappuccio. Direttore dal 2017 del “Napoli Teatro Festival Italia” nonché scrittore e regista di suo, Cappuccio ha un’acuminata allergia per la napoletanità peggiore, abituata a guardare solo il proprio ombelico e oggi di nuovo dominante tra bozzettismo e orgoglio antropologico.

Nonostante la pandemia, anche quest’anno la sua rassegna si è tenuta per l’intero mese di luglio: 130 eventi in luoghi all’aperto e 10 mila spettatori. A prezzi popolari.

Questo festival ha un presupposto sociale. Prima i biglietti costavano 34 euro, adesso 8 e i ridotti 5.

Del resto c’è il finanziamento della Regione.

Appunto. Mi sono chiesto: quante volte bisogna pagare il biglietto, visto che gli enti pubblici sono sostenuti dalle tasse?

Domanda pertinente.

Poi mi sono chiesto: a chi si rivolge questo festival? Chi poteva pagare, faccio un esempio, 340 euro per vedere dieci rappresentazioni?

E qual è stata la risposta?

Che non volevo un pubblico tipo soci da club esclusivo. Anche perché il ricco in genere è un collezionista d’arte nel senso più ampio del termine, non è interessato veramente come una persona con poche disponibilità economiche. Questa è la mia esperienza.

Risultato: con la cultura non si mangia. Tremonti dixit.

Una doppia sciocchezza.

Spieghi.

La cultura ha sempre un indotto fatto di parcheggi, pizzerie, ristoranti, alberghi dove dormono gli attori.

La seconda sciocchezza?

In ogni caso la cultura non è un nutrimento da tradurre in denaro, ma in anima. Ha un valore spirituale.

E lei realizza tutto questo con il sostegno della Regione di Vincenzo De Luca. Complimenti.

Sinora ho avuto zero difficoltà. Ho chiesto indipendenza assoluta e l’ho avuta.

Centotrenta spettacoli e nessun tema.

È un festival anomalo: l’85 per cento degli autori rappresentati è vivente. I temi sono pericolosissimi, costringono gli artisti a fare acrobazie. La tematicità è un’ossessione vecchia, preferisco l’eterogeneità.

E niente classici.

Non sono così stupido da non ritenere l’opera di Sofocle contemporanea. La premessa è un’altra. Dare cioè la possibilità di sperimentare ad autori che vivono questi tempi. In fondo, Rossini esordì col Barbiere di Siviglia a 24 anni, al Teatro Argentina di Roma.

Uno degli spettacoli di quest’anno è stato Settimo Senso con la regia di Nadia Baldi. È tratto da un suo testo su Moana Pozzi.

Moana è stata un parafulmine morale per deconcentrare, distrarre, accampare falsi problemi di carattere etico. I poteri forti vanno sempre a caccia di parafulmini micro, medi e macro per grandi depistaggi.

Ma la politica è più immorale della pornografia.

Cercata di notte e fustigata di giorno, Moana manteneva ciò che prometteva. La politica quasi mai.

Uno dei suoi libri più noti è Paolo Borsellino Essendo Stato (Feltrinelli). Accanto all’etica c’è la legalità. Lei è napoletano di nascita e palermitano di formazione.

La legalità non è mai slegata dai percorsi individuali connessi all’etica. Che cos’è l’onestà?

Oggi parola populista e impopolare.

Per elaborarla non c’è bisogno di leggere il codice penale. L’onestà è un sentimento che va costruito, non è una pulsione che ci portiamo dalla nascita. E l’arte può farlo insieme con l’etica. Altrimenti non esiste alcun ragionamento vero sulla criminalità. Falcone e Borsellino volevano capire proprio questo, cercando di andare alle radici delle scelte individuali dei mafiosi.

Cappuccio: lei dirige un festival a Napoli e sinora non le ho chiesto nulla di Gomorra. Il dibattito è tale che quando si parla di questa città senza citare la camorra c’è una meraviglia generale. Accade solo qui. Per esempio non risulta che a Londra ci siano editoriali e forum dopo il successo di Gangs of London.

Se io arrivo in un paesello posso trovare su un terrazzo uno stereo acceso a tutto volume che sovrasta il resto. Ma in quel momento nelle case c’è chi sta dipingendo o ascoltando Chopin. Le persone più interessanti sono quelle chiuse in casa.

A Napoli non solo c’è sempre lo stereo acceso su Gomorra ma per contrasto dilaga di nuovo una napoletanità ombelicale.

Napoli ha sviluppato una raffinatissima capacità di lamentarsi. È un difetto congenito: la colpa è sempre degli altri. Anche per questo è una città che ha prodotto via di fuga per tanti scrittori e artisti. Io ne percepisco più forte l’essenza quando passeggio a Roma con Raffaele La Capria.

Un’essenza pura.

Senza veli. Senza il velo del folklore, del bozzettismo e del simpatismo a oltranza.

Lamenti estivi. Domenica d’agosto, grande afa: “Non ti ci mettere anche tu, che già fa caldo!…”

“L’afa non c’è, è andata via. Afa non è più cosa mia”. Sto cercando di auto ipnotizzarmi, sono in mutande abbracciata a un ventilatore. Che afa fa. Sì, ma è già successo, ogni anno ci sorprendiamo del caldo, del solleone che fa ad agosto. Ripetiamo sempre le stesse parole, “ … non faceva così caldo dal 1800”, ma non è vero, anche l’anno scorso faceva caldo, anche due anni fa faceva caldissimo. L’estate fa caldo, come tutti gli inverni fa freddo e queste si chiamano stagioni, freddo d’inverno e caldo d’estate. Sai che novità! Mi sembra di citare Massimo Catalano: “È meglio innamorarsi di una donna bella, intelligente e ricca anziché di un mostro, cretino e senza una lira”, e allora perché sorprendersi del caldo? Devo aumentare la velocità del ventilatore, perché se mi muovo sudo. Noi siamo monotematici, sappiamo solo lamentarci: il caldo non va bene, il freddo nemmeno, il vento rompe, la pioggia ancora di più. Ma basta! Oddio che caldo, ah che ariaa, oddio che caldo, ah che ariaa. Scusate, c’è il ventilatore che sta girando. Non facciamo che dire che il sole fuori martella, che le cicale stordiscono col frinire incessante, che il sudore cola tra i capelli. Siamo tutti consapevoli che lamentarsi non aiuta. Dobbiamo smettere! È come smettere di fumare, lamentarsi fa male. Che fai oggi? Sudo. Sudo. Sudo. E fino a stasera io come ci arrivo? Semplice, continuando a sudare. Certo sudare non è piacevole, puoi passare da una doccia all’altra, ma c’è un consumo eccessivo di acqua e l’acqua si sa è un bene prezioso. Puoi partire per la montagna, ma prima di arrivarci quanto sudi! E una volta arrivato là fa più caldo che qua, ma solo di giorno. Invece, quando scende la sera viene un freddo becco con annessa tormenta che ti gela il sudore sulla pelle. Allora è meglio il caldo torrido della città. “Non ho caldo. Non ho freddo. Non ho sonno. Non mi scappa niente. Come sono infelice!”, diceva Marcello Marchesi.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

Né di lotta né di governo. Il virus rende folli (se non siamo capaci di una terza visione)

In una scena teatrale il virus sarebbe uno spacca-tutto che prima schiaffeggia e umilia chi non lo prende sul serio, chi lo sbeffeggia parlando di gregge destinato a sottomettersi come destino naturale, e poi si dedica ai tanti che ancora non sanno ma, se sopravvivono, racconteranno la brutta avventura. E infatti il virus, che resti nell’aria o nella memoria, impone un generale cambiamento di vita e spinge alla negazione pericolosa (non è successo niente) o alla paura che emana ordini e prescrive comportamenti, perchè tra poco ricomincia.

Uno scrittore celebre e molto presente nei media del mondo, Bernard-Henri Lévy, non intende stare al gioco del virus né di coloro che ormai, sottomessi al gruppo dei miscredenti, continuano, anche se infettati, a parlare di “influenzetta”. O al più vasto schieramento di coloro che temono e lavorano, tra politica e scienza, a ostacolare il ritorno del virus, con uso rigoroso di mascherina e ricerca senza sosta di vaccino. Questo è il senso delle 107 pagine di una rapida e intensa argomentazione intorno al virus, Il virus che rende folli. Il titolo, penserà il lettore, dice tutto. Il virus è una nuova presenza sgradevole. È pericoloso se induce a cambiare vita e costumi lungo un percorso estremista che tende a moltiplicarsi. È pericoloso se disprezzato e ignorato perchè ha dimostrato di fare danni alla salute e alla economia. Occorre riconoscere che, con Henri Lévy, in una sequenza di rapide intuizioni originali e di pensieri che occorre discutere, c’è il primo vero tentativo di analisi del problema, un fenomeno che, finora, è stato affrontato in modo quasi religioso (credere o non credere) trasformando i medici nella vera autorità. Oppure respingendoli, con un nuovo tipo di ateismo scientifico. Questo piccolo libro è il primo di una collana che ancora non esiste, scritto per chi non sta con lo strambo tipo di negazionismo generato dall’imperiosità di una scienza che sa poco, ma non accetta neppure la dettatura minuziosa e inflessibile di una serie di atti e fatti che non possono essere trascurati o variati, pena la morte. La caratteristica del coronavirus è proprio questa: scardinare sia la precauzione che la ragionevolezza. Restano due aspetti che vale la pena di notare, proprio perchè ci stiamo confrontando con la migliore analisi finora intercettata di ciò che sta accadendo tra vita, politica, e nella scienza. Uno deve essere notato perchè unico in ciò che chiamiamo “tempi moderni”. È la prima volta che la scienza delude il suo pubblico venerante. Fino ad ora, da Pasteur a Sabin, da Montagner a Robert Gallo, la scienza non aveva avuto che molta fede e l’ultima parola. Ora, per la prima volta, sbaglia, inciampa, si contraddice, si divide, delude. La seconda è la sfida della politica, che fa ciò che il potere non aveva mai osato con la fede e la Chiesa: diffida della scienza, la ridicolizza e lo dice. Bernard-Henri Lévy vede due problemi, della politica invadente che scuote il buon senso, e della precauzione ossessiva che spinge fuori equilibrio la ragione. I dibattiti, ma anche le decisioni sul che fare, cominciano qui.

 

 

Calcio in tv. “Può darsi ch’io non sappia cosa dico”: tutte le gaffe di Ilaria D’Amico

“Può darsi ch’io non sappia cosa dico / scegliendo te, una donna, la D’Amico”. Parafrasando Lucio Battisti, potrebbero essere state queste le parole pronunciate dal dirigente Sky che si assunse la responsabilità, 20 anni or sono, di fare di Ilaria D’Amico il volto del calcio della pay tv di Murdoch. Di certo, “può darsi ch’io non sappia cosa dico” è stato il motto cui Ilaria D’Amico si è ispirata in questi quasi due decenni di conduzioni di programmi calcistici prima a Sky Calcio Show (dal 2003), poi a Champions League Show (dal 2018). Le gaffes di cui donna Ilaria si è resa protagonista trasmissione dopo trasmissione non si contano: e mentre la sua ultima stagione sta per concludersi (a Sky paiono decisi a sostituirla con la assai più competente Anna Billò), un piccolo riassunto dei suoi sfondoni più indimenticabili diventa d’obbligo.

Know-how. Dopo 15 anni di dibattiti sulla serie A, nell’estate del 2018 donna Ilaria passa alla conduzione di Champions League Show. La Gazzetta la intervista e alla domanda su chi siano i suoi favoriti, la D’Amico risponde: “Per la finale vedo Juventus-Manchester City o Juventus-Chelsea: occhio al Chelsea che ha iniziato alla grande”. Peccato che il Chelsea in Champions non ci sia nemmeno, ma giochi l’Europa League. Per il resto, tutto bene.

Canta Napoli. Nel pre-partita di Ajax-Juventus (primavera 2019), parlando della calda accoglienza che i tifosi olandesi hanno riservato alla squadra di Allegri, D’Amico inciampa nel più abusato degli stereotipi parlando di “un approccio quasi partenopeo, da triccheballacche quello dei tifosi di casa” facendo imbestialire tutta Napoli. Quando poi, dopo una vittoria sulla Stella Rossa, Ancelotti si commuove in diretta per i complimenti di Capello, lei commenta: “Pianga Ancelotti, pianga, che le lacrime piacciono ai napoletani”.

Appartenenza. Che Ilaria D’Amico in Buffon sia a tutti gli effetti una supporter della Juventus lo si era capito in occasione della finale di Champions persa a Cardiff contro il Real Madrid (4-1) quando le tv la mostrarono disperata e in lacrime a fine partita. E tuttavia, quando la Juventus gioca un match orribile perdendo 2-0 in casa dell’Atletico Madrid, inquieta molto l’uscita di Jlaria che parlando dello stadio, il Wanda Metropolitano, rivolta agli ex juventini Capello e Del Piero dichiara: “Non lo conoscevamo, noi della Juve”. Poco prima, rivolgendosi a Pirlo, aveva chiesto: “Com’è giocare queste partite di Champions League, tu che hai giocato la finale con la Juventus?”. E Pirlo: “Veramente le ho giocate anche con il Milan”. E vinte, evita di aggiungere.

Bernard. Giunge la notizia che Iker Casillas, il portiere del Porto ex Real Madrid, è stato colpito da infarto, ma la D’Amico tranquillizza tutti: “Iker ora è fuori pericolo – dichiara -. E poi si è trattato di un infarto al miocardio: una di quelle parti dove, se proprio deve succederti qualcosa, è meglio che ti succeda lì”. Peccato che il miocardio sia il cuore. Ma forse Ilaria è andata a lezione di anatomia da Gigi Buffon ed è rimasta alla lezione del bidone d’immondizia al posto del cuore. Rimandata.

Intervista da marte. Nel settembre 2019, alla Scala di Milano, durante la consegna dei Best Fifa Football Awards Mourinho la abbandona sul palco col microfono in mano sbigottito per la raffica di domande su come allenerebbe una Top 11 intergalattica in caso di scoperta di vita su altri pianeti. “Dove va?”, urla lei. Lui non si volta nemmeno.

 

Avere 16 anni. Dante e il Giro della legalità. Pedalare contro le mafie, per l’Italia nuova

Ci dev’essere un virus virtuoso che gira per il mondo. E devono portarlo in giro i sedicenni. Da Greta via via a fino a Dante. Il quale, “con quel suo nome un po’ così”, mi si è materializzato una sera sul computer. Aveva deciso di far breccia nella mia posta istituzionale, senza che ci fossimo mai incontrati e nemmeno visti. Ci è riuscito: “Mi chiamo Dante Bigi e ho sedici anni. La contatto per chiederle una mano. Mi impegno infatti da sempre per conoscere, per imparare, crescere e conoscere. Mi documento, ricerco: ciò su cui voglio avere una visione completa sono le mafie. Costituiscono una rovina per i nostri territori e francamente credo sia inutile conoscere senza poter agire attivamente contro di esse”. E dunque, dice Dante: “È arrivato il momento di scendere in campo contro questo drammatico problema: voglio giocare contro di esse, guardare gli uomini e le donne negli occhi, vincerle. Mi è venuta un’idea che credo possa essere un buon punto di partenza ma ho bisogno di qualcuno che mi aiuti (o che perlomeno mi ascolti)”.

Questo il progetto: fantasioso, romantico, impatto da 1 a 100. “Consiste in un giro in bicicletta per l’Italia. Un gruppo di amici che gira l’Italia per toccare vari punti della nostra Penisola. I cittadini ci sono. I giovani sono attivi. Sta a voi grandi, sostenerci e aiutarci nelle nostre idee. È l’ora di una scossa: dei diciassettenni che prendono la bicicletta e pedalano dal Trentino fino ai centri di Scampia e Corleone per far vedere che le mafie coinvolgono tutti e tutti i nostri territori. Bisogna guardarli negli occhi, bisogna affrontarli e io credo di avere il coraggio di farlo.”

“Varie tappe” del giro, continua Dante, “e per ognuna di esse un piccolo palco con qualche cassa: interventi, discorsi, musica e amore per fare vedere che la cultura, lo studio e l’impegno possono battere l’ignoranza mafiosa. Vorrei vedere i Parlamentari di ogni collegio, i Sindaci dei vari Comuni: tutti uniti contro lo schifo mafioso.

La ringrazio anche se credo che il mio impegno non vedrà riconoscimento. Mi contatti nel caso in cui fosse interessata anche solo a conoscermi”.

Come facevo a non contattarlo, un sedicenne che in agosto pensa a combattere la mafia e chiede aiuto? Eccolo: “Abito a Londa, un comune di milleottocento persone vicino a Firenze. A settembre inizio la quarta liceo Scientifico all’istituto Balducci di Pontassieve. L’idea mi è venuta in mente verso metà luglio: stavo facendo il giro in bicicletta del Lago di Garda e, come sempre mentre pedalo, stavo pensando. Mi capita spesso di pensare e riflettere su varie vicende e vari argomenti: da lì non è stato difficile arrivare a pensare al progetto (il nome a cui abbiamo pensato, io e i miei amici, è ‘Il Giro della Legalità’)”.

Aggiunge Dante che il suo interesse per la mafia “è spuntato verso la seconda media quando la mia professoressa di italiano di allora ci portò a riflettere su vari punti di un testo del Dott. Nicaso (brava!! ndr…). Da allora non ho mai smesso di conoscere, ricercare, studiare: desidero avere un grado di conoscenza che possa trovare il suo posto in una giusta società meritocratica. Alcuni amici li ho già trovati e sono disposti ad affrontare questa mega-impresa con me: abbiamo creato delle pagine social e alcuni ragazzi da Nord a Sud si sono già resi disponibili a partecipare”.

“Giro della legalità” è un po’ abusato, ma non importa. Trovo invece bellissime le seguenti cose: “come sempre mentre pedalo, stavo pensando”; “da allora non ho mai smesso di conoscere, ricercare, studiare”; “una società meritocratica”. E ovviamente “tutti uniti contro lo schifo mafioso”. Ci sono diciassettenni pronti a pedalare con questo sedicenne? Ci sono adulti pronti a raccontare questo giro d’Italia come l’avrebbe raccontato Zavoli, o almeno a provarci? Fatevi sotto. Se no Dante ha ragione…

 

Virus vacanze. Quelli che “l’estero costa meno” e in discoteca senza mascherina (così fan tutti)

 

“In Grecia si risparmia: perché devo fare il tampone al rientro?”

Cara Selvaggia, ti scrivo dalle (deserte) spiagge della Grecia, turista colpito dalle ultime ordinanze e decreti che seguiremo scrupolosamente. Queste iniziative, seppur corrette nella forma, sono scorrette nella scelta temporale e pratica. La criminalizzazione di chi, come me e la mia famiglia, ha scelto di rispettare una prenotazione effettuata molto prima dello scoppio della pandemia è a dir poco grottesco, oltre che vergognoso. Ma su queste ragioni tornerò più avanti. Siamo partiti nella prima settimana di agosto, non violando nessuna legge della Repubblica, che ci consentiva la partenza e il rientro senza condizione alcuna. Poi i decreti che conosciamo. Mi sono sentito come se fossi entrato in una concessionaria e avessi comprato un’auto 2.200 di cilindrata, l’avessi portata a casa e alla sera fosse stato vietata la circolazione alle auto con cilindrata superiore a 2.000. Non abbiamo commesso alcun illecito, ma veniamo trattati come villani. La Grecia ci ha accolti mettendo in piedi un sistema di monitoraggio e controllo (tampone a campione) denominato Plf, che deve essere seguito obbligatoriamente da qualsiasi viaggiatore diretto verso la nazione ellenica, con qualsiasi mezzo di trasporto. C’era il rischio di essere trovato positivo allo sbarco e di restare in quarantena, lo abbiamo messo in conto e accettato, sicuri del nostro stato di salute. La domanda è: perché l’Italia non ha fatto qualcosa di simile? I confini andavano riaperti, certo, sono d’accordissimo, ma possibile che il Comitato tecnico scientifico e gli esperti non avessero nulla da dire in merito? Torneremo e ci sottoporremo a tampone, bene. Se lo Stato mi avesse detto (un mese fa), “vai in vacanza, è un viaggio non necessario, al rientro devi fare il tampone e te lo paghi tu”, sarebbe stato un ragionamento condivisibile, per la natura del viaggio. Avrei messo in conto tutto e tratto le mie conclusioni.

Il fatto è in Grecia costa tutto meno. Sono vent’anni che vengo in un posto dove la vacanza costa meno di due settimane in appartamento in Italia. Qui ho il mare sotto casa (e che mare…), vado al ristorante tutte le sere, le spiagge sono libere. Sfido chiunque a trovarmi un posto così a parità di prezzo in Italia. Ed io che abito affacciato sul Golfo di Napoli ti garantisco che ne so qualcosa. A partire dalla pubblicazione dei decreti regionali e nazionali, alcuni dei proprietari qui intorno hanno subìto ben nove cancellazioni (cinque in un’unica struttura, con arrivo oggi) e i prezzi degli aerei sono crollati (altro settore da tenere d’occhio), in una stagione estiva già magra per tutti. La situazione doveva e poteva essere gestita in modo diverso, in seno all’Ue: ora appare senza senso il controllo all’italiano che entra, ma la libertà a un greco o a un francese. L’assenza di controlli in ingresso pesa, oggi, su tutte le nazionalità.

Un saluto.

Marco

Caro Marco, tutto giusto, ma la domanda è: perché erano il governo e gli esperti a doversi porre mille quesiti e non il cittadino? Voi che per risparmiare e avere il mare di fronte casa avete scelto di uscire dall’Italia, vi aspettavate che quest’estate il Covid fosse un ricordo lontano, come la fidanzata a casa mentre sei a Ibiza con gli amici?

 

“Mio figlio, positivo, andava a ballare senza dpi: ma gli altri?”

Cara Selvaggia, sono la mamma di uno di quei ragazzi tornati dalle vacanze all’estero con il Covid. Cercherò di essere vaga su alcuni passaggi, scusami, ma non voglio creare problemi a mio figlio che già ne ha parecchi. Mio figlio si è diplomato con le difficoltà tipiche della didattica a distanza. Una maturità monca, che ricorderà per ragioni diverse da quelle per cui la ricordiamo noi, ma fa nulla. Chi non ha figli diplomati nel 2020 non coglie certi dettagli: come quel misto di tenerezza e dispiacere per l’ultima prova così anomala. Comunque, il punto è che quando si è tornati ad una parvenza di quasi normalità, e mio figlio mi parlava di andare fuori dall’Italia con gli amici per festeggiare la maturità, non sono riuscita a dire no. Ero profondamente contraria, ma la mia contrarietà è rimasta nascosta nel profondo. Ho espresso qualche dubbio, gli ho fatto delle propose alternative e generose per dissuaderlo, ma quando due dei suoi amici più cari hanno deciso di partire, mi dispiaceva troppo non lasciarlo andare. Quando era lì mi diceva che metteva la mascherina, che stava attento, che era andato in discoteca solo una volta. Poi ho scoperto che a ballare era andato sette sere su sette: che ci vuoi fare, hanno 18 anni e mezzo, le bugie le abbiamo dette tutti a quell’età. Il Covid l’abbiamo scoperto al ritorno, in modo rocambolesco e non posso darti dettagli. Io stessa ora sono in quarantena. Lo stanno massacrando. Qui in città, sui giornali, sul web. Non lui, perché il nome non è uscito, ma lui in quanto parte di quel gruppetto che in discoteca all’estero non si metteva le mascherine. Lungi da me giustificarlo, ma la domanda è: i ragazzi che vanno in discoteca in Italia se la mettono la mascherina? No. Quindi che ha fatto di male, mio figlio più degli altri?

V.

La mia idea è che quest’estate i ragazzi avrebbero potuto e dovuto trovare un modo più responsabile per divertirsi. Quel modo avrebbe aiutato gli stessi non tanto a non ammalarsi, ma a crescere.

 

Amazzonia. Pedro, il vescovo santo degli oppressi sepolto tra un operaio e una prostituta senza nome

Il suo epitaffio, scolpito su un pezzo di marmo ai piedi di una croce di legno, è questo: “Per riposare io voglio solo questa croce di legno, come pioggia e sole questi tre metri di terra e la Resurrezione!”. Ai lati della tomba – un cumulo di terra rossa – sono sepolti un operaio e una prostituta senza nome, come ha raccontato Salvatore Cernuzio su Vatican Insider della Stampa.

Dom Pedro Casaldáliga è stata una delle figure più belle del cattolicesimo novecentesco. Una santità luminosa da vescovo, profeta e poeta. Al servizio totale del Vangelo e degli ultimi, in Amazzonia. È morto l’8 agosto scorso. Aveva 92 anni, di cui gli ultimi otto vissuti da malato agli ordini di quello che chiamava “fratello Parkinson”, suo “superiore”. Alcuni versi di dom Casaldáliga tratti da Il tempo e la speranza sono citati da papa Francesco nella sua esortazione apostolica Querida Amazonia: “Galleggiano ombre di me, legni morti. Ma la stella nasce senza rimprovero sopra le mani di questo bambino, esperte, che conquistano le acque e la notte. Mi basti conoscere che Tu mi conosci interamente, prima dei miei giorni”.

Nato in Catalogna, arrivò in Brasile da missionario clarettiano nel 1968. Approdò in barca sulle rive di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso, e davanti a quella che sarebbe stata la sua abitazione trovò quattro neonati morti, in scatole di scarpe come bare. La sua reazione fu: “O ce ne andiamo via da qui oggi stesso o ci suicidiamo o troviamo una soluzione per tutto questo”. Tre anni dopo la sua casa divenne sede episcopale: Paolo VI lo nominò vescovo della prelatura di São Felix, “una zona periferica della foresta grande quanto metà dell’Italia” (Luciano Meli su manifesto4ottobre). Il suo motto da vescovo fu: “Nada possuir, nada carregar, nada pedir e, sobretudo, nada matar”: “Nulla possedere, nulla prendere a carico, nulla chiedere, nulla tacere e, soprattutto, non uccidere nessuno”.

Era il Brasile della dittatura militare (1964-1985) e la lotta di dom Pedro fu contro l’ingiustizia del latifondo e a favore degli indigeni e dei contadini sfruttati e oppressi nella fazendas amazzoniche. Il suo anello vescovile in legno di palma fu poi segno di riconoscimento per quanti credevano nella teologia della liberazione. Scampò a più attentati e il regime dei Gorillas se ne voleva liberare con l’espulsione dal Paese ma Paolo VI lo impedì: “Chi tocca Pietro (Pedro, ndr), tocca Paolo”. La sua radicalità rivoluzionaria contro il capitalismo e il colonialismo mise in luce le divisioni che attraversavano il cattolicesimo brasiliano, con i clericali di destra che appoggiavano i militari (si pensi al movimento Tradizione famiglia e proprietà di Plinio Corrêa de Oliveira) e oggi tornati di nuovo forti con Bolsonaro al potere. Peraltro Tfp fa parte del network fariseo e dottrinario che si oppone alla misericordia di papa Bergoglio.

Mercoledì scorso, dom Pedro Casaldáliga è stato salutato per l’ultima volta dal suo popolo a São Félix: il corpo deposto su una canoa indigena, con il remo che usava come pastorale (il “bastone” del vescovo). La scelta di essere sepolto nel cimitero di Karajá l’aveva annunciata da tempo, laddove era arrivato nel 1968, trovando quattro neonati morti.

 

I “furbetti”politici? Son molto peggio le imprese…

Ora che va placandosi la (sacrosanta) furia nei confronti dei tre (o cinque) parlamentari e della quindicina di consiglieri regionali che hanno richiesto il bonus per le partite Iva in difficoltà, mi arrischierò a far notare che i politici furbetti sono risultati essere davvero pochi in proporzione al numero degli eletti.

Non fraintendete. Nei loro confronti non provo alcuna forma di indulgenza. Ma non vorrei che sfogandoci su costoro ci formassimo un’immagine assai deformata del tasso di abusivismo/sfacciataggine/disonestà proliferante nella società italiana.

Nei giorni scorsi “Il Fatto” ha pubblicato le testimonianze di numerosi dipendenti di aziende i cui titolari, pur avendo chiesto la cassa integrazione, li hanno fatti lavorare in nero durante il lockdown. Fonti attendibili ipotizzano che il 30% delle imprese richiedenti sostegno pubblico non avrebbero dimostrato significativi cali di fatturato.

Mi sembra evidente che si tratti di comportamenti illeciti ben più rilevanti in termini numerici e percentuali, oltre che di danno per le casse dello Stato, anche se suscitano decisamente meno scandalo. Ma proprio questo è il punto.

Certa televisione (in stile Rete 4) ci ha abituati a dare la caccia al falso invalido coprendo le responsabilità dei grandi evasori; a mettere alla gogna il singolo peones dimenticando le appropriazioni di denaro pubblico occultate dai vertici del suo partito.

Orbene. Qui non si tratta di fare di ogni erba un fascio. Ad esempio, il dipendente che accetta un’integrazione in nero commette un illecito, certo, ma non comparabile a quello del suo datore di lavoro.

Nei mesi scorsi il governo si è giustamente dato la priorità di fornire assistenza ai bisognosi, senza avere il tempo di mettere troppi filtri. Ora è il momento di verificare chi ne ha abusato. Non accontentiamoci del tiro a segno sui politici.