Libano. Diab, il paladino della corruzione e i conti all’estero

Otto mesi dopo aver assunto l’incarico di premier Hassan Diab si è dovuto dimettere lunedì scorso. Probabilmente anche senza la gigantesca esplosione al porto di Beirut il suo esecutivo aveva i giorni contati. “La corruzione”, ha detto l’ingegnere informatico ed ex ministro dell’Istruzione in governi passati, “è più grande dello Stato”. Non ha nominato nessuno dei meccanismi di corruzione a cui si riferiva ma sono ben noti in Libano, leader politici, alti funzionari bancari, magnati, affaristi, amici e amici degli amici. Il sistema nel suo insieme. Così come il porto di Beirut, una delle aree più corrotte del Paese dei Cedri che finanziava mafiosi e politici. Il governo vedeva solo il 40% delle sue entrate nonostante ne fosse il proprietario.

Quando Diab, un sunnita senza partito ma sostenuto dal Partito cristiano del presidente Aoun e dagli Hezbollah, venne nominato promise una stagione di riforme e un nuovo stile di governo. Venne scelto a dicembre 2019 dopo le proteste di piazza avevano travolto Saad Hariri, che voleva tassare luce, acqua e persino i messaggi WhatsApp. Hariri, premier per sei anni, è uno degli uomini più ricchi del Libano erede di quelle immense fortune che il padre Rafik – assassinato nel 2005 – aveva messo insieme nel ramo delle costruzioni in Arabia Saudita. Ma come accade per molti altri magnati libanesi le fortune di Hariri non sono nelle banche libanesi ma in quelle caraibiche, alle Bahamas e nelle Antille olandesi. Da subito il professor Diab, con la pettinatura sempre in ordine e un colore nero di capelli che non esiste in natura, ha dovuto affrontare cori di critiche ma nessuno poteva immaginare la sua improntitudine. Adesso si scopre che dopo la sua nomina a premier è sorto un conflitto con l’American University of Beirut dove insegnava. Ha intrapreso un’azione legale contro la Aub per i conteggi relativi alla sua liquidazione da professore. Diab vuole che gli sia pagata in dollari e su uno dei suoi conti aperti all’estero. Una mossa che insulta i normali cittadini libanesi a cui da mesi dalle banche è vietato l’accesso ai loro conti in valuta estera a causa della crisi economica. Una soluzione alla libanese: due pesi, due misure.

 

In quarantena da una vita: per le saudite è tempo di fuga

Incontriamo Nora la sera prima del suo appuntamento all’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (Ofpra). Un giorno decisivo per la giovane donna saudita di 26 anni: “Mi sento come se dovessi passare un esame”, dice, seduta in un caffè di Parigi, alla fine dello scorso anno. Con sé ha lo stesso borsone che portava il giorno in cui è fuggita. Era l’estate del 2019 e Nora era in vacanza in Asia con la famiglia. Un dettaglio le ha cambiato la vita: la porta della sua camera d’albergo aveva una serratura senza chiave. Nessuno poteva dunque chiuderla dentro e portare via la chiave, tenendola prigioniera, come succedeva spesso a casa sua.

A Riyadh, Nora veniva rinchiusa anche per diverse ore in una stanza, senza cibo né acqua, certe volte dopo essere stata picchiata. Per via della sua età, considerata già troppo avanzata, la sua famiglia sperava di farla sposare al più presto. “Per fortuna, nessuno ha fatto la proposta di matrimonio”. Per lei, che è tirocinante in medicina, nata in una famiglia conservatrice della classe media, sposarsi avrebbe voluto dire interrompere gli studi. “Il mio lavoro è considerato disonorevole perché mi avrebbe portato a frequentare degli uomini”. Da alcuni anni Nora metteva da parte dei soldi in segreto. Davanti a quella serratura che poteva aprire liberamente qualcosa è scattato in lei. Recupera il suo passaporto tra gli oggetti della madre, distrugge il cellulare e prende un taxi per l’aeroporto, dove si imbarca per Kiev. In Ucraina acquista un biglietto per il Marocco con scalo a Parigi. Arrivata all’aeroporto parigino Charles-de-Gaulle, stremata dal viaggio, si presenta alla polizia di frontiera: “Chiedo ‘asilo”.

Come Nora, 2.940 rifugiati e richiedenti asilo di origine saudita sono stati registrati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel 2018. Quattro volte più di dieci anni fa. I primi casi, sette, risalgono al 1993. Le destinazioni più frequenti sono i paesi anglosassoni, Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna. In Francia, lo scorso anno, sono state presentate all’Ofpra solo 22 domande. Le donne, sempre più numerose, fuggono da una vita di “quarantena”, come dice l’antropologo Madawi al-Rasheed. Per la legge saudita, le donne sono eterne minorenni, soggette alla volontà del padre prima, del marito poi o, in mancanza di questo, di un fratello o di uno zio. Per tutta la vita viene loro assegnato un tutore, che ha un potere di veto su quasi tutto, dalla scuola al matrimonio. “Per le donne che sopravvivono alla violenza domestica, questo sistema complica l’accesso ai meccanismi di protezione”, scrive la Ong Human Rights Watch in un rapporto del luglio 2016.

Un movimento di protesta sta crescendo da alcuni anni sui social network con gli hashtag #IAmMyOwnGuardian o ancora #StopEnslavingSaudiWomen. Nel gennaio 2019, la storia di Rahaf Mohammed ha contribuito a dare risalto a questo movimento. La giovane, 18 anni, si era barricata in una stanza d’albergo di Bangkok per evitare di essere estradata in Medio Oriente. La notizia era stata ripresa dai media in tutto il mondo. La giovane aveva postato delle richieste di aiuto su Twitter. Ora è rifugiata in Canada. Leggendo diverse testimonianze sul web, Nora ha capito che avrebbe potuto chiedere l’asilo. “Ho creduto a lungo che questa procedura riguardasse soltanto le popolazioni in fuga dalle zone di guerra”.

Ha raggiunto diversi gruppi di discussione di sauditi dissidenti su Telegram e degli account Twitter come @sa_refugees_uk o il forum We are Saudis, fondato da Taleb Al Abdulmohsen, attivista saudita residente in Germania: “Ogni giorno mi contattano su Twitter fino a cinque donne saudite per preparare la loro fuga”, osserva quest’ultimo. Per la sociologa Amélie Le Renard, esperta della condizione delle donne in Medio Oriente, “Internet ha aperto una finestra per la gioventù saudita. In questo modo, molte donne – spiega – hanno capito che quello che stavano vivendo non era normale, che non erano sole e che potevano rifiutare quelle condizioni”. Maryam è rifugiata in Gran Bretagna: “Le donne che sono riuscite a fare il passo, ora aiutano le altre a fare lo stesso”, dice. La giovane, sulla ventina, ci ha accolti lo scorso aprile nella casa popolare in cui vive. La Gran Bretagna è il primo paese della diaspora saudita in Europa, dissidenti ma anche pro-regime. Era del resto proprio per andare a trovare dei parenti che lei e la sua famiglia si sono recati a Londra nell’estate 2019. Maryam ci spiega che la sua famiglia è piuttosto benestante e molto conservatrice. Ci dice che suo padre era partito per l’Afghanistan dopo l’11 settembre per raggiungere i jihadisti. Nella sua dichiarazione di asilo è scritto che quando era bambina il padre le mostrava dei filmati di esecuzioni: “Ci diceva spesso che dovevamo combattere gli infedeli. Sono cresciuta con l’idea di essere un peccato perché sono nata donna”. Arrivando all’aeroporto di Londra con i suoi, l’estate scorsa, Maryam consegna alla polizia di frontiera il suo passaporto. Dentro aveva nascosto un foglietto su cui aveva scritto in inglese: “Voglio chiedere l’asilo. La mia famiglia non lo sa. Per favore proteggetemi”. Un agente comincia a farle diverse domande. I suoi genitori, non capendo cosa succede, cominciano a spazientirsi. In famiglia solo Maryam parla l’inglese correntemente. La giovane finge un problema amministrativo e segue l’agente britannico in una sala attigua. “Sei sicura di quello che hai scritto su questo foglio?”, le chiede l’agente. “Sì”. “Vuoi dire addio alla tua famiglia?”. “Assolutamente no”, risponde Maryam, terrorizzata. Poche settimane dopo, ad agosto, l’Arabia Saudita ha revocato il divieto per le donne di più di 21 anni di viaggiare all’estero e di ottenere il passaporto senza l’accordo del “tutore”. “Ma solo in teoria, dal momento che non ci è permesso di uscire di casa”, spiega Nora. Questo allentamento del sistema di tutela coincide con la svolta politica del principe ereditario Mohammed ben Salman. Le donne saudite hanno anche vinto una battaglia storica, ottenendo il diritto di guidare nel giugno 2018. La politica di riforme coincide con il progetto di Mohammed bin Salman di attrarre nuovi investitori in Arabia Saudita in vista del dopo-petrolio. “Mbs si sta prendendo i meriti per delle misure che le femministe reclamano da anni e per le quali sono spesso ancora in prigione”, osserva Nisreen, 35 anni, richiedente asilo. La incontriamo a fine gennaio nell’est della Germania. Nisreen fa riferimento a Loujain Al-Hathloul, l’attivista in carcere da due anni, che nel 2014 si era filmata al volante di un’auto, quando guidare era ancora un crimine per le donne. Nisreen, infermiera in ospedale, è fuggita dall’Arabia Saudita dopo la riforma sui viaggi. Nel novembre 2019 ha preso un volo per Francoforte: “Per anni ho fatto credere ai miei genitori che partecipavo a delle conferenze di medicina e invece trascorrevo i fine settimana con gli amici. Mentire mi ha permesso di essere libera. Non ero più schiava, indossavo quello che volevo, potevo ridere”. Ma un giorno la sorella maggiore scopre una sua foto in un locale del Bahreïn e la mostra al fratello, che la minaccia di sospendere il suo diritto di viaggiare: “Anche se la legge è cambiata, le famiglie possono ancora vietare alle donne di viaggiare se ne fanno richiesta alle autorità”. L’’infermiera ha presentato all’ambasciata tedesca una domanda di visto turistico e ora vive in un alloggio messo a disposizione dei richiedenti asilo in attesa di essere regolarizzata. Da parte sua, Maryam, in Gran Bretagna, ha già ottenuto lo statuto di rifugiata, ma vive nel timore di essere scoperta dalla diaspora pro-regime. Quanto a Nora, che si trova in Francia, ha appreso di aver ottenuto anche lei lo statuto. “Ho pianto” dice. Ora sta perfezionando il suo francese e mira a ottenere la convalida degli studi universitari per esercitare come medico in Francia: “Ho scelto un paese in cui le donne sono libere”.

Traduzione di Luana De Micco

La petroliera si è spezzata: greggio in mare e disastro alle isole Mauritius

Le immagini sono spaventose: l’acqua trasparente dell’oceano è letteralmente invasa da un liquido torbido e nero che ora minaccia gravemente l’ecosistema della barriera corallina. Alla fine il cargo giapponese MV Wakashio che il 25 luglio si era incagliato al largo delle Isole Mauritius si è spezzato in due. L’evento era stato previsto: “È stato osservato un grande distacco della sezione anteriore dell’imbarcazione”, aveva annunciato in un comunicato il Comitato per le crisi nazionali delle Mauritius. Già sabato mattina la squadra dei soccorsi aveva avvertito che le condizioni della petroliera “stavano peggiorando” e che si sarebbe potuta rompere “in qualsiasi momento”. Così è accaduto: la nave che trasportava 200 tonnellate di diesel e 3.800 tonnellate di carburante si era danneggiata profondamente e da uno squarcio che si era aperto nello scafo, aveva iniziato a scaricare in acqua il carburante dopo l’incidente. Subito una marea nera si era fatta strada nelle celebri acque dell’Oceano indiano e l’8 agosto, dopo un primo tentativo di minimizzare la portata dell’incidente, il premier Pravind Jugnauth aveva dichiarato lo stato d’emergenza ambientale e lanciato un appello per assistenza urgente. Come avevano spiegato il ministro dell’Ambiente e quello con delega alla Pesca il Paese “non ha le competenze e le capacità di disincagliare le navi arenate”.

I primi aiuti sono giunti dalla Francia (non lontano si trova l’isola de la Reunion, uno dei territori d’oltremare) e anche i cittadini si sono mobilitati in massa, accorrendo sul luogo da tutto il Paese. Secondo la Nbc i volontari hanno costruito barriere con tessuto, foglie di canna da zucchero e bottiglie di plastica vuote per contenere la fuoriuscita di petrolio. Molte le donazioni di guanti, mascherine e altri dispositivi di protezione per mettere in sicurezza chi sta cercando di contenere i danni, anche se forse è troppo tardi. Quanto alle colpe, la compagnia giapponese Nagashiki Shipping Co., proprietaria della cisterna, si è detta consapevole della “profonda responsabilità” e pronta a farsi carico dei costi legati alle compensazioni legali, dopo che il primo ministro aveva annunciato l’intenzione di chiedere alla compagnia e all’assicurazione i danni.

Ma l’impatto sull’ecosistema e sulla fiorente industria turistica del piccolo Stato dell’Oceano Indiano rischia di essere pesantissimo e, forse, irreversibile.

Lukashenko non molla e usa Putin come minaccia

A Minsk ieri una folla oceanica di decine di migliaia di persone si è radunata per la “Marcia per la libertà”. Va avanti la protesta contro il presidente Alexander Lukashenko, accusato di aver falsificato i risultati delle elezioni, che domenica 9 agosto lo avrebbero portato con l’80% per la sesta volta (dal 1994) alla guida della Bielorussia. Molti manifestanti sventolavano la bandiera bielorussa bianca e rossa dell’era pre-sovietica, mentre la gente urlava “dimettiti” e risuonavano le note di Peremen, una canzone del 1987 in cui si invocavano cambiamenti per l’Urss ormai agli sgoccioli.

La manifestazione era stata indetta da Svetlana Tikhanovskaya, la sfidante di Lukashenko, che è fuggita in esilio in Lituania dopo il voto. Fra la folla che si è riunita in un grande spiazzo vicino a un monumento della Seconda guerra mondiale, c’era anche Maria Kolesnikova, ex manager della campagna elettorale di Viktor Babariko, oppositore in carcere ed escluso dalla corsa alle presidenziali, e unica delle tre donne che avevano guidato la campagna elettorale dell’opposizione a essere rimasta a Minsk: ha esortato la folla “a combattere la paura”.

Non erano, invece, più di un migliaio i partecipanti al raduno pro-Lukashenko e per l’ “indipendenza” del Paese. Molti cantavano il suo soprannome “Batka”, cioè “Padre”, e anche “Maidan non avrà luogo”, in riferimento ai mesi di proteste del 2013-2014 in Ucraina che hanno rovesciato l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovych. A un certo punto lo stesso Lukashenko si è materializzato sul balcone presidenziale, non lontano dal raduno di Piazza Indipendenza: ha voluto chiarire che non ci saranno nuove elezioni, denunciato la presenza di truppe Nato al confine (“sono a 15 minuti”) venendo ovviamente smentito dalla Nato e assicurato ai sostenitori che Vladimir Putin è con lui.

Ieri era l’ottavo giorno di protesta dopo una tornata elettorale contestatissima, seguita da violenze, ricordate anche dal Papa nell’Angelus di ieri. Ci sono stati almeno 2 morti tra i manifestanti, oltre 6.700 arresti, feriti e notizie di pestaggi e torture da parte delle forze di sicurezza. La candidata dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaia, era scesa in campo al posto del marito Sergey Tikhanovsky, un famoso blogger arrestato dopo aver ispirato proteste anti-governative. Ora lei è stata costretta all’esilio e una delle sue principali sostenitrici, Veronika Tsepkalo, è dovuta fuggire in Ucraina.

Quanto al presidente, l’ha buttata sulle ingerenze straniere: “Cari amici, faccio appello a voi perché difendiate l’indipendenza del vostro Paese”. Per farlo ha chiesto una mano a Vladimir Putin in due telefonate negli ultimi due giorni: prima Lukashenko aveva detto di aver ricevuto rassicurazioni da Putin sul “sostegno” di Mosca per “mantenere la sicurezza”, minacciata da forze “esterne”; ieri, a seguito di una seconda telefonata, il Cremlino avrebbe promesso di “assistere”, se necessario, la Bielorussia “sulla base del comune patto militare” che lega Mosca a sei repubbliche ex sovietiche. Putin, insomma, è pronto a fornire aiuto militare rispetto a pressioni esterne, ma non per questioni di sicurezza interna. Certo, dopo la Crimea lo spettro dell’intervento russo è estremamente minaccioso e l’ambiguità delle parole rivela come si stia giocando una partita decisiva per il futuro della Bielorussia: a Mosca devono decidere se è più conveniente appoggiare Lukashenko e tenerlo poi in una posizione di sudditanza oppure accompagnarlo all’uscita. La Bielorussia per Putin è centrale.

Anche la Ue non sa bene che fare: i ministri degli Esteri europei venerdì hanno dichiarato non valido l’esito delle elezioni e approvato sanzioni. Non contro l’intero paese, però, ma contro i responsabili delle violenze di questi giorni: un modo per tenersi aperta la possibilità di riprendere i rapporti con l’attuale regime. Anche nella Ue c’è il timore di spingere Lukashenko nelle braccia di Putin.

Il bel mondo di Uber. Se un giudice stabilisce che i dipendenti sono dipendenti loro chiudono

Scricchiola il modello dei lavoretti nel trasporto condiviso. La California ha ordinato a Uber, che negli Usa controlla il 69% del mercato della mobilità alternativa ai taxi, e alla sua rivale Lyft, di inquadrare gli autisti come personale dipendente e non come collaboratori esterni indipendenti. Il colosso, secondo le accuse, non si è adeguato alle nuove leggi della California che da inizio anno impongono alle aziende di riconoscere ai loro lavoratori tutti i benefit. Insomma, i conducenti non possono più essere considerati liberi professionisti e hanno diritto a un regolare contratto con ferie, malattia, permessi e altro. Se lunedì prossimo il tribunale californiano non dovesse accettare il ricorso presentato dalla multinazionale, il ceo di Uber Dara Khosrowshahi ha già minacciato di sospendere tutte le attività in California, perché – ha spiegato – sarebbe impossibile passare in breve tempo al nuovo modello di business richiesto dalla sentenza. Inoltre, il colosso sostiene che per riclassificare i guidatori come dipendenti ci vorrebbe molto tempo. Solo a San Francisco si contano 45 mila autisti Uber contro duemila taxi con licenza.

Se la sentenza diventasse esecutiva, per Uber & C. i costi operativi lieviterebbero di oltre 25%, oltre a registrare una riduzione della flessibilità nei servizi offerti. Gli autisti, infatti, dovrebbero avere regolari turni di lavoro. Un’ulteriore sbandata per Uber che ha già registrato perdite nette per 1,8 miliardi di dollari nel secondo trimestre dell’anno a causa della pandemia. Uncrollo attenuato dal boom della consegna di cibo a domicilio di UberEats, il cui fatturato è raddoppiato. Ma secondo Barclays, regolarizzare gli autisti porterebbe le perdite di Uber a 2,5 miliardi. Non sarebbe solo un tracollo finanziario, ma anche la sconfitta della gig economy che ha fondato il proprio business sul riconoscimento dell’autonomia dei propri autisti che non saranno mai dipendenti. Il ceo di Uber Khosrowshahi lo va ripetendo dal 2017: “I conducenti sono consapevoli di essere lavoratori indipendenti e apprezzano la flessibilità”. Poi c’è l’altra versione degli autisti che lamentano la mancanza di diritti e compensi (“Miliardi ai boss e paghe povere per i driver”) e che si stanno battendo in mezzo mondo per ottenerli. Lo hanno fatto anche lo scorso anno quando Uber si è quotata in Borsa con una delle più grandi Ipo di sempre. “Questa è una vittoria clamorosa per migliaia di conducenti che stanno lavorando duramente per provvedere alle loro famiglie”, ha detto il procuratore di Los Angeles Mike Feuer.

A Uber resta così solo la carta delle minacce per preservare un modello di capitalismo che pur di far guadagnare i giganti delle app impone condizioni durissime ai lavoratori. Non è più una questione di concorrenza sleale che ha messo fuori gioco Uber in Italia, Spagna o Germania dopo una battaglia estenuante dei tassisti. Uber ha perso la licenza di operare in Gran Bretagna perché non ha verificato l’identità degli autisti mettendo a rischio la sicurezza dei passeggeri. Ed ora che il numero dei suoi rider ha per la prima volta superato quello degli autisti, si è vista commisariare in Italia per la vicenda dei fattorini in bici sottopagati.

Non chiamateli lavoretti.

 

Qual è l’interesse nazionale nel comprarsi Borsa Italiana?

Per giorni abbiamo letto indiscrezioni sui nuovi poteri a Consob “per blindare Borsa Italiana” (Reuters) e articolo che raccontano la progettata vendita di Borsa Italiana (BI) come se sbirciassero dal buco della serratura. Il governo sta studiando il dossier da mesi (!). Venerdì 31 luglio, Borsa di Londra (LSE) ha manifestato l’ipotesi di vendere BI e la controllata MTS, società che gestisce il mercato secondario dei titoli di stato italiani. La settimana precedente LSE aveva comunicato a Bruxelles una revisione della fusione in corso tra LSE stessa e Refinitiv, fornitore di dati e infrastrutture al mercato finanziario.

A novembre 2019 l’assemblea degli azionisti LSE aveva votato la proposta di acquisire Refinitiv, valutata 27 miliardi di dollari. Operazione colossale che determina il futuro dei mercati finanziari mondiali. Pare che BI e MTS siano di troppo. Refinitiv porta in dote Tradeweb Markets che fa un po’ il mestiere di MTS. Diverse Authority Antitrust devono dare il via libera all’operazione di fusione e dunque la concentrazione di MTS con Tradeweb Markets parrebbe di ostacolo. Gioca anche l’interesse di LSE di sganciarsi dalle forche caudine delle Autorità europee. La cessione di BI e MTS toglierebbe la classica castagna dal fuoco e farebbe cassa.

La politica italiana la racconta un po’ diversamente, accentuando il tasto dell’“interesse nazionale”, in maniera così indeterminata che orecchia come la nota gag del “sarchiapone” di Walter Chiari, parodia della irragionata omologazione per cui è bastevole nominare la bestia sarchiaponica e nessuno osa negare di conoscerla bene. Non basta alzare il vessillo dell’interesse nazionale, occorre che spieghino in cosa consista effettivamente.

La pubblica Borsa Valori Italiana fu privatizzata nel 1998, ceduta per un tozzo di pane a banche e intermediari e, nel 2007, venduta a LSE realizzando, le banche, un paio di miliardi di plusvalenze. Nella City, BI ha generato quasi una rendita di posizione, ostacolo allo sviluppo della reale economia perchè, se pingui sono i lucri della Borsa, tali costi sono ribaltati sul sistema del risparmio e sulle imprese che nella Borsa cercano nuovo capitale di rischio. Da ricordare Enrico Mattei quando ammoniva che l’energia di Eni doveva costare poco per innescare lo sviluppo nazionale, facendo proprio il contrario delle 7 sorelle che solo massimizzavano i loro profitti. Tenere a mente questo insegnamento fa la differenza tra richiamarsi all’interesse pubblico e realizzarlo.

Una Borsa moderna è di fatto un’organizzazione che ruota intorno a una piattaforma informatica: la piattaforma è il cuore dell’azienda. BI verrà ricomprata come guscio, svuotato della piattaforma? Non si sa e il punto pare di rilievo assoluto. E ancora: si ventila un prezzo di 3,3 miliardi€. È congruo? Il compito sarà di Cassa depositi, oggi diventata il bancomat di operazioni che lo Stato non vuole o può fare con propri soldi come l’acquisto di Aspi-Atlantia.

E infine: la Euronext franco-olandese pare sia prediletta dal governo italiano come partner, ma la sola equiparazione azionaria delle Cdp francese e italiana non pare affatto sufficiente se non accompagnata da una governance che preveda una equilibrata rappresentanza italiana nei ruoli chiave della nuova società nascente. Insomma, su questa manovra agostana profondi dubbi circolano nella comunità dei tecnici e degli studiosi dei mercati finanziari: dove sta l’interesse nazionale? Il momento storico imporrebbe ragionamenti approfonditi su quanto sia costata al Paese la privatizzazione di Borsa Italiana e, soprattutto, come in futuro i mercati finanziari potranno servire al reale sviluppo dell’economia.

Ad usum delphini, ricordiamo che gli interessi di pubblica utilità sottendono le due principali funzioni di base della Borsa, ovvero:

1. la formazione di prezzi significativi nel quadro di un mercato che sia il più liquido e partecipato possibile;

2. la distribuzione delle informazioni che si formano dalla determinazione del prezzo degli scambi.

La ragione storica ed istitutiva della Borsa Valori è stata quella di realizzare questo punto di scambio efficiente e trasparente. Tre nervi rimangono scoperti e ora dovrebbero essere affrontati:

1. Extraprofitto derivante da rendita di “dati pubblici” appannaggio dei soli azionisti di Borsa.

2. Scarso contrasto alla globalizzazione dei reati finanziari, almeno a livello europeo.

3. Contrasto, per la stessa salvezza dell’euro, alla “discriminazione fiscale” tra cittadini e imprese europee. Rimaniamo in attesa di corretta trasparenza su questa operazione qualificata di “pubblico interesse” da parte del governo.

 

 

 

Risiko bancario. Istituti al guado ma non c’è nulla. Manca il regista

Il 14 luglio scorso, Victor Massiah, neodimesso boss di Ubi, prometteva disperato “una fusione alternativa entro l’anno” se gli azionisti avessero detto no all’assalto di Intesa Sanpaolo. A inizio 2019 negava qualsiasi discussione in corso e spiegava di non essere interessato allo scassato Montepaschi. Per un anno e mezzo ha pensato di conquistare istituti mentre il suo diventava una preda. Il “risiko bancario” su cui si esercitano le cronache finanziarie è tutto qui, sembra più un passatempo che un’ipotesi concreta. Il sistema bancario italiano ha problemi profondi, ma l’unica vera operazione messa in piedi è stata una scalata “ostile” della prima banca alla terza, in difficoltà da anni.

Tolte Intesa e Unicredit, gli istituti languono. Nel 2019 Mps ha fatto 50 milioni di utili, Banco Bpm 800 milioni facendo girare crediti per scarsi 200 miliardi. I numeri 2020, considerata la crisi Covid, saranno peggiori, e non si vede come possano venire grandi scosse da un modello di business vecchio. Poi ci sono le piccole scassate, da Carige, salvata solo un anno fa con i soldi del sistema bancario e in attesa di nuovi interventi, a Popolare di Bari (qui c’è anche un’iniezione di soldi pubblici per 400 milioni) passando per il sistema del credito cooperativo. Quando finiranno le moratorie sui mutui previste dal governo per la crisi Covid lo scenario potrà peggiorare.

In questa situazione, la cura vista dai protagonisti è fondersi, magari con l’aiuto pubblico, ma in questi anni le beghe di campanile tra i vertici desiderosi di comandare hanno bloccato sul nascere qualsiasi ipotesi, anche per la cronica mancanza di capitali. Mps, nazionalizzata, dovrà fare un aumento di capitale da almeno 700 milioni per disfarsi di 9 miliardi di crediti deteriorati ma è probabile che il conto salga, Banco Bpm ne ha per 10 miliardi. Secondo gli analisti, se i due istituti dovessero fondersi servirebbe un aumento di capitale da almeno 4 miliardi. Basta questo per capire le difficoltà in atto. Per questo si parla di gruppi esteri o fusioni con pesi medio-piccoli, come Pop Sondrio o Creval.

I banchieri a corto di idee ritengono le fusioni la strada obbligata (per tagliare i costi), ma non c’è niente di concreto perché manca il regista. Finita l’era di Antonio Fazio (per eccesso di regia), Bankitalia non è in grado di guidare il sistema e il pallino ce l’ha ormai la Bce, che non ragiona così. Senza regista, restano le operazioni di mercato. Vasto programma.

 

Cattolica. La guerra di Verona: Generali deve temere solo Papa Bergoglio

La fides vacilla, il ratio (solvency) traballa. Non sarà più cattolicissima, la Cattolica Assicurazioni che a fine luglio, trasformandosi col 70% dei voti in Spa, ha messo a Statuto la scomparsa della professione di fede nel Vangelo, mentre vedeva l’indice di solvibilità andare sulle montagne russe (da 200 l’anno scorso a 103 in primavera per rialzarsi oggi a 145).

Nella compagnia di Verona, quotata in Borsa dal 2000, questo sarà ricordato come l’anno che ha accelerato una svolta che covava da tempo: addio alla forma cooperativa per un regime societario teoricamente più trasparente, funzionale in realtà a una ricapitalizzazione da 500 milioni di cui 300 messi sul piatto da Generali che col 24% diverrà primo azionista al posto del fondo General Reinsurance di Warren Buffett (9%). Si intravvede così la brusca fine dell’era di Paolo Bedoni, ex Coldiretti, da 14 anni ben remunerato presidente (1,1 milioni nel 2018) e terminale di una macchina da 1800 dipendenti, 1400 agenzie, 3,6 milioni di clienti e di una raccolta che, a fine 2019, sommava 6,9 miliardi.

Per capire i motivi di un cambio di pelle tanto repentino si deve tornare almeno al 2017, quando proprio da Generali giunge il nuovo amministratore delegato, Alberto Minali, la cui visione è chiara: meno agenzie, più bancassicurazione, revisione di affari discutibili (come gli investimenti nell’incubatore di start up H-Farm e nella società della Scala di Milano) e l’apertura a fondi internazionali, Buffett in testa. Una prospettiva che mette in crisi gli equilibri interni, tanto più che il manager – un corpo estraneo per molti – nel 2019 si oppone pure alla concessione della manleva aziendale per i contenziosi legali dei vertici, in primis Bedoni, citato per danni assieme ad altri ex consiglieri della fu Popolare di Vicenza, banca con la quale Cattolica deteneva una partecipazione incrociata ai tempi di Gianni Zonin (le relative perdite hanno poi costretto la compagnia a una causa risarcitoria ancora in corso).

Risultato: il 31 ottobre 2019 a Minali vengono tolte le deleghe, trasferite al direttore generale Carlo Ferraresi. Due settimane dopo Minali va in Consob e rilascia una serie di dichiarazioni (pubblicate dall’Ansa solo il 3 agosto scorso) che dipingono una società in mano a una “rete relazionale” in grado di “influenzare l’esito delle votazioni in assemblea, determinando la maggioranza dei voti a favore dei rinnovi delle sue candidature”. Una versione che Cattolica ha smentito in toto, riservandosi di agire in sede legale.

Nel frattempo, dopo i dubbi rimasti tali sull’aumento di capitale 2014 e lo smacco del ritiro di una poco compatta lista “d’opposizione” l’anno scorso, la ribollente miriade di soci dissidenti ha ricominciato a muoversi. Divisi fra loro, ma accomunati tutti dalla volontà di spodestare la cabina di comando: il finanziere Luigi Frascino e l’avvocato Giuseppe Lovati Cottini con una revisione delle regole statutarie per far decadere Bedoni, proposta abilmente accolta dal cda ma differita al 2022; il commercialista Michele Giangrande facendo valere i suoi voti contro il passaggio a una Spa cucita su misura per Generali; e le altre sigle riunite in “Casa Cattolica” dando vita a un patto di sindacato, “Le Api” (guidato dall’ex vice-dg Paola Boscaini), che punta a una cordata alternativa a Generali di cui però non si intravedono i contorni.

I fatti precipitano negli ultimi mesi. Con una perentoria lettera del 27 maggio l’Ivaas, l’autorità di vigilanza, impone di trovare capitali freschi entro tre mesi. A stretto giro si dimette dal cda Minali, chiedendo 9 milioni di euro di danni. La compagnia – che nei primi mesi dell’anno aveva intavolato una trattativa con Vittoria Assicurazioni, poi persasi nelle secche del lockdown – arriva al giro di boa con due assemblee, il 27 giugno e il 31 luglio, che incoronano Ferraresi nuovo ad e aprono la strada ai triestini. Manco a dirlo le modalità delle assemblee sono contestate dai “ribelli”, che ne hanno chiesto la sospensiva al Tribunale delle Imprese di Venezia (l’udienza si tiene oggi) lamentando di essere all’oscuro dell’operazione Generali. Non solo: quelle assemblee sono finite sotto la lente anche dei pm di Verona in un’indagine su 11 dirigenti con l’accusa, che coinvolge anche i voti del 2019, di “artificiosa formazione di maggioranze assembleari”.

Fiutato il vento, Bedoni ora difende il new deal di mercato. Un futuro che non piace alla Curia veronese di monsignor Zenti, prima firmataria del ricorso in nome della dottrina sociale della Chiesa. E non sarà forse un caso se Minali è stato di recente issato niente meno che al Consiglio dell’Economia vaticana da uno che nel mondo cattolico qualcosa conta: Papa Francesco.

La partita in Mediobanca: Del Vecchio vuole il 20% per non cambiare nulla

Sorpresa: a vent’anni dalla morte di Enrico Cuccia e in piena emergenza Covid, la politica italiana torna a emozionarsi per le lotte di potere in Mediobanca e, via Piazzetta Cuccia, in Assicurazioni Generali. L’ormai quasi certa salita nell’azionariato di un imprenditore italiano, ma di stanza a Parigi, Leonardo Del Vecchio, fa tremare i polsi a deputati come il capogruppo leghista in commissione Finanze della Camera, Giulio Centemero, che accusa Pd e Italia Viva di svendere “asset strategici” ai loro amici d’Oltralpe come contropartita del Recovery fund.

Il timore dichiarato è insomma incentrato sul reale obiettivo dell’anziano miliardario che 9 anni fa aveva scagliato la prima pietra contro l’allora presidente delle Generali, Cesare Geronzi, grande vecchio e simbolo dei “poteri forti” che fu rimosso dalla scena con precisione quasi chirurgica. Oggi il fondatore di Luxottica ha trasferito in Francia la cabina di regia di tutti i suoi interessi imprenditoriali e in Lussemburgo tutti i suoi denari. Si teme quindi che la sua reale intenzione sia di trasferire a Parigi l’influenza su Piazzetta Cuccia e, a cascata, sull’ambita preda Generali. Vecchi fantasmi che si risvegliano mentre l’istituto – creato nel dopoguerra dal banchiere di Patti con denaro pubblico per favorire lo sviluppo industriale – vive un innegabile vuoto di potere e si traveste con l’etichetta di public company, mentre i suoi vertici resistono al loro posto da quasi 15 anni.

D’altro canto l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, che una manciata di anni fa sembrava in procinto di spostare a Londra il baricentro dell’istituto, in patria si sta rivelando un abile diplomatico. Con una mano riesce a fare affari e amicizia con il gran capo della compagnia di assicurazione delle coop, Carlo Cimbri (vedi il salvataggio di Unipol). Con l’altra assolda come consulente il leghista Roberto Maroni, ex governatore della Lombardia e prima ancora ministro degli Interni con Berlusconi. Mentre in finanza arriva a servire fedelmente la storica rivale Intesa, apparecchiando per l’ad Carlo Messina la conquista di Ubi, cioè il riscatto dalla fallita scalata alle Generali del 2017.

Insomma, un cerchio che si chiude via l’altro per Piazzetta Cuccia, che in queste settimane non sta certo con le mani in mano in attesa delle mosse della Bce sulla richiesta di Del Vecchio di salire al 20% dell’istituto, quota che porterebbe il facoltoso 85enne a contare in Mediobanca (e a cascata in Generali dove è già azionista storico) più del patto di consultazione che riunisce pezzi da novanta come Doris, Berlusconi, Benetton, Gavio, Ferrero, ma anche, indirettamente, Pirelli, Telecom, Generali e perfino Unipol. Fuori dall’accordo, poi, c’è l’onnipresente raider bretone Vincent Bolloré che fa l’ago della bilancia anche in altre partite chiave per il Paese, come quella sulla banda larga e sul futuro di Mediaset. Secondo indiscrezioni, la Bce darà il via libera questa settimana, visto che Delphin – la holding di Del Vecchio – ha presentato l’investimento come “puramente finanziario”. Tradotto: non vuole salire per comandare, almeno non subito, tanto che per Il Sole 24 Ore a settembre non presenterà nemmeno una sua lista per il nuovo consiglio d’amministrazione.

Aspettando di sapere se il nuovo padrone vorrà fare il padrone o se le cose cambieranno per restare uguali, i vertici dell’istituto sono tornati a giocare ruoli da protagonisti nelle partite finanziarie che più interessano sia la politica sia gli altri azionisti di Mediobanca. Dalla banda larga ad Atlantia, passando per il Montepaschi di cui è appena diventata advisor per volontà del ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri, che studia l’uscita più indolore possibile dal capitale della banca senese. Scegliendosi come consulente lo stesso istituto che era stato tra i finanziatori dell’acquisto di Antonveneta, alla base delle disgrazie di Siena.

È in questo contesto che nelle scorse settimane era nata l’ipotesi di una norma che blindasse Mediobanca da possibili assalti finanziari italiani, europei e internazionali e che era attesa nel decreto Agosto, accanto a quella sul rimpatrio di Borsa italiana. Poi non è pervenuta, anche se non sono pochi quelli che scommettono che uscita dalla porta rientrerà dalla finestra del passaggio parlamentare.

Resta il fatto che l’indipendenza della banca e la chiamata alla difesa da potenziali assalitori, è un tormentone che risale ai tempi di Cuccia. Ma a differenza di allora, Mediobanca non è più il salotto buono con mille partecipazioni negli snodi chiave del Paese. E il ritorno sulla scena delle consulenze che contano a Roma è una novità recentissima dopo anni di arrocco su Trieste che resta il cuore del suo valore.

Parafrasando Cuccia, cioè, Mediobanca non è nulla senza le Generali che giocano anche un ruolo di primo piano nella gestione del risparmio degli italiani e più in generale in quel che resta del sistema finanziario del Paese. Con buona pace dell’Antitrust, che pure ha fatto negli anni svariati interventi più o meno timidi per alleggerire il peso di Milano sul Leone, che sembra invece resistere ad ogni prova, arricchendosi anzi di varianti introvabili in natura. Comprensibile quindi che l’attenzione della politica sia gradita ai vertici di Piazzetta Cuccia.

Ora tocca a Mps: le nozze impossibili del grande malato

Due grandi partite da giocare, quelle per i destini di Mps e Mediobanca, e una che si è appena chiusa, l’acquisizione di Ubi da parte di Intesa Sanpaolo, sono le operazioni sulle quali si disegnerà il riassetto del settore creditizio italiano. Il risiko bancario riparte dal salvataggio incompiuto del Monte dei Paschi, che anno dopo anno continua a spurgare crediti marci ma non riesce a smettere di accumulare perdite, e dal destino della creatura di Enrico Cuccia, come spiega l’articolo a fianco. Dagli esiti di queste vicende dipende la stabilità dei due business, assicurazioni e risparmio gestito, dai quali nei prossimi anni le banche sperano di ottenere i ricavi in grado di compensare la liquefazione del margine d’interesse.

Grazie al successo dell’Opas su Ubi, realizzata con la consulenza di Mediobanca e con il sostegno e la partecipazione di Unipol e Bper, Intesa Sanpaolo ha portato a saturazione la sua crescita dimensionale in Italia salendo a una quota pari al 20% negli impieghi a livello nazionale, al 22% nei depositi, al 24% nel risparmio gestito e al 18% nella bancassurance.

La nuova Intesa è quarta tra le banche europee per capitalizzazione (34 miliardi) e ottava per attivi (913 miliardi). I conti al 30 giugno segnano un risultato netto di 2,6 miliardi (+13,2% su base annua), la miglior semestrale dal 2008, che al netto degli accantonamenti per gli impatti da Covid sarebbero stati 3,2 miliardi, con proventi operativi stabili, calo dei costi e dei crediti deteriorati e flusso di dividendi assicurato alle Fondazioni azioniste. Col raggiungimento dei tetti Antitrust, la banca guidata da Carlo Messina s’è di fatto chiamata fuori dall’elenco dei possibili “cavalieri bianchi” impegnati nel salvataggio di Mps.

Nonostante siano passati ben 44 mesi dalla rinazionalizzazione del dicembre 2016, il Tesoro che oggi possiede il 68,4% di Mps non ha ancora trovato la cura per salvare l’istituto di Siena. Nel secondo trimestre il Monte ha perso altri 845 milioni per svalutazioni da 476 milioni su poste fiscali (deferred tax asset, Dta) causate dall’impatto della pandemia sulle previsioni al 2024 e altri fattori. Nel frattempo da Siena se n’è andato l’ex ad Marco Morelli, passato come presidente esecutivo ad Axa Investment Management. A dicembre 2016 il Monte guidato da Morelli aveva rinnovato sino al 2027 la partnership nella bancassurance vita e danni e nella previdenza complementare, sottoscritta nel 2007 proprio col gigante assicurativo francese.

Nei quasi quattro anni della gestione Morelli, Mps ha perso un quinto della raccolta diretta, oltre due quinti dei ricavi e ha segnato oltre 8 miliardi di “rosso”. Al 30 giugno Mps aveva un grosso problema di rapporto tra costi e ricavi (indice cost/income al 75%), crediti deteriorati per 11,6 miliardi coperti da accantonamenti per il 49% (i concorrenti stanno al 53%: per arrivare alla media mancano coperture per 460 milioni) e contenziosi legali per 10 miliardi, coperti da fondi rischi per meno del 10% (ballano 9 miliardi di richieste di danni non garantite). Negli ultimi mesi questa spada di Damocle si è appesantita di “ulteriori richieste stragiudiziali per 3,8 miliardi da parte della Fondazione Mps”, ex azionista di maggioranza schiacciata dal crac, che portano a 5,7 miliardi i risarcimenti reclamati da azionisti che avevano ricevuto informazioni finanziare le quali, tra il 1° gennaio 2008 e il 30 giugno 2015, sono state poi riviste da Mps il 6 febbraio 2013 e il 15 dicembre 2015 e sulle quali sono in corso tre procedimenti penali. Il tutto a fronte di un patrimonio netto consolidato di soli 7,1 miliardi. Ecco perché la Bce chiede al Monte un nuovo rafforzamento patrimoniale da almeno 700 milioni come precondizione per dare il suo via libera al progetto Hydra, che prevede la scissione da parte di Mps ad Amco di crediti deteriorati per oltre 8 miliardi, Dta, altri debiti e patrimonio netto da circa 1 miliardo.

Le difficoltà sono tali che i revisori dei conti di Pwc nella relazione acclusa alla semestrale richiamano l’attenzione sul tema della continuità aziendale. In base agli accordi con la Ue, il Tesoro dovrà uscire dal Monte entro il 31 dicembre 2021: accasare Mps è quindi un affare di Stato ma, visti i conti disastrati e i rischi che gravano sull’istituto senese, di certo non c’è la coda dei pretendenti.

La questione è complicata anche dal trend del settore. Nel primo semestre dell’anno anche il sistema creditizio ha sofferto la crisi da coronavirus: secondo Goldman Sachs, a livello complessivo le semestrali dei sei maggiori istituti nazionali (Banco Bpm, Bper, Intesa, Mps, Ubi e UniCredit) hanno segnato su base annua un calo dei ricavi dell’8% e del 17% per il margine operativo, con le svalutazioni aumentate del 49% e gli utili diminuiti del 74%.

In un Paese che ha subìto più di altri la recessione innescata dal Covid e che più di altri stenterà a riprendersi, con un settore bancario già sovradimensionato rispetto alla domanda di credito, non sarà affatto facile trovare operatori disposti a farsi carico dei problemi senesi. L’ad di Banco Bpm, Giuseppe Castagna, si è detto disponibile ad aggregazioni, ma la semestrale del suo istituto non ha brillato a causa dei minori ricavi da commissioni. Può darsi che per mettere in salvo Mps sia necessario chiamare anche altri giocatori, forse l’UniCredit di Jean Pierre Mustier, forse Poste Italiane. Ma per la politica è oltremodo difficile poter garantire contropartite adeguate, stretta com’è tra la vigilanza della Bce e l’attenzione della Commissione europea agli aiuti di Stato.