“Abbiamo vissuto momenti di crisi, mangiavamo di rado e con razioni misere. Eravamo serrati all’interno del campo base, mentre fuori cadevano bombe e fischiavano proiettili”. La voce stanca di chi è tornato da una missione di sei mesi nella città di Misurata, Libia, è di un medico militare italiano. Durante il periodo di massima emergenza legato al coronavirus lui ed altri circa 300 soldati, tra personale sanitario e in divisa, si trovavano a più di mille chilometri di distanza dallo Stivale, impegnati nella missione bilaterale di supporto e assistenza (Miasit) al governo libico di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj.
In questo sforzo bellico rientra un ospedale da campo a Misurata che offre 30 posti letto, il dispiegamento massimo di 400 militari, 142 mezzi terrestri e le unità navali derivanti da “Mare sicuro” (l’operazione di sorveglianza e sicurezza marittima nel mar Mediterraneo e in prossimità delle coste libiche). L’obiettivo principale è fornire assistenza e supporto sanitario e sostenere “le autorità libiche ufficialmente riconosciute nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese”, spiega il militare. Obiettivo che in questo speciale momento si è rivelato molto più complesso del solito. “Il blocco dei voli dovuto al Covid-19 ha fatto emergere problematiche del tutto imprevedibili e l’approvvigionamento di cibo, medicinali e materiali è venuto a mancare” continua il militare, che per ragioni di sicurezza preferisce rimanere anonimo. “Siamo arrivati a consumare le ultime scorte, poi sono state aperte delle linee prioritarie e sono stati consegnati i rifornimenti. All’ospedale abbiamo inoltre chiuso quasi tutti i rapporti con i civili, e i contatti con l’esterno sono avvenuti solo in caso di estrema necessità. Anche se fuori nulla si è fermato, guerra compresa” aggiunge il militare.
In Libia il territorio è diviso in più parti con molti attori in campo. Tutti decisi a consolidare e a espandere il proprio controllo nel Paese, soprattutto sulla capitale Tripoli, sulle città di Misurata e Sirte, l’importante porto sull’omonimo golfo. Oltre al governo guidato da al-Sarraj e sostenuto dall’Onu, c’è l’esercito guidato dal generale Haftar, e poi le zone sotto il controllo dei combattenti Tuareg, quelle guidate dalle milizie Tubu e c’è anche una parte del territorio libico in mano allo Stato islamico.
Il contingente di stanza a Misurata si è trovato quindi in mezzo al fuoco nemico, che dalle finestre del campo base era percepibile nelle nuvole di polvere causate dallo scoppio delle bombe e dalla scia provocata dal passaggio dei missili. Con in più un pensiero fisso che aleggiava nella testa dei militari: essere un bersaglio facile, immobile dentro la sua tana. “La nostra missione è prevalentemente di stampo sanitario, quindi non siamo mai stati un vero obiettivo per loro. I civili libici sono portarti alla collaborazione nei nostri confronti, ma vedere a poche centinaia di metri scoppiare quelle bombe ci ha fatto capire che tutti gli schemi erano saltati”, aggiunge il militare. Considerando anche che prima dell’emergenza sanitaria proprio Misurata, sede delle milizie che appoggiano Sarraj e città simbolo della lotta contro l’Isis (da cui è stata liberata dal governo di Tripoli con il supporto occidentale nel 2016), si è trovata in mezzo alle truppe in avanzamento del generale Haftar e lo sbarco dell’esercito turco, nuovo player straniero nello scacchiare libico.
Il che ha intensificato il pericolo di “ostilità politica” contro l’Italia e quindi contro i militari presenti nella città. “La nostra posizione qui è vacillante, perché anche prima del coronavirus il governo italiano non ha mai stabilito un piano preciso per la Libia. I contatti vengono presi in maniera informale ed estemporanei, e questo impedisce di avere delle linee guida da seguire e dei soggetti di riferimento con cui rapportarsi. E per essere neutrale non curiamo più feriti militari ma soltanto occasionalmente civili” dice ancora il medico militare.
Il ruolo dell’ospedale militare schierato dal 2017 a Misurata – e dotato di materiali sanitari per parecchi milioni di euro -, è stato così oggetto di critiche anche dai vertici libici, proprio per il poco utilizzo degli ultimi mesi.Il vice-presidente libico Ahmed Maitig in un’intervista di metà maggio ha invitato il governo italiano a rivedere il ruolo dell’ospedale, per utilizzarlo al meglio. “L’ospedale effettivamente ha fermato le sue funzioni: anche se inizialmente abbiamo fatto dei corsi formativi di persona sulle misure preventive da adottare per evitare il contagio, quando ancora però la Libia aveva un numero basissimo di casi. Nel pieno della pandemia siamo riusciti raramente a operare da remoto, in quanto sprovvisti di tecnologie adeguate e alla prese con le esigenze dei colleghi libici che affrontavano il Ramadan”, assicura il militare.
La curva dei contagi da Coronavirus, nel frattempo, in Libia ha cominciato a crescere, mentre lo sblocco dei collegamenti ha reso possibile il turnover di medici e infermieri militari dall’Italia a Misurata, che adesso si troveranno però alle prese con il picco della malattia anche in terra libica.
L’estate dei militari impegnati nelle missioni libiche si preannuncia complessa anche per la divisione (un centinaio di militari) di Tripoli, che ha compiti di supporto alla guardia costiera locale. “Tra slittamenti dei voli e la crisi da coronavirus che sta colpendo la Libia, la possibilità di uscire dal Paese sono sempre meno, anche per chi supera il limite di tempo della missione”, dice un soldato impiegato nella capitale libica.
In più, a Tripoli la campagna militare di Haftar non si è mai fermata e i razzi lanciati sulla città hanno provocato morti e feriti tra i civili e allo stesso tempo costretto medici e infermieri ad abbandonare l’ospedale principale. “I piani per un ritiro rapido dei contingenti sono congelati e il rischio è quello di finire al centro di scontri sempre più violenti o, non so se è peggio, contagiati dal virus” conclude il soldato.