“Sotto il fuoco nemico con risorse scarse e la minaccia Covid”

“Abbiamo vissuto momenti di crisi, mangiavamo di rado e con razioni misere. Eravamo serrati all’interno del campo base, mentre fuori cadevano bombe e fischiavano proiettili”. La voce stanca di chi è tornato da una missione di sei mesi nella città di Misurata, Libia, è di un medico militare italiano. Durante il periodo di massima emergenza legato al coronavirus lui ed altri circa 300 soldati, tra personale sanitario e in divisa, si trovavano a più di mille chilometri di distanza dallo Stivale, impegnati nella missione bilaterale di supporto e assistenza (Miasit) al governo libico di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj.

In questo sforzo bellico rientra un ospedale da campo a Misurata che offre 30 posti letto, il dispiegamento massimo di 400 militari, 142 mezzi terrestri e le unità navali derivanti da “Mare sicuro” (l’operazione di sorveglianza e sicurezza marittima nel mar Mediterraneo e in prossimità delle coste libiche). L’obiettivo principale è fornire assistenza e supporto sanitario e sostenere “le autorità libiche ufficialmente riconosciute nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese”, spiega il militare. Obiettivo che in questo speciale momento si è rivelato molto più complesso del solito. “Il blocco dei voli dovuto al Covid-19 ha fatto emergere problematiche del tutto imprevedibili e l’approvvigionamento di cibo, medicinali e materiali è venuto a mancare” continua il militare, che per ragioni di sicurezza preferisce rimanere anonimo. “Siamo arrivati a consumare le ultime scorte, poi sono state aperte delle linee prioritarie e sono stati consegnati i rifornimenti. All’ospedale abbiamo inoltre chiuso quasi tutti i rapporti con i civili, e i contatti con l’esterno sono avvenuti solo in caso di estrema necessità. Anche se fuori nulla si è fermato, guerra compresa” aggiunge il militare.

In Libia il territorio è diviso in più parti con molti attori in campo. Tutti decisi a consolidare e a espandere il proprio controllo nel Paese, soprattutto sulla capitale Tripoli, sulle città di Misurata e Sirte, l’importante porto sull’omonimo golfo. Oltre al governo guidato da al-Sarraj e sostenuto dall’Onu, c’è l’esercito guidato dal generale Haftar, e poi le zone sotto il controllo dei combattenti Tuareg, quelle guidate dalle milizie Tubu e c’è anche una parte del territorio libico in mano allo Stato islamico.

Il contingente di stanza a Misurata si è trovato quindi in mezzo al fuoco nemico, che dalle finestre del campo base era percepibile nelle nuvole di polvere causate dallo scoppio delle bombe e dalla scia provocata dal passaggio dei missili. Con in più un pensiero fisso che aleggiava nella testa dei militari: essere un bersaglio facile, immobile dentro la sua tana. “La nostra missione è prevalentemente di stampo sanitario, quindi non siamo mai stati un vero obiettivo per loro. I civili libici sono portarti alla collaborazione nei nostri confronti, ma vedere a poche centinaia di metri scoppiare quelle bombe ci ha fatto capire che tutti gli schemi erano saltati”, aggiunge il militare. Considerando anche che prima dell’emergenza sanitaria proprio Misurata, sede delle milizie che appoggiano Sarraj e città simbolo della lotta contro l’Isis (da cui è stata liberata dal governo di Tripoli con il supporto occidentale nel 2016), si è trovata in mezzo alle truppe in avanzamento del generale Haftar e lo sbarco dell’esercito turco, nuovo player straniero nello scacchiare libico.

Il che ha intensificato il pericolo di “ostilità politica” contro l’Italia e quindi contro i militari presenti nella città. “La nostra posizione qui è vacillante, perché anche prima del coronavirus il governo italiano non ha mai stabilito un piano preciso per la Libia. I contatti vengono presi in maniera informale ed estemporanei, e questo impedisce di avere delle linee guida da seguire e dei soggetti di riferimento con cui rapportarsi. E per essere neutrale non curiamo più feriti militari ma soltanto occasionalmente civili” dice ancora il medico militare.

Il ruolo dell’ospedale militare schierato dal 2017 a Misurata – e dotato di materiali sanitari per parecchi milioni di euro -, è stato così oggetto di critiche anche dai vertici libici, proprio per il poco utilizzo degli ultimi mesi.Il vice-presidente libico Ahmed Maitig in un’intervista di metà maggio ha invitato il governo italiano a rivedere il ruolo dell’ospedale, per utilizzarlo al meglio. “L’ospedale effettivamente ha fermato le sue funzioni: anche se inizialmente abbiamo fatto dei corsi formativi di persona sulle misure preventive da adottare per evitare il contagio, quando ancora però la Libia aveva un numero basissimo di casi. Nel pieno della pandemia siamo riusciti raramente a operare da remoto, in quanto sprovvisti di tecnologie adeguate e alla prese con le esigenze dei colleghi libici che affrontavano il Ramadan”, assicura il militare.

La curva dei contagi da Coronavirus, nel frattempo, in Libia ha cominciato a crescere, mentre lo sblocco dei collegamenti ha reso possibile il turnover di medici e infermieri militari dall’Italia a Misurata, che adesso si troveranno però alle prese con il picco della malattia anche in terra libica.

L’estate dei militari impegnati nelle missioni libiche si preannuncia complessa anche per la divisione (un centinaio di militari) di Tripoli, che ha compiti di supporto alla guardia costiera locale. “Tra slittamenti dei voli e la crisi da coronavirus che sta colpendo la Libia, la possibilità di uscire dal Paese sono sempre meno, anche per chi supera il limite di tempo della missione”, dice un soldato impiegato nella capitale libica.

In più, a Tripoli la campagna militare di Haftar non si è mai fermata e i razzi lanciati sulla città hanno provocato morti e feriti tra i civili e allo stesso tempo costretto medici e infermieri ad abbandonare l’ospedale principale. “I piani per un ritiro rapido dei contingenti sono congelati e il rischio è quello di finire al centro di scontri sempre più violenti o, non so se è peggio, contagiati dal virus” conclude il soldato.

Siena senza Palio: il “bel” rito per dimenticarsi della morte

“La tua fuga non s’è dunque perduta / in un giro di trottola / al margine della strada: / la corsa che dirada / le sue spire fin qui, / nella purpurea buca /dove un tumulo d’anime saluta / le insegne di Liocorno e di Tartuca. … / Dalla torre / cade un suono di bronzo: la sfilata / prosegue fra i tamburi che ribattono / a gloria di contrade. … La sbarra in croce non scande / la luce per chi s’è smarrito, / la morte non ha altra voce / di quella che spande la vita, / ma un’altra voce qui fuga l’orrore / del prigione e per lei quel ritornello / non vale il ghirigoro d’aste avvolte / (Oca e Giraffa) che s’incrociano alte / e ricadono in fiamme. / Geme il palco / al passaggio dei brocchi salutati / da un urlo solo. È un volo! E tu dimentica! Dimentica la morte”. Quest’anno no: mentre scrivo, non c’è la terra in Piazza, l’anello di tufo non cinge la “purpurea buca”, cioè la Piazza del Campo cantata in questi versi altissimi di Eugenio Montale (dalle Occasioni, 1939).

Le bandiere non si incrociano lanciate in aria dagli alfieri delle diciassette contrade, e le dieci cui toccava correre (le sette che non corsero nell’agosto dell’anno scorso più tre tirate a sorte, in quell’impasto di giustizia e fortuna che è l’anima stessa della Festa senese) non volano per tre volte lungo quell’anello. Sunto, il grande campanone della Torre del Mangia dedicato all’Assunta, non ha fatto piovere sulla Piazza il suo suono di bronzo, nessun urlo si è alzato alle sette di sera del sedici agosto: Siena è senza Palio. Montale, con la bacchetta da rabdomante del poeta, coglie del Palio il significato più profondo, ed essenziale: “E tu dimentica! Dimentica la morte”. Il Palio non è uno sport, né una rievocazione storica, non è fatto per i turisti: è un esorcismo collettivo della morte, è la celebrazione collettiva della vita, antichissima e attuale, di una città che si sente ancora comunità. I cavalli (e i fantini, perennemente in subordine) sono strumenti di un rito officiato da una città intera: e la Piazza del Campo, che non appartiene a nessuna contrada, è insieme altare, chiesa, teatro, parlamento di una comunità che qui sublima da quasi cinquecento anni la perdita della sua amatissima libertà.

Camminare, in questa estate senza Palio, sul Campo di Siena significa sentire il respiro frenato di una città intera. La celebrata bellezza della Piazza è essa stessa segno di una città che ha avuto un precocissimo senso di sé, prescrivendo per legge, in pieno Medioevo, che tutte le finestre che vi si affacciavano fossero ornate a ‘colonnelli’, fossero cioè bifore o trifore. Nel 1309 il Costituto del Comune prescrive che “intra li studi e solecitudini e’ quali procurare si debiano per coloro e’ quali ànno ad intendere al governamento de la città è quello massimamente che si intenda alla belleza della città, perché la città dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et alegreza de’ forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città e de’ cittadini di Siena”.

Nei mesi in cui Dante scriveva la Commedia – dove innalzava la lingua figurativa di Cimabue e Giotto accanto a quella di Guinizelli, di Cavalcanti e di lui stesso –, a Siena ci si preoccupava di dire che quella lingua di forme e figure era un fatto pubblico: la bellezza della città era legata direttamente all’onore dei cittadini, e doveva essere al centro delle preoccupazioni del governo comunale. Dominio dello spazio, e signoria del tempo: il Palio, si dice a Siena, dura tutto l’anno. Sì, perché è la vita di contrada, con le sue feste e i suoi riti, a scandire ogni momento, a costituire il tessuto sociale, a cucire pubblico e privato.

Un anno senza Palio è un tempo spezzato: sottratto dal conto della vita e ripiombato sotto il dominio oscuro della morte. Come dimenticare la morte, senza quel volo magico, che unisce pietre e popolo in una danza cosmica che vince il tempo?Eppure, anche in questo anno senza tempo, Siena ci attira, ci seduce ci avvince.

Come fece con uno degli spiriti più alti e liberi del Novecento, quello di Albert Camus, che così sognava la sua stessa fine: “Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere … la conchiglia del Campo di Siena …. Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali al mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani conosciuti, che io amo”.

La sai l’ultima?

 

Sydney, bestemmia in barese al semaforo e lo zio emigrante lo riconosce dopo 15 anni
Come diceva un’anziana rugosa in una delle scene più assurde di uno dei film più barocchi di Sorrentino: “Le radici sono importanti”. È proprio una storia di radici e valori comuni quella raccontata dal sito locale pugliareporter.com. Succede a Sydney: un ragazzo bestemmia in barese a un semaforo, un uomo lo sente e lo riconosce. Era lo zio emigrato in Australia, non si vedevano da 15 anni. Ecco il racconto nelle vivide parole del giovane protagonista: “Mi chiamo Angelo e sono originario di Valenzano (Bari, ndr). Ero per strada non lontano dalla costa di Sydney quando un tipo non mi ha dato la precedenza nei pressi di Macquarie Street. Istintivamente mi è scappata una bestemmia… diciamo un ‘KTM’ misto ad un ‘UPDM’. Un pedone alle mie spalle mi ha risposto ‘ Non t si ‘ngaricann, Pagghiàre’”. Non sappiamo assolutamente cosa significhi tutto ciò, fatto sta che Angelo e lo zio pedone hanno iniziato a parlarsi e infine si sono riconosciuti. L’amore trionfa sempre.

 

Germania, cinghiali mutanti? Il suino arriva dal mare e semina il panico in una spiaggia del Mar Baltico
La Germania sembra avere un serio problema con i cinghiali. La scorsa settimana vi avevamo raccontato dell’ispido suino che si era intrufolato in una spiaggia di nudisti e aveva rubato una borsa con un computer dentro. Le foto della disperata rincorsa del proprietario del pc – un omacchione nudo in evidente sovrappeso – avevano fatto il giro del mondo. Stavolta è successo qualcosa di peggio. A Schoenberg, una località balneare tedesca che affaccia sul Mar Baltico, il cinghialotto è arrivato dal mare. Il video è online, potete apprezzare il suino che si avvicina alla spiaggia nuotando come lo squalo di Spielberg. Inquietante. Una volta arrivato sulla battigia il cinghiale ha provato a caricare un bagnante, che lo aspettava armato di badile. La bestia è stata colpita con la pala, ma non ha battuto ciglio e ha cominciato a correre impazzita, seminando il panico in spiaggia. Cinghiali di mare e di foresta: i suini hanno mire espansionistiche, stanno diventando una minaccia globale.

 

Roma, un ventenne mostra i genitali alle Poste: “Vuoi il documento? Ora te lo faccio vedere io”
C’è modo e modo di fornire le proprie generalità. Particolarmente fantasioso quello di un ragazzo egiziano, che qualche mattina fa si è presentato allo sportello delle poste di Piazza Dante, a Roma. Quando l’impiegata dell’ufficio gli ha richiesto un documento, come è comune fare, lui non l’ha presa bene. Si è tolto la mascherina e ha risposto ad alta voce: “Ora ti faccio vedere io il documento”. Poi si è slacciato la cinta, si è tirato giù i pantaloni, infine i boxer, e ha mostrato alla sportellista i suoi genitali. Vuoi mettere con la carta d’identità? L’impiegata delle Poste, comprnesibilmente spaventata, ha chiamato la polizia raccontando quanto stava accadendo. Gli agenti sono intervenuti subito e hanno individuato il giovane galantuomo, che ha tentato di scappare ma è stato bloccato. Il ragazzo, ora deve rispondere di tentata violenza sessuale. La prossima volta si presenterà con più garbo.

 

Baviera, lo zoo chiuso per Covid s’inventa un nuovo business: vende barattoli pieni di cacca di leone
Dal letame nascono i fiori, ma da quello dei leoni possono nascere pure diamanti. È la filosofia dell’ufficio vendite del Circus Krone, il circo di Monaco di Baviera, uno dei più grandi d’Europa. Chiuso da mesi per colpa del Covid, per sopravvivere alla crisi si è affidato a una proposta bizzarra: hanno iniziato a vendere cacca di leone. Cosa ci si fa con un barattolo pieno di feci di un grosso felino? Si mette sul tavolino del salotto vicino ai libri di fotografia, per vantarsene quando si invita qualcuno a cena? Secondo il Circus Krone no, il letame leonino ha scopi pratici: se hai un giardino puoi spargere le feci per il prato, servono a tenere lontani gli animali selvatici ma anche gli animali domestici da piante e aiuole. I barattoli possono essere acquistati in loco ma vengono anche spediti online e consegnati a domicilio. Affrettatevi. Se siete dalle parti di Monaco vi conviene comunque andare al negozio del circo: all’esterno è stata allestita una meravigliosa scultura con un leone, “Mr. Poo”.

 

Perù, scopre il tradimento della moglie grazie a una fotografia su Google Maps
Maledetto Google Maps. Vi sarà capitato di fare un giro virtuale per qualche città del mondo usando la street view, la cartina di Google con le fotografie scattate a livello della strada. Avrete notato che dentro quelle foto ogni tanto ci finisce pure qualche persona: le conseguenze possono essere imbarazzanti. Per rispetto della privacy i volti vengono oscurati, ma certe volte non basta. Di certo non è bastato a una coppia di Lima, in Perù: il matrimonio è stato mandato in crisi proprio dalla diabolica mappina di Google. Il marito, giochicchiando con la street view e scorrendo le immagini delle strade del suo quartiere, ha scovato una foto equivoca: una donna su una panchina e un uomo steso su di lei, con la testa sopra le sue gambe. Un quadretto affettuoso. Il problema è che quella donna assomigliava sinistramente alla moglie. A una più attenta analisi, aveva gli stessi capelli della moglie, gli stessi vestiti della moglie, gli stessi stivali della moglie. Tornato a casa, ha chiesto lumi alla consorte, che ha ammesso il tradimento. Divorzio. Officiato da Google.

 

Israele, ecco la mascherina più costosa del mondo. Oro bianco 18 carati e 3.600 diamanti: vale 1,5 milioni
Anche i miliardari, poverini, hanno l’obbligo di mascherina in questo periodo. Ma rispettare le precauzioni sanitarie non significa dover rinunciare a esibire il proprio status sociale nel modo più imbecille possibile. Così una compagnia di gioiellieri israeliani ha iniziato a produrre quella che si suppone essere la più costosa mascherina del mondo: fabbricata in oro e tutta tempestata di diamanti, dal modesto prezzo di un milione e mezzo di dollari. Davvero un oggetto imperdibile. Ma entriamo nei dettagli: la mascherina sarà d’oro bianco 18 carati e decorata con 3.600 diamanti bianchi e neri. Ma siccome anche le precauzioni sono importanti, sarà equipaggiata con i migliori filtri N99 disponibili sul mercato. Il produttore – il signor Levy della compagnia Yvel – ha già individuato il compratore, anche se per discrezione non ne ha voluto rivelare l’identità. Il facoltoso ha avanzato solo due richieste: che la mascherina sia la più costosa al mondo e che sia pronta entro la fine dell’anno (dovesse arrivare prima il vaccino, in effetti, sarebbe una beffa).

 

Cina, cucine da incubo: il ristorante fa pesare i clienti prima di entrare. E poi gli suggerisce il menù salutista
Un’idea partorita da una fantasia malata: in Cina c’è un ristorante che ti prende il peso prima di farti entrare. Non basta il senso di colpa, non basta fallire la prova costume: fallisci anche la prova di sederti a tavola in pace. Il ristorante da incubo è nella città di Changsha, come racconta la Bbc. All’ingresso sono state piazzate due grandi bilance, ai clienti veniva chiesto di pesarsi e quindi di ordinare di conseguenza: se non sei in forma, ti viene consigliato un cibo a basso impatto calorico. O meglio, lo sventurato cliente oltre a essere umiliato doveva inserire i suoi dati su un’app, che a sua volta calcolava il menù più adatto alla sua condizione. Un incubo. Ovviamente la clientela non ha apprezzato: il locale si è beccato una valanga di citazioni furibon sul socialde network cinese Weibo. Gli hashtag sul ristorante hanno collezionato 300 milioni di visualizzazioni. E le bilance all’ingresso sono magicamente scomparse. I titolari hanno detto di essere “molto dispiaciuti”. Volevano assecondare una campagna pubblicitaria governativa contro lo spreco di cibo.

“Il bonus da commedia: le scuse e le giravolte dei politici teatranti”

Furbi. O anche furbetti. Sfregiandoli un po’: furbastri. Chi è questa classe dirigente richiedente bonus? Serve un commentario antropologico. Parola quindi a Marino Niola,
tra i più lucidi esaminatori dei nostri vizi e delle nostre virtù.

“Non sapevo del bonus. È stato accreditato sul conto gestito da mia madre” (Andrea Dara, deputato Lega).

Risale al ’400 l’impressione, con i primi viaggiatori europei, che gli italiani facciano della furbizia l’indicatore di virtù. Un etimo possibile della parola furbo deriverebbe dal verbo latino furare, cioè pulire: colui che vuole apparire pulito ma spazzola di nascosto.

“L’ho saputo dal mio socio, non mi sento in colpa, verso tanti soldi all’Inps” (Alex Galizzi, consigliere della Lombardia, Lega).

È il tipico italiano che a cena con gli amici dice: basta tasse, sarebbe bene che ciascuno con quei soldi facesse ciò che vuole e se la vedesse da solo. Dopo di che è il primo che chiede aiuto allo Stato, il primo che – se sta male – corre in ospedale.

“Ha fatto tutto il mio commercialista. Gli ho detto: ‘Per carità di Dio non farlo mai più’” (Riccardo Barbisan, consigliere del Veneto, Lega).

Smagliante e plastico esempio della separatezza dell’io. A Napoli di questi tipi si dice: butta la pietra e nasconde la mano. Perfino chi non è furbo prova ad apparire tale, perché si ritiene che esista un plusvalore nella furbizia. Un altro motto assai popolare (“Ca nisciuno è fesso”) esprime la pietra angolare della difesa ad oltranza di ogni cialtronaggine. Furbo tu, ma più furbo io.

“Mia moglie ha fatto la richiesta ma in buona fede. Abbiamo fatto beneficenza” (Alessandro Montagnoli, consigliere del Veneto, Lega).

Mi sembra che i richiedenti bonus siano in maggioranza imprenditori del nord, soprattutto leghisti. Dove l’iniziativa privata è prevalente si avverte di più il primato di un individualismo che pone l’uno in concorrenza con l’altro non solo da un punto di vista economico ma anche antropologico. Lo Stato o semplicemente l’altro – ogni altro – è nemico o preda. E la beneficenza, come si legge, è riferita senza ritegno e consapevolezza come azione positiva. Invece è fraudolenta perché fatta con i nostri soldi.

“Il mio socio tributarista, senza che lo sapessi, ha presentato domanda” (Gianluca Forcolin, vicepresidente del Veneto, Lega).

Scaricare sugli altri è il tipico atteggiamento da fratelli coltelli.

“Il commercialista mi ha detto: facciamo la richiesta. Io poi non ho seguito più la vicenda” (Matteo Gagliasso, consigliere del Piemonte, Lega).

Vedi sopra.

“L’ho richiesto come imprenditore della ristorazione. Si ricordi che noi diamo lavoro a delle persone” (Stefano Bargi, consigliere dell’Emilia Romagna, Lega).

L’imprenditore – solo perché è tale – si sente benefattore. Non gli passa proprio dalla mente che lui scambia forza lavoro con il salario. Questo leghista è figlio dello spirito animale del capitalismo. Lui dona lavoro, capito? Dona. Perciò ha diritto di fare ogni cosa e non possiamo censurarlo.

“I soldi che guadagno col ruolo pubblico sono per la famiglia. L’azienda è un’altra cosa” (Franco Mattiussi, consigliere del Friuli, Forza Italia”.

Due aspetti del carattere nazionale sono la commedia dell’arte e l’opera, il melodramma. In ogni italiano c’è sempre un teatrante incorporato.

“I soldi li ho dati alla Caritas” (Moreno Pieroni, assessore delle Marche, Psi).

Caritas, dunque indulgenza. La cultura cattolica ha particolare riguardo per il peccatore che si confessa. Solo che poi lo stesso peccatore, confidando nell’indulgenza, avanza nel peccato.

“Volevo dare l’esempio per la misura inefficiente” (Arnold Schuler, assessore Provincia autonoma di Trento, Svp).

La furbizia non è solo italiana.

“Non vivo di politica, faccio l’avvocato” (Roberto Gravina, sindaco di Campobasso, M5S).

L’azzeccagarbugli in alcuni casi domina da maestro le declinazioni nefaste degli strumenti giuridici.

Contagi record nel mondo. In Italia ieri pochi tamponi

Sono 479 i nuovi casi di Covid-19 scoperti ieri in Italia. Un dato che si abbassa in modo significativo rispetto agli ultimi tre giorni (erano 523 giovedì, 574 venerdì, 629 sabato) ma resta superiore alla media delle scorse settimane. E non permette di rilassarsi, anche perché – complice il Ferragosto – diminuiscono pure i tamponi eseguiti: 36.807, quasi 17 mila in meno rispetto a sabato. Per apprezzare il trend, basti pensare che la settimana dal 10 al 16 agosto si chiude con più di 3.200 nuovi positivi. Quella prima erano stati 2.496, a luglio sempre meno di 2 mila.

È il Veneto a mostrare l’incremento maggiore di casi (+78), seguito da Lazio (+68) e Lombardia (+61). Restano stabili i nuovi decessi, contenuti a 4. Non preoccupano – ancora – le terapie intensive: 56 ricoverati, appena uno in più. Sono 23 invece i nuovi ospedalizzati con sintomi, 787 in totale.

Intanto sono iniziati nell’aeroporto di Roma Fiumicino (da oggi anche in quello di Ciampino) i test rapidi sui viaggiatori in arrivo da Malta, Croazia, Grecia e Spagna, sotto la supervisione del direttore sanitario dell’istituto Spallanzani Francesco Vaia. La procedura prevede di radunare i passeggeri in un’area isolata nella zona arrivi del Terminal 3, dove sono allestite 12 cabine per il tampone nasofaringeo. Con 2 mila rientri dai Paesi a rischio, quella di ieri nello scalo romano è stata una giornata caotica: lunghe code ai box fin dalla mattina. Code anche alle 15 postazioni drive-in della Capitale per chi non ha potuto fare il test in aeroporto: una donna ha denunciato sui social di aver atteso 5 ore prima di essere sottoposta al tampone. Qualche difficoltà per l’alto numero di richieste, poi, c’è stata in Liguria (intorno ai mille rientri) e in Friuli-Venezia Giulia (circa 5 mila).

nelle ultime 24 ore, però, c’è stato anche il record di nuovi casi nel mondo: 294.237 in un solo giorno, dice l’Organizzazione mondiale della sanità. L’impennata più forte da inizio pandemia. Il totale planetario dei colpiti da Covid sale così a oltre 21 milioni, mentre i morti sono oltre 771 mila. In cima alla lista dei Paesi più colpiti sempre gli Usa (5 milioni di casi, 170 mila morti), seguiti da Brasile (3,3 milioni, 107 mila) e India (2,5 milioni di contagi).

In Europa i numeri continuano ad allarmare soprattutto in Francia e Spagna: sabato il Paese transalpino ha contato 3.310 casi, il dato più alto dalla fine del lockdown a maggio. Ieri un dato soltanto di poco inferiore (3.015). Il governo ha dichiarato “zone ad alto rischio” la città di Parigi e il dipartimento di Bouches-du-Rhône, che comprende Marsiglia. Il piano di Macron, da presentare martedì ai sindacati, prevede l’obbligo di mascherina anche in ufficio e il al lavoro da casa ovunque possibile. Quanto al Regno Unito, sono almeno 30mila i britannici che si sono precipitati a passare la Manica per evitare la quarantena obbligatoria introdotta per chi arriva dalla Francia ed entrata in vigore alle 4 di sabato mattina. Anche in Gran Bretagna, d’altronde, i numeri non sorridono: domenica il governo di Londra ha riferito di 1.040 casi in 24 ore, che fanno superare quota mille per il quinto giorno di fila.

La Spagna, invece mostra il tasso di diffusione del virus più alto d’Europa, 116 casi ogni 100 mila abitanti (valore che sale a 181 nei Paesi Baschi, il territorio più colpito). Le misure adottate dal governo – serrata alle discoteche, chiusura dei locali notturni entro l’una, divieto di fumo all’aperto sotto i due metri di distanza – hanno fatto il loro “esordio” ieri nelle prime due regioni, La Rioja e Murcia. Le altre seguiranno nei prossimi giorni.

“Non ci sarà un nuovo lockdown. La prudenza va bene, non il panico”

“Niente panico: i cittadini sono consapevoli, il sistema sanitario è preparato. Al momento mi sento di dire che la probabilità di un nuovo lockdown è vicina allo zero”. Come nei giorni scorsi, il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri invita alla calma e a non demonizzare la movida. Fosse stato per lui, dice, persino a chiudere le discoteche “si poteva aspettare qualche giorno, magari rafforzando i controlli”.

Viceministro, davvero la stretta sui locali notturni non serve?

Non dico che non serva. È una scelta che risponde al principio di massima precauzione, perché è ovvio che in quegli ambienti rispettare le regole è quasi impossibile. Ce li vede i giovani a ballare a due metri di distanza o con la mascherina addosso? È anche vero, però, che al momento non ci sono evidenze di focolai nati sulle piste da ballo. E non credo sarà una mossa decisiva. I contagi andranno avanti a salire con o senza discoteche.

E non dobbiamo preoccuparci?

No, perché rispetto ad altri Paesi abbiamo numeri del tutto accettabili. I ricoverati in terapia intensiva sono pochi, i decessi contenuti. E la spiegazione è una: siamo stati più bravi. Abbiamo tenuto chiuso più a lungo, abbiamo aperto in modo graduale e prudente, e ne raccogliamo i frutti. Non bisogna abbassare la guardia, però, perché i prossimi mesi saranno decisivi. Per questo ci terrei a lanciare alcuni messaggi.

Prego.

Primo, scaricate l’app Immuni. Se la usa la maggioranza dei cittadini, può dare un contributo prezioso. Ha visto cosa è successo al Seven Apples, la discoteca in Versilia?

In pista c’era una ragazza che poi è risultata positiva.

Esatto, e per tracciare eventuali contagi sono serviti 726 tamponi, uno per ognuno dei presenti. Pensi invece se tutti avessero installato Immuni. Ai contatti stretti della ragazza sarebbe arrivata una notifica e il tampone l’avrebbero fatto soltanto loro, un bel risparmio per il Servizio sanitario nazionale.

Gli altri messaggi?

Tra poco avremo una grossa sfida: distinguere i casi di Covid dalle influenze stagionali. Chi avrà sintomi sospetti dovrà rivolgersi al proprio medico e osservare l’isolamento, anche se costerà fatica. E soprattutto: indossiamo tutti la mascherina. È una protezione fondamentale che abbiamo sbagliato a sottovalutare.

Ci accompagneranno ancora per un po’, quindi.

Finché non ci sarà un vaccino efficace, sì.

In molti temono un nuovo lockdown in autunno. È verosimile?

Direi proprio di no. Rispetto alla scorsa primavera è cambiato tutto. Abbiamo imparato a igienizzare le mani, a usare le mascherine, a stare distanti: piccole abitudini che fanno la differenza. Per entrare in un ospedale o in una residenza per anziani, adesso, serve un tampone: siamo al sicuro dai focolai nelle strutture sanitarie, il vero male della prima ondata. La macchina è pronta per la risposta. E, soprattutto, la popolazione colpita dal virus è cambiata. I nuovi positivi sono più giovani, meno fragili, meno inclini a sviluppare sintomi gravi. Certo, bisogna evitare che i nipoti contagino i nonni. E qui torniamo alle precauzioni di cui parlavo. Ma in tutta onestà faccio fatica a immaginare il ritorno di un’epidemia incontrollata.

Contagi “di ritorno” da Grecia, Croazia, Malta e Spagna. I test rapidi in porti e aeroporti non ci sono ancora, o quasi.

Proprio oggi (ieri, ndr) siamo partiti con le prime postazioni all’aeroporto di Fiumicino. L’ordinanza che prevede i test è in vigore da giovedì, serviva qualche giorno per mettere a punto il sistema. Contiamo di coprire il prima possibile tutti i maggiori scali del Paese. Si tratta di una vera svolta, che avevo auspicato da molto tempo. Con i test rapidi evitiamo di imporre la quarantena a migliaia di cittadini. Spero che sarà la strategia comune a livello europeo.

E chi non può fare il test in aeroporto?

Deve contattare l’Asl di riferimento e verrà sottoposto a tampone drive-through o a domicilio. L’obiettivo è fare il test entro 48 ore dall’arrivo e avere l’esito nelle 24 ore successive, in modo da ridurre al minimo l’isolamento. So che in alcune Regioni i tempi sono più lunghi, ad esempio in Liguria. Ma nel complesso la macchina sta reggendo bene. Dipenderà anche da quante persone rientreranno, e come saranno distribuite nel tempo.

Si richiude: ferme tutte le discoteche, la mascherina sarà obbligatoria di sera

Da oggi al 7 settembre ri-chiudono le discoteche e, contemporaneamente, ci sarà una stretta su regole e controlli: la mascherina, ad esempio, andrà messa sempre nei locali e nei luoghi pubblici affollati dopo le 18. Una decisione che, in realtà, riguarda circa il 10% dei locali da ballo – in pochi hanno riaperto quest’estate – ma dal grande valore simbolico: dalla prima riapertura del 4 maggio è la prima volta che si torna indietro. Contemporaneamente, nei prossimi giorni dovrebbero aumentare i controlli delle forze dell’ordine sui comportamenti dei singoli cittadini e dei gestori dei locali: insomma, tornano multe e chiusure.

La decisione di chiudere è stata presa ieri pomeriggio in un incontro tra il governo e le Regioni e sostanzialmente imposta a queste ultime, che in alcuni casi (Puglia, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo) tentavano di salvare almeno un pezzo della stagione turistica – magari limitando ancora il numero degli ingressi – in un comparto già devastato dalle conseguenze della pandemia di Covid.

Il premier Giuseppe Conte e i ministri Speranza (Salute) e Boccia (Affari regionali) hanno però fatto presente ai governatori che il Dpcm del 7 agosto in proposito è abbastanza chiaro: “Restano sospese le attività che abbiano luogo in sale da ballo e discoteche e locali assimilati, all’aperto o al chiuso”. Seguendo la ratio della norma, insomma, un conto è un bar all’aperto con la musica o un concerto in cui si rispettano le distanze, altro quel che succede in molte località marine in cui il blocco alle serate in discoteca è stato di fatto aggirato coi “concerti” di dj e performer (Elettra Lamborghini, ad esempio, ha deciso di cancellare alcune serate già programmate dopo gli assembramenti nei suoi live in Salento).

I contagi stanno salendo – è la posizione dell’esecutivo – soprattutto grazie ai più giovani: siccome gli appelli non bastano e quel che accade sui litorali è pericoloso, si procede a far chiudere i locali più a rischio di trasmettere il virus e si torna a norme più stringenti, ancorché – va notato – di incerta e quasi impossibile applicazione. Basti citare l’obbligo di mascherina dopo le sei di sera, “anche all’aperto, negli spazi di pertinenza dei luoghi e locali aperti al pubblico nonché negli spazi pubblici (piazze, slarghi, vie) ove per le caratteristiche fisiche sia più agevole il formarsi di assembramenti”. Al di là del “messaggio” che si tenta di mandare agli italiani col ritorno alle chiusure, il peso maggiore di questa nuova fase ricadrà sul Viminale, che non è del tutto compatto sul punto: giovedì, mentre la ministra Luciana Lamorgese prometteva “controlli serrati”, il capo della polizia Franco Gabrielli diceva che “non ha senso militarizzare la movida”.

Ovviamente le aziende del settore – che nel 2019 produceva 4 miliardi di fatturato – non l’hanno presa bene. Questo è Maurizio Pasca, presidente dell’associazione Silb (che probabilmente farà ricorso al Tar): “Il 72% delle discoteche sono già chiuse da febbraio e probabilmente non riapriranno mai più. Sono 7 mesi che non lavorano e 50mila persone sono a spasso. Noi siamo impegnati ogni giorno per far rispettare l’ordinanza sul distanziamento e l’uso delle mascherine, ma se dobbiamo chiudere noi, allora dovrebbero chiudere anche gli stabilimenti balneari e alcuni bar e ristoranti”. Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente pugliese Michele Emiliano, il più contrario nella riunione di ieri alla decisione del governo: “È bene che sappiate che provocherà danni economici rilevantissimi”.

Per sedare i malumori, Conte e soci hanno promesso contributi diretti a fondo perduto da inserire con un emendamento nel decreto Agosto appena pubblicato: “Il danno sarà grosso, ma non vedo alternative”, è il parere del ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. Quanto al collega della Salute Speranza – “chiusurista” della prima ora – ritiene che il numero dei contagi giustifichi la scelta del governo: “Non possiamo vanificare i sacrifici fatti: la nostra priorità deve essere riaprire le scuole a settembre in piena sicurezza”.

Ma mi faccia il piacere

Oscuri presagi. “Nonostante Covid19 ci abbia consegnato un tempo di sofferenza, dobbiamo continuare con determinazione e fiducia a credere nella vita. E a batterci ogni giorno perché ognuno possa guardare al suo futuro con la speranza di farcela. Buon ferragosto a tutti!” (Piero Fassino, deputato Pd, Twitter, 15.8). Qui mi sa che si mette male.

Double face. “Pentito io? Per nulla. Con il mio post non mi sono autodenunciato: ci ho proprio messo la faccia” (Franco Mattiussi, consigliere regionale FI in Friuli e percettore del bonus povertà, 12.8). “Ora pretenderò che si vada fino in fondo. Su una serie di altre questioni morali, anche perché qui non è stato fatto nulla di illegittimo, tutto a norma di legge. Un decreto scritto palesemente male, vuoi per la fretta giustificabile, ma anche per l’incapacità di alcuni soggetti. Sono pronto ad assumermi le mie responsabilità e a metterci la faccia” (Marco Rizzone, deputato M5S, percettore del bonus-povertà, 14.8). Sicuri che fosse proprio la faccia?

Dara e avere. “La Lega sospende Murelli e Dara: ‘Hanno preso il bonus partite Iva’” (La Stampa, 13.8). Mica erano 49 milioni, sennò li promuovevano.

En plein. “Resurrezione di Salvini: ‘Così torno a vincere. Non sbagliai a lasciare il governo. Nel 2021 si voterà. Premier bugiardo, deve dimettersi. Se il virus riparte è colpa di Conte. Felice se Giorgia Meloni sale nei consensi’” (Libero, 10.8). Altre cazzate?

Testa o croce. “Le mie brevi vacanze si sono interrotte bruscamente. Oggi durante una partita di paddle tra amici ho colpito violentemente la testa contro un’inferriata metallica. Nessun problema neurologico, però mi hanno dovuto dare 30 punti per due profonde ferite al capo. Devo ringraziare il 118 di Santa Margherita per l’efficienza e i medici e gli infermieri del PS di Lavagna per la professionalità e la disponibilità. Ora sono rientrato a Milano e rimarrò ricoverato un paio di giorni in osservazione, speriamo senza problemi e conseguenze” (Giulio Gallera, FI; assessore al Welfare e alla Sanità della Regione Lombardia, Facebook, 16.8). Mille auguri all’assessore Gallera, anche per la sensazionale scoperta di avere una testa.

Meritocrazia. “Il caso Raggi dimostra come il merito in quel partito non conti nulla” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 12.8). Nemmeno un’igienista dentale o una escort o un pregiudicato in lista: vergogna.

Onestà omeopatica. “Noi eravamo onestissimi, questi sono zero” (Paolo Cirino Pomicino, ex ministro andreottiano della Dc, due volte condannato in via definitiva per Tangentopoli, Il Venerdì di Repubblica, 14.8). Non rubano abbastanza.

La parola agli esperti. “I nuovi contagiati sono 574. Mai così tanti dal 28 maggio” (Corriere della sera, 15.8). “Il virus è sotto controllo, l’allarmismo meno” (La Verità, 15.8). A me La Verità piace proprio perchè si chiama La Verità.

Chissà perchè. “Conte dovrebbe essere arrestato… È curioso che quando indagano me si va a processo e indagano il governatore della Lombardia per una donazione di camici, mentre per Conte e il governo è un atto dovuto e viene subito archiviato” (Matteo Salvini, segretario Lega, 13.8). Fatti denunciare anche tu dal Codacons e dall’avvocato Taormina, così magari archiviano anche te.
Senti chi pirla. “L’ignoranza dell’esecutivo in 20 pagine di rapporto” (Libero, 14.8). “Chi di giudici ferisce, di giudici perisce” (Vittorio Feltri, Libero, 14.8). La virgola fra il soggetto e il verbo: e danno degli ignoranti agli altri.

Ohibò. “Zingaretti: sulla legge elettorale adesso dovrà intervenire Conte” (La Stampa, 13.8).Ma non era il Pd a dire che le leggi elettorali non le fanno i governi a colpi di maggioranza?

Bravo Merlo. “Forza Italia è meglio dei 5Stelle… A me piacerebbe non vergognarmi dei ministri del mio Paese, come mi succede con i Cinque Stelle… Per me i Cinque Stelle non sono una forza democratica… Se immaginiamo un nuovo governo, con un nuovo presidente del Consiglio scelto dal Parlamento, probabilmente all’interno di Forza Italia si potrebbero trovare delle persone più degne per dare una mano… In Forza Italia militano tante persone perbene… Brunetta non è un incompetente… può diventare una risorsa: certamente è una delle personalità di Forza Italia che si possono utilizzare… Sulla pandemia Conte è stato un disastro” (Francesco Merlo, editorialista di Repubblica, a Tpi, 28.7). Salvini, è lei?

Il titolo della settimana/1. “Juventus, una sorpresa coraggiosa. Agnelli consegna la panchina a Pirlo” (La Stampa, 8.8). A questo punto sorge un dubbio atroce: che sia la Juventus sia La Stampa abbiano qualcosa a che fare con la famiglia Agnelli.

Il titolo della settimana/2. “La svolta di Agnelli. Nasce un’altra Juve ai piedi di Pirlo, scelto per le idee e per il legame con il club” (la Repubblica, 8.8). Oddìo no: mica sarà passata agli Agnelli pure la Repubblica?

“In barca ci va l’influencer: Ulisse ora visiterebbe Forlì”

Avventura, esplorazione, ricerca dell’ignoto, ma anche desiderio di fuga e speranza che diventano fonti d’ispirazione e azione. Simbolo della IV edizione dell’Ulisse Fest. Il viaggio che faremo (www.ulissefest.it) – dal 28 al 30 agosto a Rimini tra la centralissima piazza Cavour, cuore della città, e il palcoscenico del Teatro Galli – il festival del viaggio di Lonely Planet organizzato da Edt editore che da 30 anni pubblica le famose guide, è Ulisse, viaggiatore per eccellenza.

“Ci voleva il lockdown per ritrovare il re dei viaggiatori protagonista della nostra estate”, esclama Angelo Pittro, direttore Lonely Planet. Chissà quale meta sceglierebbe Ulisse per le sue vacanze! Ibiza, Porto Cervo, Forte dei Marmi a bordo di uno yacht come tutti gli influencer che affollano Instagram? Un bivacco di montagna in solitaria o un dammuso a Pantelleria? “Lo troveremmo libero e curioso in quell’Italia che solo l’insolenza degli aggettivi può definire minore!”, incalza Pittro. “Potremmo incrociarlo tra una mostra colossale e imperdibile a Forlì (Ulisse. L’arte e il Mito presso i Musei di San Domenico, nda) e il Colle del Gran San Bernardo, dove parte la nostra via Francigena. A piedi tra i borghi delle Langhe, a Neive o Barolo, o in bici alla Gola del Furlo, strabiliante canyon nelle Marche. Cenerebbe in Irpinia, osservando la gente del posto giocare a bocce, volerebbe sulle Dolomiti della Basilicata e si fermerebbe in Sicilia, a Gibellina, calpestando quel monumento alla calamità naturale che è il Cretto di Burri”, 80 mila metri quadri di cemento bianco e detriti che raccontano la storia di una città scomparsa per il terremoto del ’68.

E se qualcuno gli chiedesse la sua prossima tappa? Ulisse, che a Polifemo disse di chiamarsi Nessuno, risponderebbe “non lo so”. “Nessuno oggi”, prosegue Pittro, “conosce il viaggio che faremo. Per questo abbiamo la chance di liberarci dalla banalità del turismo, dalla galera dell’esotico preconfezionato: sempre in posti diversi ma sempre più superficiali”. Tra gli appuntamenti: Sergio Rubini a ricordare Federico Fellini, Paolo Fresu che con Daniele Di Bonaventura intraprenderà un viaggio musicale nel Mediterraneo, Sandro Veronesi (Premio Strega con Il colibrì) e un’anteprima nella sezione cinema con Nomad. In the footsteps of Bruce Chatwin, documentario di Herzog sullo scrittore viaggiatore.

Suor Battaglia odia i lilium e le adultere: glielo dicono le voci

La prima volta che sentii la parola adultera avevo otto anni e a chiamarmi così fu una suora. L’avevano soprannominata suor Battaglia: si arrabbiava per tutto, litigava con le signore che pulivano la chiesa perché i lilium scelti per l’altare erano “volgari”, o perché l’odore del disinfettante era forte, “e poi all’eucarestia il don mi starnutisce”. La mandavano in bestia i nostri schiamazzi nel cortile dell’oratorio, le famiglie che di domenica tardavano alla messa delle 11, i vecchi che sbadigliavano sulle panche, i ragazzini che invece di confessarsi passavano il sabato pomeriggio in discoteca, le donne che uscivano prima della benedizione per sbrigarsi ad apparecchiare. In lei vibrava la passione fino a traboccare; forse per questo perdeva di continuo la pazienza e nel vederla arrivare le beghine sbuffavano, torcendo lo straccio neanche fosse il suo collo. Soprattutto, suor Battaglia s’infuriava se qualcuno di noi era assente al catechismo.

“Adultera”, mi gridò dall’altra parte della strada, vedendomi rincorrere un’amica un’ora dopo esser mancata alla sua lezione. Una volta a casa, domandai a mia madre cosa significasse quella parola. Lei me lo spiegò perplessa, ma io pensai che suor Battaglia avesse ragione: d’altronde, preferendo il parchetto, avevo tradito Gesù.

Quando mi ripresentai al catechismo, la suora mi chiese: “Rina, tu uccideresti il Papa?”. I miei compagni tenevano tutti la testa china. “No”, biascicai. “E allora perché mercoledì scorso hai ucciso Gesù?”.

Chiunque sapeva che Gesù era morto duemila anni prima, io non c’entravo niente, anzi per Lui avevo addirittura un debole. Se lei non ci credeva, risposi, poteva domandarglielo, dato che, a quanto diceva, erano sempre in contatto. I miei compagni si diedero di gomito pensando di non essere visti o si tappavano la bocca per soffocare risolini. La suora intimò loro di star zitti e da quel momento smise di parlarmi. Anche se il don mi sceglieva per leggere il salmo, o se cantavo Guarda questa offerta senza mai stonare, mentre passavo a raccogliere le monetine col cesto, lei non mi diceva mai “brava Rina”, né “la prossima volta, Rina, fallo meglio”, non si occupava più di me.

Era stato Gesù in persona a chiamarla, l’aveva raccontato l’anno prima, e io avevo visto il suo volto romboidale accendersi, gli occhi un po’ convessi e dalle ciglia rade farsi lucidi, le guance imporporarsi: avevo temuto che andasse a fuoco da un momento all’altro, come la terra davanti a Mosè. Le avevo chiesto se avesse pianto; stizzita, aveva risposto che era stata felice. A parte che si può piangere anche di gioia, pensai, ma io mi sarei spaventata a morte, a sentire le voci, pure se a chiamarmi fosse stato Gesù. Di notte mi ritornava in mente e smarrivo il sonno: se Lui mi avesse voluta, come avrei fatto a indossare le maniche lunghe e il velo persino d’estate?

L’ultimo giorno di catechismo prima delle vacanze, suor Battaglia e alcune educatrici ci portarono in un agriturismo alla fine del paese. Ero curiosa di scoprire che costume usassero le monache, e se i loro corpi somigliassero a quelli delle altre donne, al corpo che presto avrei avuto anch’io. Nel suo mondo c’era una crudeltà da fiaba: omicidi, tradimenti, voci emerse dal nulla – per questo non mi sarei stupita se, al posto di un paio di gambe lisce come quelle di mia madre, suor Battaglia avesse avuto caviglie bitorzolute come radici, pelle a scaglie di pesce o una pelliccia soffice che nessuno accarezzava, nemmeno nelle notti di luna piena in cui al suo orecchio ululava Gesù.

Arrivati, adocchiammo subito la piscina: non era profonda, ma io avevo paura di tuffarmi. Ci spogliammo tutti tranne lei, che non aveva neppure sostituito con i sandali i mocassini sformati dall’alluce valgo. Le colavano rivoli di sudore dalla fronte, li tergeva con un fazzoletto di stoffa, che sventolava per farsi aria. “Niente bagno?” le chiesi: non rispose. Avrei voluto sedermi accanto a lei, fingermi tanto devota da fare un fioretto, per evitare la vergogna di non volermi tuffare. Ma continuava a disdegnarmi.

Così restavo sola e impalata a bordo piscina, mentre gli altri si gettavano, ridevano, mi schizzavano. Finché non avvertii uno strappo alla schiena e lo schianto dell’acqua in faccia, nel naso, in gola. Riemersi col petto che ansimava fischiando, sarei morta soffocata. Poi mi sentii serrare il costato, trascinare fuori, e finalmente respirai.

Ci ritrovammo fradice nel bagno delle femmine, lei con il velo storto sulla testa e ciocche di capelli appiccicate alla fronte, io incredula di essere viva. Non si tolse l’abito, tirò un po’ su la gonna per strizzarla. L’acqua gocciolava sui piedi nudi, i mocassini erano stati messi ad asciugare. Vidi le sue caviglie pallide, qualche vena in rilievo sui malleoli. Aveva inveito contro i miei compagni, a quelli che mi avevano spinta aveva promesso un castigo. Io l’avevo ringraziata per avermi salvato e lei mi aveva suggerito di ringraziare Gesù, ma con un sorriso. Dev’essere stato quel sorriso insperato, o la confidenza di averla stretta addosso pochi minuti prima, come una madre, o solo la curiosità. Quasi senza rendermene conto, le sollevai la veste, ansiosa di scovare il segreto di quel suo istinto guerriero: muscoli da fiera, arti magici.

Aveva gambe secche, dritte come pali, simili alle mie. Fu quasi deludente appurarla umana.

Si girò di scatto e mi assestò uno schiaffo in faccia che, al ricordo, mi brucia ancora. Aspettai che mi chiamasse con un vocabolo che non avevo mai udito, invece non disse nulla e uscì scalza dal bagno, lasciandomi senza nemmeno una parola nuova: fu per questo che a mamma non dissi nulla, mi sentivo troppo sciocca.

Suor Battaglia non mi parlò per qualche settimana, poi ricominciò. Nel tempo mi insegnò blasfema, egotica, proterva. Certi termini mia madre li ignorava, mi toccava cercarli sul dizionario. Di notte continuavo a girarmi nel letto con la paura di sentire le voci, com’era accaduto alla suora. Poi un giorno fu trasferita in un’altra parrocchia e da allora non ci pensai più.