Illusioni perdute di Balzac in Sardegna: “È già Africa”

Nell’aprile 1838 il quarantenne Honoré de Balzac era convinto di aver trovato in Sardegna l’Eldorado: qualche mese prima un mercante conosciuto al Lazzaretto di Genova, tal Giuseppe Pezzi, gli aveva rivelato che mucchi di scorie metalliche giacevano abbandonati presso le miniere già note ai Fenici, ai Romani e agli Arabi; e lui – Balzac – pensava di poter spremere ben bene quei residui grazie alle arti di un suo amico chimico parigino.

Dopo un viaggio costoso, disagevole (mare grosso al punto di far naufragare la nave successiva) e coronato da due quarantene ad Ajaccio e Alghero causa colera, Balzac si precipita verso l’Argentiera, baia della Nurra “nella parte più selvaggia dell’isola” (affascinerà Joseph Losey che nel 1968 vi dirigerà Liz Taylor e Richard Burton nell’estenuante La scogliera dei desideri, ma anche Marco Ferreri che undici anni dopo proprio su questa riva farà suonare la fisarmonica a un grande Roberto Benigni in Chiedo asilo). Ma prima ancora di ispezionare il giacimento, lo scrittore viene a scoprire che il Pezzi l’ha preceduto accaparrandosi il diritto di sfruttarlo. Amareggiato, discende la Sardegna verso Cagliari, trovando una terra desolata, brulla e paludosa, popolata di uomini nudi e selvaggi, piagata da una “profonda e incurabile miseria”: “L’Africa comincia qui!” esclama nelle lettere inviate all’amata contessa polacca Ewelina Hanska, sua futura moglie.

In effetti, come nota Stefan Zweig nella sua biografia, Balzac si era certo mosso in ritardo, ma aveva visto giusto: di lì a trent’anni “la Società delle Miniere Sarde incasserà in contanti i milioni che lui ha veduti soltanto in sogno”. I fasti di quella miniera, ricca di zinco, piombo e argento, dureranno dal 1867 per circa un secolo, tra alti e bassi, visite di Quintino Sella e normalizzazione fascista, ripetuti cambi di proprietà e aperture di nuovi pozzi, paternalismo padronale e lotte operaie. Ciò che più importa, nella baia affacciata sul Mediterraneo nascerà a partire dai primi del 900 una vera e propria cittadina industriale (quasi duemila abitanti, nei tempi d’oro), un microcosmo isolato in cui i minatori e le loro famiglie trovano tutto: spaccio, asilo, infermeria, cinema, posta, e anche la chiesa di Santa Barbara. Oggi questi edifici si ergono, per lo più fatiscenti, a muta memoria del passato: nel 1963 l’esaurimento dei filoni portò alla chiusura definitiva della miniera e a un parziale spopolamento.

Sospesa tra natura e modernità, a metà strada tra Capo Caccia e le spiagge di Stintino, tra la razionalistica Fertilia che pare una Eur in riva al mare e l’alta ciminiera petrolchimica di Porto Torres, Argentiera è oggi un borgo di 70 abitanti, dominato da ciò che resta delle officine e dei dopolavoro, dei silos e delle gallerie, e ancora tagliato dai binari dei carrelli che instradavano il minerale pregiato alle barche ancorate in rada (di lì a Porto Conte, dove saliva sui piroscafi per le fonderie del Nord Europa). Deboli le vestigia di quel “senso di appartenenza alla borgata” (S. Ruju) che cementava la comunità, e pochi ormai i minatori anche nel cimiterino a picco sul mare, denso di tombe più recenti (ma sopravvive intatta quella arcifascista dei fratelli Balzano, stroncati nel 1942 in queste acque dalla “vigliaccheria nemica”).

Per la suggestione del paesaggio e l’imponenza del complesso architettonico, Argentiera era il luogo ideale per un’iniziativa non solo museale. Dopo decenni d’incuria, furti, atti vandalici, dal 2017, a valle di una lenta opera di recupero, le ardite strutture di legno e muratura sono nuovamente visitabili (tour guidati ogni mezz’ora: l’ultimo alle 16; e il pozzo Podestà è inagibile), a cominciare proprio dalla laveria del piano terra, dove migliaia di mani e martelli si sono avvicendate nella pulitura dei minerali usciti da quei laboriosi trattamenti (sminuzzamenti, vagli, reagenti) che Balzac s’illudeva di poter abbreviare con un magheggio della chimica.

Di più: grazie a un accordo tra Comune e Università di Sassari, Parco geominerario della Sardegna e altri, l’associazione Landworks ha insediato ad Argentiera un progetto di rigenerazione urbana volto a preservare la memoria (pannelli esplicativi, foto d’epoca) ma anche a ridar vita ai luoghi tramite interventi in situ, sperimentazioni artistiche, e l’ausilio della realtà aumentata. Un bellissimo sito (landworks.site) dà conto di un engagement non episodico, fatto di ristrutturazione, riqualificazione urbanistica, performance, landscape school internazionali: una strada stretta ma forse l’unica per preservare l’identità di questo luogo e reinventarla per trasmetterla ai tempi nuovi.

E a proposito di identità: il primo a riscoprire il giacimento di Argentiera fu nel 1829 l’ingegnere del Regno Francesco Mameli (1797-1847), già testa calda nei moti liberali del ’21: di lì a pochi anni, in Liguria, suo nipote Goffredo avrebbe composto l’inno nazionale.

Bibi “il mago” e la sua tregua-farsa

Con un colpo di scena, nei quali lui è maestro, Benjamin Netanyahu ha allontanato quell’onda che rischiava di sommergerlo. Nessuno del suo governo era al corrente di quanto stava accadendo sulla linea Gerusalemme-Abu Dhabi. L’intesa raggiunta con gli Emirati Arabi Uniti per l’avvio di relazioni commerciali e diplomatiche con il supporto della Casa Bianca, proietta Israele in un spazio nuovo.

I termini però sono ancora un po’ sfilacciati. Per gli Eau l’intesa “toglie dal tavolo” l’annessione – annunciata e di fatto mai davvero implementata – di parte della Cisgiordania, per Netanyahu è invece “congelata” a data da destinarsi. E non è una sottile differenza. Ci vorranno settimane, mesi, per mettere a punto i dettagli di quest’accordo, che nello storytelling dei supporter di Bibi lo proietta nella Storia come Menachem Begin (che firmò la pace con l’Egitto, 1979) e Yitzhak Rabin (che siglò la pace con la Giordania, 1994).

Ancora una volta Bibi “The magician” ha estratto dal cappello un coniglio al momento giusto, dimostrando di essere davvero l’unico leader in Israele mentre gli altri sono solo capi politici.

Il “dialogo” sotterraneo con gli Eau guidati dal principe ereditario Mohamed Bin Zayed va avanti da anni. È molto apprezzato l’hi-tech che Israele ha venduto a Abu Dhabi, specie quello utilizzabile contro il terrorismo e che invece è usato dal regime autocratico per reprimere gli oppositori.

Un “dialogo” portato avanti dal Mossad che per Netanyahu agisce al posto del Ministero degli Esteri. Sarà infatti il suo direttore Yossi Cohen a guidare i prossimi colloqui nell’Emirato.

Ai palestinesi resta la rabbia. Abbandonati da tempo dai ricchi emirati del Golfo e ora anche dall’Egitto, resta solo la sponda di Iran e Turchia. Ma è come se un naufrago chiedesse aiuto a un pescecane.

È un’intesa che non dà pace E la Palestina resta un sogno

A tutti coloro che esultano per le relazioni diplomatiche instaurate fra Israele ed Emirati Arabi Uniti – per quanto ogni trattato di pace vada salutato con favore – consiglio prudenza. E, tanto per cominciare, raccomando la lettura del resoconto di viaggio Dubai, l’ultima utopia di Emanuele Felice, pubblicato da Il Mulino. Le metropoli di cristallo sorte in pochi anni in una delle regioni più inospitali del pianeta, detentrici dei record d’inquinamento e di voracità energivora oltre che del riciclo dei capitali, sono creature inquietanti, anticipatrici di una nuova tendenza capitalistica: fare a meno della democrazia pur di consolidare la supremazia finanziaria. Conculcando le regole liberali e riservandole (peraltro con molti limiti) alla ristretta minoranza dei nationals che vivono sulle spalle di milioni di immigrati ridotti in uno stato servile. Si obietterà che in Medio Oriente non si può andare tanto per il sottile. Gli Stati arabi con cui Israele intrattiene già da tempo relazioni diplomatiche, l’Egitto e la Giordania, non sono certo esempi di democrazia. Né i palestinesi possono far troppo conto sulla Turchia di Erdogan che ieri protestava in loro nome fingendo di dimenticare che la sua bandiera sventola sul lungomare di Tel Aviv, dove ha sede la sua ambasciata. Neanche l’oscurantismo di matrice wahabita delle petromonarchie con cui da tempo Israele ha stretto un’alleanza informale, Arabia Saudita compresa, costituisce di per sé un problema insormontabile. In Medio Oriente i nemici dei miei nemici sono comunque miei amici, e la millenaria potenza imperiale persiana, incarnata oggi dal regime iraniano degli ayatollah, viene percepita da quei regni giovani e precari come minaccia principale. È una contesa geopolitica e religiosa che già insanguina l’Iraq e la Siria, e mette a repentaglio la sorte del Libano. Proprio questo è il punto critico, o meglio l’azzardo che rende precaria la scelta strategica di Trump e Netanyahu: puntare tutto sull’asse dell’islam sunnita nella sua guerra mortale con Teheran, capitale dell’espansionismo dell’islam “eretico” di matrice sciita.

Recuperare la stabilità dell’area, e quindi anche la sicurezza di Israele, puntando tutte le carte sulla tenuta di regimi semifeudali divenuti protagonisti del capitalismo mondiale grazie al petrolio, espone lo Stato ebraico e tutto l’occidente a una doppia fragilità: la loro potenza è letteralmente costruita sulla sabbia. Neppure il controllo del luogo più sacro dell’islam, La Mecca, le mette al riparo.

Abu Dhabi e Dubai, divenute accoglienti per gli affaristi di tutto il pianeta (e già da tempo anche per i businessmen e l’intelligence d’Israele), sono esposte più di ogni altro luogo alle incognite della recessione da Covid e al crollo degli investimenti finanziari. La loro classe dirigente è infida e litigiosa. Il pericolo che si riaccenda il conflitto con il Qatar, che condivide le riserve sottomarine di gas con l’Iran e finanzia la Fratellanza musulmana dalla Turchia alla Libia, si fa concreto.

La reazione di Teheran a questo riassetto degli equilibri regionali potrebbe rivelarsi devastante. Non è solo la questione nazionale palestinese a rimanere schiacciata da un accordo che rinvia l’annessione di parti della Cisgiordania, ma non sottrae i territori occupati al tallone di ferro israeliano.

Resta inevasa, nel futuro equilibrio mediorientale, la necessità di trovare degna soluzione alle potenze tagliate fuori da questa decisa scelta in favore dell’asse sunnita. Sottomettere l’Iran come ai tempi del colonialismo è impensabile. E non molto diverse sono le aspirazioni della Turchia neo-ottomana.

La pace dei dittatori, quand’anche combinano il loro profilo di ex pescatori di perle con la nuova veste del capitalismo illiberale, resta il contrario di una soluzione democratica. Spero di essere smentito, ma al momento sembra escludere la nascita di uno Stato palestinese e si basa esclusivamente sull’esercizio della forza militare e finanziaria. In Medio Oriente, non è mai bastata a vivere serenamente.

Machado contro machista Bolsonaro sott’accusa per le frasi omofobe

Venti milioni di reales, tre milioni di euro. Tanto valgono, in risarcimento, le dichiarazioni sessiste e omofobe del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro e quelle di tutta la sua compagnia di ministri con “abilità” discriminatorie. A stabilirlo è il procuratore di San Paolo che ha accusato formalmente l’intera amministrazione brasiliana di parole e azioni che violano apertamente i diritti di uguaglianza tra cittadini, principi che il Brasile ha scritti in Costituzione e ha sottoscritto con la Comunità internazionale nonché con le Nazioni Unite. Sembra quasi lapalissiano e certamente scontato, sì, al punto da riempire un dossier di 70 pagine che il procuratore Pedro Antonio de Oliveira Machado ha raccolto anche grazie a chi già prima di lui aveva messo nero su bianco le malefatte del presidente, come le associazioni femministe brasiliane.

Si va dalle dichiarazioni pubbliche machiste, come la nota metafora sessista-nazionalista pronunciata da Bolsonaro contro le ingerenze straniere nel Paese: “Il Brasile è come una vergine che qualunque depravato vorrebbe avere”; o quelle omofobe come “Il Brasile non può essere il paradiso del turismo gay. Chi vuole venire qui per fare sesso con una donna, è il benvenuto. Questo non può essere conosciuto come il paradiso del mondo gay”; o ancora la prova di cameratismo data all’uscita di un incontro a Ryad con il principe ereditario Mohammed bin Salman, quando, rivolto a una giornalista che gli chiedeva il perché della terza riunione in un mese con il saudita rispose: “A tutti piacerebbe passare un pomeriggio con il principe, soprattutto a voi donne, vero?”. Per arrivare alle azioni discriminatorie e lesive dei diritti portate avanti scientemente dal governo del “Messia”. Un esecutivo di 22 ministri, con due sole titolari di dicasteri donne. Eppure a detta sua “un consiglio dei ministri squilibrato”, ma poi neanche tanto, “ognuna di loro vale come 10 uomini”, si era azzardato a ironizzare il presidente durante la cerimonia istituzionale per la festa della donna dell’anno scorso. Tutto questo “in un quadro che vede il Brasile al 140° posto su 190 paesi nella classifica di rappresentanza femminile al Congresso e all’ultimo tra i paesi dell’America Latina”.

Risultato: “i messaggi, i discorsi e le dichiarazioni dei pubblici ufficiali di carattere discriminatorio rispetto alle donne hanno conseguenze nocive sul resto della società e sono causa di danni che vanno oltre l’individualità, ma riguardano l’intera collettività”, scrive Machado nella denuncia. E neanche si può affermare, secondo il procuratore “che queste persone non siano coscienti del danno che provocano e della rilevanza delle proprie azioni e dichiarazioni pubbliche”, tanto che “ogni loro messaggio, in realtà viene utilizzato per trasmettere concetti intellettuali, esprimere opinioni atte a incentivare o disincentivare alcuni comportamenti in coloro che li ascoltano”. E il plurale è d’obbligo, visto che l’accusa non riguarda solo il presidente Bolsonaro, ma anche i suoi ministri, come quello della Giustizia, Sergio Moro, di cui è nota la battuta: “Oggi basta che guardi una donna e già è tentativo di stupro” o quello della Salute, Eduardo Pazuello.

Quest’ultimo – accusa Machado – a giugno ha licenziato due dipendenti per aver firmato una nota tecnica sul servizio sanitario alle donne durante la pandemia. Nel documento si raccomandava l’orientamento e l’accesso a metodi anticoncezionali, si parlava di cercare di ridurre le maternità non desiderate e si faceva riferimento alla violenza contro le donne. Secondo il presidente queste linee guida costituivano di fatto una legalizzazione dell’aborto e per questo reagì accusando i redattori della nota di voler cambiare la legge sull’interruzione di gravidanza. “Per quanto mi riguarda, non ci saranno aborti”, fu la reazione di Bolsonaro.

“C’è bisogno che qualcuno chiarisca che ciò che fa e dice Bolsonaro contro le donne brasiliane non è normale”, scrive Machado. “Va contro tutti i diritti acquisiti finora”. Da qui la richiesta di “destinare immediatamente per lo meno un milione e mezzo di euro del bilancio statale in pubblicità progresso sull’uguaglianza e per dare visibilità alla vulnerabilità delle donne in Brasile, il tutto per una durata minima di un anno”. In più il procuratore chiede che lo Stato sia condannato a pagare 500 mila euro alla Fondazione per i diritti universali, come “indennizzo per i danni sociali e morali collettivi” causati.

Quanto all’esito dell’accusa, non è facile da prevedere, ma i precedenti giocano a favore del procuratore di San Paolo, visto che Jair Bolsonaro è già stato condannato da deputato nel 2014 dal Tribunale Supremo, per aver offeso la collega, Maria do Rosário, del Partido de los Trabajadores (Pt), dicendole che “era troppo brutta per essere violentata”. Ma lo stesso Tribunale, nel 2018 lo aveva assolto poi per dichiarazioni simili in campagna elettorale. L’obiettivo di Machado è più alto: dimostrare una volta per tutte che “il pensiero conservatore che cerca di abbattere l’uguaglianza di genere e questo tipo di dichiarazioni hanno conseguenze. Eccome se ne hanno”.

I parassiti millenarie Virginia Raggi

Sul Giornale del 12 agosto il direttore Alessandro Sallusti così descrive Virginia Raggi: “La signora è stata il peggior sindaco della storia romana, monumento perenne all’incapacità. La città non è mai stata così conciata da tutti i punti di vista: sporcizia e incuria sono temi all’ordine del giorno, la gestione del trasporto pubblico una barzelletta…”. Un giudizio apodittico, senza appello. Del resto quando si tratta di “grillini” la loro incapacità è data per scontata, ma nel caso di Raggi c’è un accanimento particolare.

Io invece stimo Virginia Raggi. Ammiro la tenuta nervosa di questa giovane e bella donna che da quando è sindaco di Roma ha dovuto tener testa a un volume incredibile di attacchi portati da ogni settore del circuito mediatico e politico (è questo il vero “plotone di esecuzione”, mister Berlusconi). Non aveva fatto ancora in tempo a mettere piede in Campidoglio che il Corriere della Sera, non la Gazzetta di Peretola, inaugurava su due pagine una rubrica intitolata “Caos Roma”. Il Corriere e tutti gli altri media nazionali scoprivano le strade dissestate di Roma, come se non ci fossero mai state prima, i topi di Roma, i ragni di Roma, le ragnatele di Roma, i maiali di Roma, gli ippopotami di Roma e, per non farsi mancar nulla, anche animali fiabeschi come l’ippogrifo e l’ircocervo. Se Raggi si affacciava sulla terrazza del Campidoglio con un collaboratore le veniva subito appioppato come amante. A questa insaziabile ninfomane ne sono stati attribuiti una dozzina e su Libero Vittorio Feltri, il campione olimpionico della volgarità, ha titolato “La patata bollente”. Nell’estate del 2017 Roma è stata colpita da un periodo di grave siccità per cui l’acqua faticava ad arrivare ai rubinetti. Di chi la colpa? Naturalmente di Virginia Raggi. Per cui si è dovuto cambiare il celebre motto “piove governo ladro” in “non piove governo ladro”. È seguito un periodo alluvionale che ha allagato qualche quartiere periferico di Roma. Di chi la colpa? Di Virginia Raggi naturalmente. A Milano periodicamente straripa il Seveso, un fiumiciattolo insignificante che oltretutto scorre in pianura ed è quindi facilmente contenibile a differenza di un torrente che vien giù dalle montagne alle spalle di Genova, si allaga mezza città ma nessuno si sogna di darne la responsabilità al sindaco Sala.

Roma è una città clientelare e parassitaria dall’epoca della Repubblica e dell’Impero romani. La “plebs frumentaria” non lavorava e si manteneva con gli aiuti dello Stato, cioè grano come dice il nome stesso. Questi fais neant, non avendo appunto niente da fare, erano causa di continue risse e tumulti. Non tutti però gli appartenenti alla “plebs frumentaria” erano volutamente dei fannulloni. Non tutti infatti erano romani, per una certa parte si trattava di contadini e piccoli proprietari provenienti dall’Etruria che erano stati spossessati dei loro terreni dai latifondi senatoriali.

Il primo a porsi seriamente il problema fu Catilina, il quale fece approntare dal tribuno Servilio Rullo una legge, la “legge agraria”, che se approvata avrebbe consentito di tagliare le unghie ai latifondisti e restituire una parte dei terreni ai vecchi proprietari. In questa occasione Cicerone, con l’orazione De lege agraria si superò ammonendo la plebe che se si spostava da Roma non avrebbe più potuto vendere la cartella, cioè il loro voto. Il programma catilinario era esplosivo e questo grande aristocratico romano, difensore degli “umiliati e offesi”, perse in battaglia la sua battaglia. Sulla linea di Catilina si metterà un secolo dopo l’imperatore Caligola. Che verrà regolarmente assassinato. Per infamarlo si è detto e anche purtroppo scritto che era un pazzo che aveva nominato senatore il suo cavallo.

Per la verità i fannulloni a Roma non erano soltanto i plebei, ma anche, e soprattutto, i senatori che volevano solo godersi le loro ricchezze e i loro latifondi e non volevano saperne di lavorare cioè, nel loro caso, di partecipare al governo della cosa pubblica. Allora Caligola disse: “Se le cose stanno così allora potrei nominare senatore anche il mio cavallo”. Che è cosa un po’ diversa. Nerone, altro infamato seriale, fu colui che, in modo meno irruente di Catilina e Caligola, cercò di portare nell’Impero un minimo di perequazione sociale e politica. Cercò in tutti i modi di associare i senatori al governo dello Stato, ma di fronte alla loro riluttanza in un discorso famoso tenuto in Senato li accusò letteralmente di assenteismo, parola molto moderna. Fu costretto a suicidarsi.

Roma è quindi da sempre una città lassista e corrotta in quasi ogni strato sociale. Come si può pensare che un sindaco, in soli cinque anni, rimonti duemila anni di Storia. Inoltre, nel frattempo, la situazione di Roma si è aggravata perché la Capitale ha assorbito, come una cozza, il peggio delle emigrazioni dal Meridione, con la loro mentalità intrinsecamente mafiosa (i meridionali che vennero al Nord all’epoca del boom era gente che aveva voglia di lavorare e che si integrò benissimo). Quando venne alla ribalta, diciamo così, il “mondo di mezzo”, i media, i soliti media, esultarono perché non risultava che fosse legato alla Mafia propriamente detta, senza rendersi conto che era molto peggio perché la Mafia è almeno una struttura organizzata, mentre il “mondo di mezzo” è liquido e dentro ci puoi trovare di tutto.

Virginia Raggi è stata accusata per alcune scelte sbagliate, ma io sfido chiunque a trovare in Roma, quando si seleziona il personale amministrativo, qualcuno di cui si possa esser certi che non ha qualche scheletro nell’armadio. Comunque Raggi è stata sempre assolta.

Raggi non ha fatto assolutamente nulla, come pretende Sallusti? Ha detto no alle Olimpiadi a Roma rendendosi conto che la città, nelle condizioni in cui è, non può reggere un simile impegno. Apriti cielo: i soliti “grillini” che, da quegli incompetenti che sono, dicono sempre niet a tutto. Ma no alle Olimpiadi lo aveva detto anche Mario Monti che di tutto si può accusare tranne che di essere un improvvisato.

Raggi ha dimezzato le cubature della speculazione edilizia che si voleva fare sui terreni dell’ex ippodromo di Tor di Valle in relazione al nuovo stadio della Roma. A Milano si vuole abbattere lo stadio di San Siro, un monumento nazionale, per consentire alle proprietà transnazionali di Inter e Milan un’enorme speculazione edilizia negli spazi adiacenti.

C’è infine una cosa che ha fatto Virginia Raggi che dovrebbe piacere persino a Sallusti. Nel novembre del 2017 il sindaco “nullafacente” guidò personalmente 500 agenti della polizia municipale per abbattere otto ville abusive appartenenti al clan dei Casamonica. Insomma ci ha messo la faccia. Sallusti, mi spiace dirlo, alle volte quando scrive ci mette solo il culo.

Il gregge è globale la sanità no

In genere l’influenza che arriva nel quarto trimestre di ogni anno, ci proviene da virus che hanno già provocato l’epidemia stagionale nell’altro emisfero. Ciò ci permette di conoscere con un certo anticipo quali saranno i virus che circoleranno. I due gruppi influenzali sono i cosiddetti “Influenza A” e “Influenza B”.

La caratteristica costante e comune è che sono virus estremamente mutevoli. Infatti, malgrado siano stati condotti numerosi studi per trovare un unico vaccino antinfluenzale, a oggi i risultati sono ancora deludenti. Dobbiamo annualmente “adattarci” a/ai virus in arrivo e preparare nuovi vaccini. Quest’anno si attendono virus H1N1, H3N2 e qualche ceppo del gruppo Influenza B. Diverse aziende propongono sul mercato questi vaccini e ne sono già pronti alla distribuzione almeno due tipi, vaccini trivalenti che contengono dei frammenti di virus dell’influenza derivati da due ceppi del virus Influenza tipo A e un ceppo del tipo B, vaccini tetravalenti contenenti anche frammenti inattivati di un secondo ceppo di tipo B.

Il principio sul quale si fonda la loro efficacia è la presenza di quelle parti del virus che sono capaci di stimolare anticorpi protettivi dall’infezione e la loro innocuità si fonda sulla quasi totale assenza di effetti collaterali, primo fra tutti, quello di provocare la malattia influenzale. Solo il 10% dei vaccinati ha un innalzamento febbrile passeggero. Malgrado ciò, non possiamo dimenticare che esiste l’annoso dilemma sugli eventuali effetti collaterali degli eccipienti.

A oggi non è chiaro l’effetto a lungo termine della presenza di elementi come il mercurio. Alcuni Paesi, per esempio, come la Svizzera, non ne consentono la presenza. Certamente il fenomeno più strano è che le composizioni e le campagne vaccinali, nonché gli obblighi in alcuni casi, siano variabili, non solo tra i diversi Paesi Ue, ma persino tra una regione e l’altra della stessa nazione.

È questo un reale controsenso. Se una volta si poteva parlare di effetto gregge (percentuale di vaccinati che, di fatto, protegge totalmente dall’infezione) a livello locale, oggi, con i movimenti e gli scambi dovuti in gran parte dalla globalizzazione, “il gregge” è mondiale e queste politiche, almeno per alcune infezioni, dovrebbero essere globali.

Sul pm Woodcock vale tutto, anche scrivere il falso su Cpl-Concordia

Ricordate quello che fu definito uno dei più grandi scandali corruttivi della storia d’Italia (Cpl Concordia)? Beh, non era uno scandalo. Non c’era corruzione, non c’era delitto, non c’era mafia”, sottotitola il Riformista a proposito dell’esito dei processi dell’ex presidente della cooperativa rossa emiliana Roberto Casari. Approfittandone per attaccare i sostituti Dda di Napoli che si occuparono di lui in due distinti fascicoli, Henry John Woodcock e Catello Maresca, la “premiata ditta di pm”.E così anche stavolta il Riformista, nel suo nobile scopo di screditare i pm e i carabinieri del Noe che scoperchiarono il caso Consip – Woodcock e il capitano Scafarto, gli stessi delle indagini su Cpl – mettendo così nei guai il loro editore Alfredo Romeo, finisce per fare coriandoli della verità processuale. Sostenere che non ci fu corruzione, infatti, fa a cazzotti con la sentenza del Tribunale di Modena, dove fu trasmesso per competenza lo stralcio delle indagini di Woodcock sulla metanizzazione di Ischia. A Modena Casari è stato condannato a 4 anni e due mesi per corruzione e reati fiscali. Condanna non definitiva, certo, ma sufficiente per considerare “azzardato” titolare “non ci fu corruzione”. Resta il conflitto di sentenze con quella di Napoli, che ha assolto i presunti corrotti ischitani. Andrà risolto in un verso o nell’altro, chissà se favorevole o no per Casari. Che è stato, sì, assolto definitivamente in un altro processo a Napoli Nord, nel quale la metanizzazione del casertano era accompagnata dal sospetto del pm Maresca di aver favorito il clan dei Casalesi. Ma pure qui dire che “non ci fu mafia” è una forzatura: sono stati condannati alcuni imprenditori garanti di un accordo con il clan. Al quale Casari, però, era estraneo.

Le “liti temerarie” che minacciano la libertà di stampa

“La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure”.

(Articolo 21, II comma della Costituzione italiana)

 

Per un movimento politico come i Cinquestelle, approdato in Parlamento sull’onda della legalità e accusato spesso di giustizialismo, rappresentano senz’altro un titolo di merito i due provvedimenti che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è riuscito a far approvare nei giorni scorsi dal Parlamento: il primo sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura contro il correntismo e l’altro contro le “porte girevoli” fra l’attività giudiziaria e quella politico-parlamentare. Dimostrano, se non altro, che il M5S non soffre un complesso di subalternità o peggio di sudditanza nei confronti dei magistrati, come qualcuno continua a ritenere. L’impossibilità di tornare a fare il magistrato, dopo aver fatto il parlamentare e il consigliere comunale o aver ricoperto incarichi di governo, ripristina almeno parzialmente quella terzietà del giudice che può rassicurare il cittadino di fronte alle legge.

Ma ora c’è in lista d’attesa un altro provvedimento proposto dai Cinquestelle che riguarda i rapporti fra giustizia e informazione. E non è meno rilevante dei primi due. Punta a regolare la delicata materia delle cosiddette “liti temerarie”, quelle che in genere intentano i colpevoli contro i giornali, pretendendo risarcimenti pecuniari spesso superiori ai danni effettivamente subiti.

L’ha presentato da tempo il senatore Primo Di Nicola, già giornalista del settimanale L’Espresso e poi collaboratore del Fatto Quotidiano, insieme ad alcuni colleghi del M5S. Era stato approvato dalla Commissione Giustizia del Senato e messo in calendario a gennaio per la ratifica definitiva ma, nonostante fosse stato raggiunto un accordo politico di maggioranza, dopo sette mesi non è ancora arrivato in aula. A quanto pare, le resistenze di Italia Viva hanno frenato l’iter parlamentare e si sospetta che all’origine ci siano le numerose vicende giudiziarie che coinvolgono l’ex premier Matteo Renzi.

Oltre al pregio non trascurabile di essere composto da un solo articolo, il disegno di legge prevede una semplice aggiunta all’articolo 96 del Codice di procedura civile. Nei casi di diffamazione a mezzo stampa, “in cui risulta la malafede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno”, il testo stabilisce che quando la domanda viene respinta dal tribunale l’attore è condannato a pagare al convenuto una somma non inferiore a un quarto di quella richiesta (in origine, si prevedeva la metà). Un sorta di deterrente, insomma, contro le liti temerarie che diventano in pratica una forma di intimidazione, di bavaglio o di censura preventiva nei confronti dei giornalisti e delle aziende editoriali: secondo i dati del ministero della Giustizia, raccolti da Ossigeno per l’informazione, nel 2015 le querele infondate sono state 5.125 (quasi il 90%) e 911 le citazioni per 45,6 milioni di euro di richieste per risarcimento danni.

C’è da augurarsi, dunque, che alla ripresa dell’attività parlamentare dopo la pausa estiva, il Senato trovi il tempo e la volontà, per non dire la decenza, di approvare definitivamente il provvedimento anche per rispettare l’articolo 21 della Costituzione in forza del quale “la stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure”. Così Italia Viva avrà l’occasione per dimostrare che il suo garantismo non è a senso unico. E non mira a difendere gli interessi del suo leader perfino contro “la malafede o la colpa grave”.

 

L’anno dei pieni poteri di Salvini: l’unico antidoto è la memoria

Pubblichiamo la prefazione al libro di Alice Oxman, “Pieni Poteri”, in libreria e in ebook per Aliberti editore

Pieni Poteri di Alice Oxman dovrebbe stare sulla scrivania di ogni giornalista che abbia rispetto dei propri lettori (sulla mia certamente). Pieni Poteri rappresenta l’antidoto efficace contro gli avvelenamenti compulsivi da fake news e post-verità. Pieni Poteri è la tragica autobiografia di una Destra sovranista e arrembante. Pieni Poteri comincia il 13 maggio 2018, con una dichiarazione del Segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, contro il nascente governo gialloverde M5S-Lega guidato da Giuseppe Conte. E si conclude il 4 settembre 2019 con la lista dei ministri del governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte.

In mezzo, il diario puntuale, martellante di quei lunghi sedici mesi, giorno dopo giorno, quasi ora dopo ora, trascritto attraverso i titoli dei giornali. Dove la semplice cronaca dei fatti, di ciò che è successo effettivamente, si oppone come barriera granitica ai due grandi nemici della realtà. L’incessante manipolazione degli eventi: in questo caso a cura del partito presto guidato da Matteo Salvini. L’occultamento della memoria che alimentato dalla centrale social del pregiudizio razzista (chiamata la Bestia di Salvini) finisce anche per dimenticare se stessa.

Con Pieni Poteri, il giornalismo dei fatti dovrà ricordare per forza ogni gesto violento, ogni parola insultante, ogni sfregio ai concetti di umanità e di democrazia seguiti all’occupazione del ministero degli Interni da parte del cosiddetto “capitano”. Così che nessuno possa dimenticare che per più di un anno, il Viminale, cuore pulsante della sicurezza della Repubblica è stato occupato, manu militari, da un ultracorpo della politica. E trasformato nella centrale operativa di un potere altro, dedito alla costante violazione dei diritti umani e costituzionali con la persecuzione implacabile degli immigrati. Una guerra aperta contro gli ultimi della terra indicati come i nuovi nemici del popolo. Respinti in mare, in quel Mediterraneo trasformato in un gigantesco cimitero di tombe senza nome. Lasciati a marcire sulle barche (perfino sulle navi della nostra Marina). A friggere sotto il sole, donne e bambini, mentre lo spirito disumano del tempo o girava lo sguardo, o approvava.

Di questo orrore continuato (e di molte altre cattive azioni) abbiamo adesso – grazie alla tenace indignazione di Alice – un minuzioso registro giornaliero. Per non dimenticare. Per non farci più ingannare.

 

Cari ministri, dove sono finite le riforme “green”?

Il commissario Paolo Gentiloni – che un bel po’ di anni fa “nacque” alla politica dirigendo Nuova Ecologia – ha lanciato l’avvertimento ai governanti italiani: mandate in Europa progetti precisi, non indicazioni vaghe. Invece, green, green! Sembra un campanello. Molto leggero, quasi lezioso. La “gamba” ambientalista di questo governo doveva essere i 5 Stelle, ma soltanto una parte (modesta) di essi lo è. Il Pd ha cambiato natura nella fusione fredda fra comunisti, socialisti e popolari. Taluni della Margherita venivano dai Verdi come Rutelli e difatti il suo Codice per il paesaggio del 2008 (con Salvatore Settis) “tiene” ancora. Se solo venisse applicato da Mibact e Regioni… Invece, appena 3 piani paesaggistici co-pianificati, da allora: Toscana dopo furibonde polemiche per porticcioli e Apuane ormai sfasciate, Puglia sia pure dopo aver inondato la Daunia di pale eoliche (lì almeno il vento c’è), il Piemonte. C’era il Piano Salvacoste della validissima squadra guidata dal compianto Eduardo Salzano per la Giunta di centrosinistra di Renato Soru: spiagge libere difese per centinaia di metri dal cemento, centri storici valorizzati nel rapporto col mare, distretti minerari trasformati in attrazioni turistico-culturali. “Normale” che la giunta di centrodestra Catenacci si accanisse a schiodarlo a martellate, anche con un referendum bocciato dai sardi. Invano. Parrà incredibile, ma ci sta riprovando la Giunta fra Sardisti e Pd e le si oppone il governo Conte!

Il Pci anni fa era diviso, ma stava più dalla parte di Fanti-Cervellati-Cederna che non da quella di Libertini-Aymonino. Non più. Come se avesse vinto su tutta la linea Matteo Renzi, spregiatore delle Soprintendenze “e de che?”. Il Pd è questo e questo si riconferma. A livello nazionale e regionale (la legge urbanistica Bonaccini è pessima). Con frange di minoranza quasi irriconoscibili. E se sollevano il capino, ci pensano Renzi, Bonaccini, lo stesso Zingaretti a castigarle. Anche con piccoli atti: che senso ha, ad esempio, riaprire la caccia alle specie protette ai margini del Parco Nazionale d’Abruzzo nel Lazio quando si sa che anche qualcuno fra i 50 preziosi Orsi marsicani superstiti potrebbe sconfinare e venire abbattuto?

Per mesi è infuriata una sacrosanta polemica sulla legge Caleo (Massimo, senatore del Pd) destinata chiaramente a svuotare ulteriormente la solida legge-quadro per le aree protette firmata da Gianluigi Ceruti e da Antonio Cederna (entrambi Italia Nostra) che in pochi anni ha avuto il merito, nel nostro Paese collinare e montuoso, di farci passare da un misero 4 per cento di territorio protetto a oltre il 10 per cento, da 4 miseri Parchi Nazionali a 23. Prima che la cura Pecoraro Scanio spegnesse il partito dei Verdi col solito metodo clientelare. Non era tanto il numero bensì la qualità dei deputati e dei senatori verdi: Scalia, Turroni, Paissan, De Finetti, Corleone, Semenzato e altri alla Camera; Manconi, Pieroni, Boato, Procacci, e altri al Senato. Un primo decisivo segnale di cambiamento in segno ecologista doveva essere il consapevole ritiro dalla discussione della insabbiata legge Caleo, la sfascia parchi. Macché. In molti la sognano e lasciano i Parchi alla deriva.

Nel ’96 (mi pare), un gruppo del Pd unì i propri voti a quelli della Lega Nord per ribaltare un assunto storico e cioè “tutti i beni culturali pubblici sono inalienabili salvo eccezioni”: tutti i beni culturali pubblici diventavano “alienabili salvo eccezioni”. Ci volle la concreta minaccia dei Verdi di non votare la fiducia al Senato per convincere l’allora ministro Melandri a parlare a favore di quel principio “storico”.

Torniamo al “green, green”. Ci sono stanziamenti certi e mirati per la difesa idrogeologica italiana? Per i Distretti di Bacino fluviali? Non mi pare. Ci sono stanziamenti mirati per un realistico piano di messa in sicurezza sismica della dorsale appenninica e delle Prealpi Friulane? Per ora non ne vedo. Ci sono stanziamenti paragonabili a quelli del governo Prodi-Veltroni del 1997 per imprimere impulso alla stentata, deludente ricostruzione umbro-marchigiana 2016? Non mi pare. E sì che il Mibact sarebbe tutto da rifare. Se lo devono rifare Franceschini, Casini (Lorenzo) e Nastasi stiamo freschi.

E dov’è la legge nazionale sul consumo di suolo che – come in Germania e Gran Bretagna – rallenti una folle corsa di asfalto+cemento? Non si sa. Ci sono leggi regionali? Certo. Nel Veneto, da anni in cima al consumo di suoli, cave, cementifici, coperture di canali, alluvioni, la legge consente di consumare nell’anno 400 ettari liberi distribuiti fra i 541 Comuni. Potete però “trattarne” una fetta o fettona in più se da voi si insedia, che so, un Polo Amazon. Con tanti saluti alla buona terra coltivabile e al verde forestale!