Nell’aprile 1838 il quarantenne Honoré de Balzac era convinto di aver trovato in Sardegna l’Eldorado: qualche mese prima un mercante conosciuto al Lazzaretto di Genova, tal Giuseppe Pezzi, gli aveva rivelato che mucchi di scorie metalliche giacevano abbandonati presso le miniere già note ai Fenici, ai Romani e agli Arabi; e lui – Balzac – pensava di poter spremere ben bene quei residui grazie alle arti di un suo amico chimico parigino.
Dopo un viaggio costoso, disagevole (mare grosso al punto di far naufragare la nave successiva) e coronato da due quarantene ad Ajaccio e Alghero causa colera, Balzac si precipita verso l’Argentiera, baia della Nurra “nella parte più selvaggia dell’isola” (affascinerà Joseph Losey che nel 1968 vi dirigerà Liz Taylor e Richard Burton nell’estenuante La scogliera dei desideri, ma anche Marco Ferreri che undici anni dopo proprio su questa riva farà suonare la fisarmonica a un grande Roberto Benigni in Chiedo asilo). Ma prima ancora di ispezionare il giacimento, lo scrittore viene a scoprire che il Pezzi l’ha preceduto accaparrandosi il diritto di sfruttarlo. Amareggiato, discende la Sardegna verso Cagliari, trovando una terra desolata, brulla e paludosa, popolata di uomini nudi e selvaggi, piagata da una “profonda e incurabile miseria”: “L’Africa comincia qui!” esclama nelle lettere inviate all’amata contessa polacca Ewelina Hanska, sua futura moglie.
In effetti, come nota Stefan Zweig nella sua biografia, Balzac si era certo mosso in ritardo, ma aveva visto giusto: di lì a trent’anni “la Società delle Miniere Sarde incasserà in contanti i milioni che lui ha veduti soltanto in sogno”. I fasti di quella miniera, ricca di zinco, piombo e argento, dureranno dal 1867 per circa un secolo, tra alti e bassi, visite di Quintino Sella e normalizzazione fascista, ripetuti cambi di proprietà e aperture di nuovi pozzi, paternalismo padronale e lotte operaie. Ciò che più importa, nella baia affacciata sul Mediterraneo nascerà a partire dai primi del 900 una vera e propria cittadina industriale (quasi duemila abitanti, nei tempi d’oro), un microcosmo isolato in cui i minatori e le loro famiglie trovano tutto: spaccio, asilo, infermeria, cinema, posta, e anche la chiesa di Santa Barbara. Oggi questi edifici si ergono, per lo più fatiscenti, a muta memoria del passato: nel 1963 l’esaurimento dei filoni portò alla chiusura definitiva della miniera e a un parziale spopolamento.
Sospesa tra natura e modernità, a metà strada tra Capo Caccia e le spiagge di Stintino, tra la razionalistica Fertilia che pare una Eur in riva al mare e l’alta ciminiera petrolchimica di Porto Torres, Argentiera è oggi un borgo di 70 abitanti, dominato da ciò che resta delle officine e dei dopolavoro, dei silos e delle gallerie, e ancora tagliato dai binari dei carrelli che instradavano il minerale pregiato alle barche ancorate in rada (di lì a Porto Conte, dove saliva sui piroscafi per le fonderie del Nord Europa). Deboli le vestigia di quel “senso di appartenenza alla borgata” (S. Ruju) che cementava la comunità, e pochi ormai i minatori anche nel cimiterino a picco sul mare, denso di tombe più recenti (ma sopravvive intatta quella arcifascista dei fratelli Balzano, stroncati nel 1942 in queste acque dalla “vigliaccheria nemica”).
Per la suggestione del paesaggio e l’imponenza del complesso architettonico, Argentiera era il luogo ideale per un’iniziativa non solo museale. Dopo decenni d’incuria, furti, atti vandalici, dal 2017, a valle di una lenta opera di recupero, le ardite strutture di legno e muratura sono nuovamente visitabili (tour guidati ogni mezz’ora: l’ultimo alle 16; e il pozzo Podestà è inagibile), a cominciare proprio dalla laveria del piano terra, dove migliaia di mani e martelli si sono avvicendate nella pulitura dei minerali usciti da quei laboriosi trattamenti (sminuzzamenti, vagli, reagenti) che Balzac s’illudeva di poter abbreviare con un magheggio della chimica.
Di più: grazie a un accordo tra Comune e Università di Sassari, Parco geominerario della Sardegna e altri, l’associazione Landworks ha insediato ad Argentiera un progetto di rigenerazione urbana volto a preservare la memoria (pannelli esplicativi, foto d’epoca) ma anche a ridar vita ai luoghi tramite interventi in situ, sperimentazioni artistiche, e l’ausilio della realtà aumentata. Un bellissimo sito (landworks.site) dà conto di un engagement non episodico, fatto di ristrutturazione, riqualificazione urbanistica, performance, landscape school internazionali: una strada stretta ma forse l’unica per preservare l’identità di questo luogo e reinventarla per trasmetterla ai tempi nuovi.
E a proposito di identità: il primo a riscoprire il giacimento di Argentiera fu nel 1829 l’ingegnere del Regno Francesco Mameli (1797-1847), già testa calda nei moti liberali del ’21: di lì a pochi anni, in Liguria, suo nipote Goffredo avrebbe composto l’inno nazionale.