Caserma Fanti, il partimonio “valorizzato” (solo per pochi)

Il segreto del successo alluvionale dell’omelia inaugurale del pontificato del Mattarella papa-re sta nell’abilità con cui si tengono insieme i contrari, secondo il collaudato sistema del “ma anche”. Prendiamo il passo in cui dice che “la cultura non è il superfluo: è un elemento costitutivo dell’identità italiana. Facciamo in modo che questo patrimonio di ingegno e di realizzazioni – da preservare e sostenere – divenga ancor più una risorsa capace di generare conoscenza, accrescimento morale e un fattore di sviluppo economico”.

Bene, bravo, tris. Ma possono applaudire sia coloro che pensano, secondo Costituzione, alla persona umana, sia coloro che pensano, secondo il dogma liberista, alla messa a reddito con dividendi per pochi. Certo, un altro passaggio del discorso papal-presidenziale sembra non lasciare dubbi sulla declinazione economicistica del ragionamento, auspicando “un’Italia che tragga vantaggio dalla valorizzazione delle sue bellezze”. Già, ma quale vantaggio, e per chi? Parafrasando Danilo Dolci, il problema non è valorizzazione sì o valorizzazione no, ma quale valorizzazione e chi si prende i soldi.

Scendiamo nel concreto: Modena, la Caserma Manfredo Fanti. Non è un “casermone” qualunque: si tratta dell’edificio neoclassico che, durante la Restaurazione, gli Este (tornati al potere, dopo la ventata rivoluzionaria e napoleonica, come Austroestensi) costruirono per collocarvi (esattamente nel 1823) lo Stabilimento dei Pionieri, una scuola militare che formava a molte arti diverse, con il Convitto dei cadetti matematici: di fatto un precoce moderno politecnico, una facoltà universitaria di ingegneria edile, tra le primissime in Italia. Poi, in epoca post-unitaria, il complesso diventa una caserma, conservando fino ai nostri tempi la funzione militare (caso rarissimo di una continuità di tale funzione da un antico stato italiano all’oggi della Repubblica).

Nel 1998 il demanio militare se ne disfa, aprendo il problema della sua destinazione: un gigantesco bivio, che riguarda centinaia di analoghi edifici (certo di rado così pregiati) in tutta Italia (si pensi al caso clamoroso della caserma, e prima convento, di Cosa San Giorgio a Firenze). Da una parte la conservazione della proprietà pubblica, e anzi il trasferimento da un uso pubblico mediato e limitato dalla delicata funzione militare a un pieno godimento universale raggiungibile attraverso una destinazione culturale o sociale. Mercato o società, reddito monetario o inclusione e coesione? È questo il dilemma.

Subito, per la Fanti, si affaccia l’ombra della privatizzazione: ma amministrazioni ancora memori del bene comune la sventano, e alla fine l’edificio viene acquisito dalla Provincia. Ma quando la politica della propaganda (la stessa che lavora per l’autonomia differenziata delle regioni ricche) volle abolire le province (lasciandone in piedi solo il sistema di potere), nessuno pensò più a quel bel palazzo neoclassico, come a migliaia di altri beni culturali provinciali lasciati allo sbando in tutta Italia.

Ed eccoci all’oggi: quale il vantaggio che si vuol trarre dalla valorizzazione della Fanti? Beh, quello dei ricchi signori che potranno aggiudicarsi i trentadue appartamenti di lusso in cui sarà frazionato il monumento (potere dei numeri: come i trentadue castelli del “povero re” della canzone di Dario Fo e Enzo Jannacci).

Italia Nostra di Modena (guidata da Giovanni Lo Savio, già presidente di sezione della Cassazione) denuncia un “progetto che frammenta gli spazi interni e ne stravolge la organizzazione per ampie camerate nella tipologia dettata dalla speciale e unitaria funzione storica, e perfino apre in un prospetto esterno i varchi di accesso ai garage di servizio. È palese la violazione delle vincolanti misure conservative del codice dei beni culturali che per i beni tutelati prescrive manutenzione e restauro (art.29), mentre i modi del restauro come tipico intervento edilizio sono regolati dal testo unico dell’edilizia nella definizione del suo art.3 (che esige il rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio). E violazione pure della vigente disciplina comunale di piano regolatore che registra nelle sue tavole la Caserma Fanti come edificio di riconosciuto interesse culturale e la assegna alla categoria di intervento per restauro scientifico con rigorose prescrizioni di rispetto non solo dei prospetti interni ed esterni, ma pure dell’impianto distributivo- organizzativo originale. Un progetto, insomma, che portato a esecuzione costituirebbe uno sfrontato abuso edilizio, tanto più grave perché consumato su un edificio di riconosciuto interesse culturale, perfino abilitato dalla autorizzazione della Soprintendenza (quindi partecipe dell’abuso), se tollerato infine dalla Amministrazione comunale”.

Nell’Italia del presidente santo vivo c’è ancora qualcuno che ragiona secondo Costituzione. Mai come oggi, si direbbe, è necessario scherzare coi santi, e lasciar stare la Fanti.

Anche Bergoglio si confessa: Covid, migranti, haters (e altra guerre)

La nostra è una “cultura dell’indifferenza”, di cui “siamo ammalati”: ieri sera Papa Francesco è stato intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa . Un colloquio che inizia con i due temi che evidentemente gli premono di più: guerre e immigrazione, per poi però allargare lo sguardo all’ambiente, alla cultura dell’odio, fino alla capacità di perdonare. “C’è un problema di categorizzazione: le guerre in questo momento sono al primo posto”. Bambini, migranti, poveri, non contano e sono “nelle categorie basse”, non al primo posto. “Nell’immaginario universale quello che conta è la guerra, eppure con un anno senza armi si potrebbe dare da mangiare ed educare tutto il mondo in modo gratuito”. La guerra, dice il Papa, è “un controsenso della creazione. Lavorare la terra, curare i figli, portare avanti una famiglia, lavorare per la società significa costruire. La guerra, invece, distrugge”. E porta morte e disperazione. Il Mediterraneo è “un grande cimitero, il migrante va accolto, accompagnato, promosso. E anche integrato, è molto importante”. Occorre “una politica migratoria continentale. Ogni Paese indichi delle quote: serve equilibrio. Italia e Spagna oggi sono penalizzate. Quello che si fa con i migranti è criminale: l’Ue si metta d’accordo, in comunione”. Passa poi all’ambiente: “Pensiamo di essere onnipotenti di fronte alla Terra. Dobbiamo riprendere il rapporto con la Terra dei popoli aborigeni, il buon vivere”. Manca il coinvolgimento, lo stare dentro le cose, toccarle con mano “come hanno toccato con mano il male dottori e infermieri durante la pandemia”. Affrontare l’aggressività che, se non educata, diventa negativa nella società. “Penso all’aumento dei suicidi giovanili e al bullismo”. Va fatto partendo dal “chiacchiericcio”: “Il chiacchiericcio nelle famiglie, tra le persone, distrugge la identità: se hai una cosa contro l’altro o te la mangi o vai da lui e gliela dici in faccia. Ci vuole coraggio”.

Gaza. Stop a “Fauda”, Hamas gira la sua serie Tv

La narrativa israeliana della lotta contro Hamas si affaccia in ogni piattaforma tv in tutto il mondo. “Fauda” “Mossad 101”, “Teheran”, per citarne solo alcune. Adesso Hamas ha deciso di passare al contrattacco, anche via satellite. La Striscia di Gaza sarà protagonista sulla scena araba durante il Ramadan con la serie Qabdat al-Ahrar (Pugno della libertà) prodotta da Hamas, in onda su più di 15 canali satellitari in aprile e maggio. La serie – 30 episodi con attori della Striscia è in lavorazione da circa un anno – vuole mettere in luce la narrativa palestinese contrapposta a quella israeliana e mostrare la battaglia dell’intelligence tra le fazioni della “resistenza” di Gaza e Israele.

La serie si ispira liberamente ad alcuni fatti accaduti, vale a dire l’infiltrazione di una cellula israeliana nella Striscia per rapire un importante leader islamista. La cellula israeliana rapisce con successo il leader, ma non riesce poi a lasciare Gaza, dopo essere stata smascherata dalla sicurezza di Hamas. I commandos d’Israele vengono eliminati e il rapito viene liberato. Su questa storia “trainante” si sviluppano poi i destini dei singoli personaggi.

Il capo del dipartimento di produzione artistica di Hamas, Muhammad al-Thuraya conferma che la sceneggiatura della serie è basata su eventi veri accaduti nella Striscia, tra cui, ad esempio, la fallita operazione del Sayeret Matkal (commandos israeliani) a Khan Yunis nel novembre 2018.

La serie – interamente girata a Gaza con un team di attori locali – andrà in onda durante il prossimo Ramadan su più di 15 canali satellitari palestinesi e arabi come Al-Manar, Yarmouk, Palestine Today, Mekmelin e l’algerino Echourouk. In considerazione delle condizioni che sta vivendo la Striscia di Gaza a seguito dell’assedio impostole dal 2006 che ha impedito a lungo l’introduzione delle moderne macchine fotografiche e delle attrezzature necessarie, Qabdat al-Ahrar è stato girato con strumenti fotografici molto semplici ed è stata una delle maggiori sfide che la produzione ha dovuto affrontare.

Bloody sunday: 50 anni dopo gli inglesi restano nemici

Da quella domenica del 30 gennaio 1972, quando gli spari dell’esercito inglese uccisero quattordici persone durante una marcia pacifica per i diritti civili nelle strade di Derry, l’Irlanda del Nord è cambiata profondamente. Con quella strage il conflitto nordirlandese prese una nuova svolta sanguinosa. Tre decenni di lotta armata tra nazionalisti cattolici e unionisti protestanti hanno provocato quasi 3.500 morti. Dopo lunghi negoziati, un accordo di pace è stato firmato nel 1998 e l’Europa ha finanziato a suon di miliardi i progetti destinati al mantenimento della pace. L’esercito britannico si è ritirato dalle strade della città e gli attentati appartengono ormai al passato. Ma cinquant’anni dopo, a Derry, la seconda città dell’Irlanda del Nord, le ferite restano ancora aperte: “Erano solo padri, fratelli, vicini di casa che partecipavano ad una manifestazione pacifica”, afferma con rabbia Danny Morrison, un ex membro dell’IRA (Irish Republican Army) che nel 1972 aveva 12 anni.

Danny ricorda la reazione di stupore e di incomprensione generale quando si seppe che i parà britannici avevano sparato sulla folla. “È per questo motivo che tante persone hanno deciso di unirsi al movimento repubblicano, perché non è possibile che, manifestando in pace , si finisca per terra ferito o si prenda una pallottola nella testa!”. Solo nella strada dove abitava Danny all’epoca, due persone avevano perso la vita: “Per anni il governo ha affermato che quelle vittime erano dei terroristi. Il Bloody Sunday è la dimostrazione di ciò che gli inglesi hanno dato all’Irlanda: morte, divisione e sospetto, nient’altro”. Anche questo mese di gennaio, per il cinquantesimo anno consecutivo, le famiglie delle vittime del Bloody Sunday hanno organizzato una marcia per ricordare chi è morto quel giorno. Finora le famiglie hanno ricevuto le scuse da parte del governo di Londra e incassato il risultato di un’inchiesta durata dodici anni che ha confermato l’ovvio: ha cioè riconosciuto l’innocenza delle vittime. Ma nessun militare è mai stato accusato. Alcuni hanno rinunciato a chiedere giustizia. Altri si aggrappano ad una debole speranza di vedere un giorno comparire in tribunale i soldati che aprirono il fuoco. Anche grazie al cinema e alla musica, il massacro del 1972 è diventato uno dei momenti simbolicamente più forti nella storia del conflitto nordirlandese a livello internazionale. “Questo episodio cristallizza i principi chiave del nazionalismo irlandese – spiega Cillian McGrattan, docente di Scienze sociali e politiche alla Ulster University -, evidenziando l’ingiustizia della divisione dell’Irlanda e della presenza dello Stato britannico, con tutta la difficoltà di far riconoscere la responsabilità storica di Londra”. Anche a distanza di tempo, l’indignazione tra i repubblicani, che sperano ancora di vedere un giorno la riunificazione dell’Irlanda, non solo non si attenua ma è ancora molto forte. “Ritroviamo ora questa stessa idea di ingiustizia nella Brexit, con l’impressione di essere stati separati da Dublino e dall’Europa, verso le quali i nazionalisti si rivolgono tradizionalmente per affermare la propria identità”, aggiunge Cillian McGrattan. In effetti, al referendum sulla Brexit del 2016, più della metà dei nordirlandesi, il 56%, aveva votato contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, in contrasto con la maggioranza della popolazione britannica (il 51%) il cui voto ha finito col determinare l’uscita del Paese dall’UE.

Nel suo piccolo museo alla gloria dei combattenti repubblicani, con le pareti coperte di foto d’epoca e numerose armi esposte in vetrina, Danny Morrison condivide la stessa opinione: “La Brexit è un esempio di cosa pensa Londra del Nord: lo usa quando gli fa comodo, in caso di elezioni, ma poi non mantiene nessuna delle sue promesse. Sono cento anni che le cose vanno avanti cosi”. Le discussioni ancora in corso tra dirigenti europei e britannici sulle modalità di applicazione della Brexit, sprofondano l’Irlanda del Nord in un clima di persistente incertezza. Il 19 dicembre scorso, David Frost, il ministro della Brexit di Boris Johnson, responsabile delle trattative con l’Ue sull’Irlanda del Nord, si è dimesso dopo aver passato un anno a minacciare di porre fine ai controlli in mare, che di fatto permettono di evitare il ritorno di una frontiera terrestre, che potrebbe far salire di nuovo le tensioni. La nuova negoziatrice, Liz Truss, mantiene la stessa linea intransigente. Dal canto suo, il DUP, il Partito unionista democratico, maggioritario in Irlanda del Nord, si prepara ad agire in modo unilaterale. Il 2021 è stato quindi un anno di profonda angoscia per i nordirlandesi. Le nuove notti di tensione in Irlanda del Nord lo scorso anno, intorno a Pasqua, dimostrano che la cultura della violenza non è stata completamente sorpassata e riaccendono le preoccupazioni degli abitanti di Belfast, che ricordano “che era iniziato tutto così nel 1969”. Il governo locale è stato più di una volta sull’orlo della dissoluzione e il discorso politico è diventato più teso. “La Brexit ha reso ancora più precario un equilibrio già fragile e contraddittoria l’idea di un futuro condiviso – osserva Graham Dawson, docente di Storia culturale all’Università di Brighton -. Una mancanza di fiducia persiste tra i due principali partiti che devono comunque lavorare insieme. Le buone relazioni dei primi anni dopo l’accordo di pace si sono logorate e ormai le tensioni politiche sono costanti tra il Sinn Féin, il principale partito repubblicano, e il partito unionista DUP”. Lo dimostra il fatto che in tre anni l’Assemblea non si è mai riunita. Le elezioni di maggio si preannunciano determinanti. Al DUP vengono rimproverati gli errori di calcolo commessi durante i negoziati sulla Brexit. Raggirato da Boris Johnson, il partito ha moltiplicato i voltafaccia e cambiato leader tre volte in pochi mesi. Jeffrey Donaldson, alla testa del DUP da giugno 2021, potrebbe farsi sfuggire il posto di primo ministro che il suo partito mantiene senza interruzione dal 2007. “Esiste una reale divergenza tra il sentimento anti-europeo del DUP e le convinzioni di una parte del suo elettorato che ritiene che il posto dell’Irlanda del Nord sia nell’Unione europea e che far parte dell’Ue sarebbe un bene per la sua economia oltre che per la pace”, spiega Graham Dawson.

Se il voto unionista si disperde e il Sinn Féin prende la testa del governo, il confine marittimo dovrebbe confermarsi. Sarebbe un’ottima notizia per i repubblicani, anche se molti di loro non credono più nell’efficacia delle politiche messe in atto dai governi. “Tutti i partiti cercano di far leva sul settarismo per ottenere voti, sono su una linea di opposizione sistematica. Ma non funziona, non interessa più i giovani: è ora di farla finita con questi dinosauri della guerra”, ritiene Tony O’Hara, fratello di Patsy O’Hara, il militante dell’INLA, l’esercito irlandese di liberazione nazionale, morto in carcere durante uno sciopero della fame, che incontriamo negli uffici degli ex combattenti di Derry. Nell’attesa del voto, le vittime della guerra hanno un’altra spada di Damocle che pende sulle loro teste: a cinquant’anni dalla strage, il governo di Johnson è deciso a chiudere definitivamente le pratiche che risalgono a quel periodo. Un disegno di legge deve essere esaminato a breve a Westminster. Che ne sarà della giustizia per le persone uccise dall’esercito britannico, come nel caso del Bloody Sunday, e di quelle morte negli attentati dei paramilitari? Questa amnistia di fatto viene presentata da Londra come un’opportunità per voltare pagina, ma gli inglesi sono gli unici a ritenerla efficace. Michael McKinney, che ha perso suo fratello il 30 gennaio 1972, avverte il governo di Londra: “Non ci potrete ridurre al silenzio, non ci farete sparire. Mostreremo al mondo cosa siete: una vergogna per le democrazie occidentali”.

 

Investimenti immobiliari. Occhio alle promesse Alcuni “corsi” possono nascondere delle truffe

Vi sono truffe sistematiche a danno dei risparmiatori ben architettate, ma di cui nessuno parla. Capita soprattutto fuori dell’ambito finanziario, dove per altro la normativa vigente rende difficili i “bidoni” vecchio stile, quelli della serie “scappare con la cassa”.

Mi sono arrivate segnalazioni di una strategia messa in atto da diversi personaggi, di regola non collegati fra di loro. Essa parte da un libro o più spesso da un corso, di quelli che insegnerebbero come diventare ricchi, pur senza disporre di particolari capacità, attitudini, intelligenza o altro. Di questi molti riguardano il trading on line o l’analisi tecnica di prezzi di Borsa finanziari e altre diavolerie simili, con cui chiunque riuscirebbe facilmente a guadagnare soldi. A volte causano danni, in particolare conducendo a forme di ludopatia, ma sono altre proposte che possono far cadere in trappola un risparmiatore privo di senso critico. Sono quelle rivolti al settore immobiliare. Ci sono infatti libri, corsi e webinar, pubblicizzati soprattutto in Rete, che svelerebbero i segreti per fare affari con le case: come acquistarle alle aste a un tozzo di pane, come comprarle a debito e poi rivenderle con forti plusvalenze e via fantasticando. Uno di tali manuali promette guadagni addirittura “partendo da zero, senza esperienza, nel tempo libero e con pochi capitali”.

In realtà le cose sono molto più difficili. Il mercato è affollato di gente accorta e gli operatori del settore arrivano alle occasioni ben prima di chi ha seguito un corsetto; farsi finanziare è difficilissimo e così via. Però il problema va oltre i soldi buttati via per libri o corsi inutili. Il rischio è finire in un percorso che conduce a perdite ben maggiori. A un certo punto gli aspiranti immobiliaristi si accorgono infatti delle difficoltà. Ma alcuni, anziché inveire contro chi li ha illusi, gli rinnovano la loro fiducia. Così gli vengono scucite altre centinaia o migliaia di euro con corsi ristretti più “avanzati”, consulenze individuali o addirittura sedute di coaching. Ma anche questo non sarebbe gravissimo.

La vera trappola scatta nei casi in cui tali corsi o incontri di approfondimento in realtà sono finalizzati a selezionare i cosiddetti “polli”. Cioè quelli tra i clienti che appaiono più creduloni, meno capaci di difendersi e per altro con un po’ di soldi da parte. Arriviamo così al vero obiettivo dei registi di tutta la messinscena. Che per alcuni non è affatto vendere libri o corsi, ma fare entrare i risparmiatori in affari spacciati per convenientissimi, in realtà fallimentari.

In questo caso gli “affari” possono consistere in immobili intestati a un prestanome, rifilati a prezzi stratosferici. Oppure in case in costruzione da parte di un’impresa complice, pronta a scappare con la cassa una volta incassati i pagamenti. Così alle vittime non vengono portano via i 40 euro di un libro o i 300 euro di un corso, ma magari anche 200 mila euro in un colpo solo, come riferitomi di recente da un coppia di miei lettori.

 

La contraddizione dell’Africa: ricca di risorse, senza sviluppo

Alfa, beta, gamma, delta, omicron: quante altre lettere dell’alfabeto greco, che simboleggiano le varianti della Covid-19, dovrà subire il mondo? Mentre l’Africa australe è stata vittima dell’ennesima chiusura delle frontiere – inutile e ingiusta –, una manciata di Paesi ricchi continua a opporsi alla richiesta di eliminare i brevetti sui vaccini e i trattamenti per il virus. L’egoismo da vaccino danneggia i pPaesi poveri, ma è un boomerang anche sui ricchi, con nuove ondate di virus più contagiosi e resistenti. Cinismo e cecità riguardano anche i flussi finanziari tra Nord e Sud. In teoria, i Paesi ricchi stanno aumentando gli aiuti allo sviluppo e gli investimenti diretti in Africa. In realtà, chiudono un occhio su un sistema che saccheggia sistematicamente i Paesi africani a beneficio di élite e grandi multinazionali. Negli ultimi 50 anni, dall’Africa sub-sahariana sono defluiti capitali per oltre 2 mila miliardi di dollari. Nel 21° secolo l’emorragia è accelerata alla media di 65 miliardi l’anno, molto più dell’assistenza ufficiale annuale allo sviluppo.

Nella teoria di una perfetta economia di mercato, le risorse naturali sarebbero una benedizione e il capitale fluirebbe verso i Paesi dove è più scarso. L’Angola prospererebbe grazie ai proventi del petrolio, gli ivoriani godrebbero del maggior export di cacao al mondo e i sudafricani dei loro minerali. Invece le risorse sono terreno di caccia per estrarre ricchezza e accumularla offshore. I flussi di capitale non sono guidati dai minori rendimenti in Africa, ma dalla segretezza dei paradisi fiscali. I prestiti esteri sono spesso sperperati o evaporano nel nulla. Nello scandalo del “debito nascosto”, un prestito di 2 miliardi di dollari (pari al 12% del Pil) non è mai arrivato al Mozambico ma dovrà essere rimborsato con gli interessi.

A testimoniare questa situazione sono numerosi Paesi, ma i casi più significativi sono quelli di Angola, Costa d’Avorio e Sudafrica, Paesi ricchi di risorse ma a basso sviluppo. In Angola, che ha avuto un’emorragia di 103 miliardi dal 1986 al 2018 – l’equivalente del suo Pil – il petrolio ha arricchito solo l’élite e le multinazionali mentre metà della popolazione non ha accesso ad acqua potabile e servizi igienici di base. In Costa d’Avorio, la maggior parte dei coltivatori di cacao è sotto la soglia di povertà, mentre dal 1970 al 2018 sono usciti 55 miliardi. Nello stesso periodo, circa 329 miliardi sono spariti in Sudafrica per la sistematica sottofatturazione dell’export minerario, da cui è derivata bassa crescita, bassi investimenti interni e povertà nel “Paese più disuguale del mondo”.

Al di là dei numeri, emerge che per orchestrare la fuga di capitali dai paesi africani le élite nazionali sono aiutate e sostenute da banche estere, contabili e società di consulenza. La “maledizione delle risorse” mina il contratto fiscale tra Stati e popolazione. Quando lo Stato ricava la maggior parte delle sue entrate da monopoli parastatali, integrati da prestiti esterni, i suoi principali stakeholder diventano i suoi collaboratori stranieri piuttosto che i suoi cittadini. Servono sforzi coordinati, regionali e globali, contro la fuga di capitali, la corruzione e l’evasione fiscale delle imprese. Il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi Icij e altri hanno fatto luce sulle reti sotterranee di profittatori.

Ma c’è ancora molto che resta da fare, come dimostra l’accordo fiscale globale firmato nello scorso ottobre e imposto dai Paesi ricchi. La sua misura principale – un’imposta societaria globale di appena il 15% – dimostra che i capitali del Nord restano più sensibili alle multinazionali che ai Paesi in via di sviluppo. La Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle imprese multinazionali (Icrict) di cui siamo membri insieme a economisti come Thomas Piketty, Gabriel Zucman, José Antonio Ocampo e Jayati Ghosh, sosteneva un’aliquota del 25%, che avrebbe recuperato la maggior parte dei 240 miliardi che si perdono ogni anno in quella che viene eufemisticamente chiamata ottimizzazione fiscale. Invece, un’aliquota del 15% non genererebbe più di 150 miliardi di risorse aggiuntive all’anno, la maggior parte delle quali sarà catturata dai Paesi ricchi.

Come per il vaccino Covid-19, questi calcoli funzionano solo nel breve termine. Solo la solidarietà fermerà le “varianti fiscali” che altrimenti prolungheranno questa pandemia all’infinito. Solo affrontando davvero il saccheggio di risorse nel Sud i Paesi poveri potranno svilupparsi, evitare l’esplosione sociale e la migrazione forzata. È anche l’unico modo per permettere loro di affrontare l’emergenza climatica, con benefici per tutti.

Energia&caro-prezzi, il ciclone che può travolgere le famiglie

L’effetto, anche se brutale, è una valanga. In alto c’è l’impennata dei costi per l’energia e giù, a valle, le famiglie che si ritrovano travolte dall’aumento dei prezzi imposti via via da imprese, filiere e distribuzione che non stanno reggendo l’aumento delle materie prime. E se il rincaro generalizzato dei prezzi registrato in questi giorni fa paura, il peggio deve ancora venire. Fin qui, sono relativamente pochi i settori che hanno già scelto di trasferire gli aumenti sui clienti. Si tratta soprattutto dei beni alimentari. Secondo Giorgio Panizza, consigliere d’amministrazione della catena della grande distribuzione Gigante, si tratta di pasta (+8%), biscotti (+10%), caffè (+5%), farina (+20%), zucchero (+5%) e olio di semi (+10%). Praticamente quella parte del carrello della spesa di una famiglia che non dovrebbe mai mancare. E già ci sono prezzi oltre la media per i prodotti di plastica (+70%), vetro (+40%) e carta e cartone (+31%). In pratica gli imballaggi che vanno a incidere su tutte le filiere. Ma ben presto tutte le imprese saranno costrette a ritoccare i listini all’insù per affrontare nei prossimi mesi il peso di costi energetici da 40 miliardi in bolletta. Tanto per capirci, la manovra 2022 vale 32 miliardi.

Così, mentre governo e stampa festeggiano la crescita economica (+6,5% il Pil 2021, frutto però soprattutto del rimbalzo dal tracollo del 2020), l’inflazione è ripartita a un ritmo che non si vedeva da anni: +4,8%, al top da aprile 1996 con i prezzi che, secondo l’Istat, sono cresciuti con una dinamica “pari a circa tre volte quella retributiva”. I salari, infatti, sono rimasti praticamente fermi (+0,6%), così come i tavoli per i rinnovi contrattuali. Il Cnel spiega che al 31 dicembre su 992 contratti, ne risultavano scaduti 622, ben il 62,7% e i sindacati, per gli aumenti, chiedono di non usare l’inflazione scorporata dalla componente energia. Insomma, se l’inflazione vola, i consumi rischiano il gelo a causa dei salari fermi e questo rischia di zavorrare la ripresa economica con effetti pesanti su commercio e industria, vale a dire i settori che hanno innescato gli aumenti per tenere botta al rincaro delle bollette energetiche.

A cascata, spiega l’Istat, alimentari e bevande costano il 3,8% in più di un anno fa, alberghi e ristoranti il +4,1%, mentre i beni alimentari, per la cura della casa e della persona arrivano al +3,2%. “Non solo l’inflazione si mangia i salari, ma chi lavora è povero pur lavorando”, ha sintetizzato il segretario della Cgil Maurizio Landini, spiegando che siamo di fronte a una pandemia salariale e sociale senza precedenti.

Agli aumenti del 55% della luce e del 40% per il gas sulle bollette delle famiglie, vanno aggiunte una serie di aumenti che non tralasciano nessun settore. I primi effetti dell’impennata dei prezzi si sono già visti ai distributori di benzina. Il prezzo della verde supera abbondantemente 1,8 euro al litro, ma i listini subiscono rialzi giornalieri. In un Paese dove l’85% delle merci viaggia su strada per arrivare sugli scaffali, l’aumento dei carburanti ha un effetto valanga su tutta la spesa delle famiglie anche perché il “pieno” serve anche per muovere mezzi agricoli e pescherecci.

A cimentarsi in un calcolo sulla maxi-stangata causata del caro-energia è Federconsumatori, secondo cui le famiglie spenderanno 1.228 euro in più all’anno per i beni essenziali come quelli energetici e alimentari. A spingersi nel dettaglio è Coldiretti Puglia che prende in esame la colazione diventata ormai “salata” a causa dell’aumento del prezzo del caffè, con le quotazioni dell’arabica aumentate dell’80% e del balzo del costo di cappuccino e cornetto al bar di oltre il 20% su spinta degli aumenti di grano e cereali. E poi ci sono lo zucchero (+29,8%) e i prodotti lattiero-caseari (+16,9%). Ma anche quelli della carne sono in salita del 12,7%. Ma un’alta inflazione, oltre a colpire i consumatori, può mettere a rischio anche i risparmi. Se i prezzi aumentano rapidamente, si svalutano anche i soldi nei conti correnti che già non garantiscono alcun rendimento.

In questo quadro il governo deve decidere cosa fare. Draghi e il ministro Daniele Franco hanno escluso uno scostamento del deficit. Si lavorerà solo sul caro bollette e con i fondi avanzati dai vecchi decreti Ristori. Se va bene, qualche miliardo. Difficile che basti.

Il 2022 di Draghi. Pnrr, Ue, crisi industriali, Pil: sarà l’anno nero del premier?

L’happening quirinalizio si è chiuso col trionfo dello status quo: la ri-elezione di Sergio Mattarella inchioda Mario Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023 e la sua maggioranza a sostenerlo, al di là dei mal di pancia, almeno fino all’autunno (dopo sarà difficile che non parta la campagna elettorale). Un secondo anno al governo per l’ex presidente Bce che ha tratti psicologici molto simili a quello che toccò in sorte – mutatis mutandis – a un altro salvatore della patria, Mario Monti, prima osannato e poi rapidamente dimenticato dalla libera stampa. Draghi non farà, crediamo, l’errore del suo omonimo, candidarsi, ma si ritrova comunque davanti un 2022 assai complicato, che rischia di intaccarne lo status mediatico di semidio e proprio nel campo in cui dovrebbe eccellere, l’economia. La situazione in cui dovrà governare non è, infatti, delle più rosee: un governo con pochi margini di manovra basato su partiti a pezzi dopo il balletto sul Colle. Un riassunto per punti.

Inflazione. Siamo a livelli record in Italia e in Eurozona, colpa in larga parte dei prezzi energetici, a loro volta spinti da tensioni geopolitiche. Non c’è molto che Draghi possa fare ora, a parte metterci una pezza con aiuti a famiglie e imprese (vedremo di che entità) e sperare che la fiammata finisca presto: la corsa dei prezzi, però, sta già frenando la crescita, il che è ovviamente un grosso problema per il governo. La cancellazione di fatto del superbonus al 110% e il rifiuto di procedere subito a nuovo extra-deficit per il caro-bollette e i ristori dei settori in crisi per il Covid è il primo segnale esplicito del contesto mutato: una cosa che non può non spiacere alla maggioranza.

Bce. L’inflazione alta sta anche accelerando la resa dei conti all’interno della Banca centrale europea, che da anni assorbe tutte le nuove emissioni nette del debito italiano. La dilettantesca conferenza stampa in cui Christine Lagarde, venerdì, ha dato l’idea (salvo poi smentire) che era alle viste un rialzo dei tassi di interesse ha già avviato pressioni sui rendimenti dei titoli di Stato: il Btp decennale pagava un teorico 1,7% alla chiusura di venerdì contro lo 0,6% di un anno prima. Questo si tradurrà in un (per ora piccolo) aumento del costo del debito: un altro fattore che ingesserà il bilancio dello Stato, riducendo la libertà d’azione dell’esecutivo.

Crescita. Il pericolo più grosso ora è la gelata sul Pil arrivata tra fine anno e gennaio per il combinato disposto tra prezzi dell’energia e ondata pandemica. L’indice “euro-coin” di Banca d’Italia, che misura la congiuntura dell’Eurozona, a gennaio ha segnato 0,01 dallo 0,21 del mese precedente (in estate era attorno a 1). Insomma, di fatto il Pil era fermo. Secondo la Nota sulla congiuntura di febbraio dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), “i numerosi segnali di rallentamento” dovrebbero passare in primavera: molto dipenderà dall’inflazione. Per l’Upb, in ogni caso, la crescita 2022 si attesterà al 3,9% per scendere “nel 2023 all’1,9%, anche per via dell’intonazione meno espansiva delle politiche economiche”. Il governo, ad oggi, stima invece +4,7% e +2,8%, cioè quasi 2 punti di Pil in più nel biennio: anche la minor crescita ha effetti sul bilancio.

Patto di Stabilità Ue. Com’è noto, i vincoli sui conti pubblici sono in parte sospesi fino alla fine dell’anno ed è a quella scadenza che si riferisce l’Upb parlando di “intonazione meno espansiva delle politiche economiche”: con la manovra 2023, che va presentata a ottobre, si torna gradualmente a contrarre il bilancio pubblico. In realtà, il Pnrr impone entro giugno – ma andrà incorporata nel Documento di economia e finanza di aprile – una corposa spending review (tagli di spesa) per il prossimo triennio. La speranza di tutti – e il vero compito di Mario Draghi a Palazzo Chigi – è una riforma del Patto di Stabilità che attribuisca alla crescita il ruolo di stabilizzare deficit e debito rispetto al Pil: in sostanza un’impostazione opposta a quella degli “zero virgola” che negli scorsi decenni ha penalizzato l’Italia e mezza Europa. Il premier, a questo fine, punta tutto sull’asse con la Francia di Emmanuel Macron (ammesso che resti all’Eliseo dopo le presidenziali), ma Berlino non pare aver cambiato, insieme al governo, impostazione: il ministro delle Finanze Christian Lindner venerdì è venuto a Roma per dire che il debito va ridotto, non ci sarà alcuna condivisione dei rischi (una richiesta esplicita di Draghi e Macron), al massimo qualche eccezione per gli investimenti green o digitali, e che non è il momento di fare spesa corrente in cose come “pensioni” (su cui è aperto un tavolo coi sindacati) o “redistribuzione”. L’Italia, è il parere di Berlino, ha avuto il Next Generation Eu: lo usi bene perché non avrà altro.

Pnrr. Il secondo semestre del 2021 è stato il giro di riscaldamento, ora inizia la gara vera. Come si sa, per ottenere le rate semestrali bisogna centrare una serie di obiettivi tanto temporali che qualitativo-quantitativi: sono 100 quelli previsti nell’arco del 2022 (83 milestone e 17 target). Protagoniste con circa metà delle scadenze sono le missioni “digitalizzazione” e “transizione ecologica”, i ministeri maggiormente sollecitati quest’anno saranno le Infrastrutture di Enrico Giovannini e il Mite di Roberto Cingolani (ad oggi non proprio una macchina perfetta).

È utile ricordare che il Pnrr non vive di soli appalti o spese, ma anche di riforme di natura “politica”, non sempre indolori. In Parlamento, ad esempio, giace il ddl Concorrenza, su cui molteplici sono le “perplessità” dei partiti, a cominciare dalle norme che intendono obbligare i Comuni a mettere a gara tutti i servizi pubblici locali, senza dimenticare l’annosa diatriba sulle concessioni balneari. Ovviamente anche il rispetto dei vincoli di bilancio è imposto dal Pnrr.

Più in generale, parliamo di uno sforzo enorme della macchina pubblica – e giudicato su una metrica che le è largamente estranea, quella appunto dei target e milestone in uso a Bruxelles – che è ormai nei fatti (viste le ultime scelte di Draghi e del ministro Daniele Franco) l’unica fonte di finanziamenti aggiuntivi in mano all’esecutivo: insomma un programma di governo obbligato di qui al 2026. “Aggiuntivi”, però, è vero solo in parte. Oltre il 60% dei 191,5 miliardi “europei” sono infatti prestiti e i restanti sussidi andranno comunque ripagati pro-quota: l’aiuto netto del Next Generation Eu oscilla – in sei anni – tra i 20 miliardi calcolati dai pessimisti e i 40 miliardi dagli ottimisti.

Nomine e imprese. A Palazzo Chigi i consiglieri di Draghi, su tutti l’economista Francesco Giavazzi, sono al lavoro in vista del rinnovo primaverile degli organi di parecchie società pubbliche: parliamo di 350 poltrone tra consigli d’amministrazione (230) e collegi sindacali (120). Questo passaggio consentirà a un premier senza partito di rafforzare la sua base di potere nel Sistema Italia: parliamo di grosse aziende come Invitalia, in cui va a scadenza Domenico Arcuri (in carica dal 2007), Snam, Sace, Fincantieri, Simest, Sport e Salute, diverse società del Gruppo Fs, eccetera. Per portarsi avanti, oggi il premier e il ministro Franco dovrebbero giustiziare l’ad di Mps Guido Bastianini, reo di ritenere possibile che la banca continui a vivere anche da sola. Come che sia, è dalla galassia delle partecipate – non va dimenticato che la Cdp è presidiata dal fido Dario Scannapieco – che Draghi può influire su quel che resta del sistema produttivo italiano: il 2022 sarà infatti anche l’anno in cui, tra le altre cose, esploderà in faccia al Paese la crisi dell’industria dell’auto e che disegnerà il futuro dell’ex Ilva, ad oggi un buco nero gestionale e finanziario, in passato snodo fondamentale per la competitività del manifatturiero italiano.

 

I PARERI

Gustavo Piga
L’Italia è già tornata all’austerità, così il declino è certo

Il 2022 non sarà l’anno della fine dell’austerità. Può sembrare azzardato, tanto più che sarà l’anno in cui arriveranno i primi fondi veri del Pnrr. Ma è proprio il Pnrr la nuova armatura a protezione dell’austerità avviata dal 2011 con il Fiscal Compact, un’armatura che si è sgretolata a forza di evidenze empiriche sulla sua distruzione di occupazione, imprese, benessere, sicurezza e uguaglianza. Tanto che quando il Parlamento Ue ne ha censurato l’utilità nessuno ha più trovato il coraggio di proporne l’inserimento nei Trattati Ue.
Ma quello che è uscito dalla porta è rientrato dalla finestra. L’art. 10 del Regolamento Ue 2021/241 (che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza) dispone come la Commissione possa presentare al Consiglio Ue una proposta di sospensione dei pagamenti se uno Stato ha presentato un piano d’azione “correttivo” insufficiente in presenza di “squilibri eccessivi”, un linguaggio noto agli studiosi dell’austerità in salsa europea. Con una mano si si dà, con l’altra si riprende. Vogliamo i soldi del Pnrr? Li avremo solo in un contesto analogo a quello del Fiscal Compact.
Ecco spiegato perché Draghi (e prima Conte) si sono adeguati a rassicurare l’Europa che, nel bel mezzo della peggiore crisi degli ultimi 80 anni, l’Italia, invece di risollevarsi con una politica fiscale espansiva, farà per i prossimi anni la consueta austerità. I numeri lo confermano. Dopo aver promesso per il 2021 un deficit dell’11,8% del Pil, questo sarà al 5,6% per il 2022 : un taglio di maggiori spese e minori tasse oltre 6 punti di Pil, 120 miliardi. Deficit che, lo abbiamo promesso, calerà verso il 3% nel 2024.
E quindi se vi chiedete perché l’Italia sarà il Paese che a fine 2022 avrà perso altro terreno rispetto a tutti gli altri dai livelli pre-Covid (+1,8% contro il 3% dell’area euro e il 7% degli Stati Uniti) basterà guardare a Biden, con deficit attorno al 10% del Pil rispetto a quelli rachitici europei del 3%: in tempi terribili è con gli investimenti pubblici in deficit che si salvano i paesi e le loro democrazie. Ma forse è tempo di chiederci, ancor prima di come abbattere l’austerità, di come restaurare la democrazia.

 

Andrea Roventini
Un piano con troppe cose: non garantisce alcun vero sviluppo

Nonostante la recente crescita, il Pil italiano è ancora inferiore a quello del 2008. Inoltre, i salari soffrono di una stagnazione pluri-decennale. Ciò è dovuto alla bassa crescita delle produttività che affligge da lungo tempo la nostra economia. Il Pnrr deve quindi essere l’occasione per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana che ne frenano la crescita. Questo richiede investimenti e politiche d’innovazione in un quadro europeo dove il 50% dei fondi deve essere destinato alla trasformazione digitale e alla transizione verde. Purtroppo, il Pnrr italiano non va in questa direzione.
Da un lato, i fondi europei si disperdono in troppi progetti. Dall’altro, si concentrano gran parte delle risorse in sussidi alla trasformazione digitale delle imprese e nel Superbonus 110% che affidano alla “magia dei mercati” la trasformazione dell’economia italiana. Ma data l’elevata complessità dei problemi e la necessità di interventi organici e coordinati, l’impatto delle misure rischia di essere limitato e di ridursi a un Sussidistan per alcuni gruppi sociali. La relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio sul Superbonus conferma tali preoccupazioni. Che si può fare? Serve ruolo dello Stato per realizzare politiche industriali e d’innovazione trasformative. La transizione verde offre molti esempi. L’elettrificazione dell’economia richiede investimenti in energia solare e in parchi eolici off-shore che possono portare allo sviluppo delle tecnologie di cui alcune imprese italiane sono leader. Purtroppo, gli investimenti nelle rinnovabili languono da anni. La decarbonizzazione delle industrie ad alte emissioni, come la siderurgia, richiede lo sviluppo di tecnologie legate alla filiera dell’idrogeno verde. Svezia e Germania hanno impianti pilota, mentre l’Italia non ha una strategia di rilancio dell’Ilva. L’avvento dell’auto elettrica necessità di una politica industriale per il settore auto, mai pervenuta come mostrano le numerose crisi aziendali. Il rilancio della produttività italiana richiede politiche keynesiane d’offerta assenti dal nostro Pnrr, che rischia di essere l’occasione sprecata per trasformare e rilanciare la nostra economia.

I nuovi filosofi. I commercialisti: sono come delle divinità con in mano il senso della vita

Oggi i nuovi saggi non sono più i filosofi, ma i commercialisti. Loro conoscono la verità, il senso della vita. Una volta lo scopo del pensiero, era la conoscenza del mondo e la conoscenza di sé: “Conosci te stesso” dicevano i Greci. Oggi è diventato “Conosci la tua aliquota!”. L’Iva, l’Irpef, la dichiarazione dei redditi, sono i nuovi punti fermi del sapere. I commercialisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova fede, predicano la loro dottrina, adoperando linguaggi misteriosi e citando conteggi e numeri di cui noi comuni mortali non sappiamo nulla. “Mi scusi dott. Nascinbeni questo che vuol dire?” – “Lei non si preoccupi, è un dogma”. Al momento di pagare le tasse puoi essere Platone, Socrate, Aristotele, puoi citare tutta la filosofia, ma se non paghi la tua situazione fiscale peggiorerà a vista d’occhio, come niente diventerai un evasore, ti arriveranno multe salatissime e magari rischierai anche la galera. Oggi i commercialisti sono fondamentali, sono come delle divinità, senza di loro non solo è difficile lavorare, è impossibile vivere. Se poi sbagli qualcosa, se prendi delle decisioni da solo senza consultarli, ti invitano ad avere quello che chiamano “ravvedimento operoso” che equivale al pentimento o all’atto di contrizione nella religione cattolica. Solo che lì, reciti tre Pater o dieci Ave Maria e sei assolto, qui non ti assolve nessuno! Se sbagli, sei condannato. Ti levano i soldi, ti pignorano i mobili e loro, “gli Dei”, non faranno più nulla per te. Chissà, forse un giorno i commercialisti non si limiteranno a fare solo i conti e a gestire i nostri patrimoni, no! Si espanderanno, diventeranno divi anche nella musica, nel cinema e nel teatro. E se un produttore di film vorrà andare sul sicuro, invece di prendere Al Pacino, prenderà il dott Nascinbeni dello studio omonimo di Novara. Reciterà meno bene “… ma quello ti mette a posto i conti!”

 

Il talento del medico dei bambini. Un viaggio nella memoria raccontato (bene) ai ragazzi

Se volete sapere che cosa fa nella vita Andrea Satta, autore de La fisarmonica verde (Mondadori) la risposta potrà sorprendervi: fa il medico all’ospedale Bambino Gesù di Roma. Dunque un medico dei bambini. Forse per questo l’editore indica nel retro di copertina che si tratta di un libro per ragazzi. Forse l’editore ha tenuto conto di un tratto non comune ma tipico di questo autore: fondare su storie narrate o ascoltate la sua pratica medica, circondato da madri ansiose e bambini sofferenti spesso avventurosamente arrivati a Roma da tante parti del mondo.

“Le madri narranti” è una sua iniziativa che ha preso piede a Roma ormai da tempo. Come in quelle storie, ci sono, ne La fisarmonica verde adulti coraggiosi e bambini che non si arrendono, una sorta di alleanza tra grande e piccolo che apre sconosciute porte del passato degli adulti e indica tracce nel grande futuro bianco dei bambini.

Senza dubbio Satta, nel suo narrare calmo, affettuoso ma senza dolcezze, spinge avanti il materiale vero, di realtà e di cronaca che è stata una brutta parte della nostra storia e crea uno straordinario racconto di cose avvenute in un tempo di morte, che diventano vive e vere, e persino un inno alla gioia (chi ha aiutato, chi è scampato, chi ha portato fuori coloro che non ce l’avrebbero fatta).

Il tempo è adesso, quando l’autore era un bambino e il padre era in grado di donare memoria di un luogo chiamato Langerfeld, campo di maltrattamenti, umiliazioni e attesa della vittoria nazista per i militari italiani che avevano rifiutato di combattere da fascisti. La storia è il viaggio del padre che, guidando un furgone, porta il bambino dalla Sardegna alla Germania perché sappia che cosa è accaduto nella nostra parte del mondo subito prima di lui, e che senso ha la devozione del padre per un modesto oggetto trovato e salvato da quegli anni, la fisarmonica verde che da il titolo alla storia e che, nell’unico punto fiabesco di un doloroso e avventuroso inventario, scompare in casa, in Italia, lontano dalla violenza da cui quell’oggetto si era salvata e stava diventando il grande ricordo. Scompare per un furto.mai spiegato, così come era arrivata.

Il libro è come un lego montato con la precisione efficace di uno story-telling che ha tenuto testa alla sua missione. Ora sappiamo tutto dei tempi e del mondo della fisarmonica verde. E sappiamo molto di più sulla Sardegna e sul suo codice barbaricino, sulla Germania e la follia del nazismo, su nonno Gavino e sul bambino Lao, sul viaggio avventuroso di un adulto e di un bambino che si rivelano i protagonisti di una grande storia.

 

La fisarmonica verde Andrea Satta Pagine: 120 – Prezzo: 16 – Editore: Mondadori