L’happening quirinalizio si è chiuso col trionfo dello status quo: la ri-elezione di Sergio Mattarella inchioda Mario Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023 e la sua maggioranza a sostenerlo, al di là dei mal di pancia, almeno fino all’autunno (dopo sarà difficile che non parta la campagna elettorale). Un secondo anno al governo per l’ex presidente Bce che ha tratti psicologici molto simili a quello che toccò in sorte – mutatis mutandis – a un altro salvatore della patria, Mario Monti, prima osannato e poi rapidamente dimenticato dalla libera stampa. Draghi non farà, crediamo, l’errore del suo omonimo, candidarsi, ma si ritrova comunque davanti un 2022 assai complicato, che rischia di intaccarne lo status mediatico di semidio e proprio nel campo in cui dovrebbe eccellere, l’economia. La situazione in cui dovrà governare non è, infatti, delle più rosee: un governo con pochi margini di manovra basato su partiti a pezzi dopo il balletto sul Colle. Un riassunto per punti.
Inflazione. Siamo a livelli record in Italia e in Eurozona, colpa in larga parte dei prezzi energetici, a loro volta spinti da tensioni geopolitiche. Non c’è molto che Draghi possa fare ora, a parte metterci una pezza con aiuti a famiglie e imprese (vedremo di che entità) e sperare che la fiammata finisca presto: la corsa dei prezzi, però, sta già frenando la crescita, il che è ovviamente un grosso problema per il governo. La cancellazione di fatto del superbonus al 110% e il rifiuto di procedere subito a nuovo extra-deficit per il caro-bollette e i ristori dei settori in crisi per il Covid è il primo segnale esplicito del contesto mutato: una cosa che non può non spiacere alla maggioranza.
Bce. L’inflazione alta sta anche accelerando la resa dei conti all’interno della Banca centrale europea, che da anni assorbe tutte le nuove emissioni nette del debito italiano. La dilettantesca conferenza stampa in cui Christine Lagarde, venerdì, ha dato l’idea (salvo poi smentire) che era alle viste un rialzo dei tassi di interesse ha già avviato pressioni sui rendimenti dei titoli di Stato: il Btp decennale pagava un teorico 1,7% alla chiusura di venerdì contro lo 0,6% di un anno prima. Questo si tradurrà in un (per ora piccolo) aumento del costo del debito: un altro fattore che ingesserà il bilancio dello Stato, riducendo la libertà d’azione dell’esecutivo.
Crescita. Il pericolo più grosso ora è la gelata sul Pil arrivata tra fine anno e gennaio per il combinato disposto tra prezzi dell’energia e ondata pandemica. L’indice “euro-coin” di Banca d’Italia, che misura la congiuntura dell’Eurozona, a gennaio ha segnato 0,01 dallo 0,21 del mese precedente (in estate era attorno a 1). Insomma, di fatto il Pil era fermo. Secondo la Nota sulla congiuntura di febbraio dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), “i numerosi segnali di rallentamento” dovrebbero passare in primavera: molto dipenderà dall’inflazione. Per l’Upb, in ogni caso, la crescita 2022 si attesterà al 3,9% per scendere “nel 2023 all’1,9%, anche per via dell’intonazione meno espansiva delle politiche economiche”. Il governo, ad oggi, stima invece +4,7% e +2,8%, cioè quasi 2 punti di Pil in più nel biennio: anche la minor crescita ha effetti sul bilancio.
Patto di Stabilità Ue. Com’è noto, i vincoli sui conti pubblici sono in parte sospesi fino alla fine dell’anno ed è a quella scadenza che si riferisce l’Upb parlando di “intonazione meno espansiva delle politiche economiche”: con la manovra 2023, che va presentata a ottobre, si torna gradualmente a contrarre il bilancio pubblico. In realtà, il Pnrr impone entro giugno – ma andrà incorporata nel Documento di economia e finanza di aprile – una corposa spending review (tagli di spesa) per il prossimo triennio. La speranza di tutti – e il vero compito di Mario Draghi a Palazzo Chigi – è una riforma del Patto di Stabilità che attribuisca alla crescita il ruolo di stabilizzare deficit e debito rispetto al Pil: in sostanza un’impostazione opposta a quella degli “zero virgola” che negli scorsi decenni ha penalizzato l’Italia e mezza Europa. Il premier, a questo fine, punta tutto sull’asse con la Francia di Emmanuel Macron (ammesso che resti all’Eliseo dopo le presidenziali), ma Berlino non pare aver cambiato, insieme al governo, impostazione: il ministro delle Finanze Christian Lindner venerdì è venuto a Roma per dire che il debito va ridotto, non ci sarà alcuna condivisione dei rischi (una richiesta esplicita di Draghi e Macron), al massimo qualche eccezione per gli investimenti green o digitali, e che non è il momento di fare spesa corrente in cose come “pensioni” (su cui è aperto un tavolo coi sindacati) o “redistribuzione”. L’Italia, è il parere di Berlino, ha avuto il Next Generation Eu: lo usi bene perché non avrà altro.
Pnrr. Il secondo semestre del 2021 è stato il giro di riscaldamento, ora inizia la gara vera. Come si sa, per ottenere le rate semestrali bisogna centrare una serie di obiettivi tanto temporali che qualitativo-quantitativi: sono 100 quelli previsti nell’arco del 2022 (83 milestone e 17 target). Protagoniste con circa metà delle scadenze sono le missioni “digitalizzazione” e “transizione ecologica”, i ministeri maggiormente sollecitati quest’anno saranno le Infrastrutture di Enrico Giovannini e il Mite di Roberto Cingolani (ad oggi non proprio una macchina perfetta).
È utile ricordare che il Pnrr non vive di soli appalti o spese, ma anche di riforme di natura “politica”, non sempre indolori. In Parlamento, ad esempio, giace il ddl Concorrenza, su cui molteplici sono le “perplessità” dei partiti, a cominciare dalle norme che intendono obbligare i Comuni a mettere a gara tutti i servizi pubblici locali, senza dimenticare l’annosa diatriba sulle concessioni balneari. Ovviamente anche il rispetto dei vincoli di bilancio è imposto dal Pnrr.
Più in generale, parliamo di uno sforzo enorme della macchina pubblica – e giudicato su una metrica che le è largamente estranea, quella appunto dei target e milestone in uso a Bruxelles – che è ormai nei fatti (viste le ultime scelte di Draghi e del ministro Daniele Franco) l’unica fonte di finanziamenti aggiuntivi in mano all’esecutivo: insomma un programma di governo obbligato di qui al 2026. “Aggiuntivi”, però, è vero solo in parte. Oltre il 60% dei 191,5 miliardi “europei” sono infatti prestiti e i restanti sussidi andranno comunque ripagati pro-quota: l’aiuto netto del Next Generation Eu oscilla – in sei anni – tra i 20 miliardi calcolati dai pessimisti e i 40 miliardi dagli ottimisti.
Nomine e imprese. A Palazzo Chigi i consiglieri di Draghi, su tutti l’economista Francesco Giavazzi, sono al lavoro in vista del rinnovo primaverile degli organi di parecchie società pubbliche: parliamo di 350 poltrone tra consigli d’amministrazione (230) e collegi sindacali (120). Questo passaggio consentirà a un premier senza partito di rafforzare la sua base di potere nel Sistema Italia: parliamo di grosse aziende come Invitalia, in cui va a scadenza Domenico Arcuri (in carica dal 2007), Snam, Sace, Fincantieri, Simest, Sport e Salute, diverse società del Gruppo Fs, eccetera. Per portarsi avanti, oggi il premier e il ministro Franco dovrebbero giustiziare l’ad di Mps Guido Bastianini, reo di ritenere possibile che la banca continui a vivere anche da sola. Come che sia, è dalla galassia delle partecipate – non va dimenticato che la Cdp è presidiata dal fido Dario Scannapieco – che Draghi può influire su quel che resta del sistema produttivo italiano: il 2022 sarà infatti anche l’anno in cui, tra le altre cose, esploderà in faccia al Paese la crisi dell’industria dell’auto e che disegnerà il futuro dell’ex Ilva, ad oggi un buco nero gestionale e finanziario, in passato snodo fondamentale per la competitività del manifatturiero italiano.
I PARERI
Gustavo Piga
L’Italia è già tornata all’austerità, così il declino è certo
Il 2022 non sarà l’anno della fine dell’austerità. Può sembrare azzardato, tanto più che sarà l’anno in cui arriveranno i primi fondi veri del Pnrr. Ma è proprio il Pnrr la nuova armatura a protezione dell’austerità avviata dal 2011 con il Fiscal Compact, un’armatura che si è sgretolata a forza di evidenze empiriche sulla sua distruzione di occupazione, imprese, benessere, sicurezza e uguaglianza. Tanto che quando il Parlamento Ue ne ha censurato l’utilità nessuno ha più trovato il coraggio di proporne l’inserimento nei Trattati Ue.
Ma quello che è uscito dalla porta è rientrato dalla finestra. L’art. 10 del Regolamento Ue 2021/241 (che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza) dispone come la Commissione possa presentare al Consiglio Ue una proposta di sospensione dei pagamenti se uno Stato ha presentato un piano d’azione “correttivo” insufficiente in presenza di “squilibri eccessivi”, un linguaggio noto agli studiosi dell’austerità in salsa europea. Con una mano si si dà, con l’altra si riprende. Vogliamo i soldi del Pnrr? Li avremo solo in un contesto analogo a quello del Fiscal Compact.
Ecco spiegato perché Draghi (e prima Conte) si sono adeguati a rassicurare l’Europa che, nel bel mezzo della peggiore crisi degli ultimi 80 anni, l’Italia, invece di risollevarsi con una politica fiscale espansiva, farà per i prossimi anni la consueta austerità. I numeri lo confermano. Dopo aver promesso per il 2021 un deficit dell’11,8% del Pil, questo sarà al 5,6% per il 2022 : un taglio di maggiori spese e minori tasse oltre 6 punti di Pil, 120 miliardi. Deficit che, lo abbiamo promesso, calerà verso il 3% nel 2024.
E quindi se vi chiedete perché l’Italia sarà il Paese che a fine 2022 avrà perso altro terreno rispetto a tutti gli altri dai livelli pre-Covid (+1,8% contro il 3% dell’area euro e il 7% degli Stati Uniti) basterà guardare a Biden, con deficit attorno al 10% del Pil rispetto a quelli rachitici europei del 3%: in tempi terribili è con gli investimenti pubblici in deficit che si salvano i paesi e le loro democrazie. Ma forse è tempo di chiederci, ancor prima di come abbattere l’austerità, di come restaurare la democrazia.
Andrea Roventini
Un piano con troppe cose: non garantisce alcun vero sviluppo
Nonostante la recente crescita, il Pil italiano è ancora inferiore a quello del 2008. Inoltre, i salari soffrono di una stagnazione pluri-decennale. Ciò è dovuto alla bassa crescita delle produttività che affligge da lungo tempo la nostra economia. Il Pnrr deve quindi essere l’occasione per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana che ne frenano la crescita. Questo richiede investimenti e politiche d’innovazione in un quadro europeo dove il 50% dei fondi deve essere destinato alla trasformazione digitale e alla transizione verde. Purtroppo, il Pnrr italiano non va in questa direzione.
Da un lato, i fondi europei si disperdono in troppi progetti. Dall’altro, si concentrano gran parte delle risorse in sussidi alla trasformazione digitale delle imprese e nel Superbonus 110% che affidano alla “magia dei mercati” la trasformazione dell’economia italiana. Ma data l’elevata complessità dei problemi e la necessità di interventi organici e coordinati, l’impatto delle misure rischia di essere limitato e di ridursi a un Sussidistan per alcuni gruppi sociali. La relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio sul Superbonus conferma tali preoccupazioni. Che si può fare? Serve ruolo dello Stato per realizzare politiche industriali e d’innovazione trasformative. La transizione verde offre molti esempi. L’elettrificazione dell’economia richiede investimenti in energia solare e in parchi eolici off-shore che possono portare allo sviluppo delle tecnologie di cui alcune imprese italiane sono leader. Purtroppo, gli investimenti nelle rinnovabili languono da anni. La decarbonizzazione delle industrie ad alte emissioni, come la siderurgia, richiede lo sviluppo di tecnologie legate alla filiera dell’idrogeno verde. Svezia e Germania hanno impianti pilota, mentre l’Italia non ha una strategia di rilancio dell’Ilva. L’avvento dell’auto elettrica necessità di una politica industriale per il settore auto, mai pervenuta come mostrano le numerose crisi aziendali. Il rilancio della produttività italiana richiede politiche keynesiane d’offerta assenti dal nostro Pnrr, che rischia di essere l’occasione sprecata per trasformare e rilanciare la nostra economia.