“Salvini mi ha rubato 6 milioni di euro” Le accuse di Brigandì

Una truffa da 6 milioni di euro realizzata da Matteo Salvini. È quanto sostiene Matteo Brigandì – ex parlamentare della Lega Nord, già membro del Csm, per anni avvocato del partito e di Umberto Bossi – in una denuncia indirizzata alla procura di Milano e datata 12 agosto 2020. Una ventina di pagine che Il Fatto ha potuto leggere, nelle quali Brigandì ripercorre gli eventi salienti che dal 2012 a oggi hanno trasformato la Lega da partito federalista a forza nazionalista, da Bossi a Salvini, da Lega Nord a Lega Salvini Premier. Una denuncia in cui la politica si mischia al denaro, in particolare ai 49 milioni che ancora oggi pesano come un macigno sulle finanze del vecchio Carroccio. Perché – questo è il succo del ragionamento di Brigandì – Salvini ha fatto “sparire i soldi”.

Al centro della querela c’è una scrittura privata datata 26 febbraio 2014. Quel giorno, a Milano, s’incontrano Bossi, Brigandì, Salvini e Stefano Stefani, allora tesoriere leghista. Lo scandalo della truffa sui rimborsi elettorali, la laurea in Albania del Trota e gli investimenti finanziari in Tanzania avevano già costretto Bossi alle dimissioni. Da segretario della Lega, Salvini quel giorno deve risolvere una grossa grana. Il Carroccio rischia di vedersi sequestrare 6 milioni di euro. Sono soldi che il partito dovrebbe versare a Brigandì per 13 anni di lavoro. “Somma concordata con contratto scritto, stipulato fra me e la Lega nel 2012”, scrive Brigandì nella denuncia. L’accordo prevede una specie di armistizio tra la coppia Bossi-Brigandì e il duo Salvini-Stefani. Armistizio che Brigandì riassume così: “Io rinunciavo ai 6 milioni di euro e, in cambio, Salvini si impegnava a una serie di azioni volte a garantire che il pensiero politico di Bossi e dei suoi collaboratori non fosse completamente gettato alle ortiche”. Tra le varie condizioni, l’accordo sottoscritto da Salvini prevedeva che Bossi – allora come oggi presidente della Lega Nord – potesse scegliere il 20% dei candidati leghisti.

“Nulla di quanto stipulato è mai stato rispettato da Salvini”, sostiene però Brigandì. Che infatti passa al contrattacco. Salvini “si è premurato di stipulare un accordo transattivo, che evidentemente considerava vantaggioso, al solo fine di guadagnare tempo prezioso per poter occultare il denaro. Denaro che avrebbe, invece, dovuto darmi di lì a qualche giorno”. Nella sua denuncia l’ex avvocato di Bossi ricorda che al momento dell’accordo del 2014 il partito aveva ancora parecchio denaro sui conti. Come dire: l’avvocato sarebbe potuto passare subito all’incasso. Ma non lo fece, scrive nella denuncia, perché “ritenevo fondamentale che fossero garantiti idonei spazi politici per l’On. Bossi direttamente – e anche per il sottoscritto indirettamente”. La tesi è che l’accordo sia servito a Salvini per comprare tempo e nel frattempo far sparire i soldi dalle casse padane, così da non poter più restituire all’avvocato i 6 milioni di euro di parcelle arretrate.

“A ciò si aggiunga, come ulteriore dimostrazione delle intenzioni truffaldine di Salvini, che poco dopo – denuncia Brigandì – è stato creato un altro partito, Lega Salvini Premier, che oggi è al vaglio dei giudici penali proprio in quanto parrebbe che esso sia stato costituito al fine di ostacolare o sviare i creditori (non solo io, ma anche lo Stato) per impedire loro di ottenere quanto dovuto”.

La denuncia a Salvini arriva dieci mesi dopo la condanna in primo grado per Brigandì a due anni e due mesi per infedele patrocinio e autoriciclaggio. Secondo il tribunale di Milano, da avvocato della Lega Brigandì è stato infedele ai suoi doveri professionali notificando a se stesso un decreto ingiuntivo che gli ha permesso di incassare quasi 1,9 milioni di euro. Un fatto che il legale stesso ricorda nella denuncia con l’obiettivo di suffragare la sua tesi: l’accordo privato con Salvini, che prevedeva tra le altre cose un armistizio giudiziario tra le parti, non è stato rispettato perché la Lega si è costituita parte civile.

Malavenda: “La risposta sui consiglieri in un mese”

Pasquale Tridico ha preferito attendere. I nomi dei parlamentari che hanno richiesto il bonus Covid ancora non ci sono, ma l’audizione di ieri in commissione Lavoro alla Camera conferma, se non altro, che l’identità dei politici potrebbe essere rivelata presto e che, questa è la novità, l’Autorità Garante per la privacy potrebbe dare il via libera anche per la trasparenza sui consiglieri regionali coinvolti se – come prevedibile – confermerà la posizione già espressa nei giorni scorsi. A sostenerlo è Caterina Malavenda, avvocato esperta di diritto dell’informazione che sottolinea anche come almeno una “richiesta formale dei nomi” all’Inps sia già pervenuta, vista la domanda di accesso agli atti inviata dal Fatto.

Avvocato Malavenda, perché non sono emersi i nomi?

Credo che Tridico abbia prudentemente voluto tutelarsi per evitare che qualcuno degli interessati, ritenendo illegittima la divulgazione del suo nome, potesse agire nei suoi confronti per violazione della privacy, a mio avviso in maniera infondata.

Perché un altro parere del Garante?

Sul merito si è già espresso, ma lo ha fatto con una nota stampa che è servita a rendere nota la sua posizione. Un parere motivato, reso dai componenti dell’Autorità su espressa richiesta dell’Inps, avrebbe una precisa valenza giuridica e, se fosse positivo, i nomi potranno esser resi noti senza alcun rischio di conseguenze legali.

Non sono stati citati neanche i nomi noti. Perché?

Se l’Inps ha ritenuto di non rivelare l’identità degli altri interessati, non avrebbe avuto senso confermare quelli già noti senza il loro consenso.

Se il Garante darà l’ok, avremo trasparenza anche sui consiglieri regionali?

È probabile di sì, ma occorre vedere la richiesta dell’Inps, perché è a quella richiesta che risponderà. Stando al comunicato, il Garante potrebbe dichiarare divulgabili le generalità di tutti i soggetti eletti che hanno chiesto il bonus, comprendendo deputati, consiglieri regionali e comunali, anche se questi ultimi, percependo solo un gettone di presenza, potrebbero aver chiesto il sussidio per un reale stato di indigenza e ciò renderebbe tutelabile la loro privacy, sempre secondo il comunicato del Garante.

Quindi non sarebbe più necessario il consenso di ogni consigliere regionale?

Se l’Autorità autorizza l’Inps con parere formale e motivato, l’Istituto non ha più motivo di tacere quei nomi.

Il Fatto ha presentato richiesta di accesso agli atti. Che esito avrà?

L’Inps ha 30 giorni per rispondere. Il Fatto è persino un passo avanti rispetto alla Commissione perché la richiesta all’Inps era diretta anche al Garante per il suo parere ed è pervenuta prima rispetto a quella della Camera. In più, il Fatto è titolare del diritto di informare costituzionalmente garantito, e l’interesse pubblico è nelle cose. Ci sono tutti gli elementi perché l’Inps risponda positivamente, se il Garante confermerà la sua posizione.

Bonus: niente nomi per privacy L’audizione-beffa alla Camera

“Se la commissione Lavoro ha l’esigenza di una informazione puntuale, ci faccia una richiesta formale e noi dopo aver chiesto al Garante della Privacy come trattare questi dati, offriremo una risposta esauriente”. Doveva essere l’occasione per fare chiarezza dopo la buriana. E invece la lunga audizione del presidente dell’Inps Pasquale Tridico alla Camera, organizzata in pieno agosto, pur di dargli modo di ufficializzare i nomi dei deputati che hanno chiesto di incassare il bonus destinato ad aiutare le partite iva in difficoltà, si è trasformata in una autodifesa a tutto campo: “L’Inps è vittima, non carnefice nella vicenda bonus: respingo al mittente ogni accusa verso di me, i dirigenti e i funzionari di un’azione manipolata. Ho ordinato un audit interno su notizie che sono state trafugate” dice mentre incombe sulla sua testa l’istruttoria avviata dallo stesso Garante che vuole capire se l’Inps, con l’occasione offerta dai controlli sulla regolarità delle richieste di bonus, ha prodotto una schedatura in piena regola dei politici.

Un’accusa intollerabile per Tridico sospettato di aver lavorato per la causa del referendum sul taglio dei parlamentari così caro al M5S che lo ha voluto ai vertici dell’Istituto di previdenza. Timori a parte però, Tridico dei nomi dei protagonisti dello scandalo estivo del bonus non ne ha fatto neppure uno. “I tre deputati che hanno ottenuto il bonus sono quelli che si conoscono” si limita a dire confermando ma indirettamente che si tratta davvero dei deputati Andrea Dara ed Elena Murelli sospesi dalla Lega dopo un’inchiesta interna. E di Marco Rizzone del Movimento 5 Stelle, scovato dai suoi giusto poche ore prima dell’audizione del presidente dell’Inps, dopo una caccia all’uomo durata giorni. Resta invece fitto il mistero sugli altri due eletti in Parlamento che il bonus lo avrebbero chiesto senza riuscire a ottenerlo. Chi sono? Inutile chiederlo al presidente dell’Inps: ne rivelerà l’identità, forse, solo dopo che il Garante della Privacy “ci avrà detto come trattare questi dati”: solo allora e sempre che a Montecitorio si insista per saperli – ha detto Tridico – “offriremo una risposta esauriente”.

Ora il fatto è che Tridico così cauto di fronte al Parlamento, di risposte esaurienti ne ha sicuramente già date a Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Italia Viva e incidentalmente vicepresidente della Camera. Che appena appreso da notizie di stampa che anche un deputato renziano è sospettato di aver chiesto il bonus da 600 euro per le partite iva messe in ginocchio dal coronavirus, ha alzato il telefono per chiedere lumi direttamente al presidente delI’Inps. Che con lui non ha fatto storie.

Almeno a quanto ha raccontato lo stesso Rosato: “Tridico mi ha rassicurato che nessun parlamentare di Iv ha incassato il bonus”. Su queste informazioni fornite, per le vie brevi, da Tridico ha insistito il deputato di Fratelli d’Italia Walter Rizzetto nell’audizione di ieri alla Camera. Non ottenendo granché. Il presidente dell’Inps non ha negato la telefonata ma ha sorvolato sui suoi contenuti: “È questione personale che esula dai lavori della Camera”.

A Renata Polverini di Forza Italia. Ha chiesto se sia vero che un presidente di regione risulta nella lista dei beneficiari: non ha ricevuto alcuna risposta.

Ma insomma cosa è successo all’Inps? “Una volta ricevuto la segnalazione dell’Antifrode ne ho informato il consiglio di amministrazione: era il 30 maggio” ha precisato Tridico che non ci sta a finire sulla graticola per i controlli, i cui esiti sono usciti sui giornali diventando un caso. Quanto al bonus dello scandalo non è ancora chiaro se chi lo ha incassato dovrà restituirlo: va accertato se il fondo a cui versano i contributi per ottenere il vitalizio dopo la fine del mandato, può essere considerato una forma di previdenza obbligatoria che preclude il diritto di godere del bonus Iva.

Vietato ai maggiori

Si spera che ieri, vigilia di Ferragosto, il minor numero possibile di italiani abbia seguito l’audizione del presidente Inps Pasquale Tridico in commissione Lavoro della Camera. Uno spettacolo pornografico che in un paese civile andrebbe vietato non tanto ai minori di 18 anni, che non votano, quanto ai maggiori, che votano. Ma dopo certe scene lo faranno sempre meno. E avranno mille giustificazioni che nessuno dovrà permettersi di definire “antipolitica”. Perché l’antipolitica è esattamente quella a cui abbiamo appena assistito. Sette giorni fa Repubblica rivela che l’Antifrode Inps ha beccato 5 deputati e 2mila politici locali a chiedere il bonus per partite Iva in difficoltà. Il presidente della Camera Roberto Fico annuncia al Fatto l’audizione di Tridico, che il Garante della Privacy libera dai vincoli di riservatezza perché “la privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati sui beneficiari del contributo” in caso di falsi poveri, per giunta titolari di “funzione pubblica” tenuti dalla Costituzione a svolgerla con “disciplina e onore”. Poi però lo stesso Garante indaga sull’Inps per violazione della privacy. Il Fatto chiede all’Inps l’accesso agli atti per il diritto-dovere di cronaca. Risultato: dopo giorni di linciaggio da giornali e partiti di destra (inclusa Iv), ma anche dal Corriere, ieri Tridico viene lapidato da quasi tutti i deputati. La colpa non è degli onorevoli accattoni, ma di chi li ha scoperti. Lo scandalo non è la notizia in sé, ma il fatto che si sia saputa in giro.

La scena dei deputati che chiedono le dimissioni del presidente Inps perché difende i pensionati onesti dai ladri che minacciano le loro pensioni resterà, a imperitura memoria, nel museo degli orrori della politica, anzi dell’antipolitica. Così come quella di Tridico che, intimidito dai disonorevoli e dal doppio gioco del Garante, non fa i nomi neppure dopo 7 giorni perché – testuale – “abbiamo investito il garante, che ha scritto una nota, che ha bisogno di un approfondimento, che è in corso. Se la Presidenza ci fa pervenire richiesta formale, valuteremo col Garante se fornire i nomi” dei cinque deputati, di cui nel frattempo tre si sono autodenunciati. Nessuna notizia dei 2mila politici locali, anch’essi tenuti a “disciplina e onore” e sprovvisti di diritto alla privacy. Uno spottone all’antipolitica che, insieme alle scuse pietose dei furbastri, porta altra acqua al mulino dell’astensionismo e del qualunquismo. Noi intanto attendiamo risposta alla nostra istanza (si spera prima del termine ultimo di 30 giorni), confortati dalle già 65mila firme alla nostra petizione. Non molleremo l’osso finché non avremo tutti i nomi. Convinti come siamo, con Louis Brandeis, che “la luce del sole è il miglior disinfettante”.

“Macchè Cartesio e complotti, ‘Matrix’ parla di transessuali”

“Matrix è ovunque, è il mondo messo davanti ai tuoi occhi per accecarti e non farti vedere la verità”. Chiunque abbia visto Matrix non può dimenticare la scena cult della trilogia cinematografica firmata dalle sorelle Wachowski: il momento in cui Morpehus, capo della resistenza contro le macchine, chiede all’hacker Neo di scegliere se ingerire una pillola rossa, per scoprire la verità, e una pillola blu, per dimenticare tutto e tornare a una vita finta. Keanu Reeves non esita, sceglie la consapevolezza e la lotta contro i dittatori meccanici. Dal 1999 a oggi il film – campione di incassi – è stato interpretato e sezionato alla ricerca ermeneutica del significato nascosto. L’amore di Neo e Trinity, la loro lotta contro il potere oscurantista virtuale è diventata di volta in volta una metafora ora politica, ora filosofica e persino religiosa.

A svelare, finalmente, il mistero sono state le stesse registe Lilly e Lana in un video realizzato per Netflix a inizio agosto: Matrix è un’allegoria dell’esperienza di una persona transgender, chi cioè non si riconosce nel proprio sesso biologico. Loro stesse, una volta uomini, sono oggi donne transgender. “Siamo felici che sia venuto fuori. Era l’intenzione originale, ma il mondo non era pronto. O meglio, le case di produzione non lo erano”. Il simbolismo della trama adesso è immediato: Neo ha una doppia vita e deve imparare a conoscere e amare il suo vero sé senza paura. Un percorso difficile e spesso in salita per molte persone in transizione. Ad aiutarlo c’è la famosa pillola rossa, lo strumento con cui Neo riesce a uscire dal sistema. “Più che una metafora per la terapia ormonale, un ormone vero e proprio. Nelle discussioni in rete, molti sottolinevano come negli anni ’90 il farmaco a base di estrogeni che si acquistava dietro prescrizione medica fosse effettivamente rosso: la compressa di Premarin da 0.625 mg è di un morbido color granata tendente al cioccolato”, commenta la critica e scrittrice Andrea Long Chu. La rivelazione ha gettato nella disperazione i gruppi online machisti, i Red Piller, abituati a considerare Matrix come il film che svela l’inganno di un grande gomblotto mondiale femminista ai danni dell’uomo, privato del suo ruolo di capofamiglia nella modernità. Forse a loro conveniva scegliere la pillola dell’oblio, quella blu.

I “vaffa” di Marcello: le donne se le beveva e mamma lo insultava

Veniva descritto come un playboy, le riviste patinate di allora lo mostravano sempre in contesti festaioli, circondato da allegria e donne, champagne e grida. Falso. Lui dalle donne veniva sedotto il tempo di un rum, magari due, niente di meglio; era un trofeo dal quale non era in grado di difendersi. La madre lo trattava come un ragazzino incapace di decifrare i codici della vita, quella mamma Ida che in alcuni momenti di preoccupazione era in grado di raggiungerlo sul set e urlargli insulti, accuse, reprimende: “Vai in giro solo con delle mignotte!”, il refrain esibito in romanaccio stretto. Lui subiva, quasi sempre in silenzio. Però si vergognava, non solo della mamma, anche di ciò che era diventato e nei momenti peggiori era facile scovarlo solo, di notte, non sempre lucido, mentre vagava infagottato per Roma. Quando veniva pizzicato dai flash non sempre reagiva bene, il “vaffa” era il minimo, così come il braccio che fendeva l’aria solo per scacciarci, “va’ a fa’ il metalmeccanico!”, il suo classico insulto rivolto a me; io gli rispondevo: “A’ Marce’, è solo una foto”.

Una volta fu Marcello a chiamare. Faye Dunaway lo aveva lasciato e lui aveva finito di girare Scipione detto l’Africano, da lì la sua strategia: qualche scatto insieme a Catherine Deneuve e una finta relazione da rilanciare sui rotocalchi, obiettivo far ingelosire la Dunaway. Quelle foto uscirono anche sul Daily Mail, con un “però”: a Faye non importò nulla, al contrario della Deneuve. Catherine decise di prendersi il bel Mastroianni, di tramutare la finzione in relazione, di costruire qualcosa con lui: solo una lunga fase, dentro la solitudine. Nell’ultimo decennio della sua vita, come di frequente accade, gli angoli negativi si erano accentuati, e trovarlo solo era semplice e doloroso. Solo con i suoi silenzi. Le sue malinconie. Le incomprensioni. Il bicchiere di Fernet in mano. E qualcuno che si avvicinava per strappargli gli ultimi barlumi di fama che, al di là delle leggende, non gli era mai appartenuta.

Bukowski

“Ok, Hank. Ti offro cento dollari al mese. Finché campi”. Bukowski guarda fuori dalla finestra. Un vitalizio! Quel che gli propone l’editore John Martin basta e avanza per mollare l’impiego all’ufficio postale e mettersi a scrivere a tempo pieno. Le spese correnti? Beh, 35 dollari per la tana a East Hollywood; 15 destinati agli alimenti all’ex moglie, la poetessa texana Barbara Frye, che aveva sposato senza averla mai vista; 3 per le sigarette, 10 in vino e birra e altri 15 per ficcarsi qualcosa nello stomaco. Miracoloso, questo dicembre 1969.

Martin è il Santa Claus che gli regala la chance di non impazzire smistando le buste chiuse sulla vita segreta della gente, e le cartoline così impudiche. Sì, cazzo, da oggi la penna nel taschino avrà il suo daffare. Martin e la casa editrice Black Sparrow non dovranno aspettare: dopo un mese ecco lo scartafaccio di Post Office, il romanzo d’esordio di Charles Bukowski. Autobiografico, certo: il postino ubriacone che suona sempre una volta, e quella galleria di donne così banalmente disponibili che non capisci se è la visione del primo dei nichilisti o dell’ultimo dei romantici.

Bukowski misantropo più che misogino, apocalittico anacoreta schiantato dai blues spirituali nella sua celletta: “Siete tutti così bravi, così fighi, così giusti, eppure là fuori è ancora pieno di gente di merda”. L’antisociale “Hank”, che quando si sveglia vorrebbe tirarsi le coperte sulla testa: a patto che gli sia rimasta un’ultima lattina della “six pack”, la confezione da sei. Non è colpa sua: il destino gli ha messo sulla schiena una scheggia della Storia che pesa una tonnellata. Nasce cent’anni fa, 16 agosto 1920, ad Andernach, in Germania, dove il papà Henry (americano di sangue teutonico) svolge il servizio militare. La prima guerra mondiale è finita, lo spirito del Kaiser sventrato dall’umiliazione bellica. E la gente ha fame. Henry corteggia una ragazza del posto, Katarina: la conquista con le bistecche rubate per lei nella mensa dell’esercito. La famigliola torna aldila dell’Atlantico con il piccolo Heinrich Karl (il vero nome di Bukowski jr.), ma nel tempo sbagliato della Grande Depressione: bisogna ancora tirare la cinghia. Papà Henry perde il lavoro e un bel po’ di senno, il figlioletto è facile preda dei bulli per l’accento e per quell’accidente di acne che gli devasta la faccia. Ovvio che crescendo, viva la distanza dagli altri come una benedizione: “A volte ho la sensazione di essere solo al mondo. Altre volte ne sono sicuro”, scriverà Bukowski.

Da ragazzo ci mette il carico dichiarandosi nazista, senza neppure sapere cosa significhi, è solo la lontana eco del disprezzo di zio Aldolf per il genere umano. Niente a che vedere con l’adesione dell’idolo Céline a Hitler. Le donne? Ci stanno, ma solo dopo aver bevuto un po’ insieme, magari quel vinaccio che Charles tracanna da quando ha 14 anni. Tutte, si lamenta, pronte a sfiorarti la pelle, nessuna che ti si avvicini all’anima. Ne descriverà a decine, impietosamente, sempre immalinconito dalla depressione post-coitale, l’urgenza sessuale scaricata in fretta come un bagaglio. Una frase torna come un mantra porno: “Mi appoggiai al suo culo caldo, stantuffai un paio di colpi e rotolai di lato”. La tragedia di un (vecchio) porco in una riga. Che spreco di energie vitali. Meglio sbronzarsi. Un giorno del ’55 esagera con l’alcol e finisce in ospedale per un’ulcera. A salvarlo, grazie a una trasfusione, è sorprendentemente l’inaffidabile padre. Hank si rintana nelle stesse stanze decrepite glorificate da quelli della Beat Generation, che però se ne fregano del decoro del riparo di una notte, tanto poi si riparte verso non si sa dove. Bukowski no, è stanziale. Lontano dalle vertigini prosodiche di Kerouac ma anche dai maestri dell’eleganza formale. Ammira lo stile di Hemingway, ma sotto sotto lo giudica un fighetta. Andasse a farsi fottere, “Hem” e la pesca al marlin. Meglio le corse dei cavalli.

Cento dollari al mese. Diventano diecimila ogni due settimane, l’editore mantiene la parola man mano che i libri di Bukowski conquistano il pubblico. Factotum, Donne, i volumi di racconti e poesie. Lo star-system se lo contende come un trofeo: Mickey Rourke lo incarna nel film Barfly, Bono gli dedica il concerto degli U2 al Dodgers Stadium. Lui e la moglie buddista Linda sono in prima fila con Jack Nicholson. Una volta Hank sta male: Elliott Gould e Sean Penn lo trascinano dagli specialisti di Beverly Hills, che non cavano un ragno dal buco. Bukowski porta il gatto dal veterinario, che gli diagnostica la tubercolosi. Malattia da poveri, sconosciuta alle stelle. Chissenefrega, pensa Hank, tanto moriremo tutti. Il suo turno è il 9 marzo 1994. Sulla lapide è scritto: “Don’t try”. Non provarci. Aspetta l’ispirazione. Magari sotto le coperte, con l’ultima lattina.

Un amore da fantasy: tutto Donald-Kim in 25 lettere

Sarà in libreria il 15 settembre “Fear”, il nuovo libro “bomba” di Bob Woodward sulla casa bianca.

“Uscito da un film fantasy”: non il libro di Bob Woodward sulla Casa Bianca di Donald Trump, ma il rapporto tra il magnate presidente e il dittatore nord-coreano Kim Jong-un, che così lo descrive in una delle almeno 25 missive scrittegli – molte di più di quante s’era finora saputo – e contenute nel libro di Woodward. Dalla Paura del 2018 alla Rabbia di oggi, Bob Woodward, con Carl Bernstein uno dei due artefici dell’inchiesta Watergate, sforna un altro titolo scomodo per il presidente, che questa volta ha evitato lo scontro frontale con il prestigioso giornalista del Washington Post e s’è almeno fatto intervistare, dopo avere detto, quando uscì Paura, che non avrebbe mai più avuto nulla a che fare con lui. Il libro di Woodward, due volte premio Pulitzer, continua la serie dei “volumi bomba” sulle aspirazioni di bis presidenziale di Trump il 3 novembre: dopo i libri “ostili” di John Bolton, ex consigliere per la Sicurezza nazionale, e di Mary Trump, sua nipote, ecco Fear, in vendita il 15 settembre, anch’esso a cura della casa editrice Simon & Schuster. Le prime indiscrezioni sui contenuti sono state filtrate alla Cnn, che anticipa resoconti “esplosivi” delle opinioni e delle azioni di Trump in tema di sicurezza nazionale, epidemia da Covid, crollo dell’economia e proteste anti-razziste del movimento Black Lives Matter. Il libro è frutto di centinaia di ore di interviste con persone a conoscenza diretta dei fatti e anche di oltre 10 interviste con lo stesso Trump, alla Casa Bianca, a Mar-a-lago in Florida e per telefono. Fra i documenti inediti, note, email, diari, calendari; e le almeno 25 lettere personali tra Trump e Kim: missive cui le fonti si riferiscono come a “lettere d’amore” straordinarie, dagli scambi d’insulti al “cheek to cheek”. Il titolo del libro deriva da una frase detta da Trump nel marzo 2016 in un’intervista con Woodward e un altro giornalista del Washington Post: “Io provoco rabbia”, disse il magnate; “Non so se sia un vantaggio o uno svantaggio, ma qualunque cosa sia, è così”.

“A Hong Kong prove di regime. Adesso l’Europa deve reagire”

“E cosí ho detto addio alla mia città. Mentre l’aereo prendeva quota, ho guardato per l’ultima volta l’orizzonte che tanto amo. Se mai avrò la fortuna di tornare, spero di essere ancora chi sono ora: un giovane uomo con le stesse convinzioni. Gloria a Hong Kong”. Come molti giovanissimi attivisti pro-democrazia dell’isola, Nathan Law, 27 anni, è già un veterano dello scontro con il regime cinese: fra i fondatori di Demosisto, il movimento studentesco che ha mobilitato centinaia di manifestanti per le strade dell’ex colonia britannica, è stato arrestato, minacciato, preso di mira. Dopo l’approvazione da parte di Pechino, il 30 giugno scorso, della nuova legge sulla sicurezza che punisce qualsiasi manifestazione di dissenso, Demosisto si è dissolta e lui ha preso la soffertissima decisione di raccoglierne la missione: il 2 luglio è riparato a Londra, dove porta avanti, anche per chi è rimasto in patria, l’indispensabile missione di mobilitazione della comunità internazionale contro gli abusi di Pechino. Per questo su di lui pende un mandato di arresto della polizia di Hong Kong.

Nathan, perché hai scelto di andartene? Potresti non tornare mai più.

Quando è passata la legge ci è stato chiaro che avremmo dovuto cambiare strategia di lotta, perché qualsiasi dissenso aperto o manifestazione di piazza può essere punito con la detenzione in un carcere cinese. Da tempo l’attività di Demosisto si era concentrata sulla pressione internazionale. Io sono stato individuato come il più indicato a portarla avanti. Ma ho dovuto recidere ogni rapporto con i compagni di battaglia e anche con la mia famiglia, per evitare ritorsioni.

Nei giorni scorsi il governo di Hong Kong ha alzato il tiro, con arresti di alto profilo come quello del magnate dell’editoria Jimmy Lai e di un’altra fondatrice di Demosisto, Agnes Chow, poi liberati su cauzione…

Il governo testa le acque, per vedere dove può arrivare. È una strategia molto chiara, che intimidisce una parte della popolazione ma mostra al resto la natura brutale di questo regime. La mobilitazione dopo gli arresti è stata immensa, la popolarità di Agnes e Lai è cresciuta. Hong Kong non è la Cina, la repressione si scontra con una consuetudine radicata ai valori democratici.

È ancora possibile fare opposizione?

Le manifestazioni di piazza non ci sono più, ma il movimento pro-democrazia è sempre attivo. Si è spostato su Internet…

Il governo cinese potrebbe censurare Internet…

Sì, ma se questo dovesse accadere ci sarebbe un impatto enorme sullo status di Hong Kong come centro finanziario internazionale, e questo Pechino non può permetterselo.

A Londra ti senti sicuro?

Sul piano personale non credo sarò mai sicuro… ma il Regno Unito, come gli Stati Uniti, sembra aver capito la necessità di opporsi al regime cinese. Londra ha sospeso il trattato di estradizione internazionale, bloccato l’esportazione di armi, chiuso la porta a Huawei; Washington ha imposto sanzioni a individui responsabili delle violenze di regime…

Ma ci sono interi settori delle loro economie in mano a interessi cinesi.

Vero, per troppo tempo l’Occidente non ha voluto vedere la vera natura del regime e ha cercato un compromesso pur di trovare nuovi mercati. Bisogna tracciare una linea precisa, il rispetto dei diritti umani, e fare pressione concreta su Pechino perché rispetti i valori fondanti delle democrazie occidentali.

E l’Unione europea?

Dovrebbe essere l’istituzione più esposta nella difesa di quei valori. Finora ho sentito solo belle parole.

Trump-paciere se non al Nobel punta almeno alla rielezione

Un accordo di pace che probabilmente giova poco o nulla alla causa della pace, ma che fa avanzare l’agenda elettorale di Donald Trump: dopo averlo annunciato su Twitter, il magnate presidente ha ieri illustrato l’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti alla Casa Bianca, presenti alcuni suoi stretti collaboratori. C’era, ovviamente, il genero Jared Kushner, ebreo, suo consigliere e architetto del piano di pace Usa per il Medio Oriente, respinto dai palestinesi e dai loro alleati. “Un grande passo, una svolta storica”, ha detto Trump, che vede nel successo politico-diplomatico un’opportunità elettorale. “Ora che il ghiaccio è rotto, mi aspetto che altri Paesi arabi e musulmani seguano la via degli Emirati e normalizzino le relazioni con Israele”. Anche il segretario di Stato Mike Pompeo parla di “giorno storico per la pace in Medio Oriente”: gli Stati Uniti sperano che questo passo coraggioso sia il primo di una serie di accordi che mettano fine a 72 anni di ostilità nella regione”. Per Pompeo, l’intesa ha un “potenziale simile” a quello degli accordi di pace tra Israele ed Egitto e Giordania – anche se basta guardare una carta geografica per rendersi conto che non è vero – e contiene “la promessa di giorni migliori nell’intera regione”. Washington si cura poco delle reazioni negative dei palestinersi. E, sulle ali dell’ottimismo, Trump torna a preconizzare che, se sarà rieletto, farà “un accordo con l’Iran in 30 giorni” – ipotesi sempre negata da Teheran –. La cerimonia per la firma dell’accordo di pace tra Israele ed Emirati Arabi si farà alla Casa Bianca. Anche i presidenti Jimmy Carter e Bill Clinton, democratici entrambi, fecero cerimonie analoghe quando Israele normalizzò i rapporti rispettivamente con l’Egitto e con la Giordania. Ci saranno, con Trump, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il principe emiratino Mohammed bin Zayed. La missione a Washington sarà la prima all’estero del premier israeliano dopo lo scoppio dell’epidemia di coronavirus. La firma, secondo i media Usa, potrebbe avvenire nelle prossime settimane, in ogni caso prima delle elezioni del 3 novembre, per rilanciare l’immagine internazionale del magnate presidente: l’ultimo colpo di Trump sulla scena mondiale fu, all’inizio dell’anno, l’assassinio a Baghdad del generale iraniano Qasim Soleimani. L’accordo mette in difficoltà i democratici, che devono gestire il rapporto con Israele. Infatti, anche Joe Biden plaude all’intesa, “un passo storico per unire le profonde divisioni del Medio Oriente”.