Come è noto, cinque parlamentari hanno richiesto – (e tre l’hanno ottenuto) – il contributo di 600 euro per i mesi di marzo e aprile previsto della legge a sostegno delle partite Iva (commercianti e lavoratori autonomi) le cui attività hanno risentito della emergenza economica conseguente alla pandemia.
Ora, lo scandalo consiste non solo nel fatto che a richiedere tale contributo siano stati dei parlamentari che godono di un’indennità mensile di circa 15 mila euro – (del resto, molti dei poco onorevoli parlamentari ci hanno, nel tempo, fornito esempi di ben altre corruttele e malversazioni) – ma anche nella circostanza, fatta proprio dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che il poco onorevole comportamento dei parlamentari sia coperto dalla legge sulla privacy che assicura loro l’anonimato.
Fortunatamente, è intervenuto il “Garante della privacy” che ha fatto presente che il diritto alla riservatezza cede, nel caso di specie, di fronte alla funzione pubblica esercitata che impone il massimo della trasparenza. Ma non vi sarebbe stato bisogno di scomodare il “Garante” se il Presidente dell’Inps avesse considerato che la democrazia parlamentare rappresentativa è basata su diritti fondamentali, primo tra tutti, “il diritto all’informazione”, quello che la Corte Costituzionale, nella sentenza n° 420 del 7.12.1994, definì “il diritto del cittadino all’informazione” che, in sostanza, si configura come una conseguenza del principio democratico della rappresentatività; quindi, un principio rivolto alla collettività il cui ruolo, nella società democratica, è inequivocabilmente delineato dall’art. 1 Cost., laddove dice che “La sovranità appartiene al popolo”. Ed è proprio questa attribuzione di sovranità a connotare ulteriormente il diritto all’informazione. La collettività, infatti, delega periodicamente la gestione della “cosa pubblica” (res publica) ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento. E la delega deve avvenire con piena cognizione di causa. La collettività deve avere un quadro dettagliato sia di ciò che accade nel Paese, sia delle persone alle quali delega l’esercizio della sovranità.
La democrazia richiede, quindi, imprescindibilmente una partecipazione “cosciente” dei cittadini; allora il presupposto essenziale della democrazia è l’informazione e, cioè, la conoscenza dei fatti e delle situazioni politiche, onde consentire ai cittadini di formulare critiche e censure nei confronti di tutti coloro cui sono affidate pubbliche funzioni che devono essere adempiute “con disciplina e onore” secondo il dettato costituzionale sancito dall’art. 54 della Carta.
Solo in tal modo si consente al popolo un corretto e consapevole esercizio di quella sovranità che l’art. 1 Cost. gli attribuisce.
Conclusivamente, sotto questo aspetto, si può dire che la collettività vanta un vero e proprio diritto all’informazione, perché esso è funzionale all’esercizio di quella sovranità che per Costituzione le appartiene.
Spetta, quindi, a tutti i cittadini il diritto di conoscere, criticare e analizzare liberamente i comportamenti degli uomini pubblici, che devono essere trasparenti e sottoposti al massimo controllo democratico, perché la democrazia si nutre di controlli che devono essere effettivi e non meramente apparenti. Ne consegue che, se una circostanza riguarda un cittadino cui sono state affidate funzioni pubbliche da adempiere, come si è già detto, “con onore”, essa deve essere conosciuta.
È, pertanto, inconcepibile che un comportamento posto in essere da rappresentanti del popolo in violazione del più volte richiamato principio di cui all’art. 54 Cost., non debba essere conosciuto dagli elettori: “essi devono sapere per poter decidere” (come ebbe a dichiarare Luigi Einaudi).