Caro Inps, l’anonimato non è costituzionale

Come è noto, cinque parlamentari hanno richiesto – (e tre l’hanno ottenuto) – il contributo di 600 euro per i mesi di marzo e aprile previsto della legge a sostegno delle partite Iva (commercianti e lavoratori autonomi) le cui attività hanno risentito della emergenza economica conseguente alla pandemia.

Ora, lo scandalo consiste non solo nel fatto che a richiedere tale contributo siano stati dei parlamentari che godono di un’indennità mensile di circa 15 mila euro – (del resto, molti dei poco onorevoli parlamentari ci hanno, nel tempo, fornito esempi di ben altre corruttele e malversazioni) – ma anche nella circostanza, fatta proprio dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che il poco onorevole comportamento dei parlamentari sia coperto dalla legge sulla privacy che assicura loro l’anonimato.

Fortunatamente, è intervenuto il “Garante della privacy” che ha fatto presente che il diritto alla riservatezza cede, nel caso di specie, di fronte alla funzione pubblica esercitata che impone il massimo della trasparenza. Ma non vi sarebbe stato bisogno di scomodare il “Garante” se il Presidente dell’Inps avesse considerato che la democrazia parlamentare rappresentativa è basata su diritti fondamentali, primo tra tutti, “il diritto all’informazione”, quello che la Corte Costituzionale, nella sentenza n° 420 del 7.12.1994, definì “il diritto del cittadino all’informazione” che, in sostanza, si configura come una conseguenza del principio democratico della rappresentatività; quindi, un principio rivolto alla collettività il cui ruolo, nella società democratica, è inequivocabilmente delineato dall’art. 1 Cost., laddove dice che “La sovranità appartiene al popolo”. Ed è proprio questa attribuzione di sovranità a connotare ulteriormente il diritto all’informazione. La collettività, infatti, delega periodicamente la gestione della “cosa pubblica” (res publica) ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento. E la delega deve avvenire con piena cognizione di causa. La collettività deve avere un quadro dettagliato sia di ciò che accade nel Paese, sia delle persone alle quali delega l’esercizio della sovranità.

La democrazia richiede, quindi, imprescindibilmente una partecipazione “cosciente” dei cittadini; allora il presupposto essenziale della democrazia è l’informazione e, cioè, la conoscenza dei fatti e delle situazioni politiche, onde consentire ai cittadini di formulare critiche e censure nei confronti di tutti coloro cui sono affidate pubbliche funzioni che devono essere adempiute “con disciplina e onore” secondo il dettato costituzionale sancito dall’art. 54 della Carta.

Solo in tal modo si consente al popolo un corretto e consapevole esercizio di quella sovranità che l’art. 1 Cost. gli attribuisce.

Conclusivamente, sotto questo aspetto, si può dire che la collettività vanta un vero e proprio diritto all’informazione, perché esso è funzionale all’esercizio di quella sovranità che per Costituzione le appartiene.

Spetta, quindi, a tutti i cittadini il diritto di conoscere, criticare e analizzare liberamente i comportamenti degli uomini pubblici, che devono essere trasparenti e sottoposti al massimo controllo democratico, perché la democrazia si nutre di controlli che devono essere effettivi e non meramente apparenti. Ne consegue che, se una circostanza riguarda un cittadino cui sono state affidate funzioni pubbliche da adempiere, come si è già detto, “con onore”, essa deve essere conosciuta.

È, pertanto, inconcepibile che un comportamento posto in essere da rappresentanti del popolo in violazione del più volte richiamato principio di cui all’art. 54 Cost., non debba essere conosciuto dagli elettori: “essi devono sapere per poter decidere” (come ebbe a dichiarare Luigi Einaudi).

 

Bonus“I furbi diventino ineleggibili” “Avanti con il taglio dei parlamentari”

Caro direttore, la notizia dei 600 euro richiesti dai parlamentari – che certo è giusto che circoli e susciti indignazione –, come succede per tante altre, era di facile se non addirittura inerziale occultamento. Secondo me, bisogna quindi chiedersi se, lasciata trapelare ad arte, non sia una notizia a orologeria che già è divenuta, sempre ad arte, il tormentone dell’estate in vista del referendum costituzionale. Penso infatti che tutti i partiti abbiano oggi l’interesse privato e privatistico a ridurre il numero dei parlamentari; questo perché i politici che contano veramente (e “incasseranno” a quel punto per loro e per gli altri) avranno ancora più facilità a controllare i loro gruppi parlamentari. Cosicché, in virtù di una facile demagogia antiparlamentare, con il vento a favore di un tempo in cui gli individui sanno “pensare” solo attraverso la categoria della quantità, verrà favorito ulteriormente il corso della politica mondiale che vede la concentrazione del potere politico come riflesso alla concentrazione della ricchezza.

Giuseppe Cappello

 

A proposito dei furbetti di Montecitorio, facciamo così: che si tengano i 600 euro, ma che restituiscano i 13 mila euro di stipendio parlamentare che hanno percepito per quei mesi.

Mike Carlos

 

A cosa serve sapere i nomi se poi non possiamo scegliere i nomi dei nostri parlamentari? Non conviene usare questo momento di indignazione generale per lottare nel sensibilizzare l’opinione pubblica a cambiare almeno le regole della scelta dei candidati per non rischiare che i vertici di partito poi possano ricandidare questi furbetti? Sbagliato è puntare il dito sulla politica in generale o meglio sui parlamentari in quanto tali utilizzando le azioni spregievoli di alcuni, ma che riguardano comunque scelte del singolo.

Orlando Murray

Mail box

DIRITTO DI REPLICA

Sono Alfredo Castelli, ideatore e curatore di Martin Mystère, un personaggio pubblicato in varie collane da Sergio Bonelli Editore a partire dal 1982. In relazione all’articolo “La guerra di Martin Mystère alla Bonelli” pubblicato l’11 agosto vorrei specificare che non è Martin Mystère a fare guerra alla Bonelli come sostiene il titolo, con cui è da sempre in ottimi rapporti, bensì Roberto Cardinale, un collaboratore saltuario della testata. Roberto Cardinale disegna per la Bonelli dal 2003 e non da trent’anni come è scritto, e non è identificabile neppure idealmente con Martin Mystère, in quanto ne ha semplicemente illustrato, sempre in collaborazione con altri disegnatori, 11 albi su una produzione che ha superato le 450 uscite. Meglio non commentare sul richiamo in prima pagina: “Brutti copioni, mi hanno rubato Martin Mystère!”. Rubato a chi? Martin Mystère è mio e della Bonelli, e non mi hanno rubato niente: se mi avessero rubato qualcosa non griderei certo “Brutti copioni” come un bimbo delle elementari. Non solo, Martin Mystère non è neppure coinvolto nella gigantesca battuta di caccia ai “plagiari” messa in atto da Cardinale. Mi rendo conto che non si tratta di una notizia vitale per il mondo o la nazione, ma è evidente che il titolo dell’articolo e lo strillo in prima pagina – riportati per di più anche sull’edizione digitale – possono generare equivoci, polemiche e interpretazioni errate e lesive. Più o meno come se uscisse il titolo “La guerra del Fatto Quotidiano contro Conte” perché Il Fatto ospita un blog di Paolo Becchi.

Alfredo Castelli Autore di “Martin Mystère”

 

Con riguardo all’articolo pubblicato a pagina 13 de Il Fatto Quotidiano dell’11 agosto, e in pari data sul sito ilfattoquotidiano.it, la Sergio Bonelli Editore Spa intende chiarire quanto segue. La società, avendo già da tempo approfonditamente esaminato con i propri legali le contestazioni mosse dal signor Cardinale nel giudizio da questi intentato in sede civile nei confronti dei signori Rigamonti e Recchioni, è intervenuta nel 2018 in tale giudizio per difendere la posizione di questi ultimi due autori e per chiedere il rigetto delle domande del signor Cardinale perché assolutamente infondate. Peraltro, nel corso del pur lungo giudizio, il signor Cardinale non ha mai offerto alcuna prova delle congetture che sono riportate acriticamente nell’articolo come se fossero verità accertate. In particolare non ci risulta e non è stato neppure in alcun modo provato nel corso del giudizio che la sceneggiatura inedita di Kepher sia mai giunta in possesso di Recchioni e Rigamonti. In ogni caso si precisa che gli albi Bonelli dei nostri due autori, contestati dal signor Cardinale nel corso del giudizio, sono tutti frutto di una autonoma creatività e non riproducono presunti elementi creativi di Kepher o di altre opere del signor Cardinale. Il giudizio è giunto alle battute conclusive e nelle prossime settimane sarà pubblicata la sentenza di primo grado, che confidiamo essere di rigetto delle domande di Cardinale. Si intende infine chiarire che, a differenza di quanto risulta dall’articolo, la vicenda non riguarda il personaggio “Martin Mystère” sul quale peraltro il signor Cardinale non può vantare alcun diritto.

Per Sergio Bonelli editore Spa Avv. G. Guglielmetti e P. Tammaro

 

Scrivo la presente in nome e per conto del signor Danilo Chiomento con riferimento all’articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano dell’11 agosto, a firma Alan David Scifo, dal titolo “La guerra di Martin Mystère alla Bonelli…”. Devo, infatti, evidenziare come la ricostruzione dei fatti sia imprecisa e ingannevole, arrivando a ledere gravemente la reputazione del signor Chiomento, allora direttore editoriale della casa editrice Allagalla. In primo luogo, non vi è stata alcuna “denuncia per violazione del diritto d’autore”, ma una semplice causa civile intentata dal signor Roberto Cardinale contro sceneggiatori ed editori che, a suo dire, avrebbero “attinto a piene mani dal suo materiale”. Il signor Cardinale afferma che sue opere sarebbero state plagiate, e l’articolo ne attribuisce la responsabilità a Chiomento, il quale avrebbe ricevuto il materiale inedito per la Allagalla, interessata a pubblicare Kepher, e che tale materiale era stato “consegnato solo per una valutazione”. Anche tale affermazione è falsa, in quanto Cardinale ha stipulato in data 1° marzo 2013 con Allagalla un contratto di edizione per la pubblicazione dell’opera, salvo poi richiedere e ottenere la risoluzione del contratto. Ovviamente Chiomento non ha mai divulgato il contenuto dell’opera e, come è emerso nel processo, non vi è stato alcun plagio perché le soluzioni narrative cui, secondo l’articolo, “alcuni tra i più noti sceneggiatori avrebbero attinto”, non possono essere oggetto di tutela in quanto caratterizzate da mancanza di originalità. Cardinale pretende di essere l’inventore di un mostro e ne censura l’utilizzo da parte di altri, dimenticando che tale caratteristica è ontologicamente legata a questi personaggi almeno dai tempi di Frankenstein. O ancora, Cardinale vorrebbe avere l’esclusiva di sequenze con combattimenti sui tetti, dimenticando le migliaia di tavole a fumetti con personaggi impegnati in simili attività. Il giudice non ha ritenuto di approfondire le accuse e ha respinto tutte le istanze istruttorie, trattenendo la causa a sentenza, che uscirà nelle prossime settimane.

Avv. Roberto Guarino

 

Nel titolo, in maniera errata, viene citato “Martin Mystère”, ma il personaggio oggetto della causa civile per “violazione del diritto d’autore”, come si evince nell’articolo, è Kepher, personaggio che Cardinale aveva proposto alla casa editrice Allagalla, interessata a pubblicare il fumetto. Cardinale ha formalmente smentito che si tratta dei disegni di “Martin Mystère”, ribadendo lo scambio con il suo personaggio Kepher, le cui tavole sarebbero state ritrovate in altre edizioni. Per il resto, sul fatto che si tratti di schemi già visti – quindi “mancanti di originalità” e semplici omaggi al mondo dei fumetti – oppure di plagi, sarà il giudice a deciderlo. E sarà nostra cura seguire e raccontare la sentenza del processo quando arriverà.

A. D. S.

Spiega il pizzicagnolo: “Beirut è schiava di alleanze filo-anguria”

Col tempo si impara la relatività di tutti i fanatismi, ma il mio pizzicagnolo, un vorace lettore di Tom Clancy, è troppo giovane, e l’altro giorno si è messo a parlare dell’esplosione a Beirut. “Chissà chi c’è dietro”, mi fa, sornione, pesandomi le arance. “In un video si vede un drone che sorvola il porto un attimo prima dello scoppio. E sui social gira un post dell’ambasciata canadese: ‘Si tratta di una bomba all’uranio impoverito (il rosso dei fumi)’. Dai tg, come al solito, non si capisce niente”. “È il loro mestiere”. “Tu cosa sai delle guerre in Libano?”. “Solo quello che mi disse in proposito Omar Sharif a Torre Pedrera, anni fa, sul set di un film: il Libano è un ex-protettorato francese dove la popolazione cristiana e quella musulmana si odiano; e fu reso una polveriera nel 1970 dall’arrivo dei miliziani Olp cacciati dalla Giordania”.

Lui, dopo uno sguardo di compassione, prende un pomodoro e lo mette sul banco: “Allora: questo è il Libano. È circondato dalla Siria (una fetta d’anguria, gliela mette accanto) e a sud confina con Israele (un’arancia, la mette a sud del pomodoro). Quando nel ’76 i cristiani del pomodoro stanno per vincere la guerra civile contro i musulmani, l’anguria e la melanzana (la Lega Araba) s’intromettono per imporre la pace. Due anni dopo, l’anguria occupa il pomodoro. L’arancia allora crea una zona di sicurezza (una carota) nella parte sud; poi, fino al 1983, sconvolge il pomodoro con la strategia della tensione (attentati con autobombe, rivendicati da un fantomatico ‘Fronte per la liberazione dagli stranieri’) affinché l’Olp riprenda l’attività terroristica: un ottimo pretesto per l’invasione del pomodoro nel 1982. La zucca (gli Usa) impone una tregua, e l’Olp deve lasciare il pomodoro. Prosegue la guerra civile: un attentato uccide il presidente Gemayel, maronita. Le falangi maronite, per rappresaglia, fanno una strage di palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila, complici le truppe israeliane di Sharon. La zucchina (l’Iran), d’accordo con l’anguria, invia nel pomodoro i Pasdaran (Guardiani della Rivoluzione khomeinista) per addestrare alla guerra i musulmani sciiti: nasce così Hezbollah (un ananas). La Forza multinazionale di peacekeeping se ne va, scoraggiata da un attentato ananas che uccide 241 marines e 56 paracadutisti francesi. Dal sud del pomodoro, l’ananas lancia razzi sul nord dell’arancia. 1988: con l’appoggio del cardo (l’Iraq), il governo libanese del generale Aoun (maronita) attacca l’esercito dell’anguria, di stanza nel pomodoro; l’anguria risponde bombardando Beirut est (maronita) e rende il pomodoro un suo protettorato, ma nel 2005 viene cacciata dalla rivoluzione dei cedri (maroniti e sunniti insieme). L’anno dopo, guerra fra arancia e ananas. È il caos. Un generale israeliano urla: ‘Quello cos’è? Il missile che abbiamo lanciato noi per intercettare il missile che hanno lanciato loro per intercettare il missile che abbiamo lanciato noi per intercettare il loro, o è il missile che abbiamo lanciato noi per primi?’ L’Onu impone il cessate il fuoco. Nel 2018, la coalizione di Aoun, ora filo-anguria, vince le elezioni, e finalmente, col premier sunnita Hariri, il pomodoro collassa. (Lo spiaccica con una manata. Squash!). La popolazione protesta? Dopo l’esplosione arriveranno aiuti occidentali: però solo se sparisce l’ananas”.

Mi allunga il sacchetto con le arance. “Eh sì, chissà chi c’è, dietro il botto”. Chi ti manda affanculo, almeno non ti fa perdere tempo.

 

Ma la gente se ne infischia della politica da talk-show

Dopo un acceso dibattito pubblico, a chi gli chiedeva cosa pensasse delle domande dei lettori il direttore di un grande giornale americano rispose: semplice, che ne sanno più di noi. Nel corso di una mezza estate trascorsa a parlare di politica nelle piazze di Polignano o Locorotondo, di Imperia, Riva Ligure, Santa Severa o Alghero potrei dire la stessa cosa. Mi ero preparato a interloquire sugli argomenti che hanno sfamato, negli ultimi mesi, l’informazione stampata e quella talk. Pensavo: sarò interrogato sicuramente su legge elettorale e referendum, sul taglio dei parlamentari, e come uno scolaretto diligente ripassavo le dispense del professor Ceccanti e il bignami Giachetti. Pronto a esporre una posizione saggia ed equilibrata su proporzionale e soglia di sbarramento, su riforme istituzionali e costi della democrazia. Ma niente, ogni tanto qualche domandina stiracchiata, però sul tardi, in pieno effetto palpebre pesanti e fuga verso il guanciale (quelli che saltano dalle sedie come se avessero lasciato il gas acceso in cucina). Mi sentivo ferratissimo sulle polemiche divampate su lockdown e zone rosse, sui dpcm di Conte ed emergenza democratica. Avevo ritagliato ed evidenziato i testi dei professori Cassese e Ainis, che furtivamente occultavo tra le pagine di un libro, giusto per dare ogni tanto una sbirciatina. Ma niente, come se l’imminente rumore di sciabole e sferragliare di blindati non sollevasse tra i villeggianti alcun trasalimento.

Non vedevo l’ora di affrontare la questione regina in ogni retroscena che si rispetti: l’inevitabile crisi di governo, anzi del governicchio che non decide (da un anno) a esalare l’ultimo respiro. Munito di bussola e mappe, come Livingstone alla ricerca delle sorgenti del Nilo Bianco, mi accingevo a inoltrarmi nella giungla delle subordinate: rimpasto, rimpastino, governo di unità nazionale, elezioni anticipate. Ma niente, come se la pandemia insieme a gusto e olfatto avesse infiacchito nelle persone un sesto senso: quello dell’intrigo politico, della trama, dell’impiccio, del maneggio.

Come se le vicende di Palazzo appartenessero a un museo diventato in pochi mesi preistorico. Che noi giornalisti (e professori) continuiamo a raccontare come se improvvisamente quei malconci dinosauri in una notte potessero resuscitare e tornare a impressionarci, come nel famoso film. No, in quelle platee (ma penso in tutte le platee di questa estate sospesa) non c’è un pubblico rassegnato o indifferente. È che sui temi che tanto appassionano noi, spesso sanno già tutto (e qualche volta di più). Infatti, almeno a quanto so, le domande più frequenti sono quelle sull’informazione, soprattutto in tv. In genere comunicano insoddisfazione per il chiacchiericcio inconcludente. Per le risse ormai insopportabili. Per il partito del partito preso, per gli schieramenti a prescindere, per l’incapacità di separare i fatti dalle opinioni, di spiegare e di analizzare senza paraocchi. Perché, chiedono spesso, l’avversario ha sempre torto? Colpiscono le domande che non fanno. Su ciò che sarà. Che saremo. Lontani dai cattivi pensieri. Per qualche giorno ancora.

Minenna annulla il concorso “truccato”

Una truffa ai danni dello Stato. Organizzata da chi dovrebbe difendere lo Stato dalle truffe. Il concorso per 69 posti da dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, con paghe da quasi 15mila euro lordi al mese, si sarebbe svolto con il più classico dei metodi: la copiatura. Non un semplice giro di suggerimenti, ma un sistema organizzato dai commissari che sulla regolarità di quel concorso dovevano vigilare.

Risultato? I temi presentati dai candidati erano per il 65 per cento copiati. Per questo l’Agenzia delle Dogane ha appena avviato il procedimento di annullamento del concorso. L’avviso è stato firmato lo scorso 11 agosto dall’attuale direttore dell’Agenzia, Marcello Minenna, e il procedimento dovrebbe concludersi entro il 19 settembre. Una decisione che rischia di infiammare ulteriormente gli animi all’interno dell’Agenzia, visto che quasi tutti i coinvolti lavorano già all’interno dell’ente pubblico.

La vicenda del concorso era stata raccontata da Il Fatto Quotidiano dopo che alcuni candidati avevano presentato un esposto alla procura di Roma. Nel marzo del 2019 il gip Daniela Caramico D’Auria ha disposto il rinvio a giudizio per undici persone: nove candidati e due commissari, Alberto Libeccio ed Enrico Maria Puja, accusati di vari reati tra cui tentata truffa e rivelazione di segreto d’ufficio. Libeccio è capo della direzione centrale strategie dell’Agenzia delle Dogane. Puja è invece un dirigente del ministero delle Infrastrutture. Secondo il gip Caramico D’Auria, i due commissari avrebbero comunicato le tracce della prova d’esame ad alcuni candidati prima del concorso. Sulla base di questi suggerimenti, alcuni dei partecipanti avrebbero portato in aula i temi già scritti. Come? Infilandoli all’interno della Gazzetta Ufficiale che erano autorizzati a usare durante la prova. Questo è quanto ha sostenuto finora la procura di Roma.

A ciò si potrebbero aggiungere le scoperte fatte grazie all’audit disposto quest’anno da Minenna. Dall’Agenzia fanno infatti sapere di aver appurato che circa il 65 per cento delle tracce presentate dai partecipanti idonei è stata copiata parola per parola dalle “Gazzette” contraffatte. I risultati dell’audit hanno spinto Minenna a trasmettere gli atti alla procura di Roma. Come dire: potrebbero non essere stati solo nove i candidati beneficiari del concorso truccato, ma molti di più. Questo almeno è quanto trapela dall’Agenzia. Di certo gli aspiranti dirigenti non si arrendono. Hanno creato un gruppo su Facebook in cui spiegano le ragioni per cui dovrebbero essere assunti (il concorso si è svolto sette anni fa).

Alcuni di loro – nessuno dei quali coinvolto nel processo in corso – hanno fatto ricorso al Tar contro le nomine dirigenziali disposte nel frattempo dall’Agenzia. La tesi è che quei posti spettavano a loro, visto che hanno affrontato un concorso pubblico. Il 4 agosto scorso il tribunale amministrativo ha però respinto la richiesta giudicandola inammissibile. “La graduatoria finale del concorso pubblico a 69 posti di dirigente di seconda fascia a cui hanno partecipato deve essere ancora approvata”, si legge nella sentenza. La richiesta di annullamento annunciata ora da Minenna potrebbe chiudere defintivamente la partita.

Poteri a Consob su Borsa Spa E il governo pensa all’acquisto

Il cosiddetto “decreto agosto” ieri sera è uscito dagli uffici nebbiosi del Tesoro e oggi dovrebbe essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale (otto giorni dopo la sua approvazione formale in Consiglio dei ministri). Il testo che Il Fatto ha potuto visionare, rispetto a quello degli ultimi giorni, contiene però una novità non da poco: viene effettivamente ampliato il potere concesso a Consob, l’autorità che vigila sui mercati, di impedire operazioni sgradite su Borsa Italiana Spa. In sostanza, il diritto di chiedere informazioni su eventuali passaggi di quote rilevanti della società (o della società che la controlla) e, se del caso, intervenire fermando tutto.

Questi maggiori poteri, seppure in capo ad Autorità simili in altri Paesi europei, erano spariti dalle bozze degli ultimi giorni, ma evidentemente la pressione di un pezzo della maggioranza (5 Stelle in testa) ha riportato le cose al punto di partenza. Non una novità da poco se, come riporta (non smentita) Milano Finanza, il governo ha rotto gli indugi sulla questione Borsa Italiana e – in una prossima riunione tra Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (ma dovrebbe esserci anche il sottosegretario Riccardo Fraccaro, il cui staff ha curato il dossier fin dall’inizio) – darà il via libera a un’offerta alla London Stock Exchange per rilevare Piazza Affari e tutto quel che contiene.

La situazione è complessa e va spiegata. Privatizzata nel 1998, Borsa Italiana fu ceduta alla società che gestisce anche la piazza londinese (LSE appunto) nel 2007 garantendo una plusvalenza miliardaria alle banche e agli intermediari finanziari che l’avevano rilevata dallo Stato. La nostra Borsa non è un mercato enorme, ma è una società efficiente che produce utili nelle sue varie divisioni (particolarmente rilevante in questo contesto è Mts, cioè la piattaforma su cui vengono intermediati i titoli di Stato italiani). Problema: LSE vuole fondersi col gigante dei dati Refinitiv, la cui controllata Tradeweb sarebbe un doppione di Mts. Per aggirare i limiti dell’Antitrust europea e fare cassa, i londinesi sono costretti a cedere Borsa Italiana: la vicenda ha subito una brusca accelerazione in questi ultimi giorni, tanto che LSE – e i suoi advisor Goldman Sachs e Morgan Stanley – hanno avviato l’asta e si aspettano le prime offerte entro venerdì 21 agosto e quelle vincolanti per settembre.

E qui torniamo al ruolo del governo italiano. Piazza Affari, e in particolare Mts, possono essere considerate asset strategici: sicuramente interessati all’acquisto sono Euronext (che riunisce alcune Borse europee a partire da Parigi) e i tedeschi di Deutsche Börse, ora si aggiunge pure il governo italiano non si sa bene in che forma e se in alleanza coi francesi.

Il dossier è infatti da mesi sulle scrivanie del governo e si arriva a questa accelerazione senza le idee chiare. Il piano sponsorizzato in primo luogo dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro, prevede che Borsa Italiana finisca in Euronext, ma con l’ingresso nell’azionariato di Cdp all’8% (la stessa quota che nella società ha già la Cassa depositi francese).

Il problema è che Euronext non ha i soldi per fare da sola un’operazione che costa almeno 3,3 miliardi (le servirebbe un aumento di capitale) e ha già dimostrato nel recente passato di non gradire le aste troppo competitive (ha lasciato agli svizzeri di Six la Borsa di Madrid per non rilanciare).

E qui arrivano i nuovi poteri concessi a Consob, che sostanzialmente ne ampliano il potere negoziale nel caso di un cambio di azionariato di Borsa Spa (o persino della sua controllante). Di fatto Consob deve ricevere preventiva comunicazione da parte di qualunque operazione superiore al 10% del capitale su LSE o Borsa Spa ed entro 90 giorni persino opporsi alla chiusura dell’affare: in ipotesi, non solo la vendita di Borsa Italiana, ma persino la fusione tra LSE e Refinitiv potrebbe essere ostacolata da questa modifica normativa (in odore di violazione delle norme europee).

È evidente insomma che chi volesse partecipare all’asta per Piazza Affari– con una tale spada di Damocle sulla testa e il contestuale interesse dello Stato a entrare nell’azionariato – non lo farà senza un preventivo accordo col governo italiano: la cosa non farà piacere a Londra perché rischia di abbassare il prezzo di vendita (o almeno non farlo alzare). Ora resta da capire come vogliono muoversi Conte e soci.

Alleanze 5S-Pd Di Maio teme il voto online su Rousseau

Alle otto di sera, a urne ancora aperte, deve intervenire Luigi Di Maio, ex capo politico del M5S, per mettere a tacere i malumori interni e provare a convincere gli iscritti a votare “due sì” su Rousseau: al primo quesito, quello della fine dei due mandati per i consiglieri comunali, per “sbloccare” la ricandidatura di Virginia Raggi; al secondo, quello delle alleanze con il Pd a livello locale, perché “ci sono cinque comuni che hanno deciso di fare delle coalizioni”. Insomma: “Quello che abbiamo già fatto al Governo centrale: il M5S senza molta ma molta elasticità e contro molta ma molta rigidità, non avrebbe mai portato Giuseppe Conte alla presidenza del Consiglio” chiosa Di Maio. Il post serale, rilanciato dalla viceministra Laura Castelli, arriva dopo una giornata di preoccupazione da parte dei vertici: la paura è che vincano i “sì” sulla fine dei due mandati mentre gli iscritti dicano “no” alle alleanze con il Pd. Un voto pensato per sigillare alcuni accordi nei comuni al voto tra un mese (Pomigliano d’Arco e Termini Imerese) ma soprattutto in vista delle elezioni del 2021 a Torino, Napoli, Milano, Roma e Bologna. I dimaiani temono che l’accelerazione sul voto sia stata una mossa di Davide Casaleggio (da sempre contrario alle alleanze col Pd) per farsela bocciare. Tant’è che ieri è intervenuta Barbara Lezzi, vicina a Casaleggio jr: “Voterò no alle alleanze e sì al quesito sul mandato comunale”. In serata, come segnale distensivo, Pd e M5S annunciano di aver abbandonato alcune cause civili per “vicende vecchie e superate”.

“La mia regione sporca e trasandata: l’eredità di questa destra chiusa”

Maurizio Maggiani, scrittore e letterato, già anarchico e da sempre mazziniano, abita a Faenza, dove trascorre la metà dell’anno. Dice: “Nell’altra metà torno a Genova, alla mia casa sulle alture di Castelletto, nella zona proletaria del quartiere più borghese”. Alle bellezze del capoluogo, dove ha vissuto per anni, ha dedicato un intero libro (Mi sono perso a Genova, Feltrinelli) e nel suo porto ha ambientato uno dei suoi romanzi più celebri, La regina disadorna. Nato a Castelnuovo Magra, nell’entroterra spezzino, le ferie le passa a Bonassola, Riviera di Levante, a un passo dalle Cinque Terre.

Maggiani, cinque anni di centrodestra. Che Liguria ritrova?

Sfibrata, sfinita, stanca. Sporca e trasandata, come i vecchi che non si vogliono bene. E chiusa, di una chiusura innaturale e suicida. Nonostante il luogo comune, i liguri non sono chiusi e nemmeno vecchi, o almeno non lo sono sempre stati.

Spieghi.

Se il ligure fosse chiuso di natura, si sarebbe estinto. È una terra che vive di porto, di scambi, di contaminazioni. La Liguria è l’Aurelia, via di transito spettacolare che scorre tra mare e montagna. Sono le fabbriche del porto di Genova negli anni del boom economico. È la Giovine Italia, fondata a Genova da Mazzini. Invece, ormai da anni, vedo i liguri ostaggio di una politica che riflette un pensiero vecchio, impaurito, ripiegato su se stesso. Da pensionati mugugnoni, barricati in casa con l’odore di muffa.

Qualche esempio?

La questione ambientale. Abbandonare il territorio è un egoismo tipico dei vecchi a cui non importa della propria casa, perché a breve se ne andranno. Ed ecco il dissesto idrogeologico e la cementificazione della costa. Il razzismo latente: i vecchi impauriti diffidano degli stranieri, salvo poi piangere perché non c’è nessuno a pulirgli il culo. L’assenza di un pensiero per i giovani, che infatti scappano e li capisco: che senso ha rimanere al chiuso, nell’incompetenza, nell’immobilità?

E poi il turismo. Lei in passato ha detto che questa giunta vuole fare dei liguri “un popolo di affittacamere”.

Lo confermo. Soprattutto nello spezzino il modello di turismo è diventato quello più facile, comodo e stupido: mettersi davanti alle stanze vuote e aspettare che i turisti le riempiano. Prendiamo le Cinque Terre: fino agli anni ’80 erano un comprensorio molto povero, che però attirava un turismo rispettoso e intelligente. Dai primi anni Duemila, con la trasformazione in Parco, sono diventate una specie di Disneyland, una cinica impresa commerciale che attira turisti mordi e fuggi. Arrivano, si fanno un selfie a Manarola, se ne vanno. Così il territorio si sgretola, non può funzionare in eterno.

Ex regione rossa, da molto tempo ormai la Liguria è contendibile. Cinque anni fa ha vinto un candidato “straniero”, non legato al territorio e già dipendente di Berlusconi.

Un voto che riflette l’umore di un popolo. Toti, oltre a non essere ligure, è un’ombra. Rassicurante, inoffensivo, ma vuoto. Qualcuno sa elencare, nel concreto, le cose belle e progressive realizzate dalla sua giunta? Ma se i liguri hanno votato un’ombra è perché dall’altra parte, in carne e ossa, non c’era nessuno. Qui la sinistra ha tradito se stessa, confondendo il potere col governo.

Cosa serve per invertire la tendenza?

Una rigenerazione. Per dirla con Mazzini, un Risorgimento. Una classe politica in grado di lavorare per una generazione, che provi a ricostruire l’identità vera di questa terra. Io ho sostenuto la candidatura di Sansa. Con la giusta dose di incoscienza può cambiare tutto. Ma se dovesse farcela gli servirà una forza straordinaria, di carattere e di muscoli, per tenere a bada l’eterno ritorno dell’uguale.

La rincorsa giallorosa nella Liguria povera di Toti

LLe schede elettorali e i sondaggi somigliano a quelli delle elezioni regionali dell’Umbria dello scorso anno: centrodestra contro giallorosa – senza i renziani – e pronostici che sorridono al candidato sostenuto da Lega, Forza Italia e compagnia. Eppure in Liguria, alle urne il 20 e 21 settembre, il percorso verso il voto ha assunto tutt’altro significato, intrecciandosi con la cronaca politica nazionale per gli equilibri tra le forze di governo e per la rilevanza dei temi su cui si gioca la campagna elettorale.

Giovanni Toti è il governatore uscente e per ottenere la riconferma ha creato un proprio movimento – Cambiamo! – che in un anno ha raccolto soldi soprattutto dal colosso delle navi Moby, che ha scucito 100mila euro, e dalla Black Oils, attiva nel settore petrolifero, 50mila euro. Dopo un’agonica trattativa, Pd e 5 Stelle hanno invece trovato l’intesa su Ferruccio Sansa, il giornalista del Fatto che per mesi è stato tenuto in bilico da veti incrociati: da una parte quello della vecchia classe dirigente dem legata all’ex governatore Claudio Burlando, dall’altra quello iniziale di Luigi Di Maio e dei 5S locali, culminato con la scissione della candidata in pectore Alice Salvatore. Alla fine però l’accordo si è fatto, soprattutto perché Sansa ha raccolto il sostegno degli altri partiti di sinistra e di un’ampia parte della cosiddetta “società civile”. Con lui persino Rifondazione Comunista, che ha annunciato il suo appoggio al candidato senza presentare una propria lista. Un percorso ben diverso da quello che in Umbria portò alla scelta piuttosto raffazzonata di Vincenzo Bianconi.

Secondo l’istituto Swg, in Liguria il distacco tra i due schieramenti sarebbe di poco superiore al 10 per cento (Toti al 52, Sansa al 41). Parecchio, ma meno rispetto al mese scorso, quando il centrodestra era dato avanti di 15 punti. Inevitabile, se si dovesse ancora assottigliare il margine, che il pensiero vada al 4,5 per cento accreditato a Italia Viva e alle altre liste a sostegno di Aristide Massardo, ex preside della Facoltà di Ingegneria. Ma se i contendenti sono stati ufficializzati a luglio, Toti ha iniziato la campagna elettorale da almeno un anno. Un bel vantaggio che si unisce a quello, mai sottovalutabile, delle risorse a disposizione: detto della laute donazioni private, il governatore può contare sulla macchina comunicativa della Regione (il confine tra comunicazione istituzionale e propaganda è sottile).

Ovviamente, l’importanza del voto ligure non si riduce però ai rapporti tra i partiti. Sulla sanità, l’emergenza Covid ha evidenziato qui come altrove il peccato originale delle privatizzazioni e dello svuotamento dell’assistenza di base. La Liguria è la dodicesima Regione per numero di abitanti, ma la quinta per morti (quasi 1.600). Negli ultimi 5 anni la giunta ha deciso di far entrare i privati in due nuovi ospedali in costruzione (Genova e La Spezia) e di affidar loro la gestione di tre strutture: il San Giuseppe di Cairo Montenotte, il Santa Maria Misericordia di Albenga (entrambi al gruppo San Donato) e il Saint Charles di Bordighera (al Maria Cecilia Hospital e all’Iclas di Rapallo). Sette anni di concessione rinnovabile per altri cinque, se non fosse che a giugno il Tar ha stroncato i due affidamenti al San Donato, parlando di “business plan irrealizzabile”. Si vedrà al Consiglio di Stato. Tanto basta ai sindacati per bocciare i cinque anni di gestione della sanità: “Abbiamo provato a confrontarci per cambiare le cose. Prendiamo atto che a questa giunta mancano proprio le idee”, è la sintesi di Cgil, Cisl e Uil dopo un incontro con l’assessore Sonia Viale.

A fianco all’emergenza sanitaria, il coronavirus ha poi fatto emergere altri problemi sociali. Sono quelli con cui ha avuto a che fare la Comunità San Benedetto al Porto, ovvero l’eredità di Don Gallo. Li si trova a Genova in una osteria a due passi dal mare, A’ Lanterna, dove Domenico Chionetti – per tutti Megu – spiega che cosa li abbia spinti a sostenere Sansa: “La civicità di Ferruccio è l’unica in grado di convincere i delusi e di fermare l’avanzata nero-verde di Lega e FdI”. Un’occasione che peraltro potrebbe servire a “rinnovare la stessa sinistra locale”, compromessa da decenni di malagestione a cui però la destra non ha fornito una soluzione migliore: “Durante il Covid abbiamo aiutato decine di famiglie e ci è parso evidente il grande bisogno di domiciliarità – dice Megu -, abbiamo visto anziani soli, medici di base abbandonati. E tanta povertà”. Di lì l’impegno in politica: “Nessuno di noi sarà candidato né avremo incarichi, ma Toti è indifendibile. Siamo la Regione col tasso di natalità più basso e in tanti hanno tolto la residenza da qua”.

Altrettanto delicata è la questione infrastrutture. Se il Terzo Valico ormai pare avviato, non si è ancora esaurito il dibattito intorno alla Gronda, il collegamento autostradale che dovrebbe snellire il traffico in entrata e in uscita da Genova. Sansa sta impostando la campagna elettorale su una forte vocazione ambientalista e sulla Gronda non intende accettare maxi-progetti. Quel che si può fare subito, dice, è il primo tratto, quello dal porto all’autostrada. “Per il resto partiamo a lotti, dal raddoppio della A7 e dal potenziamento al casello di Genova Est – spiega Gianni Pastorino di Linea Condivisa, a sostegno di Sansa – ma evitiamo il lungo tragitto all’interno di colline amiantifere”.

Toti e Massardo, invece, almeno a parole hanno furia di chiudere. Il governatore uscente prova a intestarsi il successo del modello Genova sulla ricostruzione del viadotto sul Polcevera, in cui per la verità ha avuto un ruolo inesistente – era commissario all’emergenza, il sindaco Marco Bucci ha gestito la ricostruzione – ma che gli ha procurato credito positivo e impeccabili foto al taglio del nastro. Su Toti commissario resta però un’ombra, palesata dalla Corte dei Conti: 13 milioni dei 235 arrivati in aiuto alle aziende in difficoltà dopo il crollo sono avanzati, nonostante decine di commercianti dei quartieri più colpiti non abbiano ricevuto un euro. Colpa di Toti? Il governatore nega, rimbalzando la responsabilità sui criteri di assegnazione al governo. È lui, però, ad aver scelto di destinare 15 milioni alla cassa in deroga per le aziende (rivelatasi un flop) e a non averli mai più reinvestiti. E dai suoi uffici viene la contestata interpretazione che ha escluso le srl dalla distribuzione dei fondi. In questa campagna, la sua narrazione potrebbe non bastare.