“C’è stata frode”: i deputati non avevano diritto al sussidio

Hanno chiesto legittimamente all’Inps il bonus da 600 euro per sostenere co.co.co e partite Iva durante l’emergenza Covid nonostante uno stipendio da parlamentari di quasi 14 mila euro. Alle 12 Tridico metterà quei nomi a disposizione della Camera, alleviando la pruriginosa questione etica e morale. Ma quella giuridica? Il garante della Privacy ha chiesto all’Istituto guidato da Pasquale Tridico di spiegare chi, come e perché abbia profilato i nomi dei politici anche se la frode non c’è stata. Eppure per l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri e il giuslavorista ed ex politico Giuliano Cazzola l’operato della direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza, da cui è partita l’indagine, è stato corretto: “Deputati e consiglieri regionali non ne avevano diritto”. Per capire come si è arrivati fin qui, e di cosa si sta parlando, bisogna ripartire dalla legge.

Il cura Italia e il dl Rilancio hanno dato la possibilità di richiedere il bonus di 600 euro senza richiesta di prove ma a una condizione: il lavoratore autonomo non doveva essere titolare di pensione e avere altre forme obbligatorie di previdenza obbligatoria diverse dalla Gestione separata presso l’Inps. Un limite che, se superato, diventa oggetto di controllo non solo da parte delle sedi Inps, ma soprattutto della direzione antifrode che, tra i suoi compiti, ha quello di intercettare situazioni di prestazioni a sostegno del reddito e assistenziali non spettanti o dubbie. “E i deputati – ha spiegato Boeri in un’intervista tv – hanno di fatto una contribuzione obbligatoria”. I parlamentari sono, infatti, iscritti a un’altra forma di previdenza, perché devono versare per poi avere i vitalizi. “Quindi l’antifrode ha correttamente controllato queste posizioni, così come lo ha fatto con altre migliaia di liberi professionisti”, ha sottolineato ancora Boeri.

“Lo stesso criterio dovrebbe valere anche per i consiglieri regionali”, conferma il giuslavorista Cazzola, spiegando che però per i 2 mila amministratori locali minori occorre valutare la loro specifica posizione professionale e previdenziale e non quanto percepiscono dalla istituzione di cui fanno parte”.

Il passaggio successivo è cronaca: una volta che è stato rilevata l’anomalia dei politici che potenzialmente non avevano diritto al bonus, la direzione antifrode l’ha comunicato alla presidenza dell’Inps. In mattinata si conoscerà il colpevole.

Bonus: il grillino smascherato Restano i due “richiedenti”

È lui: Marco Rizzone, 37 anni, genovese, laureato alla prestigiosa università Sant’Anna di Pisa in economia e commercio, ideatore dell’app turistica ZonzoFox. Una lunga esperienza professionale in Cina: un curriculum solido confermato dalla fiducia che gli ha accordato il M5S, indicandolo nel triumvirato che in Liguria ha chiuso l’accordo con il Pd per la candidatura condivisa di Ferruccio Sansa alle prossime elezioni regionali.

Insomma, uno che non te lo aspetti, a fare il furbetto per riscuotere il bonus riservato dal governo agli italiani in difficoltà per il Covid. Invece proprio questo nome Vito Crimi, capo politico del M5s, si è ritrovato tra le mani dopo lunga e laboriosa indagine interna. Decidendo di renderlo pubblico prima che altri lo facessero al suo posto, magari proprio il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, atteso oggi in audizione alla Camera presso la commissione Lavoro.

Non ci ha dormito la notte, povero Crimi. Alla fine non riesce a nascondere la sua amarezza. E neanche la sua rabbia per la brutta figura che il M5S è stato costretto a fare per la mossa di chi ha ritenuto di riscuotere un sussidio riservato agli indigenti nonostante i suoi ricchi compensi di parlamentare. Ma ha tirato dritto e ha individuato “l’irresponsabile” che si è ben nascosto fino a ieri.

E già, perché la caccia di Crimi al furbastro è cominciata domenica scorsa, appena letta la notizia sui giornali e sui siti sulla porcata perpetrata da 5 deputati della Repubblica, tre dei quali sarebbero riusciti a riscuotere 600 euro riservati dal governo alle partite iva messe in ginocchio dal lockdown da Covid-19 (mentre due ci avrebbero provato senza riuscirci). Ma tant’è. Provate a immaginare la reazione del capo politico reggente quando a questo scandalo si è aggiunto il particolare che uno dei 5 in questione era un parlamentare di un Movimento che della lotta ai privilegi della casta ha fatto da sempre la propria ragione di vita. Crimi è partito subito all’attacco: “Quando uscirà il nome credo che debba nascondersi”. Ma il nome non è uscito, nonostante il pressing e la speranza di un sussulto di dignità: nessun reo confesso.

E tutto questo mentre il nemico giurato del governo e della maggioranza giallorosa, Matteo Salvini, in poche ore è riuscito a ottenere le confessioni di due suoi deputati, Andrea Dara e Elena Murelli, costretti quasi all’istante a dare conferma di aver chiesto e ottenuto il bonus dello scandalo. Il primo nascondendosi dietro la mamma (“lo ha chiesto lei”). L’altra affrontando la pubblica gogna per aver intascato il bonus dopo averlo definito in aula a Montecitorio, durante un vibrante intervento, “una elemosina”.

Un film deprimente per la Lega, alla fine del quale Salvini ha deciso di sospendere i due, oltre a impedire la candidatura dei consiglieri e assessori regionali che hanno pure loro chiesto il bonus. E tutto questo mentre anche Italia Viva faceva partire la sua caccia all’uomo, riuscendo nello spazio di una giornata a risolvere il caso: il capogruppo a Montecitorio Ettore Rosato ha infatti prima chiesto conto ai suoi di chi avesse fatto richiesta della sovvenzione. Non ricevendo risposte, ha cambiato domanda per tentare almeno di andare per esclusione: “Chi è che non ha fatto domanda?”. In più, ha alzato il telefono per chiedere lumi direttamente al presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Che ha rassicurato Rosato sul fatto che nessun parlamentare renziano avesse ottenuto il bonus. Almeno questa è la versione che circola ai piani alti di Italia Viva, nonostante non siano in pochi a temere che un loro deputato possa averlo comunque almeno chiesto.

E Crimi? Continuava a contare sul fatto che il deputato M5s finito nella lista dei beneficiati del bonus venisse spontaneamente allo scoperto in un batter di ciglia. E invece no. Allora si è messo anche lui in contatto con i vertici dell’Inps e con Tridico. Consultazione a tutto campo: alla fine, la decisione di chiedere con una mail a ciascuno dei suoi parlamentari di dare un segnale. Autorizzandolo “a chiedere un’informazione collettiva all’Inps per sapere se, dai loro archivi, il vostro nominativo risulta essere beneficiario del bonus”. Dopo aver raccolto 180 adesioni (sono stati a monte esclusi dai sospettati chi non ha partita iva o chi risulta iscritto a casse previdenziali diverse da Inps), Crimi ha sottoposto l’elenco allo stesso Tridico. Che gli ha fatto sapere che in quell’elenco non risultava alcun beneficiario del bonus. Ma al capo politico pentastellato mancavano all’appello una ventina di dichiarazioni. Parlamentari in vacanza o che comunque non avevano risposto alla mail. Giro di telefonate: alla fine a Crimi hanno risposto tutti i parlamentari meno tre. Di due di questo ha accertato che non erano titolari di partita Iva, quindi immacolati come gigli. Restava alla fine un solo nome: quello di Marco Rizzone, nella giornata di ieri da lui individuato come responsabile del misfatto. E per il quale ora si spalancano le porte dell’espulsione da parte dei probiviri. Parola di Crimi.

Parasite-Italia: la città “di sotto” delle badanti della Roma bene

La Roma “di sotto” inizia con un’uscita non segnalata sul viadotto della tangenziale est: si imbocca una strada sterrata che scende dalla rampa e prosegue dritta tra sassi e buche, fino al livello del fiume. È separata da un lembo di terra e vegetazione dalla foce dell’Aniene, l’ansa dove l’affluente si getta nel Tevere. Siamo sotto al livello della città ufficiale, sotto al livello della decenza. C’è un quartiere nascosto, stretto tra un campo rom, una discarica abusiva e uno sfasciacarrozze. La via è una schiera di baracche in lamiera e casette in muratura, i numeri civici sono scritti a penna sopra ai cancelli. Ci vivono 21 famiglie, 62 persone. Due nazionalità: peruviani e filippini. Anzi tre: perché l’ultima generazione è nata a Roma, chi ha compiuto 18 anni è italiano a tutti gli effetti.

In questa comunità c’è un solo mestiere: colf, badanti, operatori domestici. La Roma di sotto è la città invisibile di quelli che lavorano nella Roma di sopra. Come in Parasite, il film sudcoreano che ha vinto 4 Oscar: gli abitanti di questo insediamento abusivo si svegliano al livello del fiume tra i tettucci di eternit – anche se giurano che qui non c’è traccia di amianto – e poi salgono verso i quartieri alti. Visti da qui, in effetti, tutti i quartieri sono alti. I loro di più, lavorano nelle case della meglio borghesia romana. Roma Nord ricca e altera: Parioli, Flaminio, Pinciano.

Il villaggio è nato negli anni 90 e si è allargato nel tempo, felicemente ignorato dal resto della città. Sabato mattina una coltre di fumo nero ha avvolto la tangenziale, una nuvola molto più spessa dei fuochi abituali del campo rom accanto. Sotto al viadotto un grosso rogo stava divorando il villaggio. Le fiamme sono partite da un deposito comune accanto alle ultime case della via, quelle che lambiscono la sponda del Tevere. I vigili del fuoco sono arrivati con un’autobotte piccola, l’acqua era poca, l’incendio è divampato. Nessuno si è fatto male ma è stato divorato e distrutto ogni bene posseduto dagli abitanti di questa comunità.

“Abbiamo perso tutto. Siamo riusciti a salvare solo i documenti, i permessi di soggiorno”. La guida tra le casupole in cenere è Matias (nome inventato), cinquantenne di Lima, a Roma dal 2002. Il tour in quello che rimane della sua abitazione è macabro: scheletri di frigoriferi e televisori, un condizionatore; in bagno è rimasto un porta carta igienica annerito, in camera si riconosce appena la rete metallica del letto. Per mistero, c’è un’unica macchia di colore sopravvissuta al rogo: due calzettoni da calcio rossi spiccano nel bianco e nero della casa disintegrata.

Matias lavora in viale Parioli, l’icona posh della città. A Roma pariolino è una categoria dello spirito: identifica l’appartenenza sociale ben oltre quella del quartiere. Da sempre considerati di destra, nel 2015 ci si è resi conto che ai Parioli vince il Pd, l’ultima enclave “rossa” sulla mappa elettorale della città, insieme ai rioni del centro.

Matias per i suoi datori di lavoro è ubiquo: “Autista, uomo delle pulizie, a volte cuoco, a lungo governante”. Ha contribuito a crescere due bambini che ora hanno 15 e 16 anni. In Perù invece era perito elettronico, lavorava all’università. Chi gliel’ha fatto fare di venire qui? “Erano gli anni della caduta del regime di Fujimori, la situazione era instabile, ho avuto l’occasione di partire e poco tempo per pensarci”. Malgrado tutto non è pentito. La vita a Roma gli piace. Ha uno stipendio dignitoso, 1.200 euro al mese con i contributi pagati. Anche sua moglie fa la colf, lavora part time con una paga più bassa. I soldi basterebbero per un piccolo appartamento, perché vivono qui? “È il mio secondo matrimonio. Abbiamo quattro figli. Ho messo da parte i soldi per i loro studi. Per fargli fare un lavoro migliore del mio”. Della sua casa era orgoglioso: “Lo so che qui sembra tutto brutto, ma dentro si viveva bene. Non ci mancava niente. Avevo fatto coibentare il tetto, non si vedeva più nemmeno la lamiera”. Un vicino di Matias ascolta, e aggiunge: “Voi vedete fuori ma dentro era pulito come nelle case in cui lavoriamo”.

Al villaggio, dicono, mai un problema. Tra asiatici e sudamericani era una sola comunità aperta. Tutti stranieri regolari, sparpagliati tra le famiglie di Roma Nord, nessun disoccupato.

Fernando passa la scopa sull’uscio di quello che resta di casa sua. È un filippino di Manila, arrivato a Roma nel 1997, lavora con un anziano malato di Alzheimer, dorme lì 6 giorni su 7. Ma il domicilio è ancora tra queste baracche, insieme alla compagna e la figlia Get (32 anni, pure lei domestica): “Qui si sta bene – sorride, incredibilmente – stiamo tranquilli, lontano da tutti”.

Anche Cora è filippina. Sbriga le faccende di casa per diverse famiglie. Dieci euro all’ora. Quattro figli, tutti cresciuti a Roma. Due bambini giocano dentro una piscinetta gonfiabile colorata, accanto c’è un cavalluccio a dondolo di plastica, pezzetti di normalità. Poi fili di ferro, lamiere, rifiuti. Gli adulti fanno il punto della situazione.

Nessuno se ne vuole andare. Si fanno turni di vigilanza per evitare che gli spazi vuoti vengano occupati. C’è chi già pulisce e sistema le macerie, pensa al ritorno. “Qual è l’alternativa?”, chiede Matias. “Ora non abbiamo nulla. Se non ci aiutano a trovare una soluzione, potremo solo tornare qui”.

Dopo l’incendio la risposta del Comune è stata curiosa: è stato sgomberato il campo nomadi dall’altra parte del ponte, separato da una grande discarica abusiva, pure se con l’incendio i rom non c’entravano nulla. Ma Roma, come dire, ha colto la palla al balzo e ha sgomberato “gli zingari” con le consuete parole d’ordine: decoro, sicurezza, salute pubblica.

E il villaggio? La presidente di Municipio Francesca Del Bello ha trovato una sistemazione d’emergenza per gli sfollati: gran parte di loro sono stati accolti in un centro anziani del Villaggio Olimpico, il complesso costruito per i giochi del 1960. Alcuni dormono nelle case dei datori di lavoro o sono ospitati dai genitori dei compagni di scuola. Ma domani?

Per lo Stato questo posto non è mai esistito davvero. I suoi 61 inquilini sono stati censiti tutti: la situazione è nota, nessuno se n’è mai voluto occupare. Nel 2014 quando è esondato il Tevere gli abitanti del villaggio sono stati portati via. Prima all’ex Fiera di Roma, poi ammassati in sovrannumero in alcuni immobili confiscati alla mafia. Pure quella era una sistemazione temporanea: scaduto “l’affitto” sono tornati tutti. Alla foce dell’Aniene, nella città di sotto. Quella che si vede solo quando si allaga o va a fuoco.

E le imprese nella zona del viadotto son rimaste a secco: “Causa ad Aspi”

Sono circa duecento commercianti e si sono radunati intorno a una sigla: il Comitato Zona Arancione. Il colore indica ciò che sta intorno alla zona rossa, dove chi ha subito una perdita è stato risarcito: “Chi è rimasto fuori spesso è rovinato e in molti casi non ha ricevuto niente”. Per questo adesso hanno avviato una class action contro Autostrade per l’Italia, a cui chiedono i danni indiretti: “Hanno liquidato giustamente i parenti delle vittime e gli sfollati, mentre noi non abbiamo mai ricevuto nemmeno una risposta”.

A parlare è Massimiliano Braibanti, presidente del comitato. Ha un centro estetico a Certosa, il quartiere più vicino al viadotto. Come molti è rimasto fuori dalle una tantum da 15mila euro che il decreto Genova aveva stanziato come forma di aiuto al reddito: “Non ne ho avuto diritto per due motivi: intanto perché non ho mai smesso di lavorare un giorno. Poi perché la mia azienda è una srl, come tante altre piccole e medie imprese della zona. Tutto questo è una follia. Questi criteri hanno creato situazioni assurde. Ci sono imprenditori che hanno preso gli aiuti perché essendo agosto erano in vacanza, o perché hanno attività, penso a chi emette fatture e non scontrini, che consente loro più flessibilità. Quel denaro che doveva aiutare prima di tutto i quartieri intorno al Ponte Morandi, Certosa e Sampierdarena, è invece finito ovunque”.

La controversia dei bandi per le una tantum nasce all’indomani del decreto Genova, varato a settembre del 2019. La norma riserva i benefici a chi ha interrotto l’attività per causa del crollo. I fondi vengono distribuiti dall’ufficio del commissario all’emergenza, Giovanni Toti, il presidente della Regione. Il primo bando subordina la concessione dei fondi a chi ha chiuso almeno 30 giorni. Andò quasi deserto e ne seguirono altri in cui i giorni di chiusura scesero a 15 e poi a 7. L’ultimo bando porta i giorni a 4, precisa che non devono essere consecutivi e allarga ulteriormente la platea: il territorio interessato è praticamente tutta Genova, anche zone lontane dal disastro, e per le società di persone i 15mila euro vengono estesi a ogni socio. “Così ci sono imprese con più soci che hanno incassato fino a 45-60mila euro, di fatto per aver dimostrato di aver chiuso appena quattro giorni – dice ancora Braibanti –. Per una piccola azienda come la mia 15mila euro fanno la differenza: da quando abbiamo messo in piedi il Comitato abbiamo raccolto le persone nelle condizioni più disperate, anche sull’orlo del suicidio”.

L’altro punto dolente è l’esclusione delle srl: “Una decisione incomprensibile – spiegano gli avvocati del Comitato, Raffaele Caruso e Andrea Mortara – che non trova spazio in alcun passaggio del decreto”. Toti però continua a sostenere che i criteri sono stati imposti dal governo e, senza prima cambiare la legge, quei soldi non si possono redistribuire: “Ma questo per noi è falso – replicano i legali –. Si tratta di una interpretazione della Regione, che non ha mai chiesto nemmeno un parere all’Avvocatura di Stato”.

Come se non bastasse, di quei fondi sono avanzati 13 milioni di euro. Alcuni giorni fa la Regione ha fatto sapere di aver richiesto al governo di poterli spendere per l’emergenza Covid e destinarli a una platea ancora più ampia, che comprenda tutta la Liguria: “Per noi sarebbe la beffa finale”, dice amaro Braibanti.

Genova due anni dopo: i soldi finiti ai soliti furbi

Ci sono le aziende fantasma e scatole vuote. C’è l’impresa sequestrata dall’Antimafia e la consulente fiscale che, da sola, ha aperto tre diverse start up. E ancora, nella pioggia di aiuti destinati alle aziende genovesi piegate dalla crisi seguita al crollo del ponte Morandi, c’è un indagato per bancarotta e la titolare di un B&B in montagna.

In questi giorni impazza la polemica per i furbetti dei bonus da 600 euro finiti, tra gli altri, anche a cinque parlamentari, ma l’abitudine a mettere le mani sui fondi destinati alle emergenze è uno sport nazionale piuttosto diffuso. E uno scenario simile si è ripetuto anche nelle erogazioni destinate (in teoria) alle aziende colpite dal crollo del viadotto di Genova, di cui proprio oggi ricorrono i due anni. Come raccontato giorni fa da un’inchiesta del Secolo XIX, la distribuzione dei fondi, gestita in parte dal commissario all’emergenza e presidente della Liguria Giovanni Toti, e in parte dal governo, ha raggiunto più obiettivi tutti insieme: tagliare fuori decine di commercianti delle zone più colpite; premiare aziende lontane dal ponte e chiuse per ferie; concedere aiuti fiscali ad aziende fantasma. E in tutto questo sono avanzati pure 13 milioni su 30 perché non si è riusciti a spenderli.

Il Decreto Genova
e i 13 milioni avanzati

I fondi previsti dal Decreto Genova si dividevano in due grandi famiglie. La prima, detta “zona franca urbana”, era un masterplan di defiscalizzazione: incentivi per start up e sgravi per aziende già esistenti. Gli incentivi, in particolare, erano un pallino del sindaco-commissario alla ricostruzione Marco Bucci: “Faremo un incubatore di imprese per realtà ad alta tecnologia”. A gestire la partita è il ministero dello Sviluppo economico (governo gialloverde), che domanda a Toti di disegnare il perimetro dell’area. Il presidente della Regione Liguria lo estende a buona parte della città, ben aldilà dei quartieri sotto al viadotto: danni ampi richiedono misure ampie, spiega.

Il secondo (e più contestato) pacchetto riguarda gli aiuti una tantum: 15mila euro per società che hanno dovuto “interrompere l’attività a seguito dell’evento”. In questa formula è già contenuto il primo problema: molti commercianti dei quartieri più martoriati, Certosa e Sampierdarena, non hanno mai chiuso un giorno. Oltre a questo, vengono inspiegabilmente tagliate fuori le srl, ovvero una buona parte delle piccole e medie aziende.

Le aziende fantasma
Un indirizzo per tutti

Ecco alcuni esempi di com’è andata a finire. Tra le aziende beneficiarie di incentivi ci sono la Gcb srl e la Ovunque srl (400mila euro). Hanno la stessa sede in una porta senza campanello. La prima si occupa di consulenza aziendale, la seconda di sondaggi. L’amministratrice si chiama Caterina Matteoli, ex titolare di una panetteria di Pontedera in liquidazione. Altro caso particolare è quello della consulente fiscale Marina Bagon: da sola è intestataria non di una, ma di tre start up (400mila euro di sconti). Altre cinque aziende hanno la stessa sede e il medesimo notaio di Modena. Quattro si occupano di trasporto merci e facchinaggio, la quinta è un call center, amministrato da un trentenne ucraino.

C’è poi il caso della Progetto service srl (124mila euro), oggetto di un sequestro preventivo della Dda di Torino nel marzo del 2019. Per i magistrati torinesi il vero proprietario di quell’impero è Francesco Pugliese, arrestato e indagato per associazione a delinquere di tipo mafioso. La D&P Europe srl, invece, settore importazione birra, ha ottenuto 109mila euro ma non è possibile risalire a tutti gli intestatari: la proprietà è schermata da società anonime svizzere.

Il B&B sull’Adamello
ora è diventato ligure

Il piano, come accennato, prevedeva di rivitalizzare anche le imprese già presenti sul territorio. Tra di esse c’è la Locanda Villa Amaranta. Si tratta di una società che gestisce strutture ricettive di pregio, in particolare un B&B a Edolo, in provincia di Brescia, davanti al complesso alpino dell’Adamello. Cosa c’entra con il Ponte Morandi? La proprietaria ha aperto una seconda struttura a Genova lo stesso giorno dell’apertura dei bandi. Il gruppo risulta insomma radicato a Genova, sebbene da poche ore quando si apre l’iter degli aiuti. In tema di ospitalità, i fondi sono andati anche a un albergo a ore, la Locanda Paradiso.

Più in generale, dagli elenchi emerge come l’ondata di sgravi abbia intercettato più grandi studi professionali del centro che piccole aziende della periferia. Tra i beneficiari c’è anche la ditta Balleari e c., grande azienda di import export di carni, amministrata da familiari del vicesindaco di Genova Stefano Balleari, candidato alle elezioni regionali con Fratelli d’Italia.

Ma il fronte più caldo resta quello degli aiuti una tantum. I criteri hanno tagliato fuori tanti piccoli imprenditori. E tra chi ne ha beneficiato c’è invece Gian Federico Vivado, manager indagato per una bancarotta da 50 milioni di euro.

Dalla “dittatura” dell’emergenza al lockdown ora necessario

Ora che i contagi risalgono e la minaccia di un nuovo lockdown non sembra più tanto astratta, colpisce il silenzio dei quotidiani che a pagine unificate sparavano, fino a pochi giorni fa, sulla proroga dello stato d’emergenza. A partire dagli “osservatori qualificati” (copyright Stefano Folli) che sui giornaloni manifestavano “tutta la loro inquietudine”: ecco l’accademico Carlo Galli, su Repubblica dell’11 luglio. “La proroga è per molti versi discutibile. Lo è sia con riguardo alle attuali circostanze epidemiche, che non paiono esigere questa misura, sia per il significato simbolico che assume, dato che trasmette insicurezza e allarme ai cittadini”. Sul Corriere, invece, riascoltiamo il “solito” Sabino Cassese: “Manca il presupposto della proroga”, perché non c’è “una condizione attuale di emergenza”. “La confluenza eccessiva di funzioni” a Palazzo Chigi “è pericolosa (…) per l’equilibrio dei poteri, mettendo tra le quinte il Parlamento e oscurando il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale”. Sul Riformista, sempre Cassese si lanciava in un sobrio accostamento: “Conte come Orban”.

Ma a esercitarsi meglio sul tema sono stati i giornali di centrodestra. Titolo di Gianluigi Paragone sul Tempo: “Un’emergenza costruita per farsi gli affari propri”. Svolgimento: “Siamo in emergenza? No. E allora perché, se non c’è un’emergenza, il governo chiede di prorogare lo stato d’emergenza?”. Per farsi gli affari propri, è chiaro. La Verità: “Nessuna seconda ondata, lo stato d’emergenza non ha senso”. Il Giornale: “Colpo di mano, Emergenza Conte: il premier si blinda fino a ottobre”. Sallusti, noto epidemiologo: “Non ci sono evidenze scientifiche per giustificare il prolungamento”. Ancora sul Tempo Francesco Storace intervista Sgarbi, insigne virologo: “L’emergenza non ha più senso”. Ma sul quotidiano romano il titolo più negazionista in assoluto lo regala un medico, il professor Alberto Zangrillo, primario di anestesia al San Raffaele e medico personale di Silvio Berlusconi: intervistato ancora da Storace, se ne esce con un lapidario “L’emergenza Covid è finita”. Come si dice, mo’ me lo segno.

Gestione Covid, avviso di garanzia a Conte e 6 ministri I pm: “Archiviare”

Sei ministri e il presidente del Consiglio risultano indagati dalla procura di Roma per sei titoli di reato, tutti in concorso, e che riguardano la gestione complessiva dell’emergenza Covid sia sul fronte sanitario sia su quello che riguarda le scelte, supposte eccessive, sul lockdown. Il fascicolo gestito per competenza territoriale dalla Procura di Roma si alimenta di oltre duecento esposti arrivati da ogni parte d’Italia. Ma l’iscrizione con l’invio degli avvisi di garanzia, è stato spiegato ieri da palazzo Chigi, è un atto dovuto per il quale la stessa Procura ha chiesto l’archiviazione perché “le notizie di reato appaiono del tutto infondate”. Toccherà al tribunale dei Ministri ora esprimersi, come da prassi. Oltre al premier Giuseppe Conte, così risultano indagati il ministro della Salute Roberto Speranza, il capo del Viminale Luciana Lamorgese, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il capo del dicastero economico Roberto Gualtieri e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Le denunce, stando agli atti dell’indagine, si sviluppano su due filoni ai quali fanno riferimento precisi titoli di reato. Il primo fronte riguarda l’azione generale di contrasto al virus. Qui i reati contestati sono quelli di epidemia colposa (art. 438), omicidio colposo (art. 589) e delitti colposi contro la salute pubblica (art. 452). Il secondo capitolo, sostenuto anche dalle denunce del Codacons, riguarda la gestione, ritenuta eccessiva, del lockdown allargato a tutto il Paese e in apparente contraddizione con una gestione più a macchia di leopardo suggerita dalle prime note del Comitato tecnico scientifico (Cts). Qui i titoli di reato sono tre: l’abuso d’ufficio (art. 323), attentato contro la costituzione dello Stato (art. 283), attentati contro i diritti politici del cittadino (art. 294). Davanti alla notizia puntuale è arrivato l’attacco di Matteo Salvini. “Conte e il governo – ha detto il leghista – hanno i morti sulla coscienza. Il premier va arrestato”. Conte, su Facebook, ha ribadito: “Ci siamo sempre assunti la responsabilità politica delle decisioni adottate. Decisioni molto impegnative assunte senza disporre di un manuale, di linee guida, di protocolli di azione. Abbiamo sempre agito in scienza e coscienza nella consapevolezza di dover sbagliare il meno possibile per preservare al meglio gli interessi della intera comunità nazionale”.

Ha aggiunto poi: “Nei mesi scorsi alcuni cittadini, avvocati, finanche un’associazione dei consumatori hanno dichiarato pubblicamente di avere presentato denunce nei miei confronti e del Governo per la gestione della pandemia. Le accuse sono state le più varie. Alcuni ci hanno accusato di avere adottato misure restrittive, altri di non aver adottato misure sufficienti o di averle adottate troppo tardi”. Quindi ha concluso: “Io e i ministri siamo e saremo sempre disponibili a fornire qualsiasi forma di collaborazione ci verrà richiesta, nel rispetto dei distinti ruoli istituzionali. Il bene degli Italiani prima di tutto”.

Una collaborazione che Conte ha già dimostrato durante l’interrogatorio davanti ai pm di Bergamo che indagano sulla mancata zona rossa tra Alzano e Nembro e sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano. Al centro la nota del Cts del 3 marzo che chiedeva la zona rossa in Val Seriana. Il premier sostiene di aver ricevuto quel documento solo il 5 marzo. Una versione che convince la Procura ora alle prese con la decisione se archiviare o meno la parte dell’indagine che riguarda la zona rossa, dato che sembrerebbe si vada verso un nulla di fatto. La scelta di non chiudere i due Comuni, è il ragionamento che si fa in Procura, è stata una decisione politica e dunque valutabile, nel caso, dalla politica e non certo dalla magistratura. Tutto, comunque, resta legato alla relazione finale (consegna entro fine settembre) affidata al virologo Andrea Crisanti che dovrà spiegare come e in che modo la mancata zona rossa e la mancata chiusura dell’ospedale abbiamo favorito la diffusione del virus in tutta la provincia di Bergamo.

Aeroporto, basta il foglio e poi a casa (sulla fiducia)

“Domani dobbiamo andare a farci il tampone… vabbé, mi sa che ci tocca”. Vent’anni, sorriso beffardo e un po’ imbarazzato, timide risate a testimoniare il fresco ricordo delle notti brave appena trascorse. Le mascherine rigorosamente in tasca, finché qualcuno non ricorda loro di indossarle: “Fa caldo, dai…”. Stanno rientrando alla spicciolata. Comitive e piccoli gruppi di ragazzi e ragazze che hanno passato la prima metà di agosto in alcuni dei paesi dove l’epidemia di Covid è tornata tangibile. Spagna (e Baleari), Malta, Croazia e Grecia. Da ieri, al ritorno all’aeroporto di Fiumicino, a chi proviene da queste mete viene consegnato un foglio in cui ci sono le indicazioni da seguire per le 48 ore a venire: contattare il medico o il numero verde, recarsi alla Asl di riferimento, sottoporsi al tampone e attendere a casa finché non arriva l’esito negativo.

Ieri al “Leonardo da Vinci” di Roma c’erano solo dei totem informativi. Nessun banchetto con sanitari e kit anti Covid già pronti, come avvenuto per l’ “emergenza Bangladesh” di un mese fa: la Regione Lazio “per forza di cose” non è in grado di gestire numeri del genere direttamente negli scali. A Ferragosto, poi. Così i ragazzi vengono rimandati a casa. Molti sono del Sud: hanno preso treni e pullman per arrivare a destinazione. Chi è di Roma ed è tornato ieri, oggi dovrà recarsi in una delle otto case salute per il tampone drive-in e poi passare il weekend a casa. “Non esageriamo – dice Simone, 23 anni – il tampone ci vado a farlo, ma non è che se non posso uscire il 14 e il 15. Poi magari non c’ho niente”.

Il pericolo in parte sfugge ancora il sistema organizzato in extremis qualche falla ce l’ha. Pare che da settimane l’istituto Spallanzani e la Regione Lazio stiano cercando di avvertire il Ministero della Salute sui rischi: “Fosse stato per noi, avremmo vietato le vacanze fuori dall’Italia”, spiega a Il Fatto una fonte dell’Unità di crisi regionale, guidata dall’assessore dem Alessio D’Amato. “I nostri test rapidi sono utili ma il Ministero sta un po’ dormendo – dice Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani – Basterebbero 5-10 minuti al gate per dare il responso e fornire una forte scrematura. La nostra proposta era quella di effettuarli presso aeroporti, stazioni e porti e anche alle frontiere autostradali. Ora è tardi”.

I totem informativi sono apparsi anche all’altro aeroporto romano, quello di Ciampino, dove arrivano la maggioranza dei ragazzi: “Mi hanno avvertito. Io ci vado subito a fare il tampone, così mi levo il pensiero. Speriamo che si sbrighino che ho da fare”, ci dice Daniele 25 anni, sostenuto dalla sua amica Federica, 24 anni: “Se ce l’avessero detto prima ci saremmo organizzati. Sempre all’ultimo. Poi se la prendono con noi ragazzi”. Francesco, 30 anni, racconta: “Noi siamo stati vicino Valencia, ma siamo stati attenti. C’erano tanti ragazzi, anche italiani, cui non importava nulla, dicevano che il Covid non esiste”. Alla casa della Salute di Largo Preneste è tutto pronto: “Ci aspettiamo il pienone, sarà un Ferragosto impegnativo – dice un’infermiera – Con i bengalesi è stata dura, sono arrivati a frotte. E adesso siamo davvero in pochi”.

Paura di Ferragosto: “Contagi in aumento E quasi mille focolai”

Covid. A quanto pare ci risiamo. Non tanto per i numeri in assoluto (visti i Paesi che ci circondano e visto che al momento in tutta Italia sono solo 55 le persone ricoverate in terapia intensiva, il dato che forse va seguito con maggiore attenzione) quanto per la tendenza generale, consolidata da giorni, alla ripresa della curva dei contagi.

Prima tocca al coordinatore del Comitato tecnico scientifico agostino Miozzo, in un’intervista al Corriere della Sera, lanciare l’allarme: “Se i contagi continueranno a salire i lockdown locali saranno inevitabili”; quindi, nel pomeriggio, è il turno del virologo Pier Luigi Lopalco che sgancia la bomba: “Penso che i casi registrati fra luglio e agosto – scrive su Facebook – rappresentino l’innesco di una seconda ondata. Lo stesso innesco che a febbraio, semplicemente, non abbiamo rilevato e che poi ha provocato la grande ondata. Le onde di oggi sono quelle di una mareggiata. Se siamo bravi a contenerle – conclude – probabilmente non svilupperemo lo tsunami”. Niente allarmi inutili, dunque, ma guardia alta. Il bollettino del 13 agosto registra 523 nuovi contagi (mercoledì erano stati 481) e 6 morti (contro i 10 delle precedenti 24 ore). Attualmente i soggetti positivi dei quali si ha certezza sono 14.081, 786 ricoverati con sintomi e – come detto – 55 in terapia intensiva.

A destare qualche preoccupazione è il bollettino settimanale diffuso ieri dalla Fondazione Gimbe, che evidenzia come nelle prime tre settimane di luglio i nuovi casi fossero stabili (circa 1.400 per settimana), mentre nelle ultime due siano progressivamente aumentati dai 1.736del 22-28 luglio, ai 1.931 del 29 luglio–4 agosto fino ai 2.818 della settimana 5–11 agosto. E in quest’ultima settimana è stato registrato un incremento dei contagi del 46% rispetto alla precedente (con una consistente diminuzione dei tamponi diagnostici) e – per la prima volta dal mese di aprile – un incremento dei ricoveri in terapia intensiva (+8).

Una situazione critica certificata anche dal report dell’Istituto superiore di sanità: “L’Italia – si legge nel documento – si trova in una fase di transizione con tendenza ad un progressivo peggioramento. Il numero di nuovi casi di rimane nel complesso contenuto ma con una tendenza all’aumento. Si osservano stime medie pari o superiori ad 1 del valore in 9 Regioni. I focolai sono quasi mille, 925 per l’esattezza”.

Molti di questi, come è noto, sono dovuti al rientro dei vacanzieri dall’estero e – nel tentativo di arginarli – il ministero della Salute mercoledì ha emanato un decreto che obbliga chi rientra da Grecia, Spagna, Croazia, Malta e Colombia di presentarsi all’arrivo muniti di un test negativo effettuato “nelle 72 ore antecedenti all’ingresso nel territorio nazionale” oppure di “sottoporsi ad un test molecolare o antigenico, da effettuarsi per mezzo di tampone, al momento dell’arrivo in aeroporto, porto o luogo di confine, ove possibile, ovvero entro 48 ore dall’ingresso nel territorio nazionale presso l’azienda sanitaria locale di riferimento” con obbligo do isolamento fiduciario nell’attesa del risultato. Quindi, o si arriva già tamponati (eventualità piuttosto improbabile), oppure ci si sottopone al test.

Dove? Di certo non in aeroporto: “In Italia – fanno sapere dagli Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del ministero della Salute – non ci sono aeroporti dove si possano fare accertamenti con tamponi, a meno di piccolissimi scali con 100 passeggeri al giorno, non certo i 6.000 previsti nel periodo di Ferragosto tra Malpensa e Linate. Non si possono fare, mancano le strutture e c’è il rischio di creare assembramenti e non far defluire velocemente i passeggeri in arrivo”. Insomma, di fatto ci si affida al buon senso dei vacanzieri, che sono tenuti (soprattutto quelli che non viaggiano in aereo) a denunciare il loro rientro, fare il tampone “presso l’azienda sanitaria locale di riferimento” e attendere in isolamento il risultato.

Le Regioni si attrezzano come possono. Il Lazio ha predisposto otto “drive in” per eseguire i test; la Sardegna intende fare un nuovo tampone a chi entra nel territorio regionale pur munito di certificato di negatività; il Veneto estende l’obbligo di tampone a chi rientra da Romania e Bulgaria; l’Emilia Romagna non ritiene necessaria la quarantena per chi è in attesa del risultato del test; la governatrice della Calabria Iole Santelli, con un’ordinanza, dispone l’obbligo di mascherina anche nei luoghi l’obbligo aperti “nelle circostanze in cui la distanza interpersonale non possa essere rispettata, fermo restando in ogni caso il divieto di assembramento” e chiude le discoteche. Tutti insieme, in ordine sparso.

Esame di maturità

Fra ieri e oggi gli iscritti ai 5Stelle decidono, sulla piattaforma Rousseau, uno dei passaggi cruciali dei loro 11 anni di vita: il sì o il no alla deroga parziale al limite di due mandati (solo per chi ne ha svolto uno in un Comune) e all’abolizione del divieto (che non è un obbligo) di allearsi con partiti tradizionali. Due svolte molto attese e anche utili. Due segni di maturità e di crescita, oltreché di realismo, da parte di quella che gli elettori due anni fa hanno eletto a prima forza politica del Paese, che ha espresso il presidente del Consiglio, dato vita a due governi e realizzato molti punti del suo programma. Purtroppo una scelta così importante avviene fra il lusco e il brusco, senza preparazione né discussione, quando la gente pensa a tutt’altro: la vigilia di Ferragosto. C’è da restare basiti dinanzi all’improvvisazione e al dilettantismo di chi – Davide Casaleggio, con l’avallo dei tre garanti Crimi, Lombardi e Cancelleri – ha deciso i tempi e i modi. Al punto da far sospettare che chi un anno fa vantò il record mondiale di partecipazione (sul governo giallorosa si espressero 80mila iscritti) ora sia ben felice che votino in quattro gatti. Magari solo i trinariciuti contrari a deroghe e alleanze. Una vittoria del No sui due fronti, o anche solo sul secondo, condannerebbe il M5S all’isolamento e all’irrilevanza, arretrando di tre anni le lancette della storia, danneggiando il governo e facendo un regalo insperato alla Casta, che non ha mai smesso di sognare il ritorno alle ammucchiate pre-2018 per tagliar fuori gli odiati grillini e rimettersi a tavola.

Chi, fra i 5 Stelle, lo apprezza non deve dimenticare che il governo Conte è stato possibile perché i voti su Rousseau autorizzarono il capo Di Maio ad allearsi con partiti: che senso ha ora vietarlo a priori nelle Regioni e nei Comuni? Sta poi ai vertici locali e nazionali valutare caso per caso opportunità e convenienza. Pronti a dire no, come sacrosantamente han fatto con De Luca in Campania; ma anche a dire sì, come han fatto in Liguria con Sansa e avrebbero dovuto tentar di fare in Puglia o almeno nelle Marche. Il discorso vale vieppiù nei Comuni, dove il M5S è nato: l’anno prossimo si eleggono i sindaci di Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. A Roma e Torino, le candidate in pole position per battere la destra sono Raggi e Appendino; a Milano, Sala potrebbe passare la mano; a Bologna e Napoli, Merola e De Magistris devono lasciare a nomi nuovi tutti da inventare. Che ci sarebbe di male se il M5S ottenesse l’appoggio del centrosinistra dove può vincere e, dove può solo perdere, sostenesse candidati del Pd in cambio di una svolta radicale su ambiente e legalità? Si spera che anche stavolta gli iscritti siano più maturi di chi dovrebbe esserlo più di loro.