Il proporzionale consolida il dominio delle tribù di partito

La desolante vicenda dei parlamentari colti col sorcio in bocca da 600 euro s’inserisce in un florilegio di comportamenti irrispettosi della dignità dell’ufficio e in dispregio alla volontà degli elettori. A tanto squallore contribuiscono il rilassamento etico, l’ignoranza e il cinismo d’imitazione, presenti nella società italiana. Sarebbe assolutorio per le istituzioni ridurre in quei sensi il fenomeno. Fanno premio le cause ordinamentali legate alla selezione della classe politica tramite il sistema elettorale, la cui missione è consentire il pieno e libero concorso dei cittadini “con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituzione).

Due sono i meccanismi praticabili: il maggioritario e il proporzionale. Quest’ultimo copre attualmente due terzi dei seggi da assegnare e opera in diversa configurazione dal 2006. Sua caratteristica saliente è concepire la rappresentanza esclusivamente come esito dell’adesione a una forza politica presente in una lista elettorale. Non si stabilisce, pertanto, un raccordo tra rappresentanza, persona e ambito territoriale (ben sintetizzato nel collegio uninominale). Con il proporzionale si formano le liste secondo tre linee di designazione: il placet con derive nel fervore priapico (tipico di FI), il giovanilistico festival di like su piattaforma informatica (ideona M5S) e l’individuazione dei candidati nelle segrete delle direzioni politiche (praticata dagli altri partiti). Il metodo grillino è incongruo e probabilmente ingenuo. Gli altri consentono di prescindere dalla realtà territoriale per dare sfogo al tribalismo amorale che privilegia amici e amiche non prescelti per merito e competenza, ma per appartenenza e dipendenza. E, per amor di Patria, qui ci si ferma: infatti, solo il tribalismo amorale, per definizione alieno da valutazioni etiche, rende agevole l’elezione di personaggi di tanto poco spessore.

In presenza di un sistema con collegi uninominali, il direttorio politico si guarderebbe bene dal dare spazio solo a candidati titolati da legame tribale. Per vincere bisogna convincere, puntando su persone serie e competenti. Il che spingerebbe a una sana emulazione nella ricerca dei migliori tra le liste concorrenti. La qualità degli eletti certo aumenterebbe, come ai tempi del Mattarellum. Il sistema proporzionale implica, inoltre, che gli elettori sottoscrivano una specie di cambiale in bianco: gli eletti hanno piena libertà di formare governi con partiti antagonisti perfino concordando programmi antitetici a quello presentato per ottenere suffragi. Cioè: in perfetta collisione con la finalità di concorso democratico consacrata nell’articolo 49 della Costituzione.

Sorprende pertanto che la segreteria del Pd insista per ottenere il proporzionale puro, motivando la richiesta quale contrappeso alla riduzione del numero dei parlamentari. La richiesta suscita perplessità ulteriori. Innanzi tutto di ordine storico, posto che quel partito era nato con forte vocazione maggioritaria. In secondo luogo per lo sgradevole intento di assicurare a ciascun partito parlamentari individuati esclusivamente dal monopolio del direttorio politico, espropriando i cittadini del diritto di una scelta ragionata. La sacrosanta riduzione del numero dei parlamentari è funzionale a una maggiore agilità e prontezza degli apparati. Il proporzionale confligge con quella prospettiva, perché destinato a riprodurre in Parlamento i guasti qui lamentati e a replicare un modello antiquato e affannoso di governabilità. Si consoliderebbe, in definitiva, il dominio delle tribù operanti nei contesti partitici a discapito dell’esponenza dei valori presenti nelle varie realtà territoriali nonché dell’efficienza dell’azione politica e amministrativa.

 

L’empatia, da sola, non ci salverà: torna Mittelfest (covid-free)

Il più internazionale dei festival italiani, il Mittelfest di Cividale del Friuli, quest’anno dovrà per forza fare i conti con il virus: per garantire spettacoli covid-free e per offrire spunti di riflessione sul nuovo mondo possibile dopo la pandemia. Lo fa indicando il tema dell’edizione 2020: l’empatia. È la strada proposta per ricominciare, ma senza illusioni: “Se ti ferissi e sanguinassi, preferiresti avere accanto a te, in quel momento critico, la tua amica più cara, che sviene quando vede il sangue, o un medico competente che può fermare il sanguinamento, agendo in modo professionale, senza alcun sentimento?”. La domanda, già posta dallo scienziato americano Carl Sagan, è riformulata dal direttore artistico del Mittelfest, il pluripremiato regista di teatro e cinema di Sarajevo, Haris Pašovi. L’empatia da sola non ci salverà. Ci aiuterà a riprendere la strada, però, se sarà unita a forti dosi di riflessione sul mondo prima della pandemia, nient’affatto da rimpiangere. Ecco allora, dal 5 al 13 settembre a Cividale, venticinque progetti artistici, quattordici spettacoli musicali, nove teatrali, due di danza, con dieci prime assolute, partecipazioni di artisti da tutta l’Europa, con particolare attenzione all’area mitteleuropea e a quella balcanica. Saranno in scena, tra gli altri, Alessandro Benvenuti ed Elio Germano, Emma Dante e Maddalena Crippa, Romeo Castellucci e Vinicio Capossela.

Riflessioni sul totalitarismo di ieri e sul mondo da ricreare oggi. È il Mein Kampf di Adolf Hitler a essere riproposto da Elio Germano nello spettacolo teatrale Segnale d’allarme/La mia battaglia, in una trasposizione virtuale in cui il pubblico può partecipare, attraverso visori, al crescendo di parole che porta alla persuasione di massa. Romeo Castellucci presenta invece una videoinstallazione dal titolo Il Terzo Reich, bombardamento di segni, oggetti, parole, fino a una sorta d’ipnosi in cui la democrazia assomiglia tanto a un totalitarismo. La storia di Etty Hillesum, nata in Olanda da famiglia ebrea e morta ad Auschwitz a 29 anni, rivive nella riduzione di Giulia Calligaro e nella voce di Maddalena Crippa, nello spettacolo Deve trattarsi di autentico amore per la vita.

Alessandro Benvenuti presenta la propria esperienza del lockdown, raccolta giorno per giorno nelle pagine di un diario: un autore-attore, in isolamento e privato del suo naturale habitat, il palcoscenico, ritrova il palcoscenico con Panico ma rosa – Dal diario di un non intubabile.

Alle vittime del Covid-19 è dedicato il concerto Per un Nuovo Mondo dell’Orchestra del Friuli Venezia Giulia, con brani dal Requiem di Mozart e dalla Sinfonia dal Nuovo Mondo di Dvorák.

Il concerto d’apertura del Mittelfest, il 5 settembre, sarà un Viaggio di Europa, intesa come la regina greca che ha dato il nome a quella che resta la nostra patria comune. Il viaggio è musicale e incrocia i ritmi caucasici, le suggestioni klezmer e gli echi balcanici di Abdo Buda Marconi Trio.

Emma Dante porta in scena Misericordia, il suo spettacolo “sulla fragilità delle donne, la loro disperata e sconfinata solitudine”. Dall’Olanda arriva invece la performance multimediale Ricollocazione globale delle scimmie evolute in un Esopianeta adatto alla ricreazione della Terra, che combina improvvisazioni musicali, immagini e partecipazione del pubblico attraverso un’app dello smartphone: per sperimentare un trasloco (virtuale) in un nuovo pianeta, dopo che abbiamo distrutto il nostro con il cambiamento climatico. Capossela porta infine a Cividale lo spettacolo Pandemonium in cui, come nella sua musica, caos, pandemia e demonio risuonano insieme.

 

Gli scandali di De Luca: lettera aperta a Zinga

Gentile Zingaretti, i provvedimenti della Procura di Napoli (che hanno coinvolto collaboratori strettissimi del presidente della Regione Campania De Luca) meriterebbero qualche suo commento, visto che riguardano scelte e comportamenti gravi almeno quanto quelli dei vertici della Regione Lombardia. Le inchieste sono relative alla costruzione di strutture anti-Covid e alle modalità di effettuazione dei tamponi, cioè il cuore della politica sanitaria degli ultimi mesi. Sono state quelle scelte a consentire la ricandidatura di De Luca, capovolgendo nei fatti orientamenti a sostituirlo, e oggi esse si dimostrano opache e inefficienti.

Lei, ad esempio, metterebbe un consigliere regionale della sua maggioranza a occuparsi nel Lazio di appalti nella sanità? Come è accaduto con Luca Cascone, oggi accusato di turbativa d’asta per i tre ospedali Covid senza avere alcun ruolo istituzionale. E perché mai le imprese si riferivano essenzialmente a lui e non agli organi o ai funzionari incaricati di seguire gli appalti? E lei, quale segretario e presidente della Regione Lazio, avrebbe mai permesso che una struttura pubblica (l’Istituto Zooprofilattico) insediasse i suoi macchinari in un centro di analisi privata a cui poi è stato assegnato un grande appalto per i tamponi? E ci vuole spiegare perché l’Asl Napoli 1 non viene sciolta per infiltrazione camorristica? Al comando di quell’Asl c’è un certo Ciro Verdoliva, che in qualsiasi altra Regione sarebbe stato cacciato da tempo. È implicato in vari processi, è stato anche agli arresti domiciliari, ma continua a godere della fiducia di De Luca. Anche lui è implicato nella indagine sugli ospedali Covid mai aperti e mai collaudati. Conosce l’inchiesta della procura di Napoli su uno degli ospedali di quell’Asl, il S. Giovanni Bosco?

Il capo della Procura, Giovanni Melillo, nella conferenza stampa dopo l’arresto di diversi esponenti dei clan Contini, Mallardo e Licciardi disse: “Gli uomini dei clan controllavano il funzionamento dell’ospedale, dalle assunzioni, agli appalti, alle relazioni sindacali. L’ospedale era diventato la base logistica per numerose trame delittuose”. Tutto l’iter per lo scioglimento è stato già definito da tempo ma non è stato ancora emesso il decreto. Non credo che De Luca abbia tanto potere da condizionare un ministro serio come Lamorgese. Allora chi ha chiesto di procrastinare il tutto a dopo le elezioni?

Ma è ancora più grave ciò che sta avvenendo nella predisposizione delle liste. Ben 14! I nomi degli intramontabili uomini del potere meridionale ci sono tutti. Non manca nessuno all’appello. E chi non ha potuto inserire il proprio nome per impedimenti della magistratura o di altro tipo si è fatto sostituire dai figli o da parenti stretti. È la più estesa “coalizione familistica” della storia politica meridionale, il più massiccio spostamento di personale politico da uno schieramento all’altro che si riscontri nella storia elettorale italiana. Alcune liste sono fatte quasi esclusivamente da candidati già presenti prima nel centrodestra: esponenti di FI, Lega ed ex consiglieri di Msi e FdI. Alcuni transfughi hanno sostenuto a spada tratta uomini coinvolti in rapporti con clan camorristici. Succede che si cambi idea, ma almeno poi si prendono le distanze dalle persone che prima si sostenevano. Invece si passa da uno schieramento all’altro parlando ancora bene di Cosentino, di Cesaro e di tutti i politici del centrodestra implicati in relazioni con i clan. Questo non è semplice trasformismo, è trasformismo menefreghista della legalità. De Luca vuole umiliare chi voleva sostituirlo. Perciò sta rafforzando le liste che portano il suo nome per dimostrare che può vincere senza che il Pd sia decisivo.

Dulcis in fundo. A compilare le liste civiche c’è Nello Mastursi, già capo della segreteria di De Luca nel 2015. È stato condannato a 18 mesi per aver promesso al marito di una magistrata un incarico in un’Asl che poi fece una sentenza favorevole a De Luca che stava rischiando la decadenza da presidente della Regione in base alla legge Severino. La sentenza alla fine arrise a De Luca, che salvò la sua carriera; il giudice fu trasferito; il marito rinviato a giudizio (e poi arrestato in un altro scandalo relativo ad appalti nella sanità) e Mastursi condannato con rito abbreviato. Ora è tornato alla grande, partecipa alle riunioni e tratta con i potenziali candidati. De Luca lo aveva allontanato sostenendo che aveva agito a sua insaputa. Anche adesso compila le liste di De Luca all’insaputa di De Luca? Quali sono le regole del Pd? Nessun “impresentabile” nelle proprie liste, ma si accetta che a fare le liste alleate ci sia un condannato? Tutto ciò è degno dello Sciascia di Todo Modo. Ma per non scomodare un maestro, accontentiamoci di Cetto La Qualunque.

 

In montagna con Bepi e le racchette magiche: alla faccia di Capalbio

Riflessioni dolomitiche. Le bacchette per camminare in montagna sono un’invenzione recente, molto utile a chi vende bacchette per camminare in montagna. I lombardi ne vanno pazzi: dagli le bacchette, e subito si sentono professionisti dell’escursione. 30 anni fa, quando le bacchette non c’erano, i lombardi riuscivano a passeggiare per i boschi alpini lo stesso? Incredibilmente, sì. I più immaginifici osavano l’alpenstock o la piccozza, su cui inchiodavano placchette ogivali di metallo a riprova delle località alpine conquistate; tutti gli altri prendevano un bastone nel bosco e usavano quello: l’effetto non era poi così diverso, e in più era gratis. Al ritorno dalla scarpinata, o se lo tenevano come ricordo, oppure lo abbandonavano di nuovo nel bosco. Per questo, fino a 30 anni fa, i boschi alpini erano pieni di bastoni abbandonati. Un giorno, però, una guida alpina di Ortisei, Bepi Moroder, notò tutti quei bastoni abbandonati, si interrogò sul loro mistero, e lo risolse una volta per tutte inventando le bacchette per camminare in montagna. Il Bepi Moroder. Non sottovalutatelo. Se vai da lui con l’aria del furbo e gli dici: “Cos’hanno in più le tue bacchette rispetto a questo bastone che ho trovato nel bosco?”, lui svita una ghiera, allunga la bacchetta e ti fa: “Telescopica”. Davanti a telescopica, il lombardo, giustamente, soccombe. Di recente, ho notato che i boschi alpini sono pieni anche di pigne abbandonate. La loro forma fallica è inequivocabile. Sono proprio curioso di vedere cosa ne ricaverà il Bepi Moroder.

Aneddoto tirrenico. Matteo Salvini va in vacanza a Forte dei Marmi. Causa disguido (il commercialista leghista che doveva occuparsi della logistica è indagato per peculato ed è scappato all’estero), Salvini si ritrova senza stanza, e ad agosto gli alberghi al Forte sono tutti pieni. Per non passare la prima notte all’aperto, Salvini si accontenta di un posto letto nella camera dove dorme un lavapiatti senegalese (laureato in ingegneria, sopravvive al razzismo come può); ma la compagnia non è di suo gusto, e prima di coricarsi indugia a lungo, nonostante la stanchezza. Cammina per la stanza, va sul terrazzo a fumare, rientra, fa rumore, disturba il sonno del senegalese; infine, telefona alla reception e chiede di essere svegliato alle 8, ché alle 9 deve andare in stazione a prendere la morosa. Quando finalmente Salvini è in un sonno profondo, l’ingegnere-lavapiatti si vendica: prende del lucido da scarpe e glielo spalma sulla faccia. L’indomani, alle 8, la reception sveglia Salvini. Salvini scende dal letto, va in bagno, si guarda allo specchio ed esclama: “Ma porca puttana! Quell’imbecille della reception ha svegliato il negro!”. E torna a dormire.

Il renziano a Capalbio: “In un anno ci sono 365 giorni. Quanto lavorano gli operai? 8 ore al giorno? È un terzo dell’anno, ovvero 121 giorni. Togliamo le domeniche: 52. Restano 69 giorni. E i sabati: 26 giorni. Restano 43 giorni. Ogni giorno perdono mezz’ora per mangiare: togliamo 13 giorni. Restano 30 giorni. Ogni giorno perdono 5 minuti per andare al cesso: togliamo 4 giorni. Restano 26 giorni. Deduciamo le vacanze, 14 giorni all’anno. Restano 12 giorni. Togliamo le feste cattoliche e nazionali: 12 giorni. Restano 0 giorni. Dunque, gli operai lavorano 0 giorni all’anno. Perché Landini li difende? Spiegamelo tu, perché io proprio non ci arrivo”.

Ultim’ora. È esploso Umberto Smaila.

Feltri e Senaldi liberi di ignorarsi

Problemi di comunicazione in casa Libero. Qualcuno, se può, metta in contatto il fondatore Vittorio Feltri e il direttore Pietro Senaldi. Quest’ultimo è ormai in totale trance agonistica: le sue prime pagine somigliano sempre più a inni alle sostanze lisergiche (complimenti ancora per il titolo sugli immigrati che mangiano cani a Lampedusa).

Immerso nel suo trip polemico, Senaldi si dimentica di consultare il decano Vittorio. Uno scrive l’opposto dell’altro. L’altro giorno Feltri ha minimizzato le responsabilità di parlamentari e consiglieri che hanno chiesto il bonus per le partite Iva in crisi (e ovviamente ha dato tutta la colpa al governo): “Personalmente non me la sento di accanirmi contro coloro che hanno incassato furbescamente gli oboli” perché “erano concessi in ossequio a una legge firmata dagli amministratori dello Stato”. Invece, Vittorio non può “fare a meno di deplorare un esecutivo talmente inetto da permettere a cani e porci di incamerare quattrini a titolo di mancia elettorale”. Senaldi, evidentemente, non legge gli editoriali del fondatore. Oppure se ne frega. In ogni caso, come da etichetta, la sua prima pagina non va per il sottile: “Le miserabili scuse dei papponi di bonus”. Suvvia, parlatevi.

Il premier presti orecchio alla Meloni

A proposito dei “mille euro con un click”, di cui abbiamo scritto ieri, Giorgia Meloni mi fa notare che nella sua proposta era specificato che la richiesta poteva farla soltanto chi non aveva più di 2mila euro sul conto corrente. Mi ricorda inoltre che FdI contestò il fatto che per il bonus autonomi non fosse previsto un tetto di reddito a 600 euro. È vero, e mi scuso dell’involontaria omissione. Nessuna “cantonata” però. Infatti la precisazione non tocca la sostanza del problema. Ovvero, mettersi una buona volta d’accordo su cosa è, e cosa invece non è assistenzialismo in questa fase storica. Un termine “usato normalmente in senso negativo per indicare i fenomeni degenerativi della politica redistributiva e di sostegno ai redditi promossi dallo stato sociale” (Oxford Languages). Ma che ai tempi del Covid poco ha a che vedere con le irrinunciabili politiche a favore di quella vasta parte del Paese messa in ginocchio dal lockdown. Siano i mille euro proposti dalla Meloni, o i seicento del bonus governativo (con profittatori al seguito) si tratta in ogni caso di risorse gigantesche. Il cui esborso limita di fatto le politiche di sostegno alle imprese, indispensabili per la risollevare l’Italia.

È il solito problema della coperta troppo corta su cui, ne siamo convinti, la leader del partito che ha ereditato i principi della destra sociale avrebbe delle cose serie da dire. Giorni fa, intervistata da Sky, la Meloni lamentava le non risposte del governo alle proposte economiche di FdI. Senza contare, ricordiamo, l’appuntamento di palazzo Chigi che Giuseppe Conte aveva promesso al centrodestra e poi rimandato per il protrarsi delle trattative a Bruxelles sul Recovery Fund. Il premier non ha certo bisogno di saperlo da noi che l’opposizione (ancorché maggioritaria nei sondaggi) va ascoltata con attenzione. Non per convenienza formale ma per condividere quante più misure nell’interesse dei cittadini. E dal momento che l’opposizione è divisa in partes tres forse (senza perdere troppo tempo con l’orfano del Papeete o con i funzionari di Berlusconi) un orecchio particolare andrebbe riservato proprio a Giorgia Meloni. Che almeno studia e i problemi li conosce.

Le virali piroette del severo prof. Ricolfi

Negli ultimi mesi a pontificare in tv e sui giornali sull’emergenza Covid non c’erano solo i virologi ma anche sociologi, psicologi, storici e filosofi di chiara fama che si esprimevano sul numero dei tamponi fatti, le chiusure del governo e sulle zone rosse. Spesso, ovviamente, cambiando idea a seconda del momento. Tra questi, c’è sicuramente il sociologo Luca Ricolfi dell’Università di Torino e presidente della Fondazione Hume, che oggi vince la palma d’oro per la (in)coerenza. Sul dilemma aprire-chiudere Ricolfi è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto. Vediamo tutte le sue giravolte.

Chiudere prima. “Errore 3 del governo aver insistito sulla necessità di far ripartire l’economia, come se questo obiettivo non avesse l’effetto di facilitare il contagio (…) Non essere intervenuti drasticamente e subito avrà un costo enorme in termini di vite umane, prima ancora che in termini di ricchezza” (05.03, Il Messaggero )

Bisogna riaprire. “Dopo 2 mesi di confinamento domiciliare esistono in Italia milioni di persone negative a Covid-19 che, adottando adeguati strumenti di protezione, potrebbero vivere nella pienezza dei propri diritti costituzionali invece finora conculcati”. (05.05, appello sul Corsera).

Richiudere subito. “Il turismo ci è costato prima un imperdonabile ritardo nelle chiusure, a partire dalla tragica vicenda di Nembro e Alzano. E rischia di costarci ora una ripartenza dell’epidemia, perché nessuno vuole vedere che il famigerato parametro Rt potrà pure essere ancora sotto 1 a livello nazionale, ma quasi certamente è tornato sopra a 1 in molti territori”. (21.06, Huffington Post)

Altro che Cts. “Se vogliamo salvare il servizio sanitario nazionale dobbiamo avere il coraggio di nominare un commissario per l’emergenza che sia competente, dotato di pieni poteri, di un budget adeguato e completamente immune alle interferenze della magistratura e della politica”. (05.03, Il Mesaggero)

Morti colpa di Conte. (…) “Ora, grazie alla desecretazione dei verbali del Comitato tecnico-scientifico, sappiamo che non solo non venne seguito il consiglio di chiudere Nembro e Alzano, ma che l’intera strategia del governo fu adottata in contrasto con il Comitato tecnico-scientifico. Più che agire “in scienza e coscienza”, il premier pare aver agito di testa propria, contro l’opinione della scienza, non certo guidato da essa”. (08.08 Il Messaggero).

Scusate, mi sono sbagliato: la colpa è solo di Conte. “Ho spesso pensato che meglio avrebbe fatto il governo se si fosse circondato di scienziati indipendenti (…) Devo ammettere che mi sbagliavo. A quanto pare, il Cts aveva scelto di dissentire in silenzio, non so se per senso dello Stato o per timore della Politica. Oggi, riconoscendo che avevo torto, e che gli esperti scelti dal governo erano più indipendenti di quanto paressero a me, non posso non porre la domanda: ma può, un paese democratico, conferire i pieni poteri a un premier che, per avere le mani libere, è costretto a nascondere i dati e secretare le opinioni degli esperti?” (08.08, Il Messaggero).

Test rapidi per chi rientra dai quattro Paesi a rischio

Un test rapido molecolare o antigene, svolto nelle ultime 72 ore, da presentare negativo all’arrivo in Italia. In alternativa, tampone obbligatorio entro 48 ore, con l’eventualità di prevedere test rapidi già in porti e aeroporti. Questa la strategia messa in campo dal ministro Speranza – e condivisa con le Regioni nel vertice di ieri pomeriggio – per arginare i “contagi di rientro” da Spagna, Grecia, Malta e Croazia e uniformare le misure, dall’obbligo di quarantena a quello di sottoporsi a test, prese in ordine sparso da vari governatori a partire da martedì (ultima, ieri, la Sicilia di Nello Musumeci). Soluzione che serve, peraltro, a evitare di dover mettere in isolamento le migliaia di turisti di ritorno nelle prossime settimane. Anche perché i focolai “vacanzieri” si moltiplicano: erano otto, ieri ne sono venuti fuori altri tre. Nell’imperiese sono risultati positivi cinque ragazzi rientrati dalla Croazia tra Bordighera, Vallecrosia e Ventimiglia. Sempre dalla Croazia (dall’isola di Pag) vengono i dieci giovani tra i 18 e i 25 anni contagiati in Lombardia: 3 nel lodigiano, 7 in provincia di Brescia. Altri cinque positivi a Ragusa, di ritorno da una vacanza a Malta: i loro 150 contatti sono in isolamento domiciliare. Nel frattempo, ai Paesi della “black list” da cui il governo ha bloccato i collegamenti aerei si aggiunge anche la Colombia.

I nuovi casi comunicati ieri dalla Protezione civile sono 481. Dal 6 giugno a oggi, un dato più alto si era registrato solo venerdì scorso (7 agosto, 552). Dieci i decessi, 53 i ricoverati nei reparti di terapia intensiva (+4 rispetto a martedì). E sono già 4mila i volontari per la sperimentazione umana del vaccino italiano contro il Sars-Cov-2, che partirà il prossimo 24 agosto all’Istituto Spallanzani di Roma. “Una risposta straordinaria che riempie d’orgoglio”, ha dichiarato l’assessore laziale alla Sanità Antonio D’Amato, che sul piano governativo per i rientri dice: “Passa il modello Lazio, siamo stati i primi a puntare sui test rapidi”.

Il nodo ancora da sciogliere tra il Governo e le Regioni, su cui il meeting di ieri non è servito a trovare un accordo, riguarda invece le discoteche. Se Roma chiede provvedimenti drastici – fino alla chiusura – per quei locali dove non si riescono a mantenere le distanze, almeno una metà dei governatori si è detta contraria a ulteriori restrizioni. Ad esempio il ligure Toti: “Per adesso in Liguria non è stata ancora presa alcuna ordinanza che limita le attività delle discoteche, spero che non ci si debba arrivare”. L’impasse ha costretto ad aggiornare la riunione a domani.

Tra i presidenti di Regione favorevoli alla stretta c’è invece il toscano Enrico Rossi, che ha firmato un’ordinanza per imporre ai locali da ballo un distanziamento di 2 metri sulle piste, il conteggio degli ingressi obbligatorio e un registro delle presenze da mantenere per almeno 14 giorni. A incoraggiare la scelta il caso del Seven Apples, frequentato locale di Marina di Pietrasanta, in Versilia. Nella notte tra sabato e domenica in pista c’è anche una ragazza di Pisa, appena rientrata da una vacanza a Mykonos, in Grecia, e in attesa dell’esito del tampone. Che arriva la mattina dopo: positivo. L’indagine epidemiologica dell’Asl Toscana Nord Ovest punta a tracciare tutti i contatti della giovane: sono già 550 i cittadini che hanno segnalato la propria presenza nel locale. “Per evitare inutili allarmismi”, l’Asl ha comunicato che tutti saranno testati tra il 15 e il 16 agosto, attraverso tamponi drive-through, a Pisa, Massa, Lucca e in Versilia.

Nel resto d’Europa, intanto, i numeri continuano a crescere. Il record negativo di giornata è della Francia, che conta 2.524 nuovi casi. In Spagna sono 1.690 ma mancano tutti quelli di Madrid, non comunicati per problemi tecnici. La Germania registra invece il record negativo dall’inizio di maggio: 1.226 casi (martedì erano 966). Un dato definito “inquietante” dal ministro della Salute Jens Spahn. Ed è ufficialmente fallito il tentativo della Svezia di ottenere l’immunità di gregge senza alcuna misura restrittiva: solo il 15 per cento della popolazione ha sviluppato anticorpi, contro il 40 previsto dal governo di Stoccolma. A dirlo è uno studio dell’University College di Londra, pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine.

“Ancora lezioni in video? Allora devo licenziarmi”

La conclusione è semplice e illumina nel modo giusto quale enorme partita sia in corso sulla riapertura delle aule a settembre: “La didattica a distanza non è scuola”. Semplice, netto, incontrovertibile: è il risultato di una ricerca pubblicata qualche giorno fa dal Dipartimento di Scienze umane per la formazione dell’Università Milano-Bicocca: “Che ne pensi? La DAD dal punto di vista dei genitori”. I risultati sono tanto più sorprendenti perché i 7mila genitori coinvolti, quasi tutte donne (particolare non irrilevante), sono decisamente profilati verso l’alto rispetto alla media nazionale: età media 42 anni, lavoratrici all’80%, con dottorato (14,5%), laurea (38%) o diploma (41%), per il 70% residenti al Nord. Tradotto: non è il digital divide che parla, è proprio che la DAD (didattica a distanza) non è scuola.

Per capirci, il 65% delle mamme ritiene inconciliabile la DAD con il lavoro, neppure nella sua versione mista (metà video, metà in presenza). E ancora: il 30 per cento di loro prenderebbe in considerazione l’idea di lasciare il lavoro se l’uso della didattica a distanza fosse confermato anche a settembre. Non un bel risultato per un Paese che vede nella scarsa occupazione femminile uno dei suoi talloni d’Achille.

Secondo le affermazioni dei genitori, dalla chiusura delle scuole di marzo i bambini della primaria hanno avuto da 1 a 5 ore di didattica a distanza alla settimana (e alcuni riportano zero ore). La situazione è migliore alle medie e alle superiori, ma non certo perfetta: il 27% dei genitori nel primo caso e il 16% nel secondo riportano un impegno inferiore alle 10 ore settimanali. E questo a non dire che le assenze dalle lezioni sono state assai più alte rispetto al normale.

Ovviamente il peso di questa situazione si è scaricato sulle famiglie, le donne in particolare. Secondo le madri intervistate nel report, il tempo impiegato a supportare i figli nell’attività didattica è aumentato esponenzialmente: in media parliamo di 3,2 ore al giorno per le elementari, 2,8 ore al giorno per le medie e 2 ore per le superiori. Un impegno, scrivono i ricercatori, “paragonabile a un lavoro part time, effettivamente difficilmente conciliabili col lavoro”.

Questa fatica si unisce a un’esperienza pedagogica e psicologica che sostanzialmente non è piaciuta a nessuno. Così la riassume il report usando le espressioni degli intervistati: “Spiacevole, demotivante, inutile, inefficace, in ultima analisi brutta”, perché “non è bello parlarsi solo da remoto, la didattica a distanza è monotona, aumentano i compiti e le richieste di studio autonomo rivolte a bambini e ragazzi, e la struttura della giornata si sfalda, rendendo arduo il mantenimento dell’attenzione”. Quanto a come l’hanno presa gli studenti (quasi diecimila interessati dal sondaggio), i genitori raccontano questo: “Scarsa concentrazione, noia, stati di frustrazione, dipendenza e bisogno di aiuto, a cui si somma un aumento di sentimenti malinconici, di solitudine e di rabbia”.

“La ripartenza della scuola, così come di nidi e scuole d’infanzia – dice Giulia Pastori, che è la coordinatrice scientifica della ricerca – è un’emergenza sociale che è stata ed è ancora molto trascurata. Bisogna fare tutto il possibile perché ripartano e bene, ne va del benessere di bambini e ragazzi in primis, ma anche dei loro genitori, in particolare delle donne”.

E alla fine arrivano i banchi: 2,5 milioni (ma entro ottobre)

Tra imprese e associazioni di imprese le offerte erano 14, i contratti siglati alla fine sono invece 11 e – dice il commissario straordinario all’emergenza Covid in una nota – bastano a coprire e anzi “superare complessivamente l’intero fabbisogno richiesto dai dirigenti scolastici italiani, che era di 2.013.656 banchi tradizionali e di 435.118 sedute innovative”. Parliamo del bando che doveva andare deserto: quello per i banchi monoposto (le “sedute innovative” sono quelli, famigerati, con le rotelle) necessari per riaprire le scuole rispettando le regole attualmente in vigore, a partire dal distanziamento fisico di un metro anche all’interno dell’aula.

L’assegnazione, come previsto, è arrivata ieri dopo settimane di polemiche – fatto salva la legittima contrarietà all’acquisto – sull’impossibilità di produrre e consegnare tutti quei banchi in tempo utile. È impossibile, si diceva, e lo dicevano a voce altissima soprattutto i pochi produttori italiani del settore, spaventati dalla dimensione minima dei lotti: in Italia si producono 200mila banchi l’anno, non si può chiederne 200mila in un mese, non parteciperemo. Alla fine ci hanno ripensato e venderanno all’odiato commissario.

Tutto è bene quel che finisce bene e ora le colonne d’Ercole dei 200mila banchi l’anno ne misurano due milioni e mezzo: 12 volte di più e in soli due mesi. Questo perché – nonostante il dibattito pubblico sia egemonizzato da ingenui e non ingenui cantori delle cosiddette politiche supply-side – anche stavolta è bastata una forte domanda pubblica perché l’offerta si strutturasse: chi sta pensando alle mascherine a 50 centesimi non sta sbagliando. D’altronde, tornando ai banchi, non è proprio la stessa cosa se a chiederli al mercato è lo Stato o, come d’abitudine, i Comuni e le ex Province.

È sui tempi che il commissario Domenico Arcuri è dovuto scendere a patti con la realtà: il bando indicava l’inizio di settembre per la consegna, in modo da averli alla riapertura delle aule, oggi si dice che gli arredi “saranno consegnati a partire dai primi giorni di settembre e fino al mese di ottobre la distribuzione dei banchi nei diversi istituti avverrà secondo una programmazione nazionale e una tempistica che terrà conto delle effettive priorità scolastiche e sanitarie dei vari territori”. Questo significa che, oltre a monitorare che le imprese rispettino gli impegni, bisognerà studiare un piano per la distribuzione di milioni di pezzi in decine di migliaia di edifici: non una cosa semplicissima, ma neanche impossibile com’è stata raccontata in queste settimane.

Ma chi sono queste 11 aziende o raggruppamenti di aziende che forniranno i materiali alle scuole? I nomi non sono ancora pubblici, ma a quanto risulta al Fatto sette sono italiane e quattro europee: niente cinesi, insomma, spauracchio girato per settimane e ingrassato dalla sinofobia galoppante. Nella lista non c’è però neanche l’Ikea, pure invitata a partecipare: l’azienda svedese era interessata, ma non ha presentato offerte perché non aveva la certificazione di sicurezza per la produzione di arredi scolastici e non avrebbe fatto in tempo a richiederla.

E qui veniamo a un’altra delle sempre certe catastrofi che ha tenuto banco in queste settimane: i presidi terrorizzati dal dover certificare loro stessi la sicurezza degli arredi, lanciavano alti la sui loro rischi penali e invitavano alla vigilanza democratica (sì, anche qui c’entrano gli eventuali cinesi). Ovviamente, come dovrebbe essere evidente dalla scelta di Ikea, per partecipare era necessario possedere la certificazione necessaria.

Quanto al costo, anche quello è ancora sconosciuto: ovviamente si parla di centinaia di milioni di euro. Per capirci sugli ordini di grandezza, se il costo unitario medio per banco fosse 100 euro il conto sarebbe di 250 milioni.

Sforzo necessario a legislazione vigente, che si unisce al resto delle attività programmate dalla struttura commissariale per la riapertura delle scuole: i due milioni di test sierologici (volontari e gratuiti) per insegnanti e personale non docente di tutte le scuole e la distribuzione (sempre gratuita) di 11 milioni di mascherine e di 50.000 litri di gel igienizzante al giorno. Non che questo risolva tutti i problemi. Ne segnaliamo due: non si sa ancora qual è il piano per i trasporti, visto che riaprire le scuole significa far spostare circa 11 milioni di persone ogni giorno; né è chiaro cosa succede – visto questo popò di sforzi – se un bambino (o peggio tre) risultano positivi.